Limpidamente bocciata nell’aula del Senato la sfiducia delle destre e della radicale Bonino contro il Ministro della Giustizia Bonafede, è venuto il tempo di fare chiarezza sullo stato di salute del governo, del Parlamento, della democrazia italiana. Forse, solo momentaneamente zittiti, i retroscenisti ricominceranno fra qualche tempo a dire che sentono spifferi e scricchioli, tensioni e conflitti, che si moltiplicano le voci di crisi del governo Conte e di sostituzione del presidente del Consiglio (ad opera del solito noto che immagino, conoscendolo, sorridente e preoccupato). Sono tutte fake news e gossip sostanzialmente irrilevanti. Quand’anche Renzi ottenesse qualche Presidenza di Commissione chi conosce i governi di coalizione sa che sono richieste fisiologiche e non scandalose che potrebbero persino rafforzare il governo. Lascerei alle sedicenti anime belle, ma certo non brave dal punto di visto delle conoscenze del funzionamento delle democrazie parlamentari, di stracciarsi le vesti. Poi, magari, potrebbero gettare uno sguardo oltre le Alpi e, non dico che apprenderebbero, ma almeno vedrebbero la normalità di pratiche nient’affatto eversive. Conte ne esce effettivamente rafforzato anche perché, come nei Decreti del presidente del Consiglio dei ministri, ci ha messo la faccia. Si è assunto responsabilità politiche e personali. Talvolta commette errori, ma ha dimostrato di sapersi correggere e di non attribuirli ad altri. Appena smetto di ridere vorrei anche aggiungere che non ho mai letto di derive autoritarie effettuate attraverso la decretazione urgenza. Né mi pare che il presidente del Consiglio abbia chiesto “pieni poteri”. Assolutamente fuori luogo proporre un paragone fra Conte e Orbán che s’era già deliberatamente incamminato su un percorso poco democratico. Avendo, sicuramente, più a cuore di molti di noi la democrazia, le anime belle si sono ripetutamente lamentate poiché il Parlamento italiano era chiuso non per ragioni legate al contagio, ma perché “qualcuno” voleva evitare che controllasse le pericolosissime attività sovversive del governo Conte. Con la riunione d’aula di mercoledì 20 maggio, il Senato ha già tenuto sei sessioni in maggio. Furono sei in marzo e nove in aprile. Per la Camera i dati sono otto in marzo, dodici in aprile, sei, finora, in maggio. Negli stessi mesi, la Camera dei Comuni inglese, la madre di tutte le Camere basse, si è riunita dieci volte in marzo, quattro in aprile, cinque in maggio; il Bundestag tre volte in marzo, due in aprile, cinque in maggio; il Congreso de los diputados spagnolo nove volte in marzo, sette in aprile, due in maggio; la Camera bassa austriaca (Nationalrat) quattro volte in marzo, quattro in aprile, due in maggio. Sono ancora esterrefatto che, a suo tempo, nessuno abbia replicato a Salvini, giunto fino all’occupazione per poche ore del Senato, a Meloni e ai commentatori piangenti che: “Ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti” (art. 62 della Costituzione). Al Senato il centro-destra ha 142 seggi su 320, alla Camera 265 su 630, quindi, in entrambi i casi ben più di un terzo (Senato 107; Camera 210). Una semplice e veloce raccolta di firme telematiche, smart collection, e le Camere si sarebbero dovute riunire. No, non è stato il governo a tenere chiuso il Parlamento, ma l’ignoranza e il disinteresse di chi strepitava e non agiva. Infine, la democrazia italiana, appena scossa delle differenze d’opinione e politiche fra le regioni e il governo, non esce in nessun modo indebolita da questa difficile, non finita, prova. Ha inevitabilmente manifestato inadeguatezze che sono strutturali (quelle della burocrazia), ma nessun cedimento nelle strutture portanti: Parlamento, governo, presidente della Repubblica. In attesa del prossimo voto in aula e del prossimo dottissimo retroscena.
Falcone sapeva cosa gli sarebbe successo
L’intera esperienza professionale di Giovanni Falcone è cementata da spirito di servizio e senso del dovere fino al sacrificio. Semplicemente vero, niente retorica. Lo dimostra anche l’ultimissimo tratto della sua vita, poco noto ma significativo, che rivela un Falcone capace di fare la cosa giusta sebbene fosse consapevole di innescare un meccanismo che l’avrebbe consegnato alla mannaia di Cosa Nostra.
Cosa Nostra, attenta a ogni angolazione delle sue attività, aveva anche una “strategia giudiziaria” finalizzata a condizionare l’esito dei processi a proprio favore. In Cassazione, praticamente tutti i processi di mafia finivano alla prima sezione penale, presieduta da Corrado Carnevale. Con esiti che all’organizzazione criminale di solito non dispiacevano affatto, al punto che una certa pubblicistica usava definire Carnevale “ammazzasentenze”.
Ovviamente la massima intensità di tale strategia era destinata al “maxiprocesso”: il capolavoro investigativo-giudiziario del pool antimafia di Palermo di cui Falcone era stato componente di primo piano.
Costretto ad abbandonare Palermo (diventata per lui ostile e inospitale fino all’umiliazione, a partire da quando il pool cominciò a occuparsi anche di imputati eccellenti come Ciancimino padre, i cugini Salvo e i Cavalieri del lavoro di Catania, oltre che del golpe Borghese), Falcone riparò nel 1991 a Roma, presso il ministero di Grazia e Giustizia.
Qui, tra le altre cose, avviò un approfondito e articolato monitoraggio sulle pronunzie della prima sezione della Cassazione penale, preoccupato per quella nomea di “ammazzasentenze” associata a Carnevale. I risultati del monitoraggio (che rientrava nelle funzioni del suo ufficio) evidenziarono singolari concrete anomalie e una serie di decisioni – talora motivate con minuscoli vizi di forma – che potevano corrispondere a tale nomea. Così, quando il “maxi” approdò in Cassazione, il primo presidente Antonio Brancaccio decise di introdurre la novità di un sistema di rotazione, assegnando il “maxi” non a Carnevale ma ad Arnaldo Valente. Nomen omen? Coincidenza? Felice congiunzione astrale? Sta di fatto che alla rotazione fece seguito una sentenza della suprema Corte, emessa il 30 gennaio 1992, che portò alla conferma della quasi totalità dell’impianto accusatorio e quindi delle pesanti condanne comminate nel “maxi”.
Per la prima volta nella storia italiana mafiosi di ogni ordine e grado venivano condannati a pene severe irrevocabili. Fine del mito dell’impunità di Cosa Nostra. Una vera disfatta per il vertice dell’organizzazione, che si era speso nel garantire ai quadri intermedi e alla base l’annullamento delle condanne. Un traumatico “passaggio di fase” rispetto all’ormai consolidato rapporto di scambio tra Cosa Nostra ed esponenti del mondo politico. Una grave perdita di “faccia” e di credibilità, con la prospettiva che la stagione dei “processi aggiustati” e dell’impunità fosse finita.
Cosa Nostra reagì con bestiale rabbia con la strage di Capaci del 23 maggio 1992, puntando dritto al cuore dello Stato e massacrando Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai ragazzi della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. E Falcone di certo non ignorava che operare per una conclusione del “maxi” sgradita a Riina e soci era appunto come autocondannarsi alla loro feroce rappresaglia.
(Parentesi finale: va segnalato che a carico di Carnevale sarà celebrato a Palermo un processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’accusa, numerosi esponenti dell’organizzazione mafiosa lo consideravano come loro principale “punto di riferimento”. A mediare le relazioni tra Carnevale e Cosa Nostra – a partire dal 1987 e fino al 1992 – erano uomini del mondo forense e del mondo politico. Nel giugno 2001 Carnevale fu condannato in appello a sei anni di reclusione, in ragione tra l’altro delle testimonianze giurate di tre giudici della sua sezione, definite “formidabili elementi di riscontro individualizzante a carico dell’imputato”. Nell’ottobre 2002 la Cassazione – Sezioni unite – annullò la condanna con un’acrobazia giuridica: la non utilizzabilità di tali testimonianze in quanto riguardanti il segreto della camera di consiglio; mentre è principio consolidato che il pubblico ufficiale a conoscenza di un reato ha sempre l’obbligo di denunziarlo, anche se componente di un collegio giudicante).
Renzi reinventa l’arte circense: ora è il Re del Live
Quando si alza in piedi per il suo intervento dopo la replica di Bonafede, Renzi sa che deve fare i salti mortali per motivare i suoi no. “L’intervento tra i più difficili della mia esperienza”, l’aveva definito su Facebook di prima mattina. Look “giovane” e tono dei meno veementi, è tutto un equilibrismo (L. De Carolis e W. Marra, FQ, 21 mag 2020).
Creato da due artisti di strada nel 1975, il senatore Matteo Renzi ha reinventato completamente l’arte circense, divenendo leader mondiale nel campo dell’intrattenimento live. Da quando è entrato in politica, Renzi ha manifestato una creatività portentosa: sempre capace di sprigionare nuovi universi di struggente stupore, ha divertito oltre 180 milioni di spettatori in tutto il mondo con migliaia di discorsi in 450 città e in oltre 60 Paesi, dimostrandosi in grado di meravigliare, con disinvoltura, quattro continenti. E senza effetti speciali: a differenza di certi guitti minori, infatti, non ha bisogno di esibire Miss Strega, l’arcidiacona, il Ken umano, le sex dolls, il gigolò, il personal trainer, Malgioglio e Signorini, per sbalordire. Gli basta la favella. Lo prova il suo ultimo discorso al Senato, dove la Meloni e Salvini hanno sperato, fino all’ultima piroetta, che Renzi facesse fuori Bonafede con uno dei suoi agghiaccianti “stai sereno”. Lo show, un’inconfondibile alchimia di virtuosismi sofistici, occhietti scintillanti, gestualità sfarzosa e sicumeratravolgente, ha unito la paraculaggine del politico consumato alla grazia e alla forza del trapezista, facendo immergere il pubblico stordito in uno spazio misterioso situato tra l’inferno e il paradiso (un limbo?) un limbo!, ecco la parola, dove il divertimento, la commedia e il disinteresse personale regnavano sovrane. Lo sforzo immaginifico del discorso di Renzi (“Non ci interessa un sottosegretario, ma sbloccare i cantieri. Quando portiamo delle idee, non stiamo cercando visibilità.”) è stato un tutt’uno con le capacità acrobatiche dell’interprete, che, senza il vantaggio del buio, ha trascinato il ministro della Giustizia di fronte al suo plotone di esecuzione, per sottolineare sì la forza e la fragilità del Guardasigilli, ma soprattutto la propria clemenza, il suo corpo reso ancora più espressivo nei movimenti da improvvise slow motion. Animali, nel numero, non ce ne sono: è lui a interpretarli. E forse uno dei momenti più suggestivi è quello in cui ha rappresentato il fondo del mare, gremito di alghe, polpi, meduse e calamari. Molto applaudita la sua citazione dal marchese De Sade: Renzi non ha solo una dimensione politica, ma anche una sua reputazione pop. Insomma, un numero straordinario, al cui finale, gioioso e assolutorio, in cui l’illusione sfidava la realtà, tutti i politici della maggioranza sono scattati in piedi ad applaudire, come se fosse finita la pandemia, finché lui non li ha coinvolti in un trenino celebrativo, direzione buvette, dove si è trascorso il resto del pomeriggio a tracannare sambuca davanti all’arazzo mediceo del secolo XVI, con grande stemma e larghe bordure, proveniente dagli Uffizi di Firenze.
Fase 2. Riaperto il tunnel del Brennero di Toninelli.
Il Covid-19 è un killer “opportunista”. Difficilmente si muore solo a causa sua
Dopo la fase della “bontà collettiva”, arriva quella della “resa dei conti”. Aperta la porta di casa, siamo tornati alla normalità: cioè denunce, cattiverie, dimenticanze di quelli che abbiamo chiamato “i nostri eroi”. Guido Bertolaso, il super consulente, diffida Attilio Fontana. Le Rsa cui abbiamo affidato i nostri nonni sono nell’occhio del ciclone. Clinici e virologi consegnano le proprie dichiarazioni agli avvocati.
Credo che sia il tempo della chiarezza, dei numeri, dei dati. Poi ciascuno può commentare come crede. Oggi vorrei puntare l’attenzione sui decessi Covid-19, riferendomi a un sito web istituzionale: quello dell’Istituto Superiore della Sanità. Innanzitutto dobbiamo tener presente che si tratta di elaborazioni effettuate su cartelle cliniche e non su autopsie. Ciò, per i non addetti ai lavori, vuol dire che alcune cause di morte attribuite a Covid per la positività dei test potrebbero, pur trattandosi di pazienti positivi, non essere attribuibili a tale infezione.
I dati si riferiscono a 29.692 decessi. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, il 51,1 % si sono registrati in Lombardia. L’età media è 80 anni (per le donne 85, per gli uomini 79). Dalle cartelle cliniche osservate, il 3,9 % dei deceduti non avevano altre patologie, tutti gli altri da 2 a 3 patologie croniche.
Questi dati, scientificamente parlando, confermano quanto ipotizzato da Ilaria Capua e da me condiviso: e cioè che SarsCoV2 è da considerarsi un patogeno opportunista, poiché nella più alta percentuale dei casi ha provocato la morte di pazienti già defedati da altre patologie. Questa definizione non sminuisce la gravità della pandemia, ma ci offre elementi di riflessione sulle eventuali misure da adottare, qualora dovesse verificarsi una nuova ondata pandemica.
Dopo il divo tocca allo sceriffo
L’indiscrezione è finita in un piccolo box nelle pagine della cronaca di Napoli di Repubblica. Potrebbe essere un’esagerazione, forse persino una fake news, ma in fondo cosa costa sognare? Pare che Paolo Sorrentino stia considerando l’idea di realizzare un film sul governatore campano Vincenzo De Luca. Magari non è vero (l’articolo è stato rimosso nel pomeriggio dal sito del giornale) ma è senz’altro verosimile. Intanto perché Sorrentino ha già esercitato la sua predilezione per personalità politiche dall’ego piuttosto pronunciato (Il Divo Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi). Poi perché De Luca è già a tutti gli effetti un personaggio dello spettacolo, che può interpretare molteplici maschere e registri: dal teatro della commedia dell’arte alla comicità meno elegante e più affine a palati stile Bagaglino. E poi diciamolo: De Luca è il Jep Gambardella della politica italiana. Un uomo dalla retorica elegante, ironica e annoiata, che carica ogni frase come fosse quella definitiva. Parla proprio come se recitasse una sceneggiatura pretenziosa e affettata, sopra le righe, ogni tanto anche surreale. Insomma, una sceneggiatura di Sorrentino.
“Dopo l’Addaura, Falcone mi fece il nome di Contrada”
Andrea Purgatori lo definisce un “macigno” dentro questa ricostruzione, una rivelazione che apre per la prima volta uno squarcio sulle “menti raffinatissime’’ del fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, tra Palermo e Mondello, il 21 giugno 1989. Chi erano? Il giornalista Saverio Lodato rivela in diretta ad Atlantide, su La7: “Falcone mi fece un nome, Bruno Contrada”, lo 007 del Sisde condannato per mafia con una sentenza mai revocata che un verdetto della Corte europea per i Diritti dell’uomo ha ritenuto improduttiva di effetti penali aprendo la strada a un risarcimento di quasi 700 mila euro per ingiusta detenzione.
La rivelazione arriva dopo oltre 30 anni, e Lodato, a cui il conduttore chiede perché ha aspettato tanto, risponde: “Il processo Contrada si è concluso con una condanna definitiva in Cassazione, obbiettivamente non avrei avuto granché da dire andando a raccontare un sospetto che amichevolmente Falcone mi aveva trasmesso. Ma, oggi 28 anni dopo, nel momento in cui sollecito l’apertura degli archivi di Stato italiano e statunitensi su quella strage, gli archivi del presidente Giorgio Napolitano relativi a quelle telefonate che riguardano la Trattativa Stato-mafia, mi sembra che è il minimo che possa fare per onorare la memoria di Falcone. Non toglie e non aggiunge nulla alla colpevolezza sancita dalla Cassazione per il dottor Contrada’’.
Dall’Addaura, l’ombra controversa dei “servizi” e di Contrada, più volte indagato (e archiviato) per le stragi del ’92 e finora oggetto (e non soggetto) di un depistaggio sancito da una sentenza della Cassazione, si allunga fino alle stragi: è il procuratore di Caltanissetta Tinebra ad affidargli le indagini su via D’Amelio in un modo “irrituale”, è scritto nella sentenza del Borsellino quater, “ma in realtà da qualificarsi più correttamente in lingua italiana, come illecita in quanto contraria a norme di legge”, precisa l’ordinanza del gip di Catania Stefano Montoneri che ha archiviato la querela avanzata dal procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (e dal figlio Vittorio) nei confronti dell’avvocato Fabio Repici. Per legge i servizi, infatti, non possono svolgere funzioni di polizia giudiziaria. E il vicequestore Gioacchino Genchi in aula ha raccontato il paradosso di indagini sulle stragi condotte alla Squadra mobile controllandosi a vicenda: “Ci relegano alla Criminalpol, dove eravamo perfettamente controllati dagli amici di Contrada. Lavoravamo in due stanzette, e nelle stanze accanto avevamo piazzato le microspie che intercettavano gli uomini di Contrada”. Ed era stato il procuratore Sergio Lari, nel 2010, davanti al Copasir presieduto da Massimo D’Alema, a parlare a lungo del ruolo dei servizi nel fallito attentato dell’Addaura, individuando un filo conduttore con le stragi del 1992.
“Si può ragionevolmente concludere che la regia del depistaggio comincia ben prima che l’autobomba esploda in via D’Amelio – conclude la commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava – questo induce a pensare che ‘menti raffinatissime’, volendo mutuare un’espressione di Giovanni Falcone, si affiancarono a Cosa Nostra sia nell’organizzazione della strage, sia contribuendo al successivo depistaggio. È certo il ruolo che il Sisde ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata’’.
Csm post Palamara: Sirignano via dalla Dna
Primo provvedimento del Csm legato al cosiddetto caso Palamara, lo scandalo nomine che un anno fa ha portato sull’orlo dello scioglimento l’organo di autogoverno della magistratura, con 5 togati e il Pg della Cassazione Riccardo Fuzio costretti alle dimissioni. Ieri, a larghissima maggioranza, è stato trasferito per incompatibilità ambientale Cesare Sirignano, pm della Direzione nazionale antimafia. Con Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione e intercettato, provava a pianificare chi doveva arrivare in Dna: solo magistrati di Unicost come loro e di Magistratura Indipendente, come Cosimo Ferri, toga in aspettativa, deputato renziano, tra i protagonisti, insieme al collega parlamentare Luca Lotti, pure imputato a Roma, della riunione notturna per provare a pilotare la nomina del procuratore di Roma. Sirignano e Palamara parlano anche dei pm della Dna da emarginare: Nino Di Matteo, Maria Vittoria De Simone e Barbara Sargenti.
Il trasferimento di Sirignano, anche sotto procedimento disciplinare, è stato votato da tutti a eccezione dei tre di Unicost: Marco Mancinetti, Michele Ciambellini e Concetta Grillo, la relatrice di minoranza che aveva chiesto l’archiviazione, pure lei intercettata con Palamara. Ci sono stati due giorni di tentativi per far tornare la pratica in Prima commissione con la conseguenza di rallentare, se non bloccare l’attività della Prima, che ha acquisito il materiale di Perugia, per cui diversi magistrati, come Sirignano, rischiano un procedimento. A chiedere un rinnovo dell’istruttoria i consiglieri di Unicost, in particolare Michele Ciambellini, ma anche Marco Mancinetti, giudice disciplinare intercettato con Palamara per una vicenda legata al test di ingresso a medicina del figlio.
Al fianco di Unicost, per il rinvio, MI e i laici Fulvio Gigliotti, M5S e Michele Cerabona, FI. Ma poi, abbandonano a se stessa Unicost e dicono sì al trasferimento. “Con tormento interiore”, dichiara Gigliotti. A far capire che il ritorno in Commissione era una richiesta di lana caprina, ci ha pensato il presidente della Prima Sebastiano Ardita, AeI: “L’istruttoria è stata condotta con profondità, ci sono montagne di documenti, Sirignano è stato sentito tre volte…” e avverte: “Noi lavoreremo anche sul blocco Perugia, se il Consiglio ritiene che non basti uno standard di istruttoria di questo livello, vuol dire che copre di sabbia tutto il resto perché di più non si può fare”. Questione superata a maggioranza. Sul merito, è Di Matteo a mettere il dito nella piaga di quanto si sono detti Sirignano e Palamara sulla Dna. Legge dalla relazione per il trasferimento, di Ciccio Zaccaro, Area. S.: “Stanno troppi di Area, ci vuole gente che va per rafforzare Federico (Cafiero, Unicost, ndr)”. Ancora S. Devono essere di “Unicost o Mi. Quindi tu devi lavorare su questo”. E Di Matteo commenta: “Non è soltanto una frase incredibilmente confermata dall’audizione di Sirignano, che ha rivendicato ‘Noi tutti avevamo come dominus il dott. Palamara e la trama delle correnti’. Stiamo parlando dell’assunzione di questo criterio a criterio condiviso per cercare di regolare il funzionamento del contrasto alle mafie”. Stefano Cavanna, laico della Lega è sconcertato da Sirignano: “Confessa il sistema correntizio, gestione personalistica della cosa pubblica. Un magistrato che si occupa di mafia e ragiona così non potrei mai pensare che non debba essere trasferito”.
Piercamillo Davigo ribatte a Sirignano, parafrasando Hannah Arendt: “Il problema non è se potevi o non potevi fare diversamente, ma la domanda è perché hai collaborato. Stiamo parlando di atti illegali!”. Interviene anche Giuseppe Cascini, Area, tra gli intercettati con Palamara. E infatti dice: “Dobbiamo fare una profonda e radicale autocritica. Questa vicenda è lo specchio di un sistema che coinvolge la magistratura nel suo complesso”. Poiché è un caso “solare” di incompatibilità, si è detto stupito che ci siano voluti “due giorni” per votare il trasferimento.
Lotti: “Ermini dice bugie”. Ma fu lui ad “ammonirlo”
Un’accusa infamante. Non solo per me, ma per lo stesso vicepresidente del Csm, David Ermini”. Il deputato del Pd Luca Lotti, commentando il colloquio con il vicepresidente del Csm, David Ermini, pubblicato dal Fatto, ieri ha dichiarato: “Leggo un titolo su una presunta frase che avrebbe pronunciato il vicepresidente del Csm, nella quale si dice che io avrei voluto ‘comandare il Csm’. Si tratta di una gravissima accusa nei miei confronti, una falsità inaudita, totalmente infondata, che lede in modo inaccettabile la mia persona, il mio ruolo e la mia onorabilità. Qualora, come credo, quella frase non sia stata pronunciata” da Ermini “si tratta di un titolo infamante anche nei suoi confronti”. Mentre scriviamo, da Ermini, non è invece giunta alcuna richiesta di rettifica. Ma forse è il caso di ripartire dall’inizio.
Due giorni fa Ermini, in un’intervista al Corriere della Sera, facendo riferimento allo scandalo emerso con l’inchiesta su Luca Palamara, dichiara di “essersi sottratto alle richieste e ai desideri di chi voleva eterodirigere il Consiglio”. Nel corpo dell’intervista, però, non si spiega “chi” e “come” abbia tentato di eterodirigere il Csm. Essendo un’affermazione grave, ci ha pensato il Fatto a rivolgere queste domande a Ermini. Il Fatto ha riportato la sintesi di una lunga conversazione, durante la quale Ermini ha ricordato: “Lotti, in un incontro alla Camera, mi fece presente: ‘Guarda che quelli non son contenti di te. Criticano perché (Ermini, ndr) non è più alleato, perché segue Cascini e Davigo…”.
Obiettiamo che Lotti non rappresenta i magistrati. Ermini commenta: “Io immagino che Cosimo Ferri gli abbia detto: vedi che ci sono i miei colleghi che sono incazzati”. Quindi Lotti, esterno al Csm, sarebbe latore di un messaggio di Ferri, anch’egli esterno al Csm. Ermini, come abbiamo già scritto ieri, precisa che Lotti non gli ha fatto il nome di Ferri e Palamara. È il frutto di una sua personale ricostruzione. Ma che vuol dire “eterodirigere”.
Ermini la spiega così: “Eterodirigere, perché Ferri e Palamara non facevano parte del Consiglio”. Si riferisce quindi a loro? “Certo”, risponde, “a chi mi devo riferire?” E in cosa sarebbe consistito questo tentativo di eterodirezione, per quanto soltanto percepito? Ermini avrebbe dovuto votare per le nomine, invece di astenersi. “La percezione – spiega Ermini – è che ci dovesse essere una maggioranza bloccata”. “Ho sempre avuto rispetto per il ruolo del vicepresidente del Csm – commenta Ferri – e non mi sarei mai permesso. Ermini, correttamente, non ha saputo indicare circostanze precise riferite alla mia persona, ma non può permettersi di attribuire sensazioni o pensieri ad altri soggetti. Se ha qualcosa di cui lamentarsi, lo dica chiaramente, per consentire a ciascuno il diritto di smentirlo.” Per quanto riguarda Lotti, infine, gli rammentiamo che il 9 maggio 2019, quando si fanno i conti per nominare Marcello Viola alla procura di Roma, è proprio lui a dire che Ermini “deve vota’ eh”. E, di fronte allo scetticismo di Palamara, sostiene che a Ermini va dato un “messaggio forte”. E ancora, sentito a Milano come persona informata su fatti, Lotti dice: “Mi ero fatto portavoce delle richieste fatte da Palamara, Ferri (…) i quali, in qualità di rappresentanti della correnti MI e Unicost, si lamentavano che Ermini non li seguiva sufficientemente. Ermini prese atto di questa richiesta e mi disse che ci avrebbe pensato lui, parlando con i capigruppo delle singole correnti”.
Alto Adige, l’affare delle mascherine senza la “idoneità”
Dopo gli scaldacollo, il caso delle mascherine cinesi. L’Alto Adige si è infilato in un altro pasticciaccio legato all’emergenza coronavirus, con l’importazione dalla Cina di milioni di mascherine e tute protettive risultate non idonee e bocciate dai tecnici dell’Inail. Gli importi dei contratti sfiorano i 35 milioni di euro. E così la presidente dell’ordine dei medici Monica Oberrauch lo scorso 10 aprile ha scritto al ministro della Salute per chiedere un’ispezione urgente, segnalando “il fatto sconcertante che ha lasciato i medici della Provincia autonoma di Bolzano in condizioni precarie in tema di dispositivi di protezione individuale”.
A marzo l’azienda sanitaria di Bolzano, con un affidamento diretto per via dell’emergenza, incarica la ditta altoatesina Oberalp (che commercia il noto marchio di attrezzatura sportiva Salewa) di importare un milione di mascherine chirurgiche, 500mila Ffp2 e Ffp3 e 430mila tute protettive per i medici e gli infermieri in prima linea contro il Covid-19, un ordine da 9,3 milioni di euro. Per sbloccare il trasporto, il presidente Arno Kompatscher dichiara al quotidiano Alto Adige di aver istituito un canale diretto con il presidente austriaco Kurz per attivare un ponte aereo con l’Austria Airlines. I dispositivi arrivano, ma il 16 aprile l’Inail verifica il materiale ed esprime un parere negativo: “La documentazione fornita per tutti i dispositivi non risulta sufficiente per condurre una valutazione di conformità”, ci sono dubbi sull’efficacia filtrante delle mascherine e in alcuni casi “i rapporti appaiono alterati in varie parti con scritte sovrapposte e cancellature”.
Sui camici destinati ai medici compare persino la dicitura “Not for hospital use”. La bocciatura diventa ufficiale il successivo 23 aprile, con una delibera Inail che dichiara mascherine e tute cinesi non idonei ad essere usati come dispositivi di protezione individuali e vieta all’importatore “l’immissione in commercio dei prodotti come dpi”.
Il 28 marzo, prima del parere dell’istituto italiano, anche un ente certificatore austriaco aveva valutato negativamente l’efficacia delle mascherine, precisando che aderivano male al viso. Ma la frittata ormai è fatta. Dopo il primo ordine, il 23 marzo alla Oberalp era stata richiesta informalmente dall’azienda sanitaria di Bolzano una nuova fornitura ancora più imponente: 6 milioni di mascherine e 1,1 milioni di tute e camici protettivi, importo 25 milioni di euro. Soldi che la Oberalp avrebbe anticipato ai fornitori cinesi per non rischiare di perdere la merce, sicura che sarebbe seguita la delibera dell’azienda sanitaria. Ma il parere negativo dell’Inail cambia tutto. E l’imprenditore ora si trova scoperto per una cifra milionaria.
Sulla vicenda indaga la procura di Bolzano, che ha iscritto nel registro degli indagati il direttore generale dell’azienda sanitaria di Bolzano, Florian Zerzer, e il dirigente d’azienda altoatesino Christoph Engl, amministratore delegato di Oberalp.
Nella legge dell’8 maggio scorso sulle riaperture, la provincia autonoma di Bolzano ha previsto la possibilità di acquistare tramite la protezione civile “protezioni delle vie respiratorie” da fornire ai lavoratori a contatto con il pubblico, e ha messo a bilancio per questa spesa 71 milioni di euro per il 2020.
Il 13 maggio scorso, secondo quanto può ricostruire Il Fatto, l’azienda sanitaria di Bolzano ha inoltrato alla protezione civile locale la richiesta di un ordine in tutto e per tutto uguale a quello rimasto sulle spalle di Oberalp: 4,5 milioni di mascherine chirurgiche, 1,5 milioni di Ffp2, 1,1 milioni di camici protettivi.
In Alto Adige era già finita sulle cronache la vicenda degli scaldacollo, sciarpette sportive distribuite alla popolazione al posto delle mascherine chirurgiche e comprate per 500 mila euro alla ditta dei cugini dell’assessore alla Sanità, Thomas Widmann. Ieri i Nas di Bolzano hanno perquisito gli uffici dell’assessorato e i pm hanno iscritto nel registro degli indagati Widmann con l’accusa di turbativa d’asta.
Umbria, indagine sull’ospedale già inutile
Nessuna vittima e sempre meno ricoveri in Umbria (a oggi se ne contano 19). E le terapie intensive che si svuotano: solo due i posti letto occupati. Ma la Regione governata dalla leghista Donatella Tesei intende andare avanti lo stesso sul progetto del nuovo ospedale da campo nel tendone di Umbriafiere, a Bastia Umbra (Perugia).
Una struttura, già esistente dal 2009, che adesso rischia di diventare il nuovo “Ospedale in Fiera” di Milano. Il 30 giugno, data in cui dovrebbero concludersi i lavori, infatti potrebbe non servire più. E ad ammetterlo è stata lo scorso 12 maggio la stessa Tesei rispondendo ad un’interrogazione del consigliere regionale Andrea Fora: “Quando abbiamo presentato il progetto, a inizio aprile, eravamo nel picco dei contagi – ha detto la governatrice –. Adesso si rischia una seconda ondata pandemica e il consiglio dei ministri del 31 gennaio ha imposto l’assunzione immediata di iniziative straordinarie per la prevenzione e previsione”. Non è detto che serva, insomma. Però a quel punto i 3 milioni di euro donati dalla Banca d’Italia per allestire le 30 terapie intensive saranno già stati spesi. Per capire se ci sia stato uno spreco di soldi pubblici, l’operazione è finita nel mirino della Corte dei Conti dell’Umbria che ha aperto un fascicolo e inviato una lettera alla Regione perché faccia chiarezza entro fine mese sul progetto approvato con la delibera regionale 282 del 22 aprile scorso anche se “in modalità riservata, in quanto la sua divulgazione potrebbe essere lesiva del principio di segretezza e della par condicio”.
Nella lettera inviata alla Regione dalla Procuratrice della Corte dei Conti umbra Rosa Francaviglia si chiedono chiarimenti sulle fonti di finanziamento “con annessa documentazione amministrativo-contabile”, sui costi da sostenere “con specifica sulle relative voci”, sui nominativi dei soggetti affidatari della realizzazione e dei fornitori e sulle modalità di gestione della struttura: “Se demandata al Sistema sanitario regionale in via diretta o affidata a terzi anche mediante convenzione” si legge nella missiva.
Tesei in consiglio regionale ha spiegato che il 23 marzo era stata la neo direttrice della Banca d’Italia di Perugia Miriam Sartini a proporle l’iniziativa: il 30 marzo la Regione lo aveva presentato e una settimana dopo, il 7 aprile, era arrivata la risposta positiva del direttorio di Via Nazionale con lettera firmata dal governatore Ignazio Visco. “Ci fecero i complimenti per la compiutezza e per la velocità con cui il progetto era stato redatto” ha detto Tesei.
Non tutti però sono d’accordo: “Perché sprecare 3 milioni di euro di fondi pubblici? – dice il consigliere Pd, Tommaso Bori –. Il finanziamento della Banca d’Italia può essere investito in maniera più utile riqualificando una struttura sanitaria permanente”. La vicenda è arrivata anche in Parlamento con un’interrogazione della senatrice umbra del M5S, Emma Pavanelli, al premier Conte e al ministro della Salute Speranza perché “sia garantita la migliore trasparenza e il miglior utilizzo dei 3 milioni donati dalla Banca d’Italia”.