“Io, il capo del condominio”. Sanità tra mazzette e ricatti

La Sanità era un condominio e lui, il responsabile per l’emergenza Covid-19 in Sicilia, Antonino Candela, si era autoproclamato capo. Inserito, per i magistrati della Procura di Palermo, in un sistema fatto di bustarelle, favori, sponde politiche, dossier e appalti per 600 milioni di euro. Candela da ieri è agli arresti domiciliari. Coinvolto, insieme ad altre 18 persone, due delle quali finite in carcere, nell’inchiesta denominata “Sorella Sanità”. Le accuse ipotizzate a vario titolo sono di corruzione, istigazione alla corruzione e induzione a dare o promettere utilità. Oltre all’uomo scelto dal governatore Nello Musumeci per fronteggiare la pandemia, dietro le sbarre è finito anche Fabio Damiani, direttore generale dell’Asp 9 di Trapani ed ex responsabile delle Centrale unica degli appalti in Sicilia.

Altro nome di spessore è quello di Carmelo Pullara, deputato regionale del centrodestra e vicepresidente della commissione Sanità all’Ars, accusato di turbativa d’asta, ma non destinatario di alcuna misura.

I faccendieri amici e le società matrioska

Secondo i magistrati, al loro servizio Damiani e Candela avrebbero avuto due faccendieri: Salvatore Manganaro e Giuseppe Taibbi. Utilizzati come filtro per interfacciarsi con le aziende disposte a pagare per vincere le gare. Il sistema ricostruito dalla Gdf ha fatto emergere “una galassia di società appositamente create come matrioske”. Buone, per l’accusa, a confondere le acque e nello stesso tempo necessarie per le fatturazioni di comodo. Rendite assicurate di cui parlavano gli stessi indagati. In una conversazione con la moglie, Taibbi diceva: “Io per nove anni incasso 15mila euro al mese, senza fare una emerita minchia”. Su disposizione del gip sono state sequestrate sette società e 160mila euro.

Il paladino della legalità premiato da Mattarella

La parabola di Candela, ex manager dell’Asp di Palermo, mette al centro dell’inchiesta un altro paladino della legalità che in Sicilia da accusatore diventa accusato. Tanti i riconoscimenti ricevuti in questi anni, compresa una medaglia d’argento al merito ricevuta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e quella d’oro di benemerenza dall’allora presidente della Regione, Rosario Crocetta. Encomi su encomi per un manager finito sotto scorta per avere denunciato le tangenti, spesso vittima di intimidazioni, e sostenuto da pezzi del centrosinistra.

I dossier: “Esco fuori tutto e si fa un articolo”

Prima di diventare coordinatore dell’emergenza Covid-19, Candela era rimasto fuori dai giochi delle nomine dei direttori sanitari delle aziende. Il 18 novembre 2018 sfoga tutta la sua amarezza con il braccio destro Taibbi. Destinatario delle invettive l’attuale assessore regionale Ruggero Razza, bollato dal faccendiere come “il bambino”.

“Se tu vuoi – diceva Taibbi – io in questa settimana mi esco fuori tutti i casini che hanno queste persone… e poi si fa un bell’articolo”. Dossier che l’uomo annunciava, e forse millantava, di essere in grado di recapitare ai due vicepremier di allora, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. “Non per email, ma nelle proprie scrivanie”, diceva. Così, si legge nelle intercettazioni contenute nell’ordinanza, avrebbe garantito “un minimo di bordello”. L’obiettivo? “Levare dai coglioni il bambino” e fare diventare assessore proprio Candela.

Il favore in cambio del sostegno per la nomina

Nelle carte dell’inchiesta, la gip evidenzia “l’ossessione” di Damiani per nomine e potere. L’attuale manager a Trapani, identificato nelle intercettazioni con l’appellativo di “sorella” dagli indagati, avrebbe cercato, a quanto pare senza successo, anche l’appoggio del presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè attraverso l’incontro con il fratello di quest’ultimo. Diverso il discorso per quanto riguarda il deputato agrigentino Pullara, già finito nei guai l’estate scorsa perché citato, pur non essendo indagato, in alcune intercettazioni ambientali di un’inchiesta su Cosa Nostra e massoneria. In questa storia il deputato autonomista si sarebbe rivolto a Damiani per perorare la causa della società Manutencoop. La merce di scambio sarebbe stato il sostegno al funzionario nella corsa a direttore generale.

“Un’opera inutile, andai via sbattendo la porta”

Questa volta sta ben attento a non farsi sfuggire neppure una parola contro l’ospedale alla Fiera di Milano, 21 milioni per 21 pazienti in terapia intensiva. Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e rianimazione al San Raffaele di Milano, non vuole alimentare ulteriori polemiche: “Basta critiche. Voglio essere propositivo, voglio indicare una via”. Ma in Regione si ricordano bene quando se ne andò sbattendo la porta, durante una delle prime riunioni sull’ospedale da impiantare in Fiera.

Un’operazione inutile, disse senza troppi giri di parole al presidente Attilio Fontana e all’assessore Giulio Gallera. Perché Zangrillo prevedeva che quando la struttura sarebbe stata pronta, la curva di ricoveri in terapia intensiva sarebbe stata in calo; e così è stato. E perché riteneva, e continua a ritenere, che “una rianimazione non possa essere svincolata, anche in termini di spazi, da una struttura ospedaliera”. Inoltre, sostiene Zangrillo, “credo che non si possa assemblare un reparto di terapia intensiva senza fondarlo su un gruppo di medici e infermieri abituati a lavorare insieme”.

Non gli hanno dato retta. L’ospedale in Fiera era lo spot da esibire in mancanza di tutto il resto: tracciamento, medicina territoriale, protezioni per medici e infermieri, tamponi, test sierologici. Oggi, volendo “essere propositivo”, il professor Zangrillo comincia comunque non andandoci giù leggero: “Sono in completo disaccordo con chi mette al primo posto, negli interventi per adeguare il servizio sanitario, il rafforzamento delle terapie intensive. Lo ripeto: fa di più un infermiere ben preparato che cento ventilatori da terapia intensiva. Bisogna rafforzare invece i presidi medici territoriali”.

Zangrillo snocciola qualche cifra: “In Italia abbiamo 8,8 posti di terapia intensiva ogni 100 mila abitanti. In Germania sono 24, anche se loro contano pure le terapie sub-intensive. Per adeguarci ai numeri tedeschi ci vogliono molti soldi e molto tempo. Ma subito possiamo e dobbiamo fare un’altra cosa: migliorare quello che già c’è. La terapia intensiva è l’ultima opzione. Prima si deve intervenire sul processo di presa in cura del paziente, prima di essere costretti alla terapia intensiva. Bisogna intervenire tempestivamente innanzitutto nell’assistenza domiciliare, che nella prima fase della pandemia da Cavid-19 non c’è quasi stata. Poi si deve intervenire, sempre con tempestività, nella fase ospedaliera, quando questa è necessaria: in questi mesi molti pazienti sono arrivati in ospedale troppo tardi. Infine c’è la terapia intensiva: è l’ultima fase”.

Poi Zangrillo prova a fare una previsione: “Sono sicuro che tra 10, 15 giorni sul carro di coloro che sostengono che il virus stia diventando meno cattivo ci saranno solo posti in piedi”. E se invece ci sarà una nuova ondata di contagi? “Dobbiamo sperare che non accada, ma farci trovare pronti se accadrà”.

Milano, 603 casi sospetti in 48 ore e solo 9 tamponi

A diciotto giorni dall’inizio della Fase2 in Lombardia, vi è ormai la matematica certezza che i dati comunicati in via ufficiale dalla Regione non rappresentano l’andamento reale del contagio. Ci sono numeri che sono comodi da divulgare e altri che è meglio tenersi in tasca, come quelli scritti nero su bianco in un report riservato dell’Unità di crisi. Sul piatto, c’è la Fase2 e c’è soprattutto il fiato sospeso per capire come si evolverà il contagio dopo le riaperture avviate lunedì (movida compresa). Il lavoro sui tracciamenti e sui contatti resta al palo, con una media di 13mila tamponi al giorno e nuovi casi positivi in Lombardia che, ieri, sono stati 316 (con un rapporto tra tamponi fatti e positivi intercettati del 2,1%, il più basso da aprile).

Ma ciò che mostra quanto ancora sia pericolosa la situazione lo si trova nelle pieghe di un documento riservato della Regione che riguarda i casi sospetti di persone sintomatiche – segnalati dai medici di base alle varie Ats del territorio – dal 4 maggio, ovvero dall’inizio della Fase2, a oggi. Non si tratta più di telefonate dirette del cittadino che si auto-diagnostica il Covid, bensì di valutazioni mediche ormai certificate attorno a un protocollo sintomatologico preciso. Anche perché, come spiega il professor Massimo Galli, “in tempi di pandemia come questi, sintomi simil Covid è molto difficile che siano riconducibili a un banale raffreddore”.

Dal 4 maggio, nelle ultime due settimane, le segnalazioni per sospetti Covid comunicati dai medici di base alle otto Ats in cui è divisa la regione sono state 19.168. A fronte di 19.168 casi sospetti, sono stati effettuati 6.440 test molecolari (dei quali non si conosce ancora il risultato): un terzo del totale. Solo un caso diagnosticato su tre è stato quindi testato.

Ancora più impressionanti sono i dati rilevati dallo scorso lunedì, 18 maggio: 3.157 i casi comunicati come sospetti, solo 25 quelli effettivamente testati. Nell’area metropolitana di Milano, per esempio, su 603 segnalazioni, i tamponi eseguiti sono stati nove.

Nei vari dossier che i medici di base inviano alle Ats vengono identificati i contatti: parenti, conviventi, amici. Il che fa lievitare il numero dei possibili contagiati. In Lombardia sappiamo che per ogni infetto si tracciano due contatti, il che porterebbe il numero di 19.168 al doppio. In Veneto, invece, come contact tracing, si individuano fino a 12 persone. Questo porterebbe ipoteticamente a 230mila persone: esattamente il numero dei positivi nell’area metropolitana di Milano calcolato all’8 aprile, secondo lo studio del Policlinico e dell’ospedale Sacco, raccontato dal Fatto.

In Lombardia la media generale di tamponi positivi durante i tre mesi dell’epidemia è del 20%. Questo dato applicato alle 19.168 segnalazioni produce 3.833 casi positivi, senza contare i relativi contatti, 2 o 12 che siano. Ma è evidente che questo dato non può essere realistico.

Paradossale appare poi la situazione dell’Ats dell’Insubria. Qui negli ultimi due giorni i casi segnalati sono stati 375 con un solo tampone effettuato. Non va meglio per l’Ats di Pavia che comprende anche Lodi. Nelle ultime 48 ore a fronte di 158 casi sospetti è stato effettuato sempre un solo tampone. A Brescia aumentano le segnalazioni, 624 tra il 18 e il 20 maggio, ma il risultato non cambia: solo un tampone fatto. A Bergamo, nello stesso periodo, 536 segnalazioni e cinque tamponi. In totale su 3157 segnalazioni di sospetti casi sintomatici pervenute alle varie Ats nelle ultime 48 ore il numero dei test molecolari si ferma a 25, ovvero lo 0,79%. Torniamo ai dati ufficiali. A ieri oltre 14mila tamponi. Cifra che non rappresenta tutti i test diagnostici (quelli fatti la prima volta). Per trovare il numero giusto bisogna dimezzarlo di circa il 50%. Difficile quindi ipotizzare una discesa epidemiologica reale sulla base di un 50% di tamponi fatti su individui già testati più volte. Il dato non torna. E lo spiega anche l’ultimo studio della fondazione Gimbe di Bologna che rileva, a livello nazionale, 61 tamponi diagnostici al giorno su 100mila abitanti. Cifra che cambia da regione a regione con la Lombardia buona 12° in classifica con 64 test e lontana, lo si è visto nella tabella, dal dogma tassativo per la fase due di tracciare, testare e isolare.

Ospedale Fiera, ombre su costi e donazioni: ora indaga la Procura

L’Astronave, o più prosaicamente l’ospedale anti-Covid della Fiera di Milano, finisce in un fascicolo giudiziario: il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, a capo del pool che si occupa dei reati nella pubblica amministrazione, ha aperto un’inchiesta, per ora senza indagati e senza ipotesi di reato, dopo aver ricevuto, martedì 19 maggio, un esposto del sindacato Adl Cobas Lombardia. L’apertura del fascicolo è un atto dovuto, spiega Romanelli, per rispondere alle domande allineate dall’esposto: sulle donazioni (21,6 milioni di euro da parte di oltre 5 mila privati e aziende) e sul loro utilizzo, che secondo l’esposto costituisce “uno spreco di risorse” in cui “ha prevalso la necessità propagandistica” rispetto “alla prioritaria tutela della salute”. L’Astronave – la definizione è di Guido Bertolaso – è una struttura da 221 posti letto di terapia intensiva e ha ospitato finora 25 pazienti, che sono dunque costati, secondo l’esposto, 840 mila euro ciascuno.

Ma ieri per l’Astronave è stata una giornata fondamentale anche perché, dopo mesi di polemiche, Fondazione Fiera e Fondazione di Comunità Milano, gestori dell’operazione, hanno fornito una prima, parziale, rendicontazione delle spese sostenute. Quella finale arriverà “entro la fine del mese di luglio”. Per i 221 posti letto del Portello, Fondazione Fiera ha speso 17,25 milioni di euro, Iva esclusa. Una cifra ingente che ha coperto le sole infrastrutture dell’ospedale poi “date in comodato gratuito, come da indicazioni della Regione Lombardia, al Policlinico di Milano”. Un rendiconto assai scarno, che riporta solo macro-voci (progettazione preliminare, definitiva, esecutiva, assistenza direzione lavori e coordinamento sicurezza: 393.342 mila euro; opere civili: 7,9 milioni; impianti elettrici e speciali: 4,50 milioni; impianti termomeccanici e anti incendio: 3,1 milioni; impianti gas medicali: 1,2 milioni), ma non include i nomi delle ditte che vi hanno lavorato, né i singoli importi. Non compare neanche il costo delle apparecchiature medicali, lettini, respiratori eccetera. Non è un dettaglio da poco. Per avere un termine di paragone si può considerare la struttura gemella inaugurata a Civitanova Marche sabato scorso e come quella della Fiera “concepita” da Bertolaso. Lì, per 90 letti di terapia intensiva, sono stati spesi 6,9 milioni per opere civili e altri 11,6 per attrezzature mediche. A Milano, per 221 letti: 17,2 milioni per opere civili e non si sa quanto per le attrezzature. Di sicuro non si tratta di una cifra trascurabile, visto che un singolo respiratore può costare tra i 20 e i 30 mila euro.

In realtà, le attrezzature mancano dal rendiconto perché non erano di competenza di Fondazione Fiera, che si è occupata soltanto della progettazione e della realizzazione dell’infrastruttura. Il presidente, Enrico Pazzali, spiega che le attrezzature sono state donate dai privati, o sono state offerte in comodato d’uso. Sono comunque un costo, che fa lievitare la spesa totale ben oltre i 21,6 milioni di euro raccolti dai donatori. Nel rendiconto si trovano comunque altre informazioni interessanti. Si dice che tra le strutture approntate risultano “due sale per piccoli interventi chirurgici”: per mesi il presidente della Regione Attilio Fontana e Bertolaso hanno difeso la struttura in Fiera definendola un ospedale vero e proprio, con “sale operatorie complete e funzionanti”. Ora si scopre invece che non sono altro che ambulatori. Quindi, se uno dei sei pazienti ieri ricoverati nell’Astronave dovesse avere bisogno di un intervento cardiovascolare, dovrebbe essere trasportato al Policlinico.

Più comprensibile, dunque, la diatriba tra Bertolaso e Regione Lombardia sulla ventilata, prossima chiusura dell’ospedale. Nonostante le smentite di un agitatissimo Bertolaso ieri alla trasmissione di RaiTre “Agorà” – dove era stato invitato senza contraddittorio – la vicenda è chiara: Fontana sa che la struttura in Fiera non rientra nelle linee guida dell’Oms per gli ospedali Covid e quindi potrebbe essere smantellato. Bertolaso – che pur ne aveva disconosciuto la paternità in una telefonata con l’avvocato Giuseppe La Scala, uno dei donatori – lo vorrebbe tenere aperto e, anzi, vorrebbe “trasformarlo in un ospedale completo, con pronto soccorso e triage”. Cioè vorrebbe investirci ulteriori fondi. Resta il mistero sulla molto annunciata donazione di 10 milioni di euro di Silvio Berlusconi. Fondazione Milano, che gestisce il fondo sul quale sono affluiti i soldi dei donatori, ha smentito seccamente di aver ricevuto l’assegno. I soldi sarebbero stati versati direttamente sul conto di Regione Lombardia. Il capogruppo di Forza Italia al Pirellone, Gianluca Comazzi, ha confermato la donazione, ma evidenze di quel versamento a oggi non ci sono.

Luci e ombre del Btp da “record”: gli italiani sostituiscono gli stranieri in fuga, ma il gioco ha i suoi rischi

Il collocamento del nuovo Btp Italia è andato ben oltre le previsioni. Ai 14 miliardi richiesti dal settore retail, soprattutto piccoli risparmiatori, si è aggiunta la richiesta per 19,5 miliardi degli investitori istituzionali. Questi ultimi sono stati soddisfatti per meno di metà. L’importo totale emesso sarà così 22,3 miliardi (il Tesoro puntava a 15 miliardi), record per questa forma di titoli di Stato.

L’offerta ai risparmiatori era davvero vantaggiosa. Complice il calo dei rendimenti dopo l’annuncio del piano franco-tedesco sul Recovery Fund, il Btp Italia offriva un rendimento nominale superiore di 20/30 punti base rispetto al Btp tradizionale, oltre alla protezione dall’inflazione. È andata bene ed è probabile che il Tesoro lo rifarà, nell’ottica di canalizzare una fetta più grande dei risparmi degli italiani verso i titoli di Stato che dovrà emettere in abbondanza: secondo le stime del Def, il deficit che quest’anno lo Stato avrà bisogno di finanziare si avvicinerà ai 170 miliardi. Bankitalia, attraverso i vari programmi di acquisto di titoli di Stato che la Bce ha annunciato, arriverà ad assorbirne circa 190/200 miliardi.

Il rischio, in questa situazione di precario equilibrio, è rappresentato dalla possibile fuga di investitori esteri. Lo si è già visto a marzo, stando ai dati della Banca d’Italia: c’è stato un deflusso netto di capitali per oltre 107 miliardi, il più elevato dalla nascita dell’euro e, cosa ancor più grave, ha avuto caratteristiche simili a quelle registrati durante la “crisi dello spread” del 2011. Negli anni scorsi i deflussi erano causati dalle decisioni di portafoglio degli italiani, che re-investivano in fondi e titoli esteri il corrispettivo che ricevevano dalla Bce a fronte del Quantitative easing, mentre invece la fuga di marzo è dovuta quasi esclusivamente all’uscita dei capitali esteri. Gli stranieri hanno ritirato dai titoli di Stato più di 51 miliardi, dai depositi presso le banche italiane altri 50 miliardi. La Banca d’Italia è intervenuta per fare in modo che i deflussi non si riflettessero in una diminuzione considerevole della liquidità sul mercato e quindi in un rialzo dei tassi d’interesse. Ci sono stati acquisti di titoli di Stato per circa 13 miliardi, prestiti alle banche in dollari per 12 miliardi e rifinanziamenti a lungo termine per 44: complice anche la spesa del Governo, che ha liberato altri 25 miliardi, la liquidità nel sistema è diminuita in modo contenuto.

In quest’ottica, la strategia del governo di attirare una quota più elevata di risparmio privato italiano ha una duplice finalità: aumentare il numero degli investitori “pazienti” e liberare spazio alla banca centrale per assorbire senza ampliare ancora i propri programmi le oscillazioni degli investitori esteri.

Questo tipo di strategia è esposta però anche a rischi: concentrare il risparmio degli italiani in un unico asset lo fa sempre più dipendere dal suo andamento. Se lo Stato, per richiamare quote aggiuntive di risparmio, deve ogni volta ricorrere a condizioni sempre migliori, diminuirà l’appetito di tutti gli altri operatori sul mercato secondario, che rimarranno in attesa della prossima emissione a condizioni sempre più vantaggiose. La speranza è che gli italiani continuino ad aver fiducia nell’affidabilità dello Stato, e che lo Stato faccia tutto quello che serve, anche di più, per meritarsi questa fiducia.

Guerra di lobby e di poltrone per il nuovo Sblocca-cantieri

Grande è la confusione sotto il cielo del nuovo “sblocca cantieri” (per la precisione, “decreto semplificazione”). Ma la linea di separazione, in sintesi brutale, è questa: nel nuovo dl, previsto a giugno, ci saranno molte meno gare per gli appalti pubblici (un mercato da 30 miliardi). Questo però non basta a una parte della maggioranza giallorosa, i renziani di Italia Viva e lo stato maggiore dei 5Stelle, che vogliono, di fatto, il liberi tutti.

Da giorni la maggioranza finge di litigare sul cosiddetto “modello Genova”, cioè un commissario che agisce in deroga al codice degli appalti del 2016 e affida i lavori senza gara, come si è fatto per il ponte Morandi. Che però ha specificità uniche: l’urgenza, l’importo (solo 200 milioni), la spesa a carico di Autostrade per l’Italia per i noti motivi. I 5Stelle, capitanati dal viceministro Cancelleri, sognano di sbloccare opere per centinaia di miliardi contenute nei piani di Anas e Fs trasformando gli ad in commissari alla “Genova”. È il modello peraltro previsto dallo “sblocca cantieri” di aprile 2019 voluto dal ministro Danilo Toninelli ma finora mai attuato. Dall’altra parte c’è Italia Viva di Matteo Renzi, che da settimane preme con il suo “piano choc” fino a 120 miliardi. I piani di entrambi sono arrivati a Palazzo Chigi, dove Giuseppe Conte ha formato un gruppo di lavoro sul decreto, creando non pochi malumori tra i suoi ministri. In questo modo si vuole evitare che il dl “Semplificazione” faccia la fine di quello “Rilancio”, lievitato a 260 articoli, ed evitare anche pericolosi connubi di interessi tra politica e imprese (che nel settore delle costruzioni più o meno tutte hanno bisogno di ossigeno, cioè di quattrini).

L’idea di Conte, a cui lavora Roberto Chieppa, il segretario generale di Palazzo Chigi, è questa: per gli appalti sotto soglia comunitaria, cioè sotto i 5 milioni di euro, si potranno evitare le gare e ricorrere a procedure negoziate chiamando un gruppo di imprese (si parla di cinque). Parliamo del 75% degli appalti pubblici in Italia, sottratti alle gare aperte. Quando ad aprile 2019 Toninelli eliminò l’obbligo di gara fino a 1 milione, l’Autorità anticorruzione contestò la scelta, stavolta l’obiettivo è garantire i controlli antimafia e di trasparenza. Sopra la soglia dei 5 milioni si punta a procedure in deroga a buona parte del codice degli appalti con due corsie: per le opere “strategiche” (la lista è da stendere) gli appalti verranno banditi senza gara, con procedure negoziate, per le non strategiche sarà previsto un bando semplificato. Tutto, è sempre l’idea di Conte, senza ricorre ai commissari in deroga a ogni vincolo (perché le deroghe saranno la norma), che però piacciono di più alla politica.

Di per sé questo meccanismo sottrarrà buona parte delle opere pubbliche al codice degli appalti, che però resta in piedi. Iv e 5Stelle, invece, vogliono andare perfino oltre, sospendendolo del tutto. Renzi, consigliato dall’amico Pietro Salini, patron del colosso di costruzioni ribattezzato Webuild dopo l’ingresso (o forse il salvataggio) della Cassa depositi e prestiti, nei giorni scorsi ha fatto arrivare – per il tramite di Maria Elena Boschi – il “suo decreto” alla vigilia del voto sulla sfiducia al ministro Alfonso Bonafede. A leggere le 7 pagine, si capisce la portata: senza perdersi nei tecnicismi il testo di fatto sospende il codice per gli appalti sopra soglia ricorrendo ai commissari (anche centinaia). È il “modello Genova” urbi et orbi auspicato nei giorni scorsi da Salini in un’intervista al Sole 24 Ore. Non di solo codice degli appalti vivono però i renziani. E per questo hanno chiesto il ripristino delle 3 “strutture tecniche di missione” messe in piedi sotto il governo Renzi (inzeppate di fedelissimi) e chiuse di recente: “Casa Italia”, “Dissesto idrogeologico” ed “edilizia scolastica”. Vecchie strutture che ritornano e nuove poltrone. Richiesta che Conte ha declinato (come quella di concedere un sottosegretario in un ministero di peso).

Un minimo di freno alla frenesia dello “sblocca tutto” arriva da dove meno ci si aspetta, e cioè dal Pd, contrario a sospendere il codice degli appalti. La ministra Paola De Micheli punta a stilare un elenco di opere strategiche con precisi paletti da affidare ai commissari, pensati però come un’eccezione perché il modello Genova non è replicabile. Per Iv l’ha messa nel mirino. Troppo forte è l’appetito della politica, 5Stellecompresi. Nella proposta Cancelleri, per dire, ogni commissario potrà contare su una struttura fino “a un massimo di 40 unità”. Qualcosa di inconciliabile con lo spirito del decreto Semplificazione che mira ridurre i costi dell’amministrazione accelerando la spesa .

La discussione andrà avanti a lungo. Nel frattempo arriverà l’allegato “infrastrutture” al Def: opere per 200 miliardi, senza analisi costi-benefici.

A fine mese la sperimentazione di Immuni: in poche Regioni e per un tempo limitato

A fine mese si parte con la sperimentazione: una certezza ribadita da ogni parte dei settori coinvolti nell’avvio dell’app di contact tracing Immuni. In queste ore sono stati ultimati gli ultimi accorgimenti su privacy e sicurezza, implementate le funzioni e adeguate al protocollo di Apple e di Google. Ancora non si è deciso, però, da quali regioni si inizierà la sperimentazione. Si ragiona su tre o quattro, tra Nord, Centro e Sud, ma la decisione arriverà tra qualche giorno. È molto probabile si scelgano territori ad alta densità di popolazione dove la possibilità di interazione tra le persone è più frequente.

Prima di lanciare la app su tutto il territorio nazionale, infatti, serve una fase di test non tanto per mettere alla prova la tecnologia quanto per capire come risponde la popolazione: se sarà scaricata, in quanti lo faranno, se sarà un metodo efficace e se tutta la filiera sarà pronta e rodata (presa in carico in caso di positività, addetti al contact tracing “reale”, verifiche e tamponi).

La sperimentazione potrebbe durare una o due settimane a seconda della rapidità con cui la piattaforma si diffonderà. Breve refresh sulla app: si scaricherà sullo smartphone e grazie ai collegamenti via bluetooth sarà in grado di capire se si è stati in contatto o meno con qualcuno che è poi risultato positivo, allertando con una notifica l’interessato e fornendogli le prime indicazioni su come muoversi.

L’accelerazione è arrivata dopo che, martedì, Google ed Apple hanno rilasciato le loro interfaccia Api, ovvero il set di protocolli che sarà integrato non solo in Immuni ma anche nelle altre app in giro per il Mondo. In questo modo anche due smartphone con sistemi operativi diversi (Ios e Android) potranno comunicare tra loro. È di fatto, l’abbattimento di un muro digitale tra due concorrenti in nome della sicurezza. Conte ha confermato che sarà reso pubblico il codice sorgente (parte che spetta alla società che ha creato e donato la app, Bending Spoons) e che ciò che riguarda distribuzione e gestione è affidato “a società pubbliche interamente partecipate dallo Stato, PagoPA e Sogei, con le quali sono state stipulate convenzioni a titolo gratuito”.

Ieri la Conferenza Stato-Regioni ha dato parere positivo alla norma che costituisce la base legislativa per Immuni, contenuta nel disegno di conversione in legge del decreto del 30 aprile 2020. La riunione si è svolta in videoconferenza con i governatori e il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia.

Inps: “A Protezione civile sfuggono 20 mila morti”

Diciannovemila vittime in più. Persone decedute soprattutto al Nord Italia in piena epidemia che rientrano nella mortalità in eccesso registrata nel periodo, ma il cui trapasso non viene ufficialmente attribuito al Covid-19. Sono i 18.971 morti che sfuggono al bollettino della Protezione Civile, ma che sono stati fotografati dall’Inps nel suo studio “Analisi della mortalità nel periodo di epidemia da Covid-19”. Secondo il quale il numero dei decessi comunicati ogni pomeriggio alle 18 dalla struttura guidata da Angelo Borrelli è “poco attendibile in quanto influenzata non solo dalla modalità di classificazione della causa di morte, ma anche dall’esecuzione di un test di positività al virus”.

La questione è nota: nel conto rientrano solo le morti certificate da tampone, per questo a via Vitorchiano non si riesce a osservare la base dell’iceberg, quella costituita dagli asintomatici che, in quanto tali, anche se malati non vengono sottoposti a test e muoiono senza una diagnosi di Covid-19. Per superare questo limite, gli statistici dell’Istituto di previdenza sociale hanno confrontato il numero dei decessi giornalieri avvenuti dal 1° gennaio al 30 aprile 2020 con la media registrata tra il 2015 e il 2019. Complessivamente, si legge, “il periodo dal 1° gennaio al 28 febbraio registra un numero di decessi inferiore di 10.148 rispetto ai 124.662 attesi”. Nel frattempo, però, la situazione cambia. Il 20 febbraio il 38enne Mattia Maestri risulta positivo al tampone all’ospedale di Codogno e in Italia comincia l’emergenza vera e propria. Il governo chiude scuole e università (4 marzo), la Lombardia e altre 14 province diventano “zona rossa”(8 marzo) e quindi l’intero Paese finisce in lockdown (9 marzo). In questo periodo la curva della mortalità ufficiale e quella della sovramortalità crescono giorno dopo giorno, raggiungendo il picco il 28 marzo. È in questo lasso di tempo che si consuma la tragedia del Settentrione. Se al 30 aprile i decessi giornalieri attesi in Italia erano 1.795 quelli verificatisi erano stati 2.564, cioè 769 in più. Di questi, 697 al Nord. In questo quadro “le province di Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi e Piacenza presentano tutte una percentuale di decessi superiori al 200%”,si legge. E “quasi tutto il nord-ovest risulta interessato da un incremento superiore al 50%”. Già a fine marzo, poi, in molti dei comuni lombardi l’aumento è stato “nettamente superiore al 100%”, scrivono i ricercatori. Che per contrasto definiscono “interessante” il caso del Veneto: “Ha saputo contenere la propagazione grazie a un approccio sanitario diverso da quello lombardo”. Grazie, cioè, alla scelta di circoscrivere i focolai tracciando tempestivamente le catene di contagio e grazie alla sua rete di medicina territoriale.

Nel complesso, sottolinea l’Inps, dal 1° marzo al 30 aprile si “registra un aumento di 46.909 decessi rispetto ai 109.520 attesi. Il numero di morti dichiarate come Covid-19 nello stesso periodo sono state di 27.938”. A cosa sono dovute, allora, le 18.971 morti in più? “Con le dovute cautele (…) all’epidemia in atto”, concludono i ricercatori.

Al riguardo è interessante anche l’aggiornamento dell’Istant Report Covid-19 dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Servizi Sanitari dell’Università Cattolica, secondo cui “i tamponi non vengono sempre effettuati dove servono”. “In Liguria e Lombardia la quota della popolazione testata sembra molto bassa considerando l’alta incidenza dei contagi registrata nell’ultima settimana”, sottolinea il coordinatore Americo Cicchetti. Si tratta delle Regioni con maggiore incidenza settimanale (26 casi ogni 100mila abitanti), ma entrambe effettuano un numero di test per 1.000 abitanti pari a quelli della Basilicata che si ferma a 7 casi.

Il pallottoliere, intanto, continua a correre: sono 642 i contagi registrati nelle ultime 24 ore (316 in Lombardia), per un totale di 228.006 casi totali. Sono, invece, 156 le vittime comunicate ieri dalla Protezione civile, che portano il totale a 32.486. Ma, come sappiamo, le persone uccise dal virus sono molte di più.

Movida, asili, tavolini da bar. È la calda estate delle città

Movida e servizi educativi per i bambini. Sono questi i temi caldi della Fase due che potrebbero mettere in difficoltà le città. Dove si moltiplicano i controlli contro gli assembramenti dopo la riapertura di bar e locali, mentre i ristoratori chiedono garanzie sugli spazi esterni. Intanto sul riavvio dei servizi educativi per bambini e adolescenti entro metà giugno come previsto dal Dpcm del governo si procede a macchia di leopardo.

Napoli.Allo studio del comune procedure semplificate per consentire le richieste di occupazione di suolo pubblico di ristoranti e bar. I locali della movida sono però sul piede di guerra perché il governatore De Luca è intenzionato a non cedere sull’orario di chiusura previsto “inderogabilmente” per le 23. Tra gli esercenti delle strade più frequentate che temono multe per gli assembramenti, c’è anche chi chiede la collaborazione dei vigili per istituire una sorta di conta-persone. Quando ai servizi per i bambini, i sindacati che rappresentano le educatrici sono fermamente contrari alla riapertura degli asili, materne e centri estivi per l’impossibilità di garantire il distanziamento nelle strutture che in città sono in maggioranza pubbliche.

Bari. Il sindaco Decaro ha approvato una delibera che consente tramite mail di ampliare del 50 per cento gli spazi di occupazione di suolo pubblico per ristoranti e bar per un periodo di 60 giorni (rinnovabili). Agli esercenti è chiesto l’impegno di sottoscrivere una serie di impegni compreso quello di riparare eventuali danni. Sul fronte movida sono stati intensificati i controlli e il sindaco ha invitato i gestori dei locali a fornire ai loro clienti non solo cocktail, ma pure mascherine. Quanto ai servizi educativi ha avviato una sorta di censimento delle famiglie intenzionate a usufruirne per l’estate in modo da avere un quadro della domanda e dell’offerta disponibile.

Roma. Centri estivi aperti non prima di luglio. La Capitale sarà pronta per la riapertura dei centri estivi a partire da luglio e agosto. Mentre le 550 aree gioco della città restano chiuse per l’impossibilità di garantire distanziamento tra i bambini e sanificazione. Quanto al nodo della ristorazione a breve dovrebbe essere approvata la misura per consentire di ampliare fino al 35 per cento la concessione di suolo pubblico per gli esercizi commerciali in modo da compensare la riduzione delle superfici utilizzabili all’interno dei locali. Se ne studia anche una seconda che consentirà di estendere le misure anche alle librerie. Intanto i luoghi della movida sono sorvegliati speciali.

Firenze. Per Nardella tavolini amari. Il sindaco si è impegnato sul fronte bar e ristoranti a “dare suolo pubblico a chi non ce l’ha e gratuitamente”. Ma anche a intervenire sugli affitti. In città tra gli esercenti c’è chi teme l’effetto “sagra”. A Palazzo Vecchio è un susseguirsi di vertici per scongiurare gli assembramenti da movida, mentre resta anche il nodo dei centri estivi: alcuni gestori privati sarebbero pronti a partire già prima del 15 giugno: hanno fatto sapere di essere in attesa dell’ok del comune e dell’azienda sanitaria.

Bologna. Merola studia i tavoli “green”. Dopo la pioggia di multe di sabato scorso nei principali centri dell’aperitivo in città, il sindaco Merola è tornato a ribadire la necessità di comportamenti responsabili. Dopo le riaperture di bar e ristoranti, si pensa ad allargare la pedonalizzazioni in vista dell’ampliamento degli spazi all’aperto da riservare a locali e ristoranti per garantire il rispetto delle misure di sicurezza. Il Comune di Bologna ha aderito al “Progetto per la conciliazione vita-lavoro”, finanziato dalla Regione Emilia-Romagna con le risorse del Fondo Sociale Europeo, per sostenere le famiglie che avranno la necessità di utilizzare servizi estivi per bambini e ragazzi delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado nel periodo giugno-settembre: è stata avviata una consultazione aperta a soggetti privati gestori in possesso dei requisiti di esperienza e di sicurezza.

Milano. Tavoli dei bar anche al posto dei parcheggi. A Milano gli esercenti di bar e ristoranti non pagheranno l’occupazione del suolo pubblico, anche nelle aree di parcheggio. Intanto la Regione sta lavorando sul protocollo necessario per riaprire i centri estivi sulla base dell’evoluzione del contagio che dovrà ricevere il via libera del comitato tecnico scientifico regionale.

Vitalizi, Yemen e festival canori: 150 petizioni dei cittadini

Non solo ai fornelli: le lunghe settimane di lockdown hanno scatenato la fantasia degli italiani che hanno cucinato ricette a tutto spiano pure per il Parlamento. E così, mentre la quarantena obbligata costringeva deputati e senatori lontani da Roma, gli uffici di Montecitorio e di Palazzo Madama venivano inondati dalle petizioni dei cittadini semplici: più di 150 e non tutte suggerite dall’emergenza. Perché da casa c’è chi si è preso cura di chiedere incentivi fiscali per chi offra denaro o altre liberalità a sostegno dei soccorsi o per stabilizzare urgentemente i lavoratori precari della sanità pubblica.

Ma poi qualcun altro ha pure scritto per chiedere la riduzione delle indennità dei parlamentari, vista la situazione drammatica o ha voluto farsi sentire sull’abolizione dei vitalizi. Come anche per chiedere che ci sia più informazione pubblica sul referendum sul taglio dei parlamentari o che vengano revocate le concessioni autostradali ai privati. Una lunga serie di sollecitazioni, tutte assai accorate che si tratti di abolire le unioni civili o perorare i diritti dei transessuali, per richiamare l’attenzione sulla guerra in Yemen o per far inserire la professione del portalettere tra i lavori usuranti. Per quanto, che male c’è a invocare il ripristino del Festival della canzone napoletana?

La parte del leone però l’ha fatta senz’altro il Covid-19 che ha colpito tutti, come una livella: i vigilantes chiedono tutele data la crisi, come chi è era già in difficoltà e ora teme le banche. Chi si è dovuto misurare con le file ai supermercati o alle poste ora si interroga se per il futuro non ci si possa organizzare diversamente. Già, il futuro. Perché anche ora che il peggio sembra passato, è forse il caso, come si chiede in una petizione, di ripensare i presidi territoriali della sanità pubblica.