Il suk delle commissioni: Italia Viva ne reclama quattro, i Dem cinque

L’ammuina di Matteo Renzi sul voto su Alfonso Bonafede ha riacceso i riflettori su un capitolo che stava per passare in secondo piano: il rinnovo dei presidenti delle commissioni parlamentari. Il leader di Italia Viva mercoledì a Palazzo Madama sprizzava buonumore da tutti i pori. Tanto che tra i cronisti ci si chiedeva quale sarebbe stata la contropartita per “salvare” il ministro. Anche se poi a votare contro Bonafede è probabile che Renzi non ci abbia nemmeno mai pensato: perché mettere a rischio un esecutivo dove Italia Viva detiene la golden share e può fare il bello e cattivo tempo? La certezza di un altro governo dopo il Conte 2, infatti, non gliela può dare nessuno, tanto meno il Colle, nonostante a suo dire “un altro esecutivo si fa in un quarto d’ora”.

Comunque, in questo passaggio, e continuando a mettere in fibrillazione la maggioranza, può darsi che qualche poltroncina in più il leader di Italia Viva riesca a spuntarla, tra un rimpasto di governo sempre meno probabile e il rinnovo delle commissioni, che invece cadrebbe a fagiolo. Le commissioni, infatti, si rinnovano dopo due anni con una leggera differenza: a Palazzo Madama a due anni dall’inizio della legislatura, a Montecitorio a due anni dall’insediamento delle commissioni stesse. In teoria, dunque, andrebbero rinnovate prima le 14 del Senato e poi le corrispondenti alla Camera. Ma è quasi certo che il rinnovo sarà complessivo, a giugno. “O si fa un ragionamento su un pacchetto completo, tenendo conto di tutti gli equilibri della maggioranza, oppure la partita rischia di complicarsi”, raccontano dal Pd. E se c’è una cosa di cui il premier Conte non ha bisogno sono nuove tensioni su posti da assegnare.

Il rinnovo delle commissioni, infatti, è importante perché dovrà riequilibrare il quadro secondo la nuova maggioranza, dato che le attuali presidenze sono il frutto della precedente, quella gialloverde. Le Lega, per dire, vanta ben dieci presidenze (tra cui Claudio Borghi alla Bilancio della Camera e Stefano Borghesi alla Affari costituzionali del Senato) che dovrà lasciare a vantaggio di Pd, Italia Viva e Leu. Mentre non è ancora chiaro se i pentastellati riusciranno a mantenere le 15 presidenze attuali o se dovranno cedere qualcosa. Il Pd, per esempio, sembra orientato a ridiscutere tutto. Nel frattempo trapelano i “desiderata” di Italia Viva, tutti alla Camera: Luigi Marattin alla Bilancio, Maria Elena Boschi agli Affari costituzionali (decisiva perché dovrà gestire il cambio dei collegi post referendum sul taglio dei parlamentari), Raffaella Paita ai Trasporti e Lucia Annibali alla Giustizia. Alla fine Renzi dovrà accontentarsi di 2 o 3. Cinque, invece, quelle che andranno al Pd. Una delle quali potrebbe essere la Lavoro del Senato, con Tommaso Nannicini, ma si punta pure alla Bilancio, con Dario Stefàno. Mentre per i dem, a Montecitorio, potrebbero entrare in partita Lia Quartapelle, Debora Serracchiani e Piero De Luca. Uno o due, invece, i posti per Leu, tra cui la commissione Giustizia del Senato, con Pietro Grasso.

Insomma, i giochi si faranno più in Parlamento che nel governo. Dove il rimpasto sembra un’ipotesi sempre più remota. E comunque il rinnovo delle presidenze farà gioco a tutti i contrari (Conte in primis) a mettere mano alla squadra di Palazzo Chigi. Insomma, tutto ciò che non verrà concesso nell’esecutivo potrà venir bilanciato nelle commissioni. “Meglio una presidenza di commissione di peso (Aff. Cost., Bilancio, Esteri) che un sottosegretariato leggero”, si dice in Parlamento. Dove ora ci sono 13 presidenze da assegnare. Comprese le 2 dove siedono Laura Garavini di Iv (Difesa del Senato, subentrata al posto della leghista Donatella Tesei, eletta governatrice in Umbria) e Stefano Collina del Pd (Sanità di Palazzo Madama, dove prima stava Pierpaolo Sileri, ora viceministro alla Salute).

Le accuse a Fontana scatenano la Lega. E pure Speranza e Pd

Se lo avessero lasciato parlare, l’avrebbero pure sentito difendere il loro collega di partito, Luca Zaia. “Rispettiamo il suo operato”, avrebbe detto di lì a poco il 5stelle Riccardo Ricciardi del presidente leghista del Veneto: “Bastava copiarlo”. Ma le urla sono iniziate appena ha pronunciato quella parola: “Lombardia”. L’ex viceministro Rixi con la mascherina calata, il grido dai banchi della Lega: “Buffone”, fino alla rissa al centro dell’emiciclo, alla faccia del distanziamento sociale. Ma a sera, dopo aver visto e rivisto il video del suo intervento alla Camera, il deputato M5S ancora non si spiega tanto clamore: “Possiamo dire che è andato tutto bene? Possiamo dire che la delibera che mandava i malati di Covid nelle Rsa è ordinaria amministrazione? Possiamo dire che l’ospedale in Fiera che ha ospitato solo 25 pazienti è un errore politico?”. La buriana intorno non si è ancora fermata. “Fake news”, le bolla il governatore lombardo Attilio Fontana, nel giorno in cui la Procura di Milano indaga sulla struttura realizzata da Guido Bertolaso (Ricciardi aveva parlato di “tasse”, mentre è frutto di donazioni private). Matteo Salvini scomoda il capo dello Stato per dirsi “amareggiato” dagli attacchi contro la Regione a guida leghista più colpita dal Covid-19. In mattinata era stato l’ex sottosegretario Giancarlo Giorgetti, intercettato dall’agenzia Dire, a lamentarsi con il ministro della Salute Roberto Speranza di essere stato tirato in ballo per la sua teoria secondo cui “dai medici di base non va più nessuno”: “Qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga”, tuonava il leghista, prima di sentirsi rispondere dall’esponente del governo in quota LeU: “Hai ragione, che ti devo dire? Hai ragione”.

Un refrain, quello dei “toni sbagliati”, che ha tenuto banco tutto il giorno tra i giallorosa. “Risultato dell’intervento incendiario del collega del M5S alla Camera: peggiorare il clima in vista della conversione di decreti fondamentali per il Paese e rafforzare le opposizioni più estreme della destra. Ne valeva la pena?”, è l’analisi del vicesegretario del Pd, Andrea Orlando. Tra i dem si distingue l’europarlamentare (milanese) Pierfrancesco Majorino: “Insopportabile questo giochino per cui se critichi la gestione scellerata di Fontana sei contro la Lombardia: è proprio il contrario, la vuoi salvare”. Da Palazzo Chigi negano qualsiasi irritazione, che pure – va detto – era filtrata, perché proprio ieri il premier aveva rinnovato l’appello alla distensione con l’opposizione. Ma la consegna dei toni bassi, se anche ci fosse stata (“Io non condivido mai gli interventi dei deputati”, ha detto il premier per rispondere alle accuse di aver “aizzato” i 5Stelle), non era certo stata recepita dal Movimento. Che rivendica l’attacco frontale, pianificato da giorni. Perché “non siamo più in apnea – spiega al Fatto Ricciardi – e ora che cominciamo a mettere fuori il naso dall’acqua è il momento di vedere come sono andate le cose in questi due mesi: anche perché se siamo chiamati a ripensare un modello di sanità, dobbiamo poter valutare quale modello ha attutito il colpo e quale no”. Le critiche degli alleati non lo toccano: “È legittimo pensare che avrebbero usato altri toni: ognuno ha la sua storia. Ma io non ho chiesto mica un processo sulla pubblica piazza. Ho detto che ci sono errori incontrovertibili nella gestione dell’emergenza in Lombardia, non certo criticato i medici o i cittadini lombardi. Quando l’opposizione critica Conte sta criticando il governo o tutti gli italiani?”.

I tentativi di rimettere in fila quello che è successo faticano a trovare spago. E a fine giornata il deputato M5S può vantare una serie di appellativi che vanno dallo “sciacallo” (il leghista Rixi) al “coglione”, come lo ha ribattezzato Enrico Mentana. Salvo poi cancellare il post e invitarlo al tg delle 20.

Conte dà una carezza a Renzi e un bel ceffone ai banchieri

Giuseppe Conte pronuncia la parola “crisi” sette volte, si concede un passaggio tutt’altro che morbido sulle banche (“Possono e devono fare di più”), ma alla fine, tra le righe dei suoi discorsi di ieri in Parlamento, si fanno notare soprattutto gli zuccherini per Matteo Renzi. Il segnale, se non di una pace, almeno di un armistizio politico tra il presidente del Consiglio e il capo del più piccolo dei partiti di maggioranza (ma con una truppa di senatori che può mandare a casa il governo anche domattina).

Il giorno dopo il salvataggio del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, Conte nelle sue informative è prodigo di quei “segnali” che Renzi e Italia Viva gli avevano chiesto per andare avanti insieme. Il più plateale è il passaggio sullo “sblocca cantieri”: “Stiamo lavorando – ha detto il premier a Montecitorio – a un nuovo decreto legge sulla semplificazione burocratica, per dare all’Italia uno choc economico senza precedenti, in particolare sulle infrastrutture”. Conte ci tiene a sottolineare che l’impulso è renziano: “Secondo tutte le forze di maggioranza occorre attivare le opere pubbliche e alcune hanno già enunciato alcuni articolati che troveranno spazio nel decreto legge”. Dice “alcune”, parla di Italia Viva. Un’altra carezza è per la ministra renziana Bellanova, il cui lavoro viene adeguatamente sottolineato quando Conte parla della regolarizzazione dei migranti. Un passaggio che fa imbufalire la Lega e apre un crescendo di ostilità che pochi minuti più tardi si trasforma in rissa.

Accade quando il grillino Riccardo Ricciardi prende la parola e attacca a testa bassa la Regione Lombardia del salviniano Attilio Fontana. Ironizza sulla gestione della crisi, prende in giro Giancarlo Giorgetti e la sua uscita sui medici di famiglia, poi stuzzica il governo lombardo: “Lei, signor presidente del Consiglio, doveva fare come Gallera (assessore di Fontana alla Sanità, ndr), che in conferenza stampa si presentava puntuale e annunciava un ospedale per il quale hanno speso 21 milioni per 25 pazienti”.

I deputati della Lega schiumano, letteralmente. Uno distrugge il microfono davanti al suo seggio con un pugno. Scendono in massa verso il centro dell’emiciclo, dove sta parlando Ricciardi. È un assembramento a tutti gli effetti (alla faccia dell’aula allargata fino al Transatlantico per mantenere le distanze di sicurezza), potrebbe diventare qualcosa di più e di peggio, ma alla fine si riesce a evitare il contatto fisico.

Il nervosismo tracima dall’aula (Giorgetti in Transatlantico si sfoga con Roberto Speranza) e il clima di conflitto è ben palpabile pure nel pomeriggio al Senato. Qui sugli scudi è Matteo Salvini, che perde le staffe durante il suo intervento, quando alcuni colleghi di maggioranza gli ridono in faccia per i suoi eccessi retorici: “Ma cosa c’ha da ridere? Non rida, porti rispetto per chi a casa non ha una lira, non è pagato per ridere. Chiedo rispetto della maggioranza non per me ma per i 30mila morti e per chi non ha i soldi per vivere”. Se Conte aveva proposto un “patto con le opposizioni in tre punti” (con un’intervista al Foglio), i primi segnali non sono incoraggianti.

Tornando al premier, l’uscita più forte della sua informativa è quella sulle banche. È a loro che attribuisce le difficoltà e i ritardi nell’accesso al credito garantito dalle misure anticrisi dello Stato: “Il sistema bancario, che pure sta offrendo la sua collaborazione, può e deve fare di più”. Poi Conte è ancora più diretto: “È essenziale che le banche riescano ad allinearsi alle pratiche più efficienti, assicurando la liquidità garantita nei tempi più rapidi. Non possiamo tollerare che le imprese possano sentirsi private del denaro necessario per garantire la continuità economica delle proprie attività”.

Gli altri messaggi sono per gli italiani. Prima la carota: “Se il peggio è alle spalle lo dobbiamo ai cittadini che hanno modificato i loro stili di vita”. Poi il bastone: “In questa fase più che mai resta fondamentale il rispetto delle distanze di sicurezza e ove necessario l’uso delle mascherine. Non è il tempo dei party, della movida e degli assembramenti”. La Fase 2, dice Conte, è quella del “rischio calcolato”: “Siamo consapevoli che potrebbe favorire, in alcune zone, l’aumento della curva del contagio”, ma “è un rischio che dobbiamo accettare. Non possiamo fermarci in attesa di un vaccino”. E sulle vacanze estive ha una raccomandazione patriottico-paternalista: “Fatele in Italia”.

Divieto di verità

Le immonde gazzarre degli ultimi due giorni, prima al Senato contro il ministro Bonafede e poi alla Camera contro il deputato M5S Riccardo Ricciardi, proseguite sui social e sui giornaloni, dimostrano che in Parlamento tutto si può dire fuorché la verità. Chi la dice viene lapidato e crocifisso, mentre chi mente passa per un gran fico e la fa franca. L’altroieri, tentando di spiegare la loro scombiccherata mozione di sfiducia e il loro voto favorevole a quella opposta della Bonino, i forzisti accusavano il ministro di aver detto: “In carcere non ci sono innocenti”. Ma Bonafede non l’ha mai detto. Una sera, a Otto e mezzo, una giornalista di Repubblica gli contestò la legge blocca-prescrizione per via degli “innocenti che finiscono in carcere”. Lui, stupefatto, rispose: “Cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere…”. Sottinteso: “…con la blocca-prescrizione”. Com’è noto, in carcere si può finire per espiare una condanna definitiva, da sicuri colpevoli; o in custodia cautelare durante le indagini e/o il dibattimento, da “presunti non colpevoli”. E bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado non modifica di un millimetro né la custodia cautelare né l’espiazione della pena. Questo disse Bonafede: la pura verità.

Intanto la Bonino e l’Innominabile, smanettando su Google, han trovato un’intervista del 2016 rilasciata da Bonafede (all’epoca soltanto deputato M5S) a Repubblica e han pensato bene di non leggerne il testo, ma solo il titolo: “Se c’è un sospetto anche chi è pulito si dimetta”. L’Innominabile l’ha associato ai ministri-martiri dei governi Pd costretti alle dimissioni o destinatari di mozioni di sfiducia. Quelli che fu lui stesso a spingere o ad accompagnare alla porta. In ogni caso, in quell’intervista, Bonafede non parlava di ministri Pd, ma di una sindaca M5S a cui Grillo e Casaleggio avevano chiesto le dimissioni: Rosa Capuozzo di Quarto (Napoli), che non era indagata, ma non aveva denunciato le pressioni di un consigliere M5S eletto con i voti di un presunto boss locale (ed espulso). Bonafede, in tutta l’intervista, non diceva mai la frase inventata nel titolo di Repubblica e citata dal duo Bonino-Innominabile (“Se c’è un sospetto anche chi è pulito si dimetta”). Diceva invece che “per il M5S i voti della camorra, anche se non determinanti…, sono irricevibili. Abbiamo … mandato via per tempo il consigliere indagato, ora chiediamo un passo ulteriore… Ci sono forti ombre sui voti dati a un nostro consigliere. Contro il voto di scambio noi ci battiamo quotidianamente senza se e senza ma. Facessero gli altri quel che abbiamo fatto noi”.

Ormai funziona così: si inventano frasi mai dette, poi si chiama chi non le ha dette a discolparsi e, se quello esprime il suo vero pensiero, lo si accusa di incoerenza.
Ieri, alla Camera, Ricciardi ha messo in fila fatti e dati incontestabili sulla Caporetto della Regione Lombardia e della sua “sanità modello”, record mondiali di contagi e morti da Covid-19: lo smantellamento della medicina territoriale; i tagli di 25 mila posti letto in 20 anni; il dirottamento del 40% dei fondi pubblici alla sanità privata; gli scandali di Formigoni; le scemenze di Giorgetti al Meeting di Cl 2019 (“Chi ci va più dal medico di base? È finita quella roba lì”); la farsa del Bertolaso Hospital in Fiera ormai rinnegato dallo stesso padre e indagato dai pm; la famigerata delibera di Fontana&Gallera per trasferire i malati nelle Rsa, con strage di anziani incorporata. Parole confermate dagli Ordini dei Medici lombardi, a cui si sarebbe potuto aggiungere che dalla riapertura di lunedì i medici di base hanno segnalato 3.157 casi sospetti di contagio alle Ats della Lombardia, che hanno effettuato appena 25 tamponi (a Milano 9 su 603 casi). Ma quelle parole, essendo vere, hanno scatenato l’ira funesta dei forzaleghisti e di insigni commentatori. Salvini le spacciava per “infamie contro cittadini e medici lombardi” (mai citati). Giorgetti per un’offesa “ai nostri morti” (uccisi anche dalle politiche del centrodestra) e pretendeva che qualcuno (il Duce?) “metta in riga i grillini” (se no?). E il ministro Speranza, incredibilmente, gli dava ragione.
Si dirà: per fortuna poi ci sono i giornali che mettono le cose a posto. Infatti su Repubblica Stefano Cappellini ha scritto un pezzo che sarebbe parso un tantino eccessivo anche sul Giornale. Dopo aver squalificato 44 anni di battaglie del suo fu giornale sulla questione morale come “giustizialismo”, “cultura del sospetto”, non “compatibile con una vera sinistra dei diritti” e tipica dei 5Stelle, ha smascherato “il pm filosofo della teoria e guru dell’abbecedario M5S”: Davigo. Il quale, a suo dire, avrebbe dichiarato che “non esistono innocenti, solo colpevoli che l’hanno fatta franca”. Peccato che Davigo non l’abbia mai detto. Poi ha attribuito a Bonafede le frasi “Non ci sono innocenti in galera” e “Anche uno pulito deve dimettersi se è sospettato”. Peccato che Bonafede non le abbia mai pronunciate. Ma, senza le tre fake news, il bel tomo non avrebbe potuto imbastire il suo temino dal titolo “Bonafede salvo, le sue idee no”. Dove “le sue idee”, naturalmente, sono quelle inventate da Cappellini. Poi tutti a denunciare le fake news dalla Russia con furore.

“Gli autori sono i miei genitori, ma il mio maestro è il pubblico”

L’abbiamo amata nel ruolo di Agrado in Tutto su mia madre di Almodóvar. Con il magnetico sguardo dalle profondità oceaniche, Antonia San Juan è tornata al cinema italiano in Istmo, firmato da Carlo Fenizi, regista pugliese che con la sua quarta opera continua a “sfidare la realtà, a sfuggirle, per poi provare a comprenderla”. È lui a spiegare la scelta di un titolo forte come la potenza simbolica della sua storia, “metafora perfetta di separazione e unione che rivela quanto qualunque barriera interiore non riesca a bloccare l’impeto dell’emozioni”. E racconta di un’estasi registica vissuta con Antonia, dopo aver creato per lei un personaggio che porta il suo nome ed è specchio dell’anima sospesa del protagonista Orlando (Michele Venitucci).

Cosa l’ha convinta ad accettare il ruolo ?

Era destino che accadesse. Ho apprezzato molto la sceneggiatura e con Carlo si è stabilita subito una connessione speciale. È importante sentire la fiducia e l’ammirazione. Quando questo accade è naturale consegnarsi all’altro.

Un paradosso che questo film esca in un tempo (di pandemia) in cui ci sentiamo tutti ai confini delle nostre esistenze…

Una casualità incredibile perché il tema che suscita grande riflessione riguarda due tipi di confinamento. Quello autoindotto del protagonista, per il quale il virus diventa il fattore umano: ombra e proiezione di ogni paura. E quello indotto dalla realtà esterna, che produce una condizione di prigioniera al mio personaggio, la cui sedia a rotelle non le impedisce di celebrare la vita.

Il protagonista è ostaggio non solo della sua casa dove lavora come traduttore, ma anche dei social che utilizza come influencer.

Lui è prigioniero di gabbie mentali. Lei gode di una libertà che va molto oltre la circostanza fisica e diviene esempio per Orlando, opponendosi alla sua incapacità di avanzare nella vita nel momento in cui rifiuta di lavorare con chi non ha la capacità di essere libero.

Che esperienza è stata girare tra Foggia e Lesina, con cast e maestranze pugliesi ?

Ho un ricordo bellissimo di tutte le persone che hanno lavorato sul set, emozioni che ogni volta che ricordo, mi lasciano senza parole.

Le mancava il cinema italiano?

Sono cresciuta con Una giornata particolare, Giulietta degli Spiriti, La ciociara, ho adorato la Loren, la Magnani e la Cardinale. Sento nostalgia dell’Italia, tanto da essermi convinta di aver avuto in una vita precedente – pur non avendo questo tipo di fede –, un contatto fortissimo con questo Paese. Anche l’esperienza con Salvatores in Amnesia è stata la conferma di un’attrazione per il cinema italiano che non è mai finita.

Ha lavorato anche nel teatro e in tv…

Ho imparato a unire le varie discipline: la televisione è necessaria per avere popolarità, ma il teatro è da sempre un’autentica passione. L’essere stata poi anche regista e sceneggiatrice mi ha consentito di essere l’attrice che desideravo essere.

Fenizi dice di lei che è un’attrice in ascolto rispetto alla vita…

È la dote più importante per un interprete. Gli autori sono stati i miei genitori, ma il primo vero maestro è stato il pubblico. Se si ha la capacità di ascoltarlo, guida alla verità della scena.

Un’idea sul pubblico del futuro ?

Ho imparato a vivere come tutti nell’incertezza, ma soprattutto a non avere paura. Si pensava che il cinema fosse in crisi e poi sono nate le piattaforme digitali. È bene rimanere al passo con i tempi.

Che Istmo – disponibile sulla piattaforma Chili – sia dunque per ognuno occasione per riflettere sul grado di prigionia, libertà o felicità che si vivono.

Lo sarà certamente.

Naomi fa 50: anni, sfilate, sputi, flirt e sesso sicuro. Al telefono

Se pensiamo a un ideale di bellezza moderna, intriso però di tutte le contraddizioni della condizione umana vip, si materializza lei: Naomi Campbell, che domani compie 50 anni, e chi lo direbbe. Splendida e altera, gambe vertiginose e aria post-fatale, 86-61-86 e 175 centimetri di puro sex appeal. Sempre richiestissima dalle passerelle e dalla pubblicità. Falcata felina e cuore di ghiaccio, che brucia all’improvviso. L’inferno, e poi il paradiso. Semidea cerebrale e istintiva, scontrosa e capricciosa, capace di sfarzi immani e di cadute di stile ai limiti della sopportazione terrena. Eppure è impegnata per i diritti, il sociale, e si batte contro la povertà in Africa.

Nei suoi voli radiosi, o quando precipita, è l’ultima grande diva. Un’icona pop a 360 gradi che ci accompagna da più di trent’anni. Dai tempi in cui con Claudia Schiffer, Cindy Crawford, Kate Moss, Linda Evangelista e Christy Turlington rivoluzionò la pratica e la mistica dell’alta moda. Le definirono top model: occuparono le riviste, gli spot e l’immaginario collettivo, e con loro il défilé diventò un palcoscenico autosufficiente, luogo strategico della società dello spettacolo globalizzata dopo il crollo del Muro di Berlino. Le si chiamava solo per nome, “Claudia”, “Linda” e non era mai successo prima. Con una differenza: se dici Naomi, ancora adesso non puoi nutrire dubbi, il cognome è sottinteso.

La Venere Nera continua a far parlare di sé. Nata a Londra il 22 maggio 1970, in un quartiere periferico, da una giovanissima ballerina di origini giamaicane, già a 16 anni si prese la sua prima copertina. Il boom arrivò all’alba dei 90, grazie al ménage artistico con Gianni Versace. Naomi divenne testimonial delle più popolari case di moda. Seguirono ineluttabili epifanie televisive, cinematografiche e discografiche: a un certo punto si mise persino in testa di fare la cantante. Oggi il suo patrimonio si aggirerebbe intorno ai 60 milioni di dollari e anche questo conta, nel pesare la lungimiranza di un personaggio dello showbiz. Una vita costellata di alti e bassi, sovente sul filo del rasoio, la sua. Nel 1999 entrò in un programma di riabilitazione per le dipendenze: “Vivevo questa vita viaggiando per il mondo e incontrando persone che mi offrivano qualsiasi cosa. Ma la droga è molto brutta. Sono una sopravvissuta. Non ho mai avuto un’esistenza immacolata e non pretendo di averla”, confessò in seguito. La Campbell è vegetariana, crede nei digiuni intermittenti, non ha avuto figli ed è ipocondriaca. In epoca non sospetta fu immortalata mentre sanificava il sedile dell’aereo dove avrebbe dovuto poggiare il fondoschiena perfetto. Sembra che lo faccia di norma, e che ad alta quota abbia sempre indossato una mascherina. Il lockdown l’ha trascorso trincerata in casa, a lanciare geremiadi e appelli claustrofobici. E condividere i video del suo nuovo idolo italiano: il governatore campano De Luca. Quando le è toccato ri-ascendere in cielo non si è fatta trovare impreparata, compresa tuta e visiera protettiva. Anche se ancora non si è ben capito chi poteva contagiarla, visto che viaggiava da sola. E se scendendo sotto casa avesse incontrato un runner indisciplinato, povero lui: Naomi ha collezionato denunce per aver picchiato autisti, domestiche, colleghe, paparazzi.

Nel 2008 sputò a un poliziotto e fu rilasciata giusto su cauzione. Uno dei suoi ex, Matteo Marzotto, allora presidente di Valentino, rivelò scherzoso in tv: “Mi dava certe legnate… botte da orbi”. E di amori tempestosi, sul punto di sfociare in un matrimonio o nella dannazione eterna, la Perla Nera ne ha macinati a volontà. Da Jean-Claude Van Damme a Mike Tyson, da Adam Clayton (bassista degli U2) al ballerino Joaquin Cortes, da Robert De Niro a Robbie Williams. Uno degli ultimi è stato il 26enne Liam Payne, degli One Direction: lei l’ha mollato dopo quattro mesi. E poi magnati (come il nostro Flavio Briatore), campioni sportivi. Toy boys e maschi quasi âgée. Altrimenti, dichiarò una volta, c’è sempre il sesso telefonico. Sicuro, pulito e sovrannaturale. “Ne penso tutto il bene possibile. Ormai sono diventata bravissima in questo campo”.

C’è chi dice no…: “Organizziamoci, torniamo ai live”

Il Covid stacca la spina alla musica? Sì, no, forse. Le piccole imprese che ruotano attorno ai live non si arrendono, mentre manager e promoter di grido si rimboccano le maniche. Tutti giudicano perfettibile il decreto della presidenza del Consiglio, con quei paletti che paiono mine sul campo dei concerti. Dal 15 giugno mille posti distanziati per gli show all’aperto e 200 al chiuso, ma con mascherine, igienizzazione dei servizi igienici, sbigliettamento ai botteghini azzerato, aerazione, divieti per cibo e bevande, nessun contatto tra i musicisti. A chi conviene? I grandi agenti e impresari dei raduni da stadio e da festival si sono chiamati fuori con una nota di Assomusica, al cui interno pesano in modo decisivo i terminali italiani di multinazionali come Eventim e Live Nation. Ci si risente nel 2021, e se il concerto è solo (per ora) rinviato potete tenervi i biglietti; in caso di annullamento il Dpcm, all’art.88, prevede un “voucher” che offre la possibilità di assistere alla performance di altri musicisti, ma non di quello per cui avevate speso i soldi. Avete tempo 18 mesi con tutte le insidie immaginabili.

La trovata dei voucher “di governo” ha generato polemiche a non finire, mentre il Codacons minaccia un’azione collettiva per i rimborsi, anche attraverso le leve Ue. Così, dal de profundis della musica 2020, si è passati al “che fare”. Un’agenzia come Otr (nel carnet Diodato, Silvestri, Consoli, Gazzè) vuole tentare i concerti da mille posti. “Meglio che chiudere a lungo: vedremo quali dei nostri saranno pronti per questi tour”, annuncia Francesco Barbaro, patron di Otr. Ma sono i “piccoli” ad alzare il tiro: gli Stati Generali della Musica Indipendente ed Emergente, che riuniscono diecimila imprese e 50mila addetti ai lavori, chiedono un incontro urgente al Mibact per rivedere il decreto: ad esempio consentendo la ristorazione per i live “leggeri” dentro o fuori pub e locali, nelle piazze, perfino in eventi “a domicilio” con gli spettatori in ascolto dai balconi; e autorizzando band, cantautori, dj e busker a esibirsi con soluzioni antiassembramento. Ma le istituzioni dovrebbero concentrarsi sullo snellimento della burocrazia, sul credito d’imposta per i gestori, la scontistica sui diritti d’autore (è chiamata in causa la Siae) e la concessione del suolo a titolo gratuito. L’Emilia Romagna si sta muovendo, con un primo tavolo il 28 maggio. “Noi, indotto compreso, facciamo circolare lavoro per 300mila persone, con un volume d’affari da 500 milioni di euro”, precisa Giordano Sangiorgi, figura chiave del mondo della musica indipendente. “Quasi il 90 per cento degli eventi musicali riguarda le piccole imprese, ma è l’ora di lanciare un appello ai grandi nomi: aderiscano, pur simbolicamente, alle nostre iniziative per la salvezza di tutto il settore”.

Claudio Trotta, patron della Barley Arts e presidente di Slow Music (organizzatore italiano di Springsteen e del musical We will rock you) ha idee chiare: “Il decreto è formulato male: prematuro indicare la riapertura al 15 giugno. Sulla capienza, è insensato che il Dpcm non entri nello specifico degli assetti. Noi abbiamo elaborato un Protocollo con la collaborazione di professionisti e medici: a giorni mostreremo nel dettaglio come, da agosto, i concerti siano realizzabili in sicurezza anche per migliaia di persone, e consentendo la ristorazione. Lo sperimenteremo in tutta Italia: stiamo individuando le location e i partner adeguati. È sbagliato pensare che questa estate non ci sarà musica, è passata l’idea che senza big del rock e pop da stadio tutto taccia: invece si possono far riprendere anche teatro, danza, cinema. Quanto al voucher”, conclude Trotta, “è fondamentale per sostenere la filiera, a patto che i privati che lamentano di aver venduto tre milioni di biglietti rimasti in sospeso non chiedano pure aiuti di Stato”.

Sconsolato Mimmo D’Alessandro, che con la D’Alessandro e Galli organizza da 23 anni il Lucca Festival: “McCartney non potrà venire in Italia, ma non abbiamo voluto noi la pandemia. E chi ha detto che Paul non ci sarà nel 2021? Nel caso, il cliente potrà usare questo credito per godersi altre leggende internazionali, non dilettanti. Questo voucher l’ha introdotto il legislatore, nessuno l’ha chiesto. Io, di tasca mia, ho pagato anticipi per alberghi, aerei, allestimenti. E sostengo i miei dipendenti lasciati senza risorse dallo Stato”.

Libia: Usa e Regno Unito contro i mercenari di Putin

La gente di Tripoli li chiama semplicemente “i russi”, ma per il governo di Accordo Nazionale della Libia di Fayez al-Sarraj e riconosciuto dall’Onu, gli alleati chiave sul campo delle forze antagoniste di Khalifa Haftar sono agguerriti mercenari inviati dalla Società di sicurezza russa Wagner, di proprietà di un oligarca dell’entourage del presidente Vladimir Putin. Ma il Cremlino lo ha sempre negato, e continua a farlo anche dopo la pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite che ne ha confermato la presenza. Subito dopo aver preso visione del testo, anche Regno Unito e Stati Uniti hanno denunciato il pericolo rappresentato dai soldati di ventura “wagneriani” ed esortato la Russia a fermare nuovi arrivi. Il rapporto, riservato, ha rivelato anche il dispiegamento di combattenti di Damasco inviati dal dittatore siriano Bashar al-Assad (leggasi Mosca) a sostegno di Haftar.

Ricompaiono dunque all’orizzonte di Sarraj, sebbene per ora a parole, gli Stati Uniti, che accusano Haftar di voler conquistare Tripoli con la complicità russa e non “di volerla liberare”, come l’uomo forte della Cirenaica continua a ribadire da più di un anno. Ovviamente si è accodata con celerità la Gran Bretagna, che deve fare asse sempre più stretto con la Casa Bianca dopo la Brexit. Jonathan Allen, vice- rappresentante permanente del Regno Unito presso l’Onu, ha accusato la Wagner “di esacerbare il conflitto e prolungare la sofferenza del popolo libico”. Ha anche invocato l’embargo delle armi delle Nazioni Unite sulla Libia che è in atto dal 2011, aggiungendo: “Voglio esortare tutti i membri del Consiglio di sicurezza a rispettare le risoluzioni di questo consiglio, per il quale essi stessi hanno votato”. L’ambasciatrice degli Stati Uniti presso l’Onu, Kelly Craft, ha puntato il dito contro “tutti gli attori stranieri coinvolti in Libia, inclusi i mercenari del Gruppo Wagner”. La controparte russa, Vassily Nebenzia, ha respinto le affermazioni come “speculazione” allo scopo di screditare la politica della Russia in Libia. Molti dei dati, specialmente per quanto riguarda i cittadini russi citati nel rapporto, sono semplicemente infondati. Non ci sono militari russi in Libia”. Il documento dell’Onu conferma anche che gruppi di miliziani siriani, sponsorizzati dalla Turchia, sono da mesi in Libia per difendere Tripoli. Il presidente turco Erdogan è l’alleato più granitico di Sarraj e da quando ha inviato anche addestratori dell’esercito turco e droni armati, gli uomini di Haftar hanno iniziato a perdere le città della costa ovest della Tripolitania, al confine con la Tunisia, mentre l’assedio di Tripoli resta in stallo.

Dubai-Tel Aviv il volo storico non basta all’Anp

Mentre le relazioni fra Israele e i Paesi arabi del Golfo Persico segnano in maniera visibile una vetta assolutamente impensabile soltanto un paio di anni fa, quelle con i palestinesi e con l’Anp di Abu Mazen sono a un passo dalla rottura. Martedì sera è stato scritto un nuovo capitolo della Storia fra Israele e le petro-monarchie del Golfo quando un grosso aereo cargo della compagnia Etihad ha toccato terra all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. È stato il primo volo commerciale arabo nei 70 anni di vita dello Stato di Israele a unire in modo diretto Abu Dhabi e Tel Aviv.

Il cargo della compagnia degli Emirati Arabi Uniti, dipinto di bianco e privo di insegne, ha reso pubblica una cooperazione fra Israele e Arabi del Golfo, che è attiva sotto traccia da diversi anni. I paesi arabi sunniti non hanno legami diplomatici formali con Israele, ma hanno iniziato a cooperare sempre più apertamente di fronte al pericolo rappresentato dall’Iran.

Su questa base aziende israeliane hanno fornito ai Paesi del Golfo sofisticati software, ufficialmente per la lotta al terrorismo ma in realtà usati per tracciare e poi eliminare gli oppositori degli attuali regimi, come avvenuto nel caso del giornalista Adnan Kashoggi, spiato per oltre un anno prima di essere trucidato nel consolato dell’Arabia Saudita in Turchia. Questi rapporti suscitano reazioni molto controverse tra il pubblico arabo, in particolare perché i palestinesi rimangono senza uno Stato nonostante decenni di discussioni.

Fra i primi a diffondere la notizia del volo l’ambasciatore israeliano all’Onu Danny Danon, che si è augurato che dopo questo collegamento commerciale si aprano rotte anche per i passeggeri. Nickolay Mladenov, inviato di pace Onu in Medio Oriente, si è felicitato per la consegna degli aiuti sanitari da parte degli Eau. A Ramallah hanno tirato un sospiro di sollievo. Né la Striscia di Gaza né la Cisgiordania hanno aeroporti, quindi tutti i carichi destinati al territorio palestinese devono entrare attraverso Israele. La pandemia ha colpito anche le aree palestinesi, un centinaio i casi conclamati a Gaza, quasi quattrocento quelli in Cisgiordania. Una decina le vittime.

Mentre nelle relazioni con gli altri arabi sembrano aprirsi nuovi orizzonti, quelle con l’Anp di Abu Mazen toccano il minimo storico, a un passo dalla rottura. Il presidente palestinese ha annunciato martedì che l’Autorità palestinese porrà fine a tutti gli accordi e intese siglati con Israele e gli Stati Uniti, compresi gli accordi di sicurezza, alla luce dell’intenzione di Israele di annettere parti della Cisgiordania. Il piano Trump, che è stato annunciato lo scorso gennaio, prevede l’annessione da parte di Israele di Gerusalemme Est e del 30% circa della Cisgiordania, stabilisce un elenco di condizioni per la creazione di uno Stato palestinese sulla terra rimanente oltre la “linea verde”. L’accordo del secolo – come lo definisce il presidente Trump – ha suscitato le perplessità dell’Unione europea, l’opposizione di Russia e Cina. Re Abdullah di Giordania – l’altro giorno – ha ammonito Israele sui pericoli e il caos che una tale decisione potrebbe scatenare.

Nel quinto governo di Benjamin Netanyahu, che ha giurato l’altro giorno, non sembrano esserci difficoltà nell’implementare il piano il prima possibile, compresi i nuovi alleati di Kahol Lavan: i ministri della Difesa Benny Gantz e degli Esteri Gabi Askenazi. In novembre si voterà negli Usa e alla Casa Bianca potrebbe arrivare Joe Biden, il candidato democratico è decisamente contrario al Piano Trump. Il presidente ha convocato un vertice a Ramallah per notificare le sue decisioni alla leadership palestinese. Abu Mazen intende interrompere il coordinamento, ma non ha ancora “chiuso la porta”. Le forze di sicurezza dell’Anp – che molto hanno fatto contro il terrorismo – potrebbero abbassare il livello di impegno con le loro controparti in Israele, ma non è ancora possibile determinare se il coordinamento sarà completamente interrotto.

Trump e il “caso ventilatori”: ecco la ferocia del capitalismo

La portata di quest’epidemia è sorprendente, anzi scioccante, ma non la sua manifestazione. Né il fatto che gli Stati Uniti siano il Paese che ha risposto peggio alla crisi. Da anni gli scienziati lanciavano l’allarme su una possibile pandemia, e con particolare insistenza dall’epidemia di Sars del 2003. (…) Quello sarebbe stato il momento giusto per (…) intraprendere delle iniziative per rafforzare difese e metodi di trattamento sanitario in vista della probabile insorgenza di un virus di quel tipo. Ma la conoscenza scientifica non basta. Ci vuole qualcuno che prenda in mano la situazione e agisca.

Tale opzione è bandita dal patologico ordinamento socioeconomico contemporaneo. I segnali del mercato erano chiari: non c’è profitto nel prevenire una catastrofe futura. Il governo sarebbe potuto intervenire, ma la dottrina dominante lo vieta: “Il governo è il problema” ci disse all’epoca Reagan con il suo sorriso smagliante. Il che significa che il processo decisionale deve essere trasferito senza riserve al mondo degli affari, dedito al profitto privato e svincolato dall’influenza di coloro che potrebbero essere interessati al bene comune.

Gli anni successivi hanno iniettato una dose di ferocia neoliberista nell’incontrollato ordine capitalista e nella distorta forma di mercato che da esso scaturisce. La gravità della patologia neoliberista è testimoniata dalla carenza di ventilatori, uno dei fallimenti più drammatici e perniciosi e che è tra i maggiori ostacoli alla gestione della pandemia.

Avendo previsto questo problema, anni fa il Dipartimento della salute e dei servizi umani affidò a una piccola azienda la produzione di ventilatori poco costosi e facili da usare. Ma a quel punto è intervenuta la logica capitalista. L’azienda fu acquistata da una grossa multinazionale, la Covidien, che mise da parte il progetto. Nel 2014, senza aver consegnato nessun ventilatore al governo, i capi della Covidien fecero sapere all’agenzia federale incaricata della ricerca biomedica di voler rescindere il contratto. I dirigenti si giustificarono dicendo che non era sufficientemente redditizio per la società. Senza dubbio è vero. (…)

Trump negli anni della sua presidenza ha sempre reagito alla maniera che ormai conosciamo: definanziando e demolendo i settori più rilevanti del governo e seguendo alla lettera le istruzioni dei suoi padroni aziendali per eliminare le norme che regolamentano i profitti ma salvano vite umane; e intanto mettendosi alla testa della folle corsa verso l’abisso della catastrofe ambientale, sicuramente il suo crimine maggiore. (…) All’inizio di gennaio c’erano pochi dubbi su ciò che stava accadendo. Il 31 dicembre, la Cina ha informato l’Organizzazione mondiale della sanità del propagarsi di sintomi simili alla polmonite con eziologia sconosciuta; il 7 gennaio ha fatto sapere all’Oms che i suoi scienziati ne avevano identificato la fonte in un ceppo del coronavirus e sequenziato il genoma, e ha poi messo a disposizione del mondo scientifico queste informazioni. A gennaio e a febbraio, l’intelligence statunitense ha cercato in tutti i modi di comunicare con Trump, ma invano. (…)

Trump non se n’è rimasto in silenzio, in ogni caso. Ha rilasciato un fiume di dichiarazioni fiduciose per informare i cittadini che era solo un banale raffreddore; che lui aveva tutto sotto controllo; che la sua gestione della crisi è da dieci e lode; che la situazione è grave ma che lui sapeva prima di chiunque altro che si trattava di una pandemia; e tutto il triste spettacolo che ne è seguito. (…) A coronamento di questa condotta sconcertante, il 10 febbraio, quando il virus già imperversava nel Paese, la Casa Bianca ha reso nota la sua proposta di bilancio annuale, che estende ulteriormente i drastici tagli in tutti i principali settori del governo legati alla salute (in realtà in quasi ogni comparto che sia al servizio della popolazione) e che contestualmente incrementa i finanziamenti alle cose davvero importanti: il settore militare e il muro tra Stati Uniti e Messico.

Uno degli effetti di questa politica dei tagli è che i test sono arrivati in ritardo e in numero sorprendentemente limitato, ben al di sotto degli altri paesi, rendendo impossibile l’attuazione delle strategie con tamponi e tracciamento che hanno contenuto l’epidemia nelle società funzionanti. Persino ai migliori ospedali mancano le attrezzature di base. (…)

Sarebbe facile dare la colpa a Trump per la disastrosa risposta alla crisi. Ma se vogliamo evitare future catastrofi, dobbiamo allargare lo sguardo. (…) Chi vuole ricostruire una società vivibile a partire dal disastro che questa crisi lascerà dietro di sé, farebbe bene ad ascoltare l’appello di Vijay Prashad: “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”.