“Mittal distrugge l’Ilva, il governo si muova”

Il disastro dell’Ilva di Taranto è in un dato inoppugnabile: “Il gruppo è stato portato al livello più basso di produzione della sua storia”. Rocco Palombella, segretario della Uilm, si appella al governo che ha convocato tutti per lunedì. Il Fatto ha rivelato che ArcelorMittal se ne va e l’esecutivo chiede una penale di 1 miliardo. Rumors confermati ieri.

Qual è la situazione dell’Ilva?

Disastrosa, i lavoratori sono disperati, i 10.700 del gruppo più 1.700 in capo all’amministrazione straordinaria.

Mittal se ne va?

Non stupisce, le tracce sono evidenti, hanno usato la scusa del Covid. Prima hanno chiesto la cassa integrazione per tutti i lavoratori, dicendo “tranquilli è solo il numero massimo”. Poi hanno fermato l’Altoforno 2 con la scusa di fare lavori che non hanno fatto. Poi hanno fermato tutta l’area a freddo, cioè tutti gli impianti legati al mercato. Non ha una spiegazione industriale: nel mondo il settore è crollato del 30%, non del 100%. Ilva non vende più. Gli stabilimenti liguri sono fermi perché Taranto non gli fa arrivare i coils. Hanno portato la produzione al minimo storico, poco sopra la soglia minima di sicurezza e bloccato anche l’ambientalizzazione lasciando nella disperazione migliaia di lavoratori di aziende terze che lavorano sugli investimenti per ridurre l’impatto inquinante.

A marzo governo e Mittal si sono accordati per chiudere il contenzioso e riscrivere il contratto siglato nel 2017.

Non hanno mai consultato i lavoratori, hanno fatto tutto da soli. Ci hanno detto che entro maggio avremmo discusso il piano industriale di Mittal. Non è avvenuto, perché non esiste. Sono andati avanti a trattativa privata, abbiamo chiesto sempre incontri e solo ora ci hanno concesso di riceverci lunedì.

Non avete parlato con i manager di Mittal?

Non ci sono, non dicono nulla. L’ad Morselli è sparita, neanche mi risponde al telefono.

Cosa chiederete al governo?

Prendano atto che Mittal non vuole rilanciare Ilva, devono imporgli una grande penale e poi mettere in piedi una struttura manageriale con la presenza dello Stato per poter evitare il collasso dell’Ilva e un suo rilancio. Per quello servono almeno 2 miliardi.

Per molti era un destino scritto fin dall’arrivo di Mittal nel 2017.

Avevano due opzioni: rilanciare Ilva o distruggerla. Alle prime difficoltà del mercato hanno scelto la seconda. A luglio 2019, un anno dopo la firma, avevano già chiesto la cassa integrazione, violando il contratto. A novembre scorso, hanno tentato di spegnere gli impianti dimostrando che erano pronti a distruggere il siderurgico e non farlo usare più a nessuno.

Dai 5S no alla garanzia statale ad Atlantia. Ma il Tesoro inizia a trattare coi Benetton

Capita che nel governo si ci siano line divergenti. E che, come spesso capita con i giallorosa, ognuno vada per sé. È per questo che la richiesta di Atlantia – la holding controllata dai Benetton, che a sua volta controlla Autostrade per l’Italia (Aspi) – di poter usufruire della garanzia pubblica su un prestito di 2 miliardi rischia di terremotare la maggioranza, ben più dei malumori per il prestito garantito a Fiat Chrysler. “Domandare è lecito, rispondere è cortesia: No grazie”, ha detto ieri il viceministro allo Sviluppo Economico, Stefano Buffagni. Eppure qualcosa si muove . Al Fatto risulta che – al netto dei malumori dei 5Stelle – oggi al Tesoro la partita entrerà nel vivo con gli uomini di Atlantia. Ai primi di maggio la società ha deciso di chiedere 1,2 miliardi di prestiti garantiti dallo Stato tramite la Sace per la sola Autostrade, cifra che sale a quasi 2 se si considerano le controllate Aeroporti di Roma, Telepass e Pavimental. Come prevede il decreto liquidità, per queste operazioni la garanzia pubblica va autorizzata con decreto del ministero dell’Economia, al termine di un procedimento che coinvolge le banche prestatrici, la società coinvolta e i tecnici ministeriali, compresi quelli dello Sviluppo. La garanzia permetterà ad Autostrade di risparmiare molto sui costi di finanziamento, tenendo conto che ha un rating peggiore di quello dello Stato italiano. La scelta però è politicamente esplosiva. Da due anni il governo minaccia di togliere la generosissima concessione ad Autostrade, considerata responsabile del disastro del Ponte Morandi di Genova (43 morti). A marzo Aspi ha presentato un’offerta complessiva per chiudere la partita giudicata offensiva dal governo.

Atlantia motiva la sua richiesta con il fatto che il contenzioso ha portato Autostrade a non potersi più finanziare sul mercato. Eppure, grazie a una concessione di assoluto favore, negli ultimi 10 anni ha girato alla holding controllata dai Benetton otto miliardi di dividendi. Con un simile bancomat a disposizione, Atlantia ha lasciato che Aspi si appesantisse di debiti (oggi ne ha per 10 miliardi), dei quali garantisce oltre un terzo. Ora ha messo a disposizione una linea di credito di 900 milioni, ma usabile solo se non scatterà l’operazione con Sace.

Se questo avverrà, sarà la conferma che il governo ha deposto le armi con Autostrade. E la revoca della concessione, il cui procedimento non è mai stato davvero avviato, sparirà dal tavolo. Visto che porterebbe lo Stato a saldare i debiti dei Benetton.

Bonomi “bulgaro” ora cita Einaudi e vuole mani libere

Cita Luigi Einaudi al termine dell’intervento con cui viene eletto definitivamente presidente di Confindustria. Elezione che avrebbe fatto morire di invidia la vecchia Bulgaria comunista: 99,9% di consensi favorevoli con 818 voti a favore, nessun contrario e un buontempone che ha inviato una scheda nulla (il voto si è tenuto infatti a distanza, nessun’assemblea fisica per via del coronavirus).

La citazione con cui Bonomi conclude il proprio intervento è tratta dalle Lezioni di politica sociale del grande economista liberale nonché secondo (o primo se si considera De Nicola solo come capo dello Stato provvisorio) presidente della Repubblica italiana: “Non furono tanto i barbari a far cadere l’Impero Romano; ma l’impero era ormai marcio in se stesso; e una delle cause della decadenza interna era che i cittadini romani, a furia di promesse politiche di chi esercitava il comando, sdegnavano di essere lavoratori o soldati perché spinti dall’illusione di essere mantenuti dallo Stato… Noi dobbiamo guardare ad altro – continua Einaudi – a un punto di partenza comune che consenta a tutti di dispiegare talento ed energia per continuare nel lavoro e nelle imprese a realizzare avanzamenti e invenzioni, brevetti e nuovi prodotti e servizi. A questo ideale dobbiamo tendere”. “Oggi come allora – chiosa Bonomi – è proprio così: a questo dobbiamo tendere”.

La citazione è densa così come l’agenda del neopresidente infarcita di un nuovo laissez-faire con una punta di populismo industriale: lo Stato, “delle promesse ai cittadini”, si faccia i fatti suoi, non pensi di entrare negli affari delle imprese e queste, lasciate libere, saranno in grado di realizzare la ripartenza. A questo programma Bonomi ha già consacrato la propria azione pubblica in occasione del decreto Rilancio in cui ha conquistato l’abolizione, sia solo per un anno e per un numero limitato di aziende, dell’Irap. Un successo di cui il nuovo leader degli industriali è consapevole e che definisce la “politicità” della sua presidenza nel senso, ovviamente, della capacità di fare politica, soprattutto politica industriale e non certo di essere associato a un partito. Il “partito di Confindustria” è però più corposo e più rotondo di prima e, come dimostra l’elezione di ieri, ha generato un ricompattamento interno e, come confidano i collaboratori di Bonomi, un entusiasmo nuovo nell’associazione. Gli imprenditori sentono di essere tornati a giocare un ruolo e, soprattutto, di avere qualcuno che combatte per loro e quindi li rappresenta.

Lo spazio “politico” è dato dalla situazione di fragilità istituzionale, ma soprattutto dall’enorme partita che si è aperta per distribuire le risorse della ricostruzione post-Covid. Mai lo Stato è stato al centro di una contesa così rilevante, come ha notato correttamente Andrea Orlando polemizzando con la Fca e con i nuovi poteri imprenditoriali e editoriali.

Bonomi porta direttamente l’impresa dentro questo scontro in cui ci sono in ballo gli 80 miliardi già stanziati dal governo e gli almeno 100 che si renderanno necessari da qui a un anno (oggetto della partita europea). Rispetto al recente passato di Confindustria, Bonomi ha il pregio di delineare nuovamente uno “scontro di classe” reso simbolicamente anche dal giorno della sua elezione, il cinquantesimo anniversario dello Statuto dei lavoratori.

Si apre un periodo difficile per i sindacati che finora hanno scelto la strada dell’invito al dialogo e del “volemose bene”. Confindustria non intende proseguire sulla strada dell’appeasement e ogni qualvolta ci sarà bisogno di battersi per ottenere qualcosa sarà lì in prima fila. E con lui la nuova compagine di Confindustria fatta da un esecutivo di fedelissimi tra cui spicca Luigi Gubitosi, ad di Telecom o il “duro” Maurizio Stirpe, già Confindustria Lazio e ben inserito nella Lega calcio, con delega al Lavoro e alle Relazioni Industriali.

Questa Confindustria potrebbe piacere anche alla Fca di John Elkann, che dall’associazione uscì ai tempi di Sergio Marchionne. Se rientrerà dipende da cosa sarà effettivamente Fca Italia, ma per Bonomi quel rientro sarebbe sicuramente una bella scommessa.

“Su Fca Conte parli con Parigi. Il futuro è in mano francese”

Giorgio Airaudo, che pensano a Mirafiori del prestito di 6,3 miliardi da Intesa San Paolo? E che ne pensa la Fiom di Torino, la città dove si continua a dire Fiat invece di Fca?

Non è facile saperlo. Il gruppo è quasi tutto in cassa integrazione. La realtà è che gli operai di Fca stanno assistendo a una discussione surreale e preoccupante.

È sbagliato contestare una garanzia così ampia per chi ha la sede fiscale a Londra?

Sì, la vicenda della sede fiscale è vecchia e senza più rimedio. Bisognava sollevarla quando fu trasferita, invece di plaudire a Marchionne e a Elkann che, allora, era sotto tutela del primo. Marchionne, uno che aveva trattato con Obama, avrebbe potuto modificare le sue scelte. Oggi siamo di fronte a qualcosa di diverso.

Cerchi di spiegarlo.

L’emergenza sanitaria ha portato alla ribalta la fusione con i francesi di Peugeot che, mesi fa, era stata quasi ignorata dal nostro governo. Chi sono gli interlocutori con i quali discutere ora delle condizioni per quella garanzia, per esempio del mantenimento dell’occupazione in Italia? Elkann oppure i francesi e il governo Macron che è azionista di Peugeot?

Sarebbe poi così diverso?

Sì, perché cambierà tutto. Un po’ come per il gruppo Gedi, dopo che Elkann ha aggiunto Repubblica a la Stampa, con pezzi d’informazione che si sono messi a fare lobbying per Fca. Nel 2020, il controllo passerà nelle mani dell’ad Carlos Tavares, sarà francese anche il direttore finanziario e Parigi prevarrà nel consiglio di amministrazione. Mesi fa il governo non l’ha fatto, ma ora il premier Conte deve chiedere rassicurazioni in Francia.

Nel 2021 è fissato anche il famoso concambio tra il gruppo Psa e Fca che dovrebbe portare a Torino almeno 5 miliardi. È stato presentato come la compensazione per quel mercato Usa che i francesi non avevano. È così?

Io credo di più a chi dice che quel tesoro è il pagamento della rinuncia a comandare nel nuovo gruppo. Ed è proprio il dividendo verso Exor di quei 5 miliardi il vero oggetto della discussione legata al prestito. Chi l’ha capito meglio di tutti è Carlo Calenda, anche se quando era ministro non pretese da Fca un piano industriale credibile.

E come potrebbe giocarsi la partita tra Italia e Francia attorno a quei 6,3 miliardi di prestito?

Pretendendo garanzie sull’occupazione dai francesi prima di tutto e poi imponendo con chiarezza un blocco dei dividendi per tre anni, cioè la durata del prestito. E con la certezza che esso non riguarderà solo Fca Italia, ma anche la holding che ha la sede fiscale a Londra. Altrimenti, il prestito diventerà uno strumento utile per poter gestire proprio il dividendo straordinario per Exor.

Peugeot è davvero coinvolta nella querelle italiana?

Deve chiudere senza intoppi. Magari chiederà di diminuire il concambio, tenuto conto delle previsioni di un crollo delle vendite in Europa sino al 50%, ma deve approdare negli Usa. Anche i francesi sono interessati al prestito: è decisivo per i rapporti con Exor.

Non le sembra un po’ esagerata questa ricostruzione?

Per nulla. Servono garanzie sull’occupazione in Italia, serve una scelta etica da parte di Fca: nessun dividendo per tre anni. E serve stanare i nuovi padroni, i francesi, compreso lo Stato che è azionista di Peugeot: che cosa faranno degli stabilimenti italiani?

Sulla questione etica Intesa Sanpaolo e i giornali legati a Fca parlano dell’intera filiera dell’auto che può trarre giovamento dal prestito. È vero o no?

Questa è la vera esagerazione. Marchionne aveva già delocalizzato la maggior parte dell’indotto Fiat fuori dal nostro paese. Fca Italia poi, dalle voci che raccogliamo tra chi lavora per il gruppo, è – diciamo così – un pagatore lento: 120, 180 anche 210 giorni prima di saldare. E a qualcuno, in piena pandemia, è stato chiesto addirittura un ‘gesto generoso’: sconti su fatture già emesse. I francesi hanno sul loro territorio un indotto che è perfettamente sovrapponibile a quello di Fca e che può sostituirlo. Ci risulta che proprio Conte abbia sottolineato questo rischio nei suoi incontri con i vertici dell’azienda.

Una consiglio per Elkann?

Di fare come volle Marchionne quando fu presentata a Torino la nuova Ypsilon nel maggio 2011: lui e il giovane Elkann si presentarono con al bavero la spilletta che diceva Paid. Significava che avevano pagato, con 6 anni di anticipo, il debito col governo Usa per Chrysler. Ecco, dicano che entro tre anni restituiranno quello da 6,3 miliardi e che, nel frattempo, non incasseranno nessun dividendo.

Il Veneto continua a disboscare per il prosecco

L’assalto al tesoro del prosecco nel cuore delle colline di Conegliano e Valdobbiadene, dichiarate dall’Unesco patrimonio paesaggistico dell’umanità, è ricominciato. Con i timbri della legalità e le autorizzazioni regionali, ma comunque a dispetto delle assicurazioni politiche secondo cui gli alberi non sarebbero stati abbattuti per far posto alle vigne che valgono come l’oro. E che gli affari non avrebbero maramaldeggiato con l’integrità ambientale. Non credeva ai propri occhi il consigliere del Pd Andrea Zanoni, vicepresidente della commissione ambiente della Regione Veneto, alla prima uscita posto-pandemia in quell’angolo di paradiso che è Rolle di Cison di Valmarino, il primo borgo italiano tutelato dal Fai. Alcuni abitanti lo hanno condotto davanti a un cartello che marchia il confine della mutazione della natura per mano dell’uomo. C’è il numero di Scia, la segnalazione di inizio delle attività. C’è la ragione sociale dell’azienda agricola committente. E anche il nome del geometra, direttore dei lavori per un intervento di disboscamento.

“Per carità non lo chiami così, altrimenti nei palazzi veneziani si offendono – ironizza Zanoni – per loro è una ‘riduzione boschiva’. La realtà è che il bosco scompare e al suo posto sorgono i filari di viti”. La scorsa estate la polemica fu rovente, perchè al riconoscimento dell’armonia inimitabile di queste colline qualcuno aveva già brindato ai futuri guadagni. A Miane un ettaro era stato raso al suolo, per far posto ai filari. Idem a Rolle, dove ora la storia si ripete. “La Regione Veneto ha ripetuto più volte che non saranno consentiti nuovi filari, invece accade il contrario. Qui siamo nel cuore dell’area Unesco e assistiamo a una corsa verso nuovi vigneti, con distruzione di biodiversità, aumento di pesticidi, saturazione del mercato e gravi ripercussioni economiche per gli stessi produttori”,

Adesso anche questi ultimi sono alle prese con gli interrogativi da recessione mondiale. Lo stop per bar e ristoranti ha inferto un duro colpo. Ma si possono consolare con un 2019 da record. Il Prosecco Docg Conegliano Valdobbiadene ha venduto 92 milioni di bottiglie, con un fatturato di 524 milioni di euro. Ma in totale il “prosecco” che si produce in Veneto e Friuli è arrivato a 485 milioni di bottiglie.

Il nuovo terrazzamento a Rolle porta ha come data di inizio lavori il 29 gennaio 2020. “È così che dal 2012 si è passati da 27 mila ettari di vigneto a 40 mila” chiosa Zanoni. L’autorizzazione a costruire su questo terreno in realtà risale al 2018. Si tratta di lavori in deroga, a seguito di domande anticipate, segnalati e denunciati anche dal comitato “Marcia Stop Pesticidi” in altri punti della zona Unesco. Gli interventi comportano l’abbattimento di alberi, come castagni, novi, frassini, olmi. Poi l’area viene sbancata, con le terrazze per ospitare filari e pergolati.

Il sindaco di Cison di Valmarino, Cristina Da Soller, si difende scaricando sulla Regione Veneto. “Il vigneto di Rolle ha ottenuto tutte le autorizzazioni e il Comune può solo monitorare che i lavori siano eseguiti secondo progetto”. Dall’iter emerge la presentazione nell’aprile 2019, poi l’ok della commissione edilizia. A quel punto è passato a Venezia per il via libera della Regione. Lì è stato esaminato dalla Direzione Pianificazione Territoriale, dalla Forestale Est e dalla Soprintendenza alle Belle Arti, con pareri del Genio Civile e dell’Agenzia regionale per l’ambiente. Infine, il nullaosta.

Trento, 4 milioni per una seggiovia dove non nevica

Nevicano euro. Quattro milioni di soldi pubblici per la seggiovia più bassa d’Italia: 575 metri sul livello del mare. Nonostante il Covid e la mancanza di risorse, la Provincia di Trento (Lega e centrodestra) ha dato il via libera: sì al rifacimento degli impianti sciistici di Bolbeno-Borgo Lares. Un progetto che ha suscitato subito entusiasmo e tante critiche. Siamo infatti su quei pendii ai piedi delle Dolomiti dove ormai la neve si vede poco. E quando cade rischia di restare poche ore.

Racconta Lorenzo Zoanetti, un ingegnere ambientale di Bolbeno che tra i primi ha mostrato le sue perplessità per il progetto: “In paese abbiamo uno storico skilift. È un impianto piccolo, di poche centinaia di metri. È nato circa cinquant’anni fa e da decenni serve come ‘palestra’ per i bambini delle valli vicine”. Una struttura utile alla popolazione, per carità, ma certo non un luogo di richiamo per turisti e grandi folle: “Eppure – racconta Zoanetti – negli anni scorsi ecco che la Provincia ha destinato molte risorse per fornire la pista di un impianto di innevamento artificiale e addirittura di illuminazione notturna”.

Fin qui nessuno si è lamentato. Adesso, però, ecco arrivare il nuovo progetto: “Parliamo – aggiunge Zoanetti – di una seggiovia a quattro posti con una capacità di 1.600 persone l’ora. Per non dire che bisognerà rivedere l’impianto di innevamento e di illuminazione notturna. Il punto non è l’impatto ambientale. Non penso neanche che sia una manovra per arricchire chissà chi. Ma mi chiedo, in questo momento in cui mancano denari, se abbia senso investire una somma tanto ingente per un impianto mastodontico degno di Cortina d’Ampezzo in una zona dove la neve resiste da Natale a febbraio. Se va bene”.

La questione è finita sui banchi della Provincia. La neve è di destra o di sinistra? Lucia Coppola, della lista di opposizione Futura, ne fa una questione di semplice opportunità: “Quest’area conta circa 200 mila passaggi in stagione invernale (poco più di 150 ore a pieno servizio della seggiovia, ndr) e 800 bambini che si recano a Bolbeno per muovere i primi passi e seguire i corsi di sci. Investire 4 milioni lascia a dir poco sconcertati. Per non dire che, secondo i più recenti studi, le aree innevate potrebbero diminuire dall’84% al 62,5% rispetto alle superfici attuali. Già dal 2030 – sostiene Coppola – non si avranno precipitazioni nevose certe al di sotto dei 1300 metri. E l’innevamento artificiale certo non risolve il problema”.

Mentre, però, a Bolbeno nevicano euro, secondo Coppola c’è chi resta a secco: “A dicembre la Provincia ha varato una finanziaria al ribasso, che vede fallire l’obiettivo programmatico della crescita del pil, quantificata in uno scarno 0,8% e che, tra l’altro, taglia le risorse a disposizione dall’Agenzia del Lavoro per occupazione e soggetti deboli, mettendo a rischio i progetti di inserimento dei lavori socialmente utili per disabili e svantaggiati, il congedo per le donne imprenditrici, la staffetta generazionale tra lavoratori anziani e nuovi assunti”. Ancora: secondo l’opposizione i trasferimenti provinciali all’Agenzia del lavoro scenderanno di 6,4 milioni, con una contrazione del 20%. Dai banchi dell’opposizione si ricorda anche che le tasse per i redditi tra i 15 e i 20 mila euro sono aumentate facendo incassare alla Provincia altri 9 milioni. Intanto, attacca ancora Coppola, si trovano “quattro milioni per fare il regalo di Natale all’area sciabile di Bolbeno, per la felicità anche del nostro assessore al Turismo che proviene da quelle zone”. Roberto Failoni, l’assessore al Turismo e allo Sport nato proprio accanto a Bolbeno, non ha dubbi: “Più di 40 comuni credono in questo impianto. Più di 800 bambini vengono qua a sciare”.

Discarica facile: basta cambiare una lettera

Un atto del governo in discussione al Senato rischia di allargare l’elenco dei siti idonei per nuove discariche, fornendo un assist alla Mad srl di Valter Lozza, il nuovo “re della monnezza” romana, cui basterà realizzare una barriera artificiale a protezione del sottosuolo per dare il via libera al progetto della discarica “Malagrotta 2”. La normativa attuale, (d.lgs. 36 del 2003), prevede che i siti idonei presentino una barriera geologica naturale – calcare o argilla – cui va realizzata “a completamento” un’eventuale barriera artificiale a proteggere dal percolato. Ma la barriera naturale è imprescindibile. Nell’atto di governo 168 in discussione in commissione ambiente del Senato, la necessità viene meno. All’allegato 1 si legge che “la protezione del suolo, delle acque sotterranee e superficiali deve essere garantita da una barriera geologica naturale o artificiale”.

È proprio la disgiunzione “o” a rivoluzionare il provvedimento, più che mai nel caso capitolino. Dalle cartografie fornite dai geologi dei comitati di zona, la cava di via di Monte Carnevale, a 700 metri dall’ex mega-discarica di Malagrotta, presenta sì uno strato argilloso nel sottosuolo, ma almeno 7-8 metri sotto la falda. “Avevamo già previsto la protezione del tetto d’argilla, realizzando comunque una doppia barriera artificiale”, replica. Sta di fatto che con l’approvazione dell’atto, il problema della barriera protettiva non si porrebbe nemmeno, dando il via libera alla discarica in conferenza dei servizi.

Il 168 è un atto approvato dal Cdm in ricezione della direttiva Ue 185/2018, che a sua volta aggiorna la 31/1999, confluita nel decreto legislativo 36/2003. Un atto dovuto? Non proprio. La 185 contiene solo 9 pagine e non cita la questione delle barriere protettive. Da dove spuntano le 126 pagine dell’atto 168? Nella delega del Quirinale al Parlamento si chiede di “considerare adeguatamente le pratiche gestionali e operative del settore”. Ed è quello che è stato fatto. Il provvedimento vede come relatrici le senatrici M5S Virginia La Mura e Ilaria Fontana.

Dopo le proteste dell’associazione Raggio Verde di Roma e dell’ex assessore M5S al XI Municipio, Giacomo Giujusa, la commissione si è spaccata fra chi chiede la modifica del testo e chi fa notare come l’Ispra abbia letto nella locuzione preesistente “a completamento” la possibilità di rendere alternative la barriera naturale e quella artificiale. Il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, avrebbe rassicurato i senatori parlando di “un refuso” e assicurando che “il testo sarà cambiato”. Ma di proposte di modifica non se ne sono viste.

La discarica di Monte Carnevale, 75.000 metri cubi “espandibili”, è stata indicata da una delibera capitolina 31 dicembre firmata dalla sindaca Virginia Raggi. Il 51% delle quote della New Green Roma srl, proprietaria della cava, erano state acquistate pochissimi giorni prima da Valter Lozza, noto imprenditore romano del settore rifiuti, patron delle discariche di Civitavecchia e Frosinone. Sull’idoneità del sito si esprimeranno i tecnici della Regione Lazio.

Il Giletti “forestale” del 2005 così diverso dall’inquisitore tv

Icapelli nerissimi. Il volto abbronzato e sorridente. Il soggetto fotografato in maglietta rossa è un giovane Massimo Giletti. Sullo sfondo un bosco tanto fitto che i raggi del sole fanno fatica ad affacciarsi. Lo slogan è convincente: “Calabria: incendio domato”. Siamo nel 2005, la Regione Calabria, a guida centrodestra, finanzia l’ennesima e inutile campagna antincendi. Serve un volto noto e amato dalla gente. Ed è così che la “Multiplus”, una società di comunicazione di Crotone guidata da Salvatore Gaetano, si rivolge a Giletti. Gaetano è oggi editore di “Video Calabria”, alle ultime Regionali è stato candidato con la Lega.

Ricorda bene quella campagna: “Mi fu affidata dalla Regione – racconta – per pubblicizzare un numero verde antincendi. Incassai 132 mila euro compresi di Iva. Ricordo i manifesti 6×3 con la faccia di Giletti, le foto, lo spot tv e la conferenza stampa con l’Assessore. Giletti lavorò con noi per un paio di giorni, forse tre, e io gli feci una fattura tra i 6 e i 9 mila euro. Conosco tanta gente, e credetemi, nessuno viene a lavorare in Calabria gratis. Insomma, Giletti lo pago io, ma lui non viene a fare una cosa per me, ma per la Regione, sono soldi pubblici”.

“Devo dire che non capisco questa telefonata”. Sentito sulla vicenda, Giletti è gentile ma ricorda poco. “Evidentemente – ci dice – qualcuno pensava che potesse essere utile usare la mia immagine per fare una promozione antincendio”. Ci può dire se è stato pagato? “Vedete alla Regione. Ma non penso che prendere una persona per un progetto così importante sia un delitto”. Naturalmente non lo è, ma in Calabria ancora ricordano quei manifesti e le trasmissioni di qualche anno dopo sull’eterno scandalo dei forestali calabresi. Quando gira lo spot per la campagna, Giletti è già un volto tv. Ha esordito con Giovanni Minoli a Mixer, per poi continuare con programmi tipo Una voce per Padre Pio, Casa Rai Uno, Beato tra le donne. Ma è con L’Arena, inizialmente uno spazio all’interno di Domenica In, che diventa noto al grande pubblico.

Il conduttore affronta i temi della cronaca e della politica con piglio deciso e aggressivo. Occhio fisso nell’obiettivo, primi piani del presentatore, giornalismo a tesi, poco spazio per il contraddittorio e sensazionalismo. La formula è vincente. Ovviamente, nel racconto dell’Italia dei furbetti, non poteva mancare una puntata sulla madre di tutti gli scandali: la forestazione e la tutela antincendio in Calabria. È il 6 novembre 2016, undici anni dopo spot e manifesti, si parla di operai forestali. Sono tanti, troppi, “uno per ogni albero”, è la tesi. Chi tenta di dimostrare che la polemica è basata su dati errati, non trova ascolto. Basta un “passiamo alla pubblicità” e il gioco è fatto. La pubblicità, quella con gli enti pubblici, e quella con i privati, croce e delizia dell’anchorman. Giletti ha prestato il suo volto per promuovere acque minerali, una nota marca di polli e un miracoloso “salvavista” per chi usa troppo il computer.

Impegni che nel 2008 lo inducono a dimettersi dall’Ordine dei giornalisti del Piemonte per evitare un procedimento disciplinare. Il conduttore era già stato sottoposto a tre sanzioni nel 1998, nel 2005 e nel 2006, e lui stesso davanti al all’Ordine ammette di “prestare volto e immagine a favore di clienti pubblicitari ricevendone un compenso”, aggiungendo di “non potersi sottrarre a tale prestazione considerata di primaria importanza per la Rai”. Nel 2014, la partita si chiude con la riammissione di Giletti nell’elenco dei giornalisti professionisti. Come è finita la campagna antincendi è invece nelle cifre: dal 2004 al 2016 la Calabria è stata colpita da 12.400 incendi con 162 mila ettari di boschi andati in fumo. In Calabria l’incendio non è domato.

Tentata truffa al Demanio: inviati materiali non chirurgici

Dopo Consip e Regione Lazio, anche l’Agenzia Dogane e Monopoli ha rischiato di subire una truffa legata all’acquisto di mascherine. L’Agenzia ne ha acquistate 100 mila a 72 centesimi l’una per un totale di 72 mila euro. Il contratto è stato firmato il 16 marzo con consegna entro due settimane. Ma quando il materiale non è arrivato, l’ente si è rivolto alla Procura di Roma, che adesso indaga i tre fornitori per tentata truffa. Si tratta di Bruno Farnesi, titolare della Zannini Group Inc, che sarebbe stato il promotore della vendita, insieme a Daniel Azzopardi, della Mio Plantation-Med Investment Operation Ltd, società maltese con sede a La Valletta, e all’olandese Peter Dubbeld della Catcolne Group.

Al “Fatto” risulta che il Demanio ha sottoscritto il contratto con la Mio versando un acconto di 21.600 euro, con bonifico alla Cimb di Kuala Lumpur in Malesia. Per far partire le merci dall’Asia, i fornitori avrebbero chiesto il saldo, ma l’Agenzia rinegoziando l’accordo ha versato altri 14.400 euro alla Bank of Valletta. “Non conoscevo Farnesi e gli altri imprenditori – spiega Marcello Minenna, il dg dell’Agenzia –. Quando sono iniziati i ritardi, ho presentato denuncia. Alla fine le mascherine sono arrivate, ma non abbiamo completato il pagamento per le scorrettezze e i ritardi subiti”. Durante il mese e mezzo di attesa, i fornitori avrebbero inviato foto e video per dimostrare che la merce era in partenza o negli aeroporti. Informazioni smentite dalle verifiche dell’agenzia. L’accordo prevedeva l’invio di mascherine chirurgiche, ma quelle arrivate in Italia non sarebbero della stessa qualità. E l’Agenzia le avrebbe al momento declassate a mascherine generiche. Anche i certificati allegati potrebbero non essere validi. Se così fosse, oltre all’ipotesi di truffa, gli imprenditori Farnesi, Azzopardi e Dubbeld potrebbero essere accusati di frode in pubblica fornitura.

Rifiuti, miliardi di mascherine. Ma smaltirle è un problema

Miliardi di mascherine, otto miliardi per la precisione: a fine anno sarà più o meno questo il totale dei dispositivi di protezione individuale per naso e bocca che avremo consumato in Italia. Comprate, utilizzate il tempo necessario e poi gettate via nell’indifferenziato urbano, perché una filiera del riciclo specifica per questi dispositivi ancora non c’è, tutt’al più si può discutere del loro smaltimento. Se n’è parlato nelle settimane scorse in Commissione ecomafie, poi in quella rifiuti con interventi di Ispra, Iss e del ministero dell’Ambiente: il timore è che alla lunga gli obblighi sul loro uso generino un aumento tale dei rifiuti da mandare in crisi il sistema e, soprattutto, che il loro smaltimento da un lato continui a far arricchire la rete del trasporto da una parte all’altra d’Italia, dall’altro incrementi la quantità di rifiuti in discarica e negli inceneritori.

L’Italia detiene uno dei brevetti più utilizzati al mondo per la sanificazione dei rifiuti sanitari ad altissime temperature. Alla sanificazione, l’anno scorso, sono andate circa 50mila delle 170mila tonnellate di rifiuti sanitari prodotti. Ma le iniziative recenti sono molte: dalla startup che annuncia di voler utilizzare “radiazioni” a un’azienda sarda che dice di produrre mascherine che possono essere riutilizzate fino a cento volte, sanificate con lavaggi a 60 gradi. Nelle scorse settimane, l’agenzia del farmaco americana ha dato il via libera al vapore concentrato di perossido di idrogeno (in pratica acqua ossigenata). L’impresa ha detto a Le Figaro di essere in grado di decontaminare le mascherine fino a venti volte senza ridurre le loro prestazioni.

Per le mascherine sanitarie, ovvero quelle che arrivano da ospedali e Rsa, durante le audizioni è emerso che per il momento non ci sono problemi di sovraccarico: la capacità di smaltimento di 200mila tonnellate all’anno è sufficiente a reggere la pressione della recente crisi da Covid-19 o comunque di picchi emergenziali limitati nel tempo. A oggi, il ciclo di smaltimento è questo: i dpi vengono stoccati negli ospedali, dove per giorni attendono il carico delle aziende che li prelevano (in Italia la maggiore è la EcoEridania Spa) e li portano agli inceneritori.

“In questo modo – spiega Alberto Zolezzi, medico e deputato M5S nelle commissioni Ambiente ed ecomafie – tra il momento della dismissione e quello dell’incenerimento passano anche dieci giorni e se si tiene conto che il tempo massimo della sopravvivenza del virus nei rifiuti è stimato in nove giorni, si spostano camion – a volte anche semivuoti – da una parte all’altra d’Italia quasi inutilmente. Quando li si incenerisce, i rifiuti sono probabilmente già decontaminati”. Il costo di questa pratica è di circa 1.700 euro a tonnellata. Un giro d’affari di almeno 200 milioni l’anno. L’alterativa sarebbe sterilizzare questi dispositivi sul posto o in strutture vicine. Il volume diminuirebbe dell’80%, il peso del 15% e si potrebbero conservare in sicurezza. Poi, farli prelevare solo quando è assicurato un carico pieno, risparmiando secondo le stime anche mille euro a tonnellata. Tanto più che la sterilizzazione è una pratica già utilizzata e permessa dalla legge. A mancare, invece, è l’autorizzazione alla chiusura del ciclo, ovvero a riutilizzare il materiale disidratato prodotto dalla sterilizzazione per altro, dagli arredi per esterni all’asfalto. Servirebbe una integrazione normativa, dopo un’analisi mirata sulla non riattivazione del virus.

Altro capitolo è quello delle mascherine utilizzate quotidianamente dai cittadini, in famiglia e dai lavoratori nelle fabbriche o nei centri commerciali (che ne utilizzano in grandi quantità). Secondo le stime del ministero dell’Ambiente, sono circa 8 miliardi quelle che il sistema italiano dei rifiuti dovrà smaltire ogni anno con il metodo tradizionale, ovvero ricorrendo alla discarica e all’incenerimento, senza bisogno di ulteriori inceneritori o stabilimenti, come auspicato da alcuni recentemente. Il calcolo è presto fatto: ogni mascherina pesa in media 2,5 grammi e, quando a utilizzarla è qualcuno potenzialmente non infetto, viene gettata nell’indifferenziato urbano. In Italia, l’indifferenziato di questo tipo ha 350mila tonnellate l’anno di capienza (incenerimento o discarica): il conto fatto al ministero è che, considerando peso, uso e numero delle mascherine, si vada a una capienza residuale di 200mila tonnellate annue. Ampiamente sufficiente dunque. Il passo in più potrebbe essere il prevedere un ciclo di sterilizzazione e riciclo specifici anche per questi (magari con piazzole di raccolta). E mentre aumenta anche la produzione delle mascherine riutilizzabili e lavabili, con la nascita di nuove imprese ogni giorno, mancano riferimenti normativi che ne identifichino requisiti e caratteristiche di efficacia, tanto che l’Uni, l’Ente Italiano di Normazione e il Politecnico di Torino stanno collaborando per definire una prassi di riferimento che fornirà le linee guida su requisiti, metodi di prova e valutazione di conformità. Saranno fondamentali.

“Non nascondo la mia preoccupazione su alcuni aspetti relativi alla gestione dei rifiuti – ha detto il presidente della Commissione ecomafie, Stefano Vignaroli –. Prima di tutto sull’abbandono di guanti e mascherine a terra: è fondamentale porsi il problema di come fronteggiare la dispersione nell’ambiente”.

Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa punta a coinvolgere farmacisti e grande distribuzione per posizionare raccoglitori ad hoc e c’è già un tavolo attivo. Inoltre sono al lavoro con la Guardia costiera per sensibilizzare anche con spot e testimonial.