Infermieri già dimenticati “Zero bonus, altro che eroi”

Tre mesi di sacrifici non considerati. Promesse fatte e non mantenute. Gli infermieri piemontesi ieri sono scesi in piazza a Torino, davanti alla sede della Regione per chiedere – anche al governo – il “giusto risarcimento”: aumenti di stipendio e premi che li ripaghino delle fatiche e dei rischi che si sono accollati lottando contro il coronavirus.

Riassume il malessere degli “eroi non considerati” Francesco Coppolella, segretario del NurSind Piemonte, sindacato degli infermieri che ha organizzato la manifestazione: “A marzo Conte diceva che il nostro stipendio andava rivisto. Ad aprile parlava di bonus. A maggio è calato il silenzio”. Eppure le indennità notturne per chi lavora in terapia intensiva e affronta condizioni di disagio sono ferme al 1995, ribadiscono dal NurSind.

In pratica, un infermiere che negli ultimi tre mesi ha lottato contro il Covid-19 mettendosi a disposizione per doppi turni, lavoro ad alta intensità, senza fare ferie o riposi, ha continuato a percepire uno stipendio di 1.500 euro o poco più. “Uno dei più bassi in Europa – ricorda Coppolella – con straordinari di poche decine di euro, calcolati sulla base di tabelle vecchie”.

Nessun riconoscimento dunque è arrivato finora per gli infermieri, categoria in cui si contano morti e malati di coronavirus, come tra i medici. Anche perché le trattative dei rappresentanti sindacali del personale sanitario con la Regione Piemonte sono appena iniziate. La questione riguarda i premi previsti dalla legge Cura Italia e dal decreto Rilancio (tra straordinari, indennità, premialità vere e proprie) con un fondo che a livello nazionale ammonta a 440 milioni, a cui si possono aggiungere 250 milioni da parte delle Regioni (queste ultime possono raddoppiare la quota a loro destinata dal Cura Italia, a patto che mantengano il pareggio di bilancio). Il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, ha messo sul tavolo circa 55 milioni, tra risorse proprie e risorse statali. Ma è scontro sui criteri di ripartizione. Da un lato ci sono i sindacati autonomi di infermieri e medici che propendono per una distribuzione che riconosca prima di tutto chi ha operato in prima linea, tra terapie intensive e reparti di Infettivologia. Dall’altro, le sigle confederali, Cgil, Cisl e Uil, che vorrebbero assegnare il riconoscimento a tutti.

Un modello di distribuzione a pioggia, sulla falsariga di quello adottato da Luca Zaia, che ha optato per una ripartizione percentuale pro-capite, trovandosi di fronte il muro eretto dai sindacati autonomi dei medici dirigenti ma anche dalla federazione della Cisl-Medici, in contrasto con Cgil e Uil. In ballo in Veneto ci sono 61 milioni, che si traducono in una disponibilità netta di circa 45,8 milioni. Ma con il criterio adottato, ai medici va solo circa il 20% del fondo, mentre il restante è destinato al comparto, cioè al resto del personale sanitario, senza tenere conto del fatto che, per esempio, sui primi grava un carico fiscale più elevato. Cosa che ha portato i medici veneti a fare un po’ di conti: 300 euro netti a testa una tantum. “Questo è il valore di quelli che tutti, in piena emergenza, acclamavano come eroi”, dice il segretario nazionale dell’Anaao Carlo Palermo. Anche se nessuno ne vuole farne una mera questione di soldi, come spiega Adriano Benazzato (Anaao Veneto): “Ci rifiutiamo di firmare per come ci trattano: la considerazione nei nostri confronti non c’è, se non a parole”. Ma il fatto è che sui riconoscimenti si assiste a una vera babele: ogni Regione procede per conto proprio. Se il Piemonte ha aperto ora il percorso di negoziato con i sindacati e il Veneto si appresta a chiudere l’intesa senza un via libera unanime, ci sono quattro Regioni che i “patti” sulla ripartizione li hanno siglati – Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Umbria – mentre le altre sembrano essere ancora in alto mare. E in tutti e quattro i casi, gli accordi sono arrivati senza proteste.

In Toscana si è optato per una divisione che prevede circa il 40% per la dirigenza medica, con quattro fasce di riconoscimento legate al rischio. In Emilia-Romagna la quota è salita al 50%, ciò che rimane è destinato al resto del personale, tra infermieri, operatori socio-sanitari, tecnici di laboratorio.

Turone ai politici: “Avete sbagliato? Dimissioni”

Passano le settimane, la fase2 stempera il lockdown, ma resta chiaro che in Italia il problema coronavirus si chiama Lombardia. Troppi errori sono stati commessi, proprio nella regione più ricca d’Italia, diventata anche quella con più morti e contagiati d’Europa. Non è il caso, allora, di individuare e cacciare “quanti si sono resi responsabili di scelte incongrue ed erronee?”.

È quanto chiede una lettera aperta che sta circolando in questi giorni. È stata inviata al governatore della Lombardia Attilio Fontana, ai componenti del Consiglio e della giunta regionale lombarda, al sindaco di Milano Giuseppe Sala, al ministro della Salute Roberto Speranza e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

L’idea è partita da Giuliano Turone, che da giudice istruttore arrestò Luciano Liggio a Milano e scoprì le liste della P2. Ha coinvolto un altro ex magistrato, Luigi Caiazzo, con il quale ha steso il testo poi firmato da altri ex magistrati come Elena Paciotti, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, da avvocati come Giuliano Spazzati, dal suo assistito forse più noto, Sergio Cusani, e da centinaia di altri cittadini milanesi e lombardi. “Preoccupati”, dice la lettera, “per la gravità e la diffusione della pandemia nella nostra regione”, chiedono “che l’emergenza sanitaria sia gestita nel modo più rispondente alle necessità di tutela della salute individuale e collettiva”. La lettera contesta il fatto che, “a differenza di quanto accaduto in altre regioni, qui si è andata accumulando una serie di errori, di scelte incongrue e omissioni che hanno portato la nostra Regione essere quella con il maggior numero di malati di Covid-19 in Italia”, oltre che la più colpita in Europa.

Qualcosa non ha funzionato? “Le gravi disfunzioni e le carenze denunciate con riguardo alla Regione Lombardia sono sotto gli occhi di tutti”, prosegue il testo, che ricorda la mancata istituzione di una “zona rossa” ad Alzano Lombardo e Nembro; il trasferimento nelle residenze per anziani di malati che hanno contagiato persone fragili; il mancato reperimento di strumenti di protezione soprattutto per i medici e per il personale sanitario; l’omesso coinvolgimento dei medici di base; i pochi tamponi; i contrasti con il governo centrale; l’assenza di tracciamento dei contagi e di monitoraggio degli asintomatici, tanto più necessari per passare con maggiore serenità alla “fase due”. Come ha potuto l’“eccellenza lombarda” diventare il “disastro Lombardia”? Stanno cercando di rispondere anche alcune procure della Repubblica, quella di Bergamo che indaga sulla mancata “zona rossa” ad Alzano Lombardo, quella di Milano che cerca le responsabilità delle morti al Pio Albergo Trivulzio e nelle residenze per anziani. La lettera aperta di Turone e Caiazzo termina chiedendo se non sia il caso che qualcuno ammetta gli errori commessi e si dimetta: per impedire “che la situazione possa peggiorare ulteriormente, i sottoscritti chiedono che siano adottate con urgenza le misure necessarie” affinché l’emergenza sanitaria sia affrontata con “razionalità, adeguatezza e competenza”.

Se poi risultasse da “opportune verifiche ispettive” che qualcuno con responsabilità istituzionale si è “reso responsabile di scelte incongrue ed erronee”, allora sarebbe il caso che lasciasse il suo posto.

E Bertolaso scarica Fontana&C: “Fiera, il progetto era altro”

“Quello in Fiera non è il mio ospedale. Sono sconcertato dall’evoluzione del progetto, a causa della mia malattia sono stato di fatto esautorato dall’operazione”. Tanto che “ho diffidato Regione Lombardia e Fondazione di Comunità, dal chiudere la struttura e a proseguire tale progetto”. Quella che avete appena letto è la incredibile conversazione avvenuta ieri mattina tra l’avvocato milanese Giuseppe La Scala e il dottor Guido Bertolaso. Cioè il superconsulente voluto da Attilio Fontana per sovrintendere alla costruzione della struttura alla Fiera di Milano. Conversazione prima confermata al Fatto dallo stesso Bertolaso con degli inequivocabili sms, e poi smentita in serata sempre da Bertolaso: “Leggo solo falsità a cui non ho nemmeno intenzione di rispondere”. All’ospedale Fiera si sarebbero dovuti ricoverare centinaia di malati Covid; un’astronave (copyright dello stesso Bertolaso) costata tra i 21 e i 26 milioni di euro, che ha ospitato non più di una ventina di pazienti e che presto sarà smantellata.

Perché Bertolaso abbia scelto proprio La Scala per il suo sfogo è presto detto: l’avvocato milanese martedì aveva annunciato di voler avviare una serie di accessi agli atti per capire come sono stati usati i 21 milioni di euro raccolti per la costruzione dell’ospedale. Lui stesso aveva donato 10 mila euro, pentendosene amaramente. Un suo tweet – “Di quei 21 milioni, 10.000 euro li ha donati il mio studio, avendo io insistito perché fossero destinati proprio lì e non ad altre iniziative anti-Covid19. Sono un pirla” – aveva fatto il giro del web, dando voce alla frustrazione dei 1.200 donatori che in piena emergenza avevano creduto alla necessità stringente di quella struttura. Così, alla notizia del prossimo smantellamento dell’ospedale inutilizzato, era entrato in azione. “Abbiamo capito tutti che c’è qualcosa che non va in quell’operazione – dice La Scala – per questo come donatori faremo una serie di accessi agli atti per vedere i conti: alla Fondazione di Comunità Milano (che ha in pancia il fondo sul quale sono affluiti i soldi dei donatori, ndr), alla Fondazione Fiera (che aveva avviato il fondo, ndr) e alla Prefettura di Milano, per capire che tipo di sorveglianza ha effettuato sugli atti delle due fondazioni. E anzi, colgo l’occasione per lanciare un appello a tutti quelli che vogliono vederci chiaro, unitevi a noi!”.

Più che comprensibile quindi lo stupore di La Scala quando mercoledì mattina ha ricevuto la telefonata di Bertolaso. E lo stupore, per l’avvocato, è solo cresciuto man mano che Bertolaso si sfogava: “Mi ha ringraziato per aver sollevato il caso – rivela ancora La Scala – mi ha inoltre autorizzato a diffondere pubblicamente la nostra conversazione”.

Bertolaso, come detto, scrive via sms al cronista: “Ho ‘sollecitato’ la Regione Lombardia a dare notizie chiare sul futuro del Covid Hospital e ovviamente richiesto alla Fiera di pubblicare tutti i rendiconti dei soldi donati, così come ho già fatto nelle Marche. Entro una settimana spero di vedere il tutto confermato”. Il riferimento è all’ospedale gemello a quello della Fiera, inaugurato sabato a Civitanova Marche, costato 12 milioni, immediatamente rendicontati. Intanto, l’iniziativa di La Scala ha smosso le acque: a giorni sarà convocato un cda straordinario di Fondazione di Comunità (che ha gestito la raccolta dei fondi) originariamente previsto per luglio. I consiglieri in quota Palazzo Marino chiederanno una data certa per avere la rendicontazione delle spese sostenute, che fino a oggi Fondazione Fiera non ha ancora fornito. Una prima decisione riguarderà l’allargamento del numero dei garanti del Fondo per “sanare” conflitti d’interessi visto che fino ad oggi a controllare le spese di Fondazione Fiera è Fondazione Fiera.

Milano, sparite le mappe più “scomode” sul contagio

Mappa sì, mappa no. Dove sta la mappa? Sembra il gioco delle tre carte quello che da giorni si osserva sul sito dell’Ats di Milano. Se fino all’11 maggio si poteva consultare il grafico dei contagi nella città di Milano con i dati aggregati tra casi confermati e casi sintomatici, da due giorni tutto questo non si vede più. Compare solo la mappa con i dati confermati, cioè quelli che quotidianamente il bureau dell’assessorato regionale al Welfare decide di comunicare. Perché questo cambiamento? Forse quella prima mappa, oggi divenuta fantasma, mostrava una realtà della città ben più drammatica rispetto a quella messa online ieri? Il dubbio viene e diventa pressoché una certezza raffrontando i dati. I casi vengono incasellati seguendo i vari codici di avviamento postale. Dopodiché si utilizza una scala che va da meno di quattro casi su mille abitanti fino a più di dieci casi sempre per mille abitanti. Varia anche il colore, si passa da un giallo sbiadito a un rosso intenso.

Ebbene la mappa scomparsa che fotografa la situazione della città all’11 maggio mostra solo due colori: il rosso intenso e l’arancio scuro, ovvero concentrazioni molto alte con una media di 10 casi su mille abitanti, e cioè l’1%. Questa percentuale calcolata sull’intera popolazione di Milano mostra una diffusione del virus decisamente superiore con un totale di 14mila contagi, rispetto ai 9.452 comunicati ieri. La mappa ufficiale, al contrario mostra colori più sbiaditi e una concentrazione più bassa. Attenzione, poi. Queste cifre riguardano comunque il mondo dei sintomatici, dimenticando, e non potrebbe essere altrimenti, il sommerso degli asintomatici.

Qui il calcolo probabile viene supportato dallo studio su 789 donatori di sangue pubblicato ieri dal Fatto. Secondo questo report del Policlinico e dell’ospedale Sacco di Milano all’8 aprile il 7% ha mostrato di essere positivo agli anticorpi IgG, il che fa ipotizzare a quella data 231mila casi nella sola provincia di Milano. Il dato applicato ai quasi 1,4 milioni di abitanti del capoluogo porta a ipotizzare la presenza oggi in città di circa 99mila asintomatici. Una cifra che si avvicina al dato nazionale, spiegato nello studio, di un 9,8% della popolazione italiana infettata da SarsCov2. Percentuale che, calcolata sugli abitanti di Milano, porta l’asticella a 137.200 casi.

Insomma, oggi i dati ufficiali sembrano non raccontare tutto. E non è un bene, con la Fase due ormai a pieno regime. Da giorni gli esperti predicano il dogma del tracciamento dei contatti. I tamponi però non crescono. Ieri sono stati 11.508 per 294 casi positivi in tutta la Lombardia. Di questi otto, sì solo otto, a Milano città. Chi saranno? Mistero. Se così fosse bisognerebbe festeggiare. Così non è. A partire dal fatto che i dati sono oscillanti da un giorno all’altro. Molto dipende dai tamponi: più se ne fanno più casi emergono. Certo non in modo esponenziale come a marzo. E del resto il valore di R con t (il tasso di riproduzione del virus tenendo conto delle misure di distanziamento), da giorni varia da 0,9 a 0,75. Bene, ma non benissimo. Anche qui il dato non è chiaro. E il motivo è sempre lo stesso: il tracciamento dei contatti.

I test sierologici dovevano essere la soluzione, ma a oltre tre settimane dal loro inizio sono drammaticamente pochi. I test regionali, quelli che utilizzano il metodo della società Diasorin, sono partiti il 24 aprile. Al 6 maggio il totale superava appena i 30mila test. Due settimane dopo e cioè ieri, il numero complessivo era di 89.221 con 16.318 positivi agli anticorpi (IgG e IgM). Insomma, nemmeno il minimo sindacale. Tanto più che i positivi agli anticorpi sfuggono alle statistiche dei tamponi. Saranno stati sottoposti al test molecolare? Che categorie socio-economiche rappresentano? Non si sa. Il consigliere regionale del Pd, Samuele Astuti, lo dice da giorni: “I dati sono pochi e confusi”. Eppure ci sono, ma non è facile scovarli. E quando si trovano non confortano. Ad esempio la distribuzione provinciale dei tamponi ci dice che dall’inizio dell’epidemia nell’area metropolitana di Milano ne sono stati effettuati 142.194, il che significa che la Regione Lombardia in tre mesi di contagio ha testato appena 1.500 persone al giorno su 3,2 milioni di abitanti. I dati poi sono aggregati. Non tutti i tamponi contabilizzati risultano “diagnostici”, ovvero fatti per la prima volta su una persona. Circa il 50% riguarda persone già testate, anche fino a sette volte. Va da sé che la fotografia difficilmente può corrispondere alla realtà di un contagio che è certamente più ampio perché iniziato ben prima del 20 febbraio.

Di Matteo frena il rientro di Baldi in Cassazione dal ministero

Al plenum del Csm approdano chat e intercettazioni di magistrati che parlavano con l’ex consigliere Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione: quelle dell’ex capo di Gabinetto al ministero della Giustizia, Fulvio Baldi e quelle del pm della Dna Cesare Sirignano. In apertura parla Nino Di Matteo e, a sorpresa, blocca il ritorno in Cassazione di Baldi, costretto a dimettersi su input del ministro Bonafede per le chat pubblicate dal Fatto (“Se no che cazzo ce li mettiamo a fare i nostri? dice a Palamara, che chiede di piazzare al ministero una pm). La Terza commissione, all’unanimità aveva votato per il rientro in ruolo di Baldi, ma Di Matteo pone un problema di opportunità: “Abbiamo appreso da conversazioni del dott. Fulvio Baldi, nelle quali si fa riferimento alla scelta di dirigenti da collocare fuori ruolo, che venivano seguiti criteri derivanti dall’appartenenza correntizia”. Quindi, bisogna riflettere “sulle conseguenze di un suo ricollocamento proprio presso la Procura generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare”. Rinvio accordato per regolamento. Aggiornato a oggi pure il dibattito su Sirignano e le sue conversazioni con Palamara sull’assetto della Dna e sulla nomina del procuratore di Perugia. Il plenum deve votare su una richiesta di trasferimento per incompatibilità ambientale, proposta, a maggioranza, dalla Prima commissione mentre quella di minoranza, di Unicost, corrente del pm e di Palamara, chiede l’archiviazione. Ieri Sirignano ha parlato per quasi tre ore, sostenendo che non si è potuto difendere e che la richiesta di trasferimento è infondata: “La mia vita professionale viene bruciata per 7 minuti di conversazione a dispetto di 26 anni di lavoro”. Scrive il relatore di maggioranza, il togato Zaccaro: “Sirignano non si è limitato a condividere con Palamara critiche aspre” verso colleghi del suo ufficio, ma le ha inserite “in un disegno volto a mettere le pedine nei posti giusti”.

Fase 2 ligure: Toti e Bucci all’assalto del buffet

Il buffet non è uguale per tutti. Il centrodestra si schiera a difesa della tartina al salmone. E la Liguria si divide su uno dei più grandi classici della vita pubblica italiana: l’abbuffata che segue ogni evento.

Galeotto fu un video girato ieri dall’Agenzia Dire che ritrae la nomenclatura genovese riunita intorno a prelibatezze di ogni genere. In prima fila, intento a nutrirsi con gusto, il sindaco Marco Bucci. Presenti tra gli altri il governatore Giovanni Toti, l’assessore regionale Ilaria Cavo e gli assessori comunali Pietro Piciocchi e Simonetta Cenci. Il punto, secondo il Pd e l’opposizione, è che le ordinanze della Regione vieterebbero i buffet.

Ma andiamo con ordine: ieri, dopo mesi di astinenza da cerimonie, a Genova si inaugurava la ristrutturazione dell’Albergo dei Poveri. Parliamo di uno dei luoghi simbolo di Genova, un edificio che il nobile Emanuele Brignole fece costruire nel Seicento per ospitare i poveri della città. Un gigantesco scrigno di tesori d’arte – tra gli altri ecco i dipinti di Domenico Piola e sculture di Pierre Puget – che per lungo tempo era stato lasciato all’abbandono. Fino ai restauri degli scorsi decenni per ospitare l’università e ai lavori appena avviati.

L’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Finita la grande paura, devono essersi detti gli organizzatori, via libera al sacro buffet. E qui parlano le immagini: in prima fila ecco schierarsi Bucci che si presenta al tavolo e comincia ad addentare tartine. Niente mascherina, ovviamente visto che si mangia, ma neanche guanti. Non è il solo: altri ospiti seguono l’esempio del primo cittadino. Nelle retrovie si vedono persone che parlano senza protezioni e, si direbbe, senza distanze di sicurezza. Forse un lampo di golosità. O magari un gesto politico, in una regione che si è schierata a favore della riapertura anticipata. Insomma, la tartina come atto di protesta contro il governo.

Il video non è sfuggito all’opposizione. Soprattutto al Pd: “Ci risulta – scrive il partito di centrosinistra – che i presenti abbiano banchettato in spregio alle ordinanze anti-contagio, prelevando senza guanti e mascherine da cabaret di focaccia e cesti di patatine. Il tutto, mentre bar e ristoranti dopo due mesi di chiusura sono costretti a rispettare regole rigidissime per la consumazione di cibi al banco e al buffet”.

Marco Sinesi, il commissario straordinario del Brignole, giura: “Siamo stati attenti. Secondo noi, l’azienda di catering poteva operare. Erano ammesse 48 persone e noi eravamo 32”. Intanto nei corridoi della Regione si sussurra che nell’ordinanza sulle riaperture, prevista in queste ore, sia stato previsto il via libera ai rinfreschi. Colpo di spugna per i buffet.

“Così Lotti, Unicost e Mi volevano dirigere il Csm”

Le prime nomine di peso, nel Csm a guida David Ermini sarebbero state quelle per le Procure di Roma e Torino. E su quella di Roma, nella primavera del 2019, si consuma lo strappo con il suo sponsor politico, Luca Lotti, gran cerimoniere della cena a casa di Giuseppe Fanfani, membro uscente del Csm e parlamentare Pd, alla quale partecipano gli uomini più influenti di Unicost e Magistratura indipendente, Luca Palamara e Cosimo Ferri. Fu in quella cena del 25 settembre 2018, come ha ricostruito il Fatto Quotidiano, che Ermini riceve l’investitura che lo porta, due giorni dopo, alla vicepresidenza del Csm. Nessuno scandalo, commenta Ermini in un’intervista al Corriere della Sera, perché la nomina del numero due del Csm dev’essere frutto di una mediazione tra magistratura e politica. Poi aggiunge di “essersi sottratto alle richieste di chi voleva eterodirigere il Consiglio”. “Ho dimostrato fin dall’inizio – aggiunge – di ricoprire il mio ruolo in autonomia al servizio dell’istituzione consiliare. Lo testimoniano – conclude – le intercettazioni” dell’inchiesta perugina su Palamara.

Ma se il vicepresidente del Csm ritiene che esistano forze e persone che tentano di “eterodirigere” il Csm, quindi ingerenze esterne, dovrebbe anche fare i nomi ed elencarne le richieste. Nell’intervista al Corriere non ve n’è traccia. “Solo percezioni”, esordisce Errani interpellato dal Fatto. Le percezioni devono però essere collegate a qualcosa di concreto. E qualcuno deve pur averle innescate. In realtà, poco prima che ci si avvicinasse alla nomina del procuratore di Roma, per la quale, in quel momento, il favorito era il magistrato fiorentino Marcello Viola, spinto proprio da Palamara, Ferri e Lotti, s’erano discusse altre nomine, per sedi meno importanti e incarichi direttivi e semi direttivi, quindi da procuratore capo o procuratore aggiunto. È in quell’occasione, spiega Ermini, che arriva il primo segnale: “Mi viene chiesto di votare”. Da chi? “Da Luigi Spina”.

Spina è uno dei consiglieri Unicost, dimessosi lo scorso anno in seguito allo scandalo sul Csm, in stretto contatto con Palamara, Ferri e Lotti. Ma Spina, obiettiamo, era comunque un consigliere del Csm, l’eterodirezione si riferisce a qualcuno che intendeva influire sul Csm dall’esterno, non dall’interno. Non a caso Luca Lotti sostiene, intercettato, che gli va “dato un messaggio forte”. E legge un sms con il quale ricorda a Ermini che lui non è “un senatore qualunque” e che senza di lui non sarebbe stato al Csm. “Lotti l’ho incontrato alla Camera dei deputati”, risponde Ermini, “ma prima che m’inviasse quel messaggio sul telefono. Mi disse che le correnti di Mi e Unicost erano irritate con me. Io feci cadere la cosa. Non gli risposi neanche”. Ermini quindi, stando alla sua versione, non chiede a Lotti perché Unicost e Mi siano irritate con lui. Lascia cadere lì. Posto che Lotti, da parlamentare, non aveva titolo per parlare a nome di alcuna corrente della magistratura, eppure lo faceva, Ermini comprese a nome di quali persone si stava spendendo il parlamentare Pd? “Lui non mi ha fatto alcun nome” precisa Ermini, “ma immaginavo che dietro ci fossero Ferri e Palamara”. E non doveva essere un grande sforzo di immaginazione: proprio a Lotti, Ferri e Palamara, Ermini doveva la sua nomina. Da qui, par di capire, le “percezioni”. Ma le richieste? Ritorniamo all’unico nome fatto da Ermini, quello di Spina, che gli chiede di partecipare al voto sul capo di una Procura minore. Ermini non accetta. È il suo voto, la richiesta latente. È questo il tentativo di eterodirezione “Ho capito che si aspettava il mio voto sulle nomine. E non soltanto su quelle nomine. In questo modo si sarebbe creata una maggioranza fissa e costante”. A quel punto, il gruppo che spingeva in questa direzione avrebbe avuto il controllo totale della situazione. “E – riflette Ermini – in questo modo avrebbe avuto anche il potere di fare delle concessioni a chi era in minoranza”.

La “Bestia” di Salvini è ferita Meloni rimonta pure sui social

La “Bestia” di Matteo Salvini non si è mai fermata in questi anni. Il team guidato da Luca Morisi che inonda i profili social del “Capitano” con foto, video e dirette è un motore sempre acceso. È la macchina che ha portato la Lega al 34% delle Europee. Tempi lontani: per i sondaggi oggi vale il 25,4%. Resta primo partito, ma con un trend molto negativo.

Adesso anche la “Bestia” fatica, e pure dal web arrivano segnali non proprio positivi. C’è un dato in particolare: il sentiment, il valore che emerge analizzando i commenti degli utenti sotto ogni post. Una ricerca condotta da Human – una piattaforma di web e social listening nata dalla collaborazione tra Osservatorio Social e Spin Factor – spiega come il consenso sia cambiato. Concentriamoci sulla pagina Facebook del “Capitano”. Il valore del sentiment positivo – ossia le reazioni degli utenti favorevoli al leghista – è passato dal 41,5 per cento di gennaio al 33,3 per cento di aprile. Ha perso ben 8 punti. L’altalenante linea di Salvini nei mesi del Covid sembra non esser stata particolarmente apprezzata.

Crescita e “traffico”: sorpasso a destra

L’analisi di Human – in esclusiva per il Fatto – è il risultato del lavoro di un algoritmo sviluppato in Italia applicato a milioni di commenti. In termini assoluti, anche il leader della Lega ha aumentato i suoi numeri, approfittando della grande crescita dell’audience politico nel periodo del Coronavirus. Il traffico di utenti collegati e attivi sul web è aumentato per tutti, anche per Salvini: i suoi follower su Facebook erano circa 4.046.000 a gennaio, ad aprile se ne contano 4.209.000. Ma se le dimensioni della fan base di Salvini sono cresciute, la qualità delle interazioni non ha fatto altrettanto. In primis per quel sentiment positivo in calo di otto punti di cui si è già detto. Ma anche per la crescita contestuale, molto più robusta, dei suoi avversari. Oltre il premier Giuseppe Conte (che sui social è cresciuto in modo impressionante), la sua rivale a destra è Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia (partito salito al 14,1% secondo i sondaggi) ha una fan base più piccola di Salvini, ma negli ultimi quattro mesi è cresciuta molto di più. La pagina Facebook della Meloni è passata dai 1.331.000 follower di gennaio a 1.563.000 di aprile. Ha raggiunto in quattro mesi circa 232 mila nuovi utenti contro i 163 mila di Salvini.

C’è un altro parametro in cui l’ex missina ha un rendimento migliore: l’engagement, ossia l’insieme di interazioni tra like, commenti e condivisioni di post. “La crescita in termini di interazioni medie della Meloni è più significativa anche perché produce meno contenuti di Salvini e parla a una platea inferiore di persone”, spiegano dal team di Human. Nel mese di aprile, per esempio, la Meloni ha pubblicato su Facebook 206 post, con una media di engagement di oltre 29 mila interazioni. A gennaio l’engagement medio era di 17.560 interazioni. In quattro mesi quindi è quasi raddoppiato, raggiungendo in questo valore Salvini.

Nel team della “Bestia” devono essersene accorti, dato che la strategia è cambiata: Salvini ora pubblica molti meno contenuti. A gennaio aveva prodotto 787 post, con “solo” 14 mila interazioni registrate. Nei mesi successivi i post si sono ridotti fino ai 355 pubblicati ad aprile, con 33.886 interazioni. La Meloni lo ha praticamente raggiunto, nonostante abbia un terzo dei follower e pubblichi meno contenuti. L’engagement rate medio della Meloni, infatti, ha un valore più che doppio rispetto a quello del leghista: l’ex Msi ad aprile è a quota 1,88%, Salvini 0,8%.

Conte vola: da 9 mila a 196 mila interazioni

Dall’inizio della pandemia Giuseppe Conte gioca in un’altra categoria: i suoi follower sono aumentati del 700%, ma è cresciuto anche il valore del sentiment positivo. Il primo dato è dovuto alla scelta di Facebook come piattaforma per annunciare i decreti governativi. A inizio pandemia la pagina di Conte contava circa 500 mila follower, oggi sono più di 4 milioni. L’engagement medio a febbraio era di circa 9mila interazioni a post, a maggio è arrivato a 196 mila interazioni. Il valore del sentiment positivo invece ha registrato il picco durante la fase 1, con il 43,8 per cento ad aprile. A marzo questo parametro si assestava intorno al 40,1 per cento e a oggi, dopo l’inizio della Fase 2, è calato al 39,5.

Renzi perde follower: -2.500 nell’ultimo mese

Matteo Renzi, a quanto rivelano i dati di Human, è tra i politici che nella fase dell’emergenza ha diminuito la sua audience. Italia Viva nei sondaggi non arriva neanche al 3 per cento e il profilo Facebook dell’ex premier – 1,1 milioni di fan – non gode di migliore salute. Renzi, come spiegano dal team di Human, sta investendo anche sui contenuti sponsorizzati (inserzioni a pagamento sui social): ha pagato per la pubblicità di 73 post nell’ultimo mese. Malgrado questo, ad aprile ha perso 2.500 follower.

Matteo garantista scorda i “martiri del renzismo”

Matteo Renzi si alza sullo scranno del Senato, la luce rossa del microfono s’accende e per un attimo l’aula ammutolisce, perché è l’intervento più importante. Sarà pure un ex potente, un senatore semplice, il comandante di un esercito in rotta, ma i suoi soldati sono ancora decisivi. Pronuncia un discorso di spessore, di standing, di grande valore morale: non parla di potere e ministri, ma di Politica e Ideali. Di Giustizia e non di giustizialismo.

Il Guardasigilli è salvo, il governo è vivo, ma i Cinque Stelle non sorridano, dice Renzi. “Signor ministro, se oggi votassimo con lo stesso metodo che ha utilizzato nella sua esperienza parlamentare nei confronti dei nostri governi, lei oggi dovrebbe andare a casa”, dice a Bonafede. Poi scandisce l’elenco dei “martiri” del giustizialismo grillino: “Angelino Alfano, Federica Guidi, Maria Elena Boschi, Maurizio Lupi, Luca Lotti, Claudio De Vincenti. Ma noi non siamo come voi”. Renzi è diverso, ha una morale. Solo che è una morale doppia, a volte tripla. Come fa a non ricordare di aver scoperto il garantismo in tarda età, e in particolare quando le indagini hanno iniziato a riguardare lui e il suo giglio toscano? Possibile si sia dimenticato che all’inizio, quando aveva sedotto gli italiani, parlava come il più grillino dei grillini? E con quale faccia oggi fa l’elenco dei suoi martiri e tace di quello dei suoi martirii?

Quando c’era da picconare il governo del compagno di partito Enrico Letta, il senso di Renzi per il giustizialismo non era ancora così sofisticato. Fu lui in persona nel 2013 a guidare il battage per le dimissioni di Annamaria Cancellieri, ai tempi ministra (corsi e ricorsi) della Giustizia: “Sono per le dimissioni di Cancellieri, indipendentemente dall’avviso di garanzia o meno”, disse. “Non è un problema giudiziario ma politico”. E che dire di Alfano, che pure incredibilmente Renzi infila nell’elenco di quelli che sono finiti ingiustamente nel tritacarne? All’epoca Renzi rottamava, e i suoi senatori firmavano un documento per cacciare (senza riuscirci) Angelino dal Viminale. Matteo maramaldeggiava: “Posso solo sperare che alla fine di questa vicenda ( lo scandalo Shalabayeva, ndr) non paghino solo le forze dell’ordine”. Anche perché “già qualche settimana fa Letta ha chiesto a un ministro di farsi da parte”.

Era la povera Josefa Idem, titolare dello Sport, mandata via per un modesto abuso edilizio. Cosa disse Renzi per difenderla? Nulla. Mandava avanti Dario Nardella, che chiedeva le sue dimissioni. Fischiettando lo stesso ritornello molto grillino che ai tempi a Matteo piaceva un sacco: nelle democrazie serie i ministri se ne vanno per questioni di opportunità, non c’è mica bisogno di aspettare la Cassazione né gli avvisi di garanzia. E ancora, quando sotto indagine finì Nunzia De Girolamo – che del governo Letta era ministro dell’Agricoltura – il Rottamatore polemizzava, insinuava, di certo non professava il Vangelo garantista (“A differenza della De Girolamo, la Idem si è dimessa dimostrando uno stile profondamente diverso”).

E la cacciata di Maurizio Lupi? Renzi, diventato premier, la liquidava così: “Scelta saggia, fanno bene a tutti”. E quando uno schizzo di petrolio sporcò l’immagine di Federica Guidi, la sua ministra dello Sviluppo economico? Il Rottamatore, inflessibile: “Non puoi reggere – le disse – devi dimetterti, dobbiamo mostrare che siamo diversi dagli altri”.

Fuori classifica, un minuto di silenzio per Ignazio Marino: sindaco di Roma “licenziato” dal suo stesso partito (il Pd – indovinate – di Renzi) con le firme dal notaio. Il pretesto? Una Panda in doppia fila e un pugno di scontrini. Giustizia, mica giustizialismo.

Il gioco delle mozioni-farsa E Alfonso “Danton” si salva

Il più lesto a evocare il Grande Spettacolo della “resa dei conti tra giustizialisti” è il senatore Riccardo Nencini, indi imitato dall’eterno Pier Ferdinando Casini. Nencini è un socialista craxiano. Ovviamente. E ricicla pure la fatidica sentenza nenniana: “C’è sempre uno più puro alla fine che rischia di epurarti”. Solo che finisce diversamente e stavolta la storia si ribalta: l’epurando Alfonso Bonafede-Danton non perde la testa, ma la salva.

Anche Danton fu ministro della Giustizia, nella fase repubblicana della Rivoluzione francese. Ma immaginare l’ex grillino Mario Giarrusso come Robespierre che aziona la ghigliottina sulla capoccia dell’ex amico Alfonso-Danton è operazione arditissima, che sfocia più nella sceneggiata sicula che nella storia. Al massimo, l’ex grillino, può fare la parte di Core ’Ngrato. Il tonitruante Giarrusso squaderna le due accuse infamanti: Bonafede è reo di aver tradito Nino Di Matteo, “simbolo della lotta antimafia”, per la storia della mancata nomina al Dap, e di aver consegnato il suo ministero “a una banda di amici di Palamara”, il magistrato protagonista dello scandalo spartitorio al Csm.

Ma il tempo scorre implacabile e il microfono del tribuno già Cinque Stelle si affloscia muto. Giarrusso protesta invano e gli resta l’unica consolazione della giornata. Dire “vaffanculo” al renziano Faraone. Il partito del Vaffa è vivo e lotta con lui. Core ’Ngrato che scimmiotta Robespierre è pure un altro ex grillino di rango: Gianluigi Paragone. L’ex direttore della Padania non si limita a citare Di Matteo. Colora il tradimento di Alfonso-Danton con i nomi dei due imputati confermati da poco ai vertici di Eni e Leonardo-Finmeccanica, rispettivamente Descalzi e Profumo. Eccola, snudata nell’arringa paragoniana la rivoluzione tradita da Bonafede e da tutti i Cinque Stelle. Paragone Core ’Ngrato conclude con una perfida battuta su Luigi Di Maio per via della nomina di Carmine America, antico compagno di scuola del ministro degli Esteri, nel cda di Leonardo. “Finalmente abbiamo Captain America”. Ah ah ah!

Dove però la storia viene sovrastata dalla farsa è nel gioco grottesco delle due mozioni presentate. Su un fronte quella neo-giustizialista, chiamiamola così, dei forzaleghisti e che difende Di Matteo e inveisce contro il Guardasigilli per le scarcerazioni dei boss. Su altro versante il testo di Emma Bonino che vorrebbe più scarcerazioni per tutti. Il risultato è fantozziano. Azzurri e salviniani votano sia per rimandare i mafiosi in galera sia per liberarli. Il giustizialismo si fa garantista e viceversa. Questo sì un Grande Spettacolo. Sono in pochi a salvare la dignità, cioè gli astenuti come il neo-totiano Gaetano Quagliariello, che annuncia di votare un solo testo, quello della Bonino.

Nel frattempo, nell’aula di Palazzo Madama trasfigurata dalla fifa per il Coronavirus, Queen Elizabeth Casellati si sgola come una preside per richiamare all’ordine i senatori monelli: “Prima di dare la parola al prossimo iscritto a parlare, voglio dire che non mi va di ricordare continuamente all’Assemblea che non si possono creare assembramenti. Mi corre l’obbligo di ricordare che non siamo un buon esempio per tutti i cittadini in questo momento”.

La presidente Casellati di verde ornata, novella Green Elizabeth, è un’altra immagine simbolo di questa ridicola seduta convocata per processare Bonafede. Il milionesimo dibattito sul rapporto politica-giustizia è infatti incarnato anche dalla berlusconiana eletta due anni fa a capo del Senato: proprio l’altra sera il suo nome è spuntato tra le carte dell’inchiesta sui magistrati di Taranto. “Un’amica nostra”, dicono al telefono, facendo riferimento a quando Casellati era, guarda un po’, al Csm. Un altro cattivo esempio?

C’è poi chi prende sul serio il dibattito e tenta finanche di dare una torsione pregna di enfasi alla questione. È il caso di Anna Rossomando del Pd che vuole fare come Craxi sui soldi ai partiti nell’era di Tangentopoli. Così in merito al populismo penale, Rossomando decreta: “Alzi la mano chi può chiamarsi fuori in quest’Aula”. Qualcuno avrebbe dovuto spiegarle che tutta l’ammuina di ieri non poggia su una rivalutazione di Calamandrei, ma su una trasmissione di Giletti.