Bonafede, altro bluff di Renzi: niente crisi, la sfiducia è bocciata

Quello di Renzi era proprio ciò che sembrava, un bluff. Così Bonafede è salvo, il governo incolume e il fu rottamatore che non ha vibrato il colpo si atteggia a vincitore, anche per giustificare il passo indietro. Perché è bastato poco per scongiurare il voto di Italia Viva a favore delle mozioni di sfiducia per il ministro della Giustizia in Senato. È stato sufficiente un pugno di parole, scandite in Aula dal Guardasigilli del M5S: “Sulla riforma della prescrizione, così come su tutto l’andamento dei tempi del processo, sarà importante istituire una commissione ministeriale di approfondimento e monitoraggio che permetta di valutare l’efficacia della riforma sia del nuovo processo penale, sia del nuovo processo civile”. Nulla di esplosivo e neppure di inedito, ma è stato comunque il segnale sulla giustizia che Renzi pretendeva per alzare una bandierina e non dover votare le mozioni di sfiducia di Lega e +Europa. Una strada senza ritorno che l’ex premier non voleva imboccare, nonostante settimane di minacce.

Così la sfiducia non è passata, e l’esecutivo esce dalle votazioni a Palazzo Madama rafforzato, con i Cinque Stelle che subito dopo il voto fanno la fila in sala governo per abbracciare Bonafede e il Pd sollevato. Ma esulta anche Italia Viva, perché il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha voluto vedere il bluff del capo e qualcosa al tavolo gli ha concesso. Quindi si lavorerà allo sblocca-cantieri tanto invocato da Iv, come conferma anche Luigi Di Maio in serata: “Bisogna superare il codice degli appalti per evitare lungaggini inutili”. E arriveranno due o tre presidenze di commissione per i renziani, che puntano a Luigi Marattin alla guida della Bilancio a Montecitorio. Il resto lo fa Bonafede, che dopo aver contestato pezzo per pezzo le due mozioni (“opposte tra loro” ricorda) in Aula promette una “sintesi” e un “confronto con tutte le forze politiche di maggioranza, costante e approfondito”.

A guardarlo c’è anche il premier, sui banchi del governo per dare un segnale di compattezza. Lontano dai Palazzi invece c’è Beppe Grillo, che a seduta in corso già canzona Renzi, citando una poesia di Trilussa su un cane lupo che al cancello di una villa passava tutta la notte ad abbaiare “pe’ nun perde’ il posto”, tanto il nemico “non c’è mica bisogno che ce sia”. La commissione sulla giustizia invece ci sarà, ma fonti di via Arenula fanno notare dettagli e tempi: “Della commissione avevamo parlato già a inizio anno, più volte, ma questa sarà ministeriale, cioè composta da funzionari”. Tradotto, non solo non è una novità. Ma il nuovo organismo sarà anche di minore impatto rispetto a quello che lo stesso Bonafede aveva ventilato al Pd in un vertice di governo dello scorso febbraio, quando promise una commissione di esperti, avvocati e accademici, che valutasse gli effetti della riforma della prescrizione entrata in vigore a inizio anno. E se Iv insistesse per far entrare nella commissione il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza? “Se lo dovessero chiedere si vedrà, non ci sono preclusioni” è la risposta. Ma persino l’opportunità di inserire Caiazza era già stata fatta notare a Bonafede dai dem nei tavoli di maggioranza sulla giustizia. Anche per questo, quando si alza in piedi per il suo intervento dopo la replica di Bonafede, Renzi sa che deve fare i salti mortali per motivare i suoi no. “L’intervento tra i più difficili della mia esperienza”, l’aveva definito su Facebook di prima mattina. Look “giovane” e tono dei meno veementi, è tutto un equilibrismo. “Riconosco a Conte di aver dato segnali importanti, sull’Irap, con la battaglia al fianco della Bellanova, con la accelerazione sulle riaperture. E tuttavia ancora molto è da fare”.

Eccolo qui il passaggio chiave. Un modo per rivendicare vittorie e per chiarire che non è comunque finita qui. Nel classico stile che nega per affermare proclama: “Non ci interessa un sottosegretario ma sbloccare i cantieri. Quando portiamo delle idee non stiamo cercando visibilità”. Nei Palazzi, si dice anche che l’ex premier avrebbe ottenuto promesse per posti di sottogoverno. Si vedrà. Perché l’unica cosa certa è che Iv ha dimostrato di poter tenere il suo governo sulla graticola per giorni. “Conte sta in piedi grazie a noi”, dice in serata. L’altra faccia della medaglia è che non ha un piano B degno di questo nome.

Non a caso un paio di leghisti di prima fila ieri scuotevano la testa, sconsolati. Il Matteo di Firenze per ora ha abbandonato il suo omonimo Salvini al suo destino. Invece il segretario del Pd Nicola Zingaretti esprime soddisfazione per la compattezza del gruppo. In realtà, quello che i dem hanno voluto fare ieri è stato schierare in Aula due esponenti della maggioranza, come Franco Mirabelli, fedelissimo di Dario Franceschini, che ha difeso il ministro, ma ha chiesto “discontinuità” con i gialloverdi e Anna Rossomando. Meglio evitare interventi fuori linea, come quelli del capogruppo, Andrea Marcucci.

Il giustizialgarantista

Guai a sottovalutare i politici italiani: non si riesce mai a parlarne abbastanza male. L’altroieri pregustavamo due scene madri da urlo: il Parlamento che vota su Bonafede, accusato contemporaneamente di scarcerare troppo e di incarcerare troppo; e i compari di Dell’Utri che sventolano la bandiera di Nino Di Matteo, il pm che ha fatto condannare Marcellino per la Trattativa. Ma ieri la realtà ha superato la fantasia. Sul Giornale di B. e sul Riformatorio di Romeo, Alessandro Sallusti e Tiziana Maiolo hanno definito Bonafede “il peggior ministro nella storia della Repubblica” e Sallusti ha aggiunto che “il pesce puzza dalla testa”. Infatti, per i nasini sensibili di Sallusti&Maiolo, i B., i Previti, i Dell’Utri e tutta la fairy band hanno sempre profumato di Chanel n.5. Sulla linea Sallusti-Maiolo si è attestato l’avvenente Matteo Richetti, già renziano, antirenziano, ri-renziano e ora calendiano (è l’altro membro del partito di Calenda oltre a Calenda), che ha firmato la mozione Bonino perché nessuno se n’è accorto, ma “da tempo Azione chiede un governo di responsabilità nazionale” che trovi un posto per Calenda e, possibilmente, uno strapuntino anche per Richetti. Ergo Bonafede è “il punto più basso della gestione della giustizia nel nostro Paese” (i più alti furono Biondi, Mancuso, Castelli, Mastella, Alfano, Nitto Palma, Cancellieri e peccato per Previti, sventuratamente bloccato da Scalfaro).

L’Innominabile, uomo la cui coerenza è pari soltanto alla sua intransigenza, ha detto di condividere entrambe le mozioni (Bonafede carceriere, Bonafede scarceratore). Quindi non ne ha votata nessuna delle due perché poi, sennò, gli italiani avrebbero votato su di lui. La storia avrebbe potuto finire qui se il Rignanese non avesse voluto regalarci uno scampolo di autopsicanalisi come non se ne vedevano dai tempi d’oro del Cainano: un capolavoro di “proiezione”, “meccanismo di difesa per il quale il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri, aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso” (Treccani). Infatti il tapino ha attaccato un pippone col martirologio delle presunte vittime del giustizialismo grillino: “Se oggi votassimo secondo il metodo che Ella (Bonafede, ndr) ha utilizzato nei confronti dei membri dei nostri governi, lei (non più Ella, ndr) oggi dovrebbe andare a casa. Alfano, Guidi, Boschi, Lupi, Lotti… Ma noi non siamo come voi”. Ora, né Bonafede né alcun altro 5Stelle hanno mai fatto parte di governi del Pd, anzi stavano all’opposizione. Dunque mai ne hanno dimissionato alcun ministro, come invece minacciava di fare ieri col Guardasigilli lo Statista dell’Arno.

Invece fra i governi Pd c’è quello di Enrico Letta (2013-‘14). All’epoca l’Innominabile era sindaco di Firenze e candidato alle primarie Pd, di cui divenne segretario a fine anno. Il che non gli impedì di chiedere le dimissioni e appoggiare le mozioni di sfiducia di M5S, Sel e talvolta Lega contro quattro ministri del “nostro governo”: Josefa Idem (palestra spacciata per abitazione per pagare meno Imu); Angelino Alfano (sequestro Shalabayeva); Annamaria Cancellieri (telefonate per scarcerare la figlia di Ligresti); e Nunzia De Girolamo (scandalo Asl Benevento). La Idem se la cucinò il renziano Dario Nardella a Porta Porta: “Deve dimettersi come il ministro tedesco della Difesa, Guttenberg, per la tesi di dottorato copiata”. Gli altri tre li sistemò lo stesso Innominabile: “Le dimissioni della De Girolamo sono questione di stile”; “Se Alfano sapeva del sequestro Shalabayeva, ha mentito ed è un piccolo problema. Ma, se non sapeva, è anche peggio. Dimissioni”; “Sono per le dimissioni di Cancellieri indipendentemente dall’avviso di garanzia. L’idea che ci siamo fatti della vicenda Ligresti è che la legge non è uguale per tutti: se conosci qualcuno di importante, te la cavi meglio. È la Repubblica degli amici degli amici. Non è un problema giudiziario, ma politico: ha minato l’autorevolezza istituzionale e l’idea di imparzialità del Guardasigilli”.

Poi, previo “enricostaisereno”, al governo ci andò lui. E fece dimettere i suoi ministri Federica Guidi (Sviluppo Economico) e Maurizio Lupi (Infrastrutture e Trasporti). Non certo per una telefonata a Giletti. La Guidi era stata intercettata nello scandalo Tempa Rossa mentre piazzava un emendamento caro al suo compagno lobbista petrolifero che la usava come “una sguattera del Guatemala”. E Lupi aveva chiamato Ercole Incalza, capostruttura del suo ministero, per dirgli: “Deve venirti a trovare mio figlio”, al cui futuro occupazionale si erano interessati Incalza e l’imprenditore-appaltatore Perotti, il quale gli aveva pure regalato un Rolex da 10 mila euro. Poi il buon uso di licenziare i ministri per motivi etici e conflitti d’interessi, a prescindere dalla rilevanza penale, s’interruppe quando nei guai finirono i fedelissimi Lotti (inchiesta Consip), Boschi (scandalo Etruria) e Madia (tesi di dottorato plagiata). E il giustizialista di Rignano, anche per motivi familiari, si convertì al “garantismo”. Ora però ha rimosso tutto, infatti dice a Bonafede: “Noi non siamo come voi”. Ormai vive in stato di ipnosi, come Woody Allen ne La maledizione dello scorpione di giada, che indaga su una serie di furti di gioielli e poi scopre di averli rubati lui. In trance.

Il suicidio del Tuffatore di Paestum nel romanzo del filologo “scugnizzo”

Uno dei capolavori della pittura di tutti i tempi è la cosiddetta Tomba del tuffatore. Si trova a Paestum, ed è frutto di un felicissimo intreccio di civiltà: v’è la Magna Grecia, vi sono gli Etruschi come popolazioni italiche dell’interno, a testimonianza della comune origine indoeuropea. Risale all’incrocio fra VI e V dei secoli a. Ch, e venne scoperta da allora ch’era rimasta sempre chiusa, dal grande archeologo Mario Napoli nel giugno del 1968. Ora la tomba è aperta, è conservata nel Museo della città, in seguito dotata del nome latino Paestum che sostituisce l’originario Poseidonia: non si può contemplare senza un brivido. È la riproduzione di un convito funebre omosessuale; i convitati giuocano anche al kottabos, una specie di tennis ove le racchette sono i calici e le palle gocce di vino accuratamente dosate, che l’avversario raccoglie nella tazza e rilancia. Ma il dipinto è di carattere, se non misterico, esoterico: sullo sfondo un giovane è sospeso nell’aria. S’è appena gettato da una sorta di trampolino in un liquido rilucente che raffigura la Morte. È, con ogni probabilità, il giovane in onore del quale il banchetto è organizzato. Che cosa raffigura la singola immagine? Un suicidio rituale? Un simbolo del passaggio dal Nulla onde proveniamo a quello ove torneremo? Certo, non si tratta di una manifestazione sportiva.

Un tema siffatto non poteva non generare immensa bibliografia. Ovviamente, di carattere scientifico. Ma il togatissimo filologo classico Luigi Spina possiede uno spirito da scugnizzo napoletano. Così a tale letteratura aggiunge un breve e delizioso romanzo, firmandolo Gigi Spina – per chi non avesse capito che da uno scugnizzo dell’alta filologia proviene. Si tratta de Il segreto del tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum, Napoli, Liguori, 2020, pp. 63, euro 9,90.

Di primo acchito, egli possiede tutto per non piacermi: frammenti di canzoni rock, poesia contemporanea inzeppati nella storia. Il fascino della sua scrittura mi fa ammettere ciò, data la coerenza del contesto. Solo l’orrido “recezione” (gergaccio universitario) in luogo di “fortuna” non gli perdonerò mai: la “fortuna” indica la qualità e la quantità, il modo dell’accoglienza di un’opera o di un tema o di un artista in particolare presso una civiltà successiva nel tempo.

La dottrina e la scugnizzeria di Gigi Spina riconoscono plausibilità alla sua invenzione. Gli “interni” sono la casa del Maestro dipintore, il Narratore il figlio di questo, amico del morto. Un suicidio per amore, nell’antica Magna Grecia, continua tuttavia a parermi più accettabile e di trama serrata se commesso da un uomo per un altro uomo. Per un’etera emigratasene, mah! Certo è che tra gli apocrifi infilati ce n’è uno, memorabile, che più gigispinista non poteva essere. Il gigantesco ed eroico Bute, di Velia e poi trasferitosi a Paestum, era uno degli Argonauti; disdegnoso del canto di Orfeo e fidente solo nella sua forza, nel primo incontro con le Sirene (il secondo è quello, celeberrimo, dell’Odissea), si getta a nuoto verso di loro, ne ascolta il canto e, vittorioso, gli resiste e torna indietro. Sceglie il mondo civile rispetto a quello ctonio. Idealmente a lui (o al Narratore) Gigi fa pronunciare, a chiudere il romanzo, il meraviglioso apocrifo nel quale è contenuto anche il Medio Evo europeo nel rapporto con i classici: “Da antico gigante mi sento come un nano appollaiato sulle spalle del nano che sono diventato durante questi secoli…”

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“La musica ci rende liberi, il passato lo lascio agli altri”

Esce il 4 giugno per Rai Libri il volume di Valentina Bisti “Tutti i colori dell’Italia che vale”. Pubblichiamo stralci dell’intervista inedita a Ezio Bosso, scomparso venerdì.

Ezio Bosso nasce a Torino in un quartiere operaio, sono gli anni di piombo, la tensione si respira nell’aria, la gente parla di politica, di lavoro e di problemi. Ezio ascolta, incamera concetti e pensieri. Poi quando torna a casa la musica diventa la colonna sonora delle sue giornate. D’altronde, a quattro anni, note e melodie, sono già una passione, a dieci ha compreso che suonare diventerà la sua professione e due anni dopo compone le sue prime opere. A quattordici è un contrabassista con tanti sogni, e il primo lo realizza entrando in conservatorio e andando a studiare in Austria con le eccellenze del suo strumento di allora.

“L’aver studiato contrabbasso e aver lavorato per tanti anni nelle file delle migliori orchestre d’Europa proprio come contrabbassista mi ha dato il punto di vista complessivo sull’orchestra, senza contare che molti dei miei musicisti di oggi nella Epo sono miei ex colleghi di quei tempi, quindi amici veri con cui ho diviso tutto, lavoro, tournée, nottate folli post concerto, quello che definisco il terzo tempo di noi musicisti, cioè cene pantagrueliche, tanto studio e viaggi faticosi. Io, poi, ero un contrabbassista anomalo, che non accettava il limite del suo strumento. A quindici anni i miei insegnanti mi dicevano che io volevo suonare tutto: facevo col contrabbasso le sonate per violoncello di Beethoven, il Concerto di Dvorak. Per questo mi hanno spinto alla direzione e alla composizione, perché se vuoi suonare tutti gli strumenti, allora devi dirigere o comporre, non c’è altro modo. Però il contrabbasso mi ha insegnato anche l’umiltà – concetto oggi forse fuori moda – di stare dietro e imparare ascoltando gli altri: volevo stare davanti, sul podio, ma non potevo permettermelo perché ero figlio di operai e un cursus studiorum troppo lungo sarebbe stato insostenibile, bi sognava lavorare per aiutare la famiglia e comunque il pregiudizio era forte. E, secondo un certo mondo musicale, sembra che neppure oggi possa permettermelo”.

A sedici anni Bosso debutta in Francia come solista, compie gli studi di contrabbasso, composizione e direzione d’orchestra all’Accademia di Vienna e collabora con diverse orchestre europee. “Sono tante le cose che mi ha insegnato la musica. La musica che amo, quella che chiamo ‘libera’ perché trovo la definizione ‘classica’ riduttiva e penalizzante, ci insegna ad ascoltare il prossimo e ad ascoltarci, ad avere autocritica e dunque ad approfondire i temi che affrontiamo, quindi, in definitiva, a essere più liberi. Insegna la disciplina e il senso vero dell’impegno profondo. Valori che possono essere declinati in tutte le attività e che oggi sarebbero immensamente utili alla società”.

Ezio Bosso non ama essere definito un testimonial di forza e coraggio. “Non mi piace perché oggettivamente non lo sono. Faccio il mio dovere con lo spirito e l’entusiasmo e il sacrificio che credo sia – o dovrebbe essere – la regola per tutti i musicisti… I momenti che mi commuovono di più sono i gesti puri, disinteressati, senza secondi fini. Dall’altro lato ci sono invece atteggiamenti che mi fanno davvero arrabbiare. Ad esempio la superficialità e l’aggressività del linguaggio di questi tempi. Più che rabbia, mi fa tristezza. La rabbia passa subito e la tengo a bada sorridendo. La tristezza invece rimane ed è un sentimento che fa male”.

La malattia neurodegenerativa che lo affligge dal 2011, gli ha imposto piccole battute d’arresto, “ma la malattia non è un maestro. Se si vuole imparare bisogna predisporsi con animo aperto e studiare, ascoltare, osservare, allora forse anche la malattia ci può insegnare qualcosa. Ma non è la mia identità, è più una questione estetica. Ha cambiato i miei ritmi, la mia vita. Ogni tanto ‘evaporo’. Ma non ho paura che mi tolga la musica, perché lo ha già fatto. La cosa peggiore che possa fare è tenermi fermo. Ogni giorno che c’è, c’è. E il passato va lasciato a qualcun altro”.

‘Ti amo idiota’. In quarantena sono volate le “Favolacce”

Una volta qui era tutto Cinetel. I film uscivano in sala, c’erano i dati giornalieri del box office, e il lunedì quelli fondamentali del weekend: incassi, schermi, media copia. Ora no, non più. Dall’8 marzo scorso non mancano solo i cinema, bensì i dati: dal theatrical al Tvod (Transactional Video On Demand) non è mutato il supporto, è cambiato l’universo mondo.

La finale comunicazione di Cinetel, società partecipata dall’Associazione nazionale esercenti cinema (Anec), fu il 9 marzo, e riguardò l’ultimo weekend cinematografico, quello dal 5 all’8 marzo: andò malissimo, -95,41 per cento rispetto allo stesso del 2019, sebbene dall’inizio dell’anno il saldo – complice Tolo Tolo di Checco Zalone – rimanesse positivo, +5,43 per cento.

Da allora tutto tace, Cinetel non ha di che dire, gli altri che hanno – forzatamente – scelto di saltare la sala e approdare on demand tengono la bocca chiusa.

La società Eagle Pictures che ha mandato in noleggio digitale la sua prima produzione, Un figlio di nome Erasmus di Alberto Ferrari, con Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, dal 12 aprile (Pasqua), e La sfida delle mogli di Peter Cattaneo, dal 25 aprile, si limita a dichiarare che il primo titolo è stato più visto del secondo. Vision Distribution, viceversa, ha portato in Vod 7 ore per farti innamorare di e con Giampaolo Morelli, dal 20 aprile; D.N.A. – Decisamente Non Adatti, di e con Lillo & Greg, dal 30 aprile; Tornare di Cristina Comencini dal 4 maggio; Favolacce dei fratelli D’Innocenzo dall’11 maggio. Nemmeno Vision fornisce i dati di questi pay-per-view: unica eccezione, si fa per dire, il 30 aprile scorso ha comunicato che 7 ore per farti innamorare era “il film italiano più visto sulle piattaforme di noleggio on demand nella scorsa settimana”, e più non dimandare.

Non è troppo dissimile, invero, da quel che fa Netflix, il principale player Svod (Subscription Video On Demand, canone mensile): comunicazioni episodiche per taluni prodotti che hanno ottenuto risultati eccezionali. Ma da qualche mese la piattaforma streaming rivela anche una Top 10 quotidiana e customizzata, declinata per serie tv, film o complessiva. Per esempio, ieri primo assoluto Skam Italia, secondo The Last Dance e terzo White Lines; stessa classifica, ovviamente, tra le serie; per i film, La Missy sbagliata, Natale da chef con Massimo Boldi, Ti amo, imbecille.

Tornando al Tvod, Chili, la società fondata a Milano nel 2012 che porta serie e film a casa in digitale, Dvd e Blu-ray, acconsente a rivelarci i titoli più visti. Nel weekend 14-17 maggio, tra quelli approdati direttamente sulla piattaforma primo Favolacce, secondo Sonic, terzo 7 ore per farti innamorare; tra i contenuti acquistati in digitale, Dolittle, Underwater e Odio l’estate con Aldo, Giovanni e Giacomo; tra quelli noleggiati, Odio l’estate, Jojo Rabbit e Me contro te.

Avere nostalgia del Cinetel pare troppo, però il mutato panorama porta con sé questioni di trasparenza: chi vede cosa, meglio, quanti vedono e pagano cosa. Certo, il mercato è pressoché nuovo, i dati potrebbero essere sconfortanti, nondimeno, una cattiva notizia è comunque meglio di una nascosta, o no?

Per trovarne di buone, in ogni caso, dovremo attendere ben oltre il 15 giugno, allorché i cinema e i teatri potranno riaprire: il via libera non è condizione necessaria e sufficiente perché spettatori e film tornino in sala. Scarsità di prodotto, costi di gestione, protocolli di difficile applicazione, insomma, se va bene se ne riparla a settembre: del resto, al netto del pregevole Moviement dell’anno scorso, l’estate in sala è tradizionalmente del nostro scontento.

Meglio guardare altrove, alle arene, che ospiteranno – al chiuso l’offerta non divergerà troppo – film battezzati in Vod, seconde e terze visioni, più titoli freschi ma non preminenti: sul fronte romano, il Cinema in Piazza del Piccolo America a luglio e agosto animerà gratuitamente San Cosimato, Ostia e Cervelletta, decisione già azzannata dall’Anec Lazio.

Da tenere sott’occhio anche la situazione americana: se Tenet di Christopher Nolan, produzione da 200 milioni di dollari, molla l’uscita del 17 luglio, possiamo tranquillamente archiviare la stagione. L’altro titolo paradigma è Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, con Elio Germano premiato a Berlino, a cui va il Nastro dell’Anno 2020. Uscì in sala il 4 marzo, nel Cinetel dell’8 marzo fu primo, e dunque l’ultimo dei primi, con 115.906 euro. Niente Vod, il biopic di Ligabue tornerà al cinema: non prima di settembre, però.

 

Gli stagionali del turismo esclusi dai 600 euro: “Soluzione a breve”

Gli ultimi degli ultimi. Nella lunga e sofferta attesa di ricevere gli aiuti statali per far fronte all’emergenza economica, ci sono dei lavoratori che hanno meno certezze degli altri: sono gli stagionali del turismo che, senza cassa integrazione, si sono riversati sul bonus 600 euro per scoprire solo venerdì scorso che l’Inps ha respinto in massa le migliaia di domande che avevano presentato.

È una categoria da sempre in bilico. Da aprile a ottobre solitamente vengono impiegati nella settore turistico – si va dai camerieri agli animatori, dagli addetti alle pulizie ai bagnini – per poi richiedere la Naspi nei mesi invernali. Ma ora, a stagione iniziata, non hanno né la certezza di lavorare né quella di ottenere l’indennità da cui attualmente risultano esclusi, così come da tutte le altre misure previste in supporto ai lavoratori autonomi. Tutta colpa di un’errata registrazione del loro contratto da parte dei datori di lavoro. “Alcuni di questi lavoratori non risulterebbero inquadrati come stagionali, ma come lavoratori a tempo determinato, circostanza che non ha permesso al sistema informativo dell’Inps, che non ha responsabilità, di identificarli correttamente ed erogargli il bonus”, spiega Alessandra Todde, la sottosegretaria del ministero dello Sviluppo economico che si è attivata per cercare di risolvere il problema ed evitare che il caso si trasformi in un dramma come quello che stanno vivendo tutti gli altri lavoratori in attesa della cassa integrazione in deroga.

A confermare che qualcosa si sta smuovendo in favore degli stagionali ci sono anche le dichiarazioni della ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo. “Trovare una soluzione è un mio preciso dovere, per questo ho subito chiamato sia l’Inps sia i consulenti del lavoro e insieme a loro sto lavorando per farlo nel più breve tempo possibile”, ha spiegato la ministra.

Agli stagionali del settore turismo e degli stabilimenti termali dovrebbe, quindi, andare un’indennità di 1.000 euro. Mentre per gli altri stagionali, per i lavoratori intermittenti, per i lavoratori privi di partita Iva che nel 2019 hanno guadagnato più di 5 mila euro, il bonus di maggio sarà di altri 600 euro. Per gli autonomi i pagamenti partiranno a giugno e saranno retroattivi fino a coprire marzo, aprile e maggio.

Si vedrà, così come si aspetta fiduciosi la pubblicazione del decreto Rilancio in Gazzetta ufficiale con l’inserimento degli stagionali tra i beneficiari del bonus.

Karlsruhe e il futuro: la Ue si governa contro Berlino?

La sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio ha aperto il vaso di Pandora delle contraddizioni dei tre pilastri della governance europea: giuridico, politico ed economico. Essa è una ferita inferta alla Bce, lasciata sinora sola ad affrontare gli effetti economici della pandemia, e la sua ombra ricade anche sull’iniziativa lanciata lunedì da Angela Merkel ed Emmanuel Macron sul cosiddetto “Recovery fund”.

La sentenza ne ha avute per tutti: Bce, Corte di giustizia europea (CgUe) e persino Parlamento e governo tedeschi, colpevoli di non aver tutelato i propri cittadini. Suo oggetto è stato il programma di acquisti di titoli pubblici e privati (PSPP) iniziato da Draghi nel 2015, più noto come quantitative easing, contestato da alcuni cittadini tedeschi. La Corte ha ritenuto l’intervento legittimo, ma sproporzionato rispetto all’obiettivo di far risalire l’inflazione al 2%. La Bce non avrebbe inoltre tenuto conto delle vittime collaterali del programma, come i fondi pensionistici (tedeschi) danneggiati dai tassi di interessi negativi e, soprattutto, dello sconfinamento della politica monetaria in quella fiscale col sostegno alle finanze pubbliche dei Paesi ad alto debito, così sottratti alla frusta dei mercati e alle inevitabili manovre di aggiustamento.

A oltrepassare le proprie competenze – violazione nota nel diritto tedesco come azione ultra vires – sarebbe stata anche la CgUe che in una sentenza del dicembre 2018 favorevole alla Bce avrebbe sottaciuto le menzionate violazioni. Poiché queste ultime sono costituzionalmente inaccettabili per la Germania, ecco l’ingiunzione alla Bce – in violazione della sua indipendenza – di giustificare entro tre mesi il proprio operato pena il ritiro della Bundesbank dal PSPP. La sentenza ha lasciato i più atterriti.

Dal punto di vista della governance giuridica la sentenza disconosce il principio della superiorità dell’ordinamento europeo su quelli nazionali. L’ordine impartito dalla Corte tedesca alla Bce impallidisce di fronte al colpo inferto all’ordinamento costituzionale dell’Ue. La Corte di giustizia europea ha risposto seccamente ai giudici tedeschi, ma avrà la Commissione europea coraggio sufficiente per intentare una procedura d’infrazione contro la Germania aprendo una crisi nella governance politica? Si può, insomma, governare l’Europa contro la Germania?

Inoltre, dato che la istituzioni che governano l’Europa hanno palesi deficit democratici, difficilmente sinceri democratici potranno contestare alla Corte tedesca di giudicare sulla base della propria “legge fondamentale” se esse rispettino o meno le deleghe loro concesse. Il merito della sentenza può dispiacere, ma il metodo non è facilmente contestabile. Il pasdaran europeista dirà che si tratta allora di democratizzare l’Europa e non di ritirarsi nei confini nazionali. Il punto è che decisioni democratiche pan-europee implicano una solidarietà politica che esisterebbe se l’Europa fosse una nazione, ed essa non lo è, se non per qualche élite finché è gratis parlarne.

Ciò che viene costituzionalmente tutelato in Germania è proprio il diritto dei cittadini di decidere sull’uso delle risorse fiscali nazionali, che non è dunque delegabile. Davvero agli europeisti piacerebbe un’Europa solidale costruita sul rafforzamento delle tecnocrazie europee in barba alle prerogative costituzionali nazionali? Dopo la moneta senza Stato avremmo la solidarietà senza base popolare!

La Corte ha sferrato un colpo mortale anche all’incompleta governance economica europea in cui all’assenza di una politica fiscale comune si è supplito con un sovraccarico di compiti sulla Bce che, alla lunga, non è sfuggita al verdetto di condanna a cui la corte di Karlsruhe da tempo anelava. Attenzione però ad accusare la Corte di incompetenza economica – che naturalmente c’è tutta – in quanto in punta di diritto essa ha anche in questo caso ragioni da vendere: la politica monetaria della Bce ha sconfinato nella politica fiscale.

La Corte tedesca ha così fissato precisi paletti alla Bce: durata prefissata del programma di acquisto dei titoli, rispetto delle quote spettanti a ciascun paese (capital key), dismissione dei titoli a fine programma. Proprio quei paletti che, guarda un po’, la Bce sta violando col nuovo programma volto a sostenere i Paesi più colpiti dalla pandemia.

Implicito l’invito a questi ultimi perché si facciano bastare il Mes light (quello utile per l’acquisto di mascherine senza che le condizionalità iscritte nelle regole esistenti siano state rimosse). E quando i nodi finanziari verranno al pettine ricorrano al Mes vero, ristrutturando il loro debito a carico di banche e risparmiatori e stringendo la cinghia.

Si potrebbe ritenere che la Corte tedesca abbia però rilanciato la palla alla politica europea perché si assuma le proprie responsabilità smettendola di delegarle alla Bce. Al riguardo, non solo il piano franco-tedesco per un indebitamento europeo di 500 miliardi ha vistosi limiti in quanto una tantum, contenuto nella mole, legato a un preciso piano di restituzione a valere sui futuri bilanci europei (che quindi erogheranno meno fondi), vincolato all’adozione di “sound economic policies” da parte dei paesi beneficiari, ambiguo nella destinazione dei fondi (sostenere la ripresa dei Paesi in sofferenza o settori high tech dei paesi più forti?) e da ultimo soggetto al veto degli altri paesi rigoristi.

Siamo però soprattutto lontani anni luce da una riforma organica della governance economica europea, su cui si proietta l’ombra sinistra della sentenza di Karlsruhe e degli interessi nazionali che di essa si fanno scudo.

*professore di economia all’università di Siena

La raccolta in due giorni del Btp Italia (che ricorda i Bot)

I piccoli risparmiatori italiani hanno risposto in massa alla seconda giornata di emissione del Btp Italia destinato a contribuire alle spese dello Stato per il coronavirus. Con il nuovo collocamento che segna numeri addirittura superiori a quelli del giorno d’esordio. Il titolo di Stato indicizzato all’inflazione italiana a scadenza 5 anni, che assicura un rendimento minimo dell’1,4%, ha registrato soltanto oggi 4,77 miliardi di euro che, sommati ai 4,02 di ieri, portano il totale degli ordini dei primi due giorni riservati al “retail” (gli investitori individuali) a 8,79 miliardi di euro. Sarà possibile fino a domani acquistare i Btp. Poi da giovedì sarà la volta degli investitori istituzionali. La precedente emissione, nell’ottobre 2019 con una scadenza a 8 anni e una cedola minima dello 0,65% (la metà di quella attuale), aveva raccolto nei soli due giorni dedicati ai piccoli investitori un totale di 2,99 miliardi, salita poi a 6,75 miliardi con le banche. La risposta dei risparmiatori stavolta è stata particolarmente generosa anche perché l’emissione presenta come novità importante la scadenza a 5 anni
(26 maggio 2025)
e per coloro che sottoscriveranno il titolo in questa fase e lo deterranno fino a scadenza, quindi per l’intero quinquennio, è previsto un premio fedeltà doppio rispetto alle precedenti emissioni, pari all’8xmille del capitale investito.

Inoltre c’è un tasso reale offerto quasi del tutto allineato con il rendimento offerto da un titolo nominale, cioè un Btp, che però non ha l’aggancio all’inflazione.

Nonostante il buon risultato del secondo giorno di collocamento del Btp Italia, quella di ieri per Piazza Affari non è stata una giornata facile. Milano è riuscita a recuperare leggermente solo sul finale con il Ftse Mib che ha ceduto in chiusura il 2,11% a 17.034 punti, dopo che era arrivato a cedere oltre il 3 per cento.

E ora la pay-tv lascia a casa 300 addetti al call center

Essenziali durante tutto il periodo di lockdown, ma ora costretti a una battaglia per mantenere il posto di lavoro. La parabola di oltre 300 addetti impegnati nei call center di Sky – circa 250 a Palermo e 50 a Milano – è già tornata in discesa. Il colosso della televisione a pagamento ha deciso di chiudere il rapporto con Almaviva, società che dal 2003 ha in mano l’appalto del servizio clienti. Dopo 17 anni, la commessa scadrà e – spiegano da Sky – “non seguirà alcun subentro nell’appalto”: si punterà su un nuovo modello per il quale, a dicembre 2019, è stato riformato il personale interno della sede di Cagliari.

Oggi è previsto un incontro al ministero del Lavoro. Sky sarà presente. La comunicazione sull’intenzione di far finire il rapporto con Almaviva è arrivata ai sindacati il 30 aprile. Nessun chiarimento, insomma, sulle azioni per salvare 300 posti. Tanto è bastato a far piombare nell’ansia i lavoratori che ora rischiano di essere spediti a casa a partire dal primo di luglio. Questa volta non per continuare a rispondere alle telefonate in “smart working”, come l’emergenza coronavirus sta imponendo, ma con in mano una lettera di licenziamento.

Da settimane il collettivo Almaworkers di Milano è in allarme. Nei giorni scorsi c’è già stato un incontro tra Sky e i sindacati della comunicazione di Cgil, Cisl e Uil. In quell’occasione l’impresa ha assunto un generico impegno di mantenere lavoro a Palermo e Milano, ma non “ha riconosciuto l’applicazione della clausola sociale”, ha spiegato Riccardo Saccone della Slc Cgil. Cioè non sarà assicurato quel meccanismo che, nei cambi d’appalto, prevede il trasferimento automatico di tutti i lavoratori, con le stesse condizioni e gli stessi diritti acquisiti con il precedente contratto. Ecco perché le sigle hanno risposto con un duro comunicato: “Non è ammissibile recedere dal rapporto commerciale con Almaviva senza rispettare le leggi”, hanno scritto.

In pratica, dietro questa manovra di Sky c’è l’intenzione di tagliare. E farlo evitando di andare ancora una volta ad agire sugli organici interni.

Il momento è delicato: tra marzo e maggio, con tutto quello che ha comportato il “confinamento” casalingo, i call center della pay tv sono stati completamente operativi. Con il campionato fermo, alcuni clienti hanno disdetto il pacchetto calcio, altri hanno attivato il cinema. Insomma, il “customer care” svolto dagli addetti in cuffia ha avuto una grande utilità in una fase che ha cambiato, in un senso o nell’altro, le abitudini degli italiani. I prossimi mesi porteranno incertezza. Da un lato, l’eventuale ripresa della Serie A con gli stadi chiusi potrebbe fruttare abbonamenti, dall’altro la crisi in arrivo potrebbe frenarli.

Il Fatto Quotidiano ha chiesto a Sky di spiegare quanti posti di lavoro potranno essere mantenuti e da chi. L’emittente non ha risposto, limitandosi a dichiarare che “i servizi oggetto di appalto con Almaviva non saranno in alcun modo delocalizzati da Sky all’estero (ipotesi circolata in questi giorni, nda), né in Europa né in territori extra-Ue” e aggiungendo che “il 30 giugno è il termine di scadenza naturale del contratto, non ci troviamo di fronte ad alcun recesso o conclusione anticipata”.

5G, la guerra sulle frequenze tv che arricchiscono i soliti pochi

Fare spazio al 5G costa. Per la precisione, può costare fino a 304 milioni di euro in termini di risarcimenti per gli operatori radiotelevisivi che dovranno liberare le frequenze su cui dovrà viaggiare il segnale della rete internet di nuova generazione (700 Mhz). Soldi che dal ministero dello Sviluppo potrebbero andare ai centinaia di editori per permettergli, magari, di partecipare alla gara per l’assegnazione delle nuove frequenze o, visto che i multiplex nazionali nel passaggio al digitale terrestre di seconda generazione si ridurranno da 20 a 10 e quelli locali da 18 a 5, di prendere i soldi e rinunciare. I fondi, certo, non mancano: l’asta per il 5G ha fruttato l’anno scorso 6,5 miliardi di euro. L’abbondanza, però, non giustifica per il Mise le richieste degli operatori e l’alternativa su cui si sta lavorando, ovviamente, fa infuriare chi teme di vedersi sfuggire decine di milioni di contributi pubblici.

La proposta arrivata dagli operatori a inizio gennaio prevedeva che ognuno fosse indennizzato sulla base del numero di abitanti presenti nell’area coperta dal segnale delle emittenti del gruppo. Ne era anche stata stimata la cifra: 0,37 euro a persona. Al ministero l’hanno presa in considerazione, tanto da spingersi a farne una simulazione. Veniva però fuori che 80 milioni di euro sarebbero andati a soli nove operatori su 312, in tutta Italia. In pratica, quasi un terzo della dotazione andava a meno del 3 per cento delle emittenti. Numeri che, oltretutto, agli uffici di del Mise non sembravano giustificati dagli investimenti effettuati per le reti e la copertura della popolazione. L’alternativa a cui si lavora, adesso, è rimodulare gli indennizzi, partendo peraltro dai pareri chiesti ad Agcom e Antitrust: le due authority, di fatto, raccomandano di evitare di favorire gli operatori con indennizzi spropositati (soprattutto in ottica di nuove acquisizioni possibili e visto che molte frequenze sono state date a titolo gratuito) e di tenere conto che molte spesso fanno capo allo stesso operatore. L’Agcom propone anche di non far riferimento ai ricavi ma al valore di scambio nella compravendita delle frequenze, il ministero però non detiene tutti i dati sui prezzi di vendita proprio perché molte sono state concesse a titolo gratuito. La soluzione potrebbe essere quella di basarsi sui valori economici degli impianti, l’Antitrust propone di legare gli indennizzi agli investimenti parametrandoli non ai ricavi, ma ai cosiddetti “costi irrecuperabili” sostenuti per la realizzazione delle reti, documentati ad esempio con le fatture. Quale che sarà l’esito, la guerra si è spostata sul piano politico. “Il decreto legge ‘Rilancio’ non dovrebbe più contenere la norma, particolarmente contestata da Aeranti-Corallo insieme alla Associazione Tv locali di Crtv e alla Alpi, finalizzata a introdurre criteri di indennizzo delle frequenze dismesse diversi da quelli adottati con le precedenti procedure – scrivevano nei giorni scorsi le associazioni di categoria – Si basava, invece, su criteri complessi, che presuppongono un lungo iter procedimentale che, come tali, non avrebbero permesso di conoscere immediatamente gli importi degli indennizzi”. L’emendamento proponeva la visione del Mise, cara oltretutto alla sottosegretaria Mirella Liuzzi: “Indennizzare sulla base di stime dei valori economici degli impianti trasmissivi in funzione della loro classe di potenza”. Dati che l’Agcom già detiene, semplificando così tutto l’iter e garantendo una distribuzione più orizzontale degli indennizzi. Visione che ad ogni modo potrebbe trovare spazio in un decreto interministeriale Mise-Mef.

Le emittentiintanto scalpitano. Il 30 aprile il Mise ha pubblicato il bando per il rilascio anticipato delle frequenze e i deputati Federica Zanella e Giorgio Mulè (FI) hanno fatto una interrogazione. Il tema è sia storicamente caro alla destra, sia politicamente allettante per gli interessi che rappresenta. Con il sistema prospettato dagli operatori, 40 milioni di euro potrebbero andare al gruppo Canale Italia Due (riconducibile a Canale Italia, emittente veneta di Lucio Garbo, ex consulente del senatore Maurizio Gasparri), almeno 28 milioni potrebbero andare al gruppo 7 Gold (attraverso diverse affiliate e controllate) e 8 milioni alle emittenti siciliane riconducibili all’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo, l’editore della Gazzetta del Mezzogiorno imputato per concorso esterno in associazione mafiosa.