Sky e calcio: così finisce un’epoca tra debutto nella telefonia e tagli

Tra circa un anno Sky Italia diventa maggiorenne. Fu fondata il 31 luglio 2003. Nei dizionari degli sportivi italiani, Sky sta per calcio in tv. Più clienti paganti in salotto, meno tifosi paganti negli stadi. Le società che consegnano se stesse ai palinsesti. La coppia Sky e Serie A ha attraversato quasi vent’anni, unita da una dipendenza soffocante e da una commistione di interessi: l’azienda di Rogoredo ha drenato abbonati sguazzando in un mercato con una concorrenza allegorica, i padroni del pallone hanno aumentato il fatturato con decine di miliardi di euro senza investire un fiorino o un’idea.

Quest’epoca sta per congedarsi. Ci si deve abituare a un’abitudine che finisce. Sky non ha saldato i 131,6 milioni di euro di maggio per i diritti tv, ultima rata di un campionato sospeso da marzo per pandemia. La Lega di Serie A rivendica quel denaro assieme agli altri 81 milioni di Dazn e Img. La disputa con Sky, però, è capziosa e parziale. Come i politici che per ingannare l’uditorio concionano di riforme istituzionali.

Qui la faccenda è più grave e più seria, riferiscono varie fonti al Fatto: Sky non ha intenzione – e le risorse autorizzate dalla proprietà americana Comcast sono ridotte – di sborsare ancora 789 milioni di euro per la prossima stagione o cifre simili in futuro e permettere al calcio di sopravvivere. Il calcio, cioè la Lega Calcio, sa che lontano da Sky non sopravvive se non è capace di spendere un’idea, se non proprio un fiorino. In questo momento di tensione e di finzione, tra lettere dei legali, richieste di sconti (la tv ne vuole 120/140 milioni all’anno), probabili contenziosi in tribunale, bozze di decreti ingiuntivi, la coppia sta discutendo la separazione e stabilendo gli alimenti.

Il contratto siglato per il triennio 2018/21 non contempla deroghe: se il calcio ripartirà in giugno, Sky farà il bonifico. Poi toccherà a luglio, anticipo per la prossima stagione. E in autunno sarà già tempo di asta per il 2021/24. Claudio Lotito e colleghi non si rassegnano alla pandemia e pretendono almeno un miliardo a campionato, più gli introiti dall’estero (Img garantisce 367 milioni). Sky contribuisce con 789 milioni, altri 193 li hanno messi quei generosi di Dazn. Comcast potrebbe non avallare un esborso superiore al mezzo miliardo. Allora il canale di Lega, che l’altroieri appariva un insulto a Sky perché non prevede l’esclusiva, domani potrebbe accontentare tutti e lasciare il rischio dell’impresa a uno solo: la Lega medesima. La trattativa sullo sconto non è altro che il prologo alla trattativa per i diritti tv per il 2021/2024. Il virus non ha alterato l’equilibrio tra Sky Italia e Serie A, ma ha accelerato un processo che di soppiatto si è innescato due anni fa. Quando gli americani di Comcast hanno strappato il gioiellino Sky Europa a Rupert Murdoch e figli per 33 miliardi di euro e li hanno liquidati con altri 13,5 miliardi.

Comcast ha inondato gli Stati Uniti di telefonia fissa e tv via cavo. Questo era il mestiere agli esordi. La dinastia dei Roberts è nata con la cornetta, poi ha allargato gli affari, persino ai parchi giochi: NBC Universal, Universal Pictures, Dreamworks Animation. I Roberts hanno comprato Sky per la dote di 24 milioni di utenti europei, di cui 5,2 italiani. Volevano esportare un modello, il più classico degli integrati: Internet a casa con la banda larga (anche mobile, in Uk già funziona), una televisione a pagamento in stile Netflix con contenuti pregiati di sport e canali gratuiti come TV8 per ammassare pubblicità. Con un po’ di ritardo, il modello sta per debuttare in Italia (il Fatto ne parlò a ottobre 2018). Da luglio il gruppo proporrà agli italiani l’attivazione di Internet a casa. Quanto al nome, scarso apporto di fantasia e ballottaggio tra “Sky fibra” e “Sky wi-fi.”

Per archiviare la vecchia Sky, il comando centrale di Londra, che vigila sull’Europa, da ottobre ha reclutato Maximo Ibarra, un amministratore delegato con una rodata esperienza nella telefonia e completamente digiuno di editoria e di pallone, tranne per il legame personale con Gabriele Gravina, presidente della Federcalcio e compagno di sua sorella. Ibarra per lo sport si è affidato al vicepresidente Marzio Perrelli, banchiere di successo, assai gradito a Giovanni Malagò del Coni che voleva spedirlo in Lega. L’ex ad Andrea Zappia ha portato Sky Italia a una condizione di egemonia nello sport e di rilevanza politica col tg. Questa avanzata nel deserto dei regolamenti italiani si è arenata in un bilancio con una crescita dei ricavi (3,29 miliardi, più 10%) e un saltello degli abbonati da 4,855 milioni a 5,195, ma soprattutto con un’esplosione dei costi e una perdita di 41 milioni dopo 100 di utili.

Ibarra deve sanare il bilancio – ancora non brillante – e curare il travaso di clienti dalla televisione al pacchetto “televisione più Internet”. Il calcio serve a ottenere un travaso ordinato. È una fondamentale motivazione di acquisto, ma non sarà più l’unica. A Rogoredo ci si chiede che ruolo abbia un telegiornale in un’azienda che deve sedurre gli italiani con i giga. Ibarra e la prima linea aziendale sono in quarantena a Roma dal 23 febbraio. La Capitale fu abbandonata (resta uno studio in zona Montecitorio), fra trasferimenti e licenziamenti, per issare a Milano, zona Santa Giulia, il polo della tv, tre palazzi da otto piani. Per lo stabile più nuovo si riflette (da Roma) sulla dismissione. E Ibarra, per assecondare le pressanti indicazioni in arrivo da Londra, valuta i tagli da applicare: riduzioni di organico e di stipendi alle voci accordo integrativo e superminimo, eliminazione dei buoni pasto con un sussidio per il pranzo da spendere in mensa aziendale.

Si smussa ovunque. Sta per interrompersi, per esempio, il rapporto con Almaviva che per 17 anni ha fornito 300 operatori telefonici. Risparmi vistosi e piccini. A migliaia di dipendenti su 3.037 che lavorano da casa, più i collaboratori, la piattaforma interna propone acquisti per allestirsi l’ufficio a domicilio. Sono in vendita sedie ergonomiche, in promozione grazie alle imperdibili convenzioni, che vanno da 150 a 1.600 euro per un esemplare in stile ad. Ci si può sentire comodi come si è sentito comodo Ibarra quando è capitato a Rogoredo. Venerdì mattina per introdurre i dipendenti nei meandri del “decreto rilancio”, l’azienda ha comunicato l’opportunità di una consulenza a 20 euro per comprendere i segreti del “bonus baby sitter”. Venghino, siori, venghino.

“Il potere di Amazon non ha limiti. Va contenuto per il bene di tutti”

Le cose più interessanti che sappiamo sui giganti digitali del nostro tempo le dobbiamo a ex manager usciti di scena. Come Martin Angioni che nel suo Amazon dietro le quinte (Raffaello Cortina), in uscita domani, racconta ciò che ha visto della società di Jeff Bezos. Country manager per l’Italia fino al 2015, fu licenziato per un’intervista-gaffe in cui prendeva in giro gli accertamenti del fisco italiano.

Nel 1999 la bibbia del giornalismo finanziario, Barron’s, titolò “Amazon.bomb” prefigurandone il fallimento, schiacciata da Walmart. Cosa è successo?

È successo che Amazon oggi controlla metà delle vendite online Usa, a fine 2019 ha fatturato 280 miliardi, un po’ più della metà di Walmart, primo retailer del mondo. I concorrenti ne hanno sottovalutato il first mover advantage, l’essere stata una velocissima lepre (cresce del 20% a trimestre), da subito focalizzata sul settore in maggior crescita senza dover difendere i costi dei negozi fisici. Ha acquisito i clienti e con Prime li ha fidelizzati, ha aperto ai venditori terzi aumentando l’offerta. Oggi ne ha più di 3 milioni e 2 miliardi di pagine di dettaglio. È l’azienda che più velocemente nella storia ha raggiunto i 100 miliardi di fatturato. Aws, la controllata del cloud, è quella che più velocemente ha raggiunto i 10. Predomina in tutti i settori, merito di un approccio “bimodale”: execution spietata, rigorosa, militare e capacità d’innovare.

Cosa l’ha colpita di più del mondo Amazon?

L’intensità con cui si lavora: 4 anni equivalgono a 12. È un predatore studiato in laboratorio per battere tutti. L’intelligenza collettiva mette continuamente a punto processi che organizzano ogni aspetto della vita dell’azienda e chi non ci sta alla fine è costretto a lasciare. Bezos odia le gerarchie, il modello di leadership diffusa (“non si sa da chi possa venire l’idea geniale”) spinge tutti a innovare sempre. Gli “amazonians” sono geneticamente modificati, parlano nello stesso modo, ripetono le stesse formule, hanno sempre un obiettivo. A molte domande rispondono che non sanno o non possono dire. Come se avessero dismesso l’identità e fossero solo emissari di Amazon. C’era un motto: “If you’re a good amazonian, you become an Amabot”.

Da consumatore cosa bisogna temere?

Raggiungerà una posizione di dominio tale da non avere più rivali. Temo non continueremo a godere dei prezzi e servizi a condizioni imbattibili di oggi.

Oggi negli negli Usa l’Antitrust si sta muovendo ma finora l’idea era che finché non fa alzare i prezzi, il monopolio non è un problema.

Amazon compensa i prezzi predatori con cui schianta i concorrenti con le commissioni ai venditori terzi, quindi i consumatori non lo vedono. I prezzi sono bassi sul retail (il 40%), che è in utile negli Usa ma in perdita strutturale altrove, e massimizza il traffico dei clienti obbligando i venditori (il 60%) a competere sui prezzi se vogliono vincere la “buy-box”, il bottone per l’acquisto. Poi incassa un 15% medio di commissione, un bel margine, che aumenta se si utilizzano i servizi di logistica, in crescita come, di molto, la pubblicità: è il terzo player dopo Google e Facebook.

Risparmia anche molte tasse, lei ne sa qualcosa.

Nel mio libro parlo dell’ottimizzazione che si basa sullo sfruttamento della proprietà intellettuale (IP) e del tax ruling, l’accordo fiscale con il Lussemburgo. Ci sono varie società, la holding e quella operativa. La proprietà intellettuale viene ceduta dalla prima alla seconda, che ne paga l’utilizzo. La remunerazione passa per le royalties, che trasformano i profitti in pagamenti di proprietà intangibili alla capogruppo. La società che controlla la holding lussemburghese è controllata da soggetti non residenti in Ue ma negli Usa, e quindi non è tassata in nessuno dei due Paesi. Nel 2018, Bruxelles ha sanzionato l’accordo con il Lussemburgo. Un mese dopo il mio licenziamento, 1° maggio 2015, la filiale italiana ricevette la partita Iva che prima era di Amazon eu Sarl, la sede europea e a dicembre 2017 chiuse l’accordo con l’Agenzia delle Entrate, che sanava con 100 milioni l’accusa di stabile organizzazione. Amazon paga l’Iva solo sui prodotti fisici, non sugli intangibili. Per i servizi a più alta marginalità fattura in Lussemburgo.

Oltre l’economia, è un problema per la democrazia?

Shoshana Zuboff di Harvard parla di Surveillance Capitalism: le piattaforme utilizzano i dati dei clienti per influenzarne le decisioni e fare extra-profitti. Queste aziende hanno poi una enorme potenza di fuoco di lobbying a Washington e Bruxelles. Amazon è quella che in termini incrementali ha investito di più. E Bezos controlla il Washington Post.

“Se non ci piacciono certe cose di Amazon, dobbiamo mettere in atto protezioni legali per fermarle”, ha detto l’ex manager Amazon Tim Bray, che si è dimesso in protesta. Cosa si deve fare?

Comportamenti individuali: i consumatori del 2020 non sono quelli del 1960. Abbiamo capito che il fumo è nocivo e che il riscaldamento globale è un problema, credo quindi sia nostra responsabilità fare scelte informate. Chi vuole dipendere dal “gigante buono”, amico dei consumatori, ma pur sempre spietata multinazionale? Chi può dire come si comporterà quando non avrà più concorrenti? Alexa, ad esempio, in casa mia non entrerà. Non mi va di essere ascoltato, di dipendere da una azienda che esiste per vendermi i sui servizi e accumulare utili.

Perché Amazon è opaca sul suo funzionamento?

Queste aziende hanno obiettivi totalizzanti, vogliono catturarci e darci tutto. Quindi competono e sono gelose. Si è parlato di kill zone, della loro capacità di intercettare sul nascere ogni forma di concorrenza e assorbirla. Proprio sulle acquisizioni di aziende e nuove realtà indagano sia Commissione Ue che FTC statunitense. Lavorare con questi colossi è un gioco con un solo vincitore. Chi fa business con loro è un pesciolino che nuota con gli squali. Quando crei valore, ti catturano.

L’eterna leggerezza di Fiorello il mattatore

Ecosì Fiorello ha compiuto sessant’anni. Lo aveva minacciato in piena fase 1, quando il cinquantanovenne Colao, da Londra, valutava se chiudere in casa i sessantenni, e ha mantenuto la promessa. Come non passa il tempo. Sembra ieri che Fiore trasformava le piazze d’Italia in villaggi vacanze, facendogli scoprire il karaoke. Correva l’anno 1992 e da allora è ancora lui, coda di cavallo a parte, ha attraversato ogni genere dell’intrattenimento da mattatore vecchia maniera nonostante i mattatori vecchia maniera fossero in via di estinzione.

Negli ultimi trent’anni la televisione italiana è stata preda di una mutazione genetica fino a diventare un salotto continuo dove le vere soubrette sono i politici, a cui gli opinionisti fanno da corpo di ballo. Oggi solo Vincenzo De Luca rivaleggia con Fiorello, mentre il miglior comico su piazza è Feltri che imita Crozza che imita Feltri. Quando Sua Pippità abdicò al trono in favore del ragionier Conti e dell’antropologo Bonolis, Fiorello era già l’ultimo showman televisivo nato fuori dalla televisione, fuori dai reality, dai troni, dalle giurie, nato quando il talento girava alla larga dai talent show. Nel dilemma “mi si nota di più” ha capito che per lui una cosa non esclude l’altra, anzi, così lo si è notato perché c’era e perché mancava, è rimasto se stesso cambiando ogni volta spalla, giocando di sponda ora con il web, ora con la radio, ora con i telefonini. È riuscito a dare nuova vita perfino alle edicole, e sa il cielo quanto ce n’era bisogno. I sessant’anni non lo colgono di sorpresa, casomai il contrario. Metà ultimo dei Mohicani e metà pioniere, one man show per vocazione e per spirito del tempo, giunto all’età della saggezza non ha eredi né potrebbe, già da prima tutti monologavano in diretta a caccia di follower, il virus ha dato il colpo di grazia. E allora lui dopo il prossimo Sanremo medita la pensione. La vera nuova frontiera. Non esiste l’eterna giovinezza, esiste l’eterna leggerezza, come noto insostenibile. Buon sessantesimo Fiorello, Peter Pan, prendi nota.

Alla fine vince Mr Cairo e perdono tutti

Il capitalismo straccione italiano attiva i suoi giornali per fare dell’operazione Fca-Intesa la “formula innovativa per l’economia di tutto il Paese” (sic) e così illumina il futuro che ci attende. Se le cose vanno come devono, il prestito garantito dallo Stato aiuterà gli azionisti ex Fiat a staccarsi un mega dividendo di pari importo nel 2021, quando consegneranno il controllo dell’azienda ai francesi della Peugeot. La nostra classe dirigente non sembra avere coscienza del disastro in arrivo. Due settimane fa su questo inserto Giorgio Meletti ha raccontato la frattura che sembrava dividere in due quel che resta dei capitalisti italiani (“dott. Messina e Mr Cairo”). Da una parte gli spaventati simboleggiati da Carlo Messina, il capo di Intesa Sanpaolo che lancia appelli alle famiglie imprenditoriali italiane perché riportino in Italia soldi e sedi delle loro aziende e lasciare gli aiuti pubblici a chi non ce la fa. Dall’altra i furbi (o distratti che non hanno capito cosa sta succedendo) come Urbano Cairo, patron di quella Rcs che fa profitti ma chiede l’aiuto pubblico per tagliare la redazione del Corsera (e, bontà sua, alla fine ha evitato di prendersi il dividendo, limitandosi a un sobrio bonus da 1 milione). Nel giro di due mesi siamo passati dal “nulla sarà come prima” al “tutto deve tornare come prima e il prima possibile”. Messina ha contrattato col Tesoro la garanzia pubblica per Fca, gruppo che, oltre alla sede all’estero, avrebbe la liquidità sufficiente per non chiedere aiuti. Confindustria pretende e ottiene di abbuonare l’Irap anche ad aziende che non hanno subito la crisi e tuona contro le norme contro il contagio in fabbrica. Il decreto Rilancio è stato stravolto dalla burocrazia ministeriale intenta a infilarci di tutto, dagli avanzi di magazzino ai regali ai soliti amici. La meglio borghesia italiana dunque non ha lezioni da trarre dal disastro del Covid. Alla fine ha vinto Mr. Cairo, anche perché il dott. Messina stava bluffando. Tutti lottano per restare padroni di un sistema alla deriva. E, alla fine, perderanno tutti.

Mail box

 

Le istituzioni si sono dimenticate della scuola

La Scuola rimane la sorella povera della Famiglia Italia. Eppure, anche in questa situazione di sbando essa ha “tenuto”, ancora una volta, grazie ai docenti, che non si sono risparmiati per raggiungere tutti, studenti e famiglie e contenere la (aumentata) dispersione scolastica e colmare il divario sociale. Gli insegnanti hanno tenuto il timone, senza il supporto di governo o Miur. Mentre i docenti tenevano i motori al massimo, lavorando fino a 13 ore al giorno, uno sprovveduto “tutti promossi” a metà marzo (ritrattato un mese dopo), ha silurato proprio i più bisognosi, che, privi di sostegno, si sono inabissati. Ma siamo ancora in alto mare: non conosciamo le modalità logistico-pratiche degli esami di maturità né come rientreremo a scuola a settembre. Mancano linee guida e fondi a sufficienza. L’attuale stanziamento di 1,5 miliardi di euro, che copre un terzo del fabbisogno (ne servivano 5 per rientrare in sicurezza e potenziare la Scuola), è un’elemosina atta a fare qualcosa per qualcuno senza far davvero nulla per tutti. Investire così poco nella formazione dei vostri, dei nostri figli ci rimbalzerà in faccia, a tutti quanti.

Maria Cristina Savioli, docente

 

Sarebbe bello se Luttazzi tenesse una rubrica in tv

Carissimo direttore, sono felicissima della vostra decisione di ospitare la rubrica di Daniele Luttazzi. E così, ogni mattina, leggendo faccio lo sforzo di immaginare la sua faccia e la sua voce mentre inanella le sue cattiverie. Però no, non è proprio la stessa cosa che averlo in video: non ci sono le sue espressioni, i suoi occhietti ficcanti, le sue memorabili pause. Sarebbe bello se tenesse una rubrica in tv prima del Tg di Gomez sul 9.

Carla Ricci

 

Le connivenze tra stampa e impresa sono pericolose

Ho cercato, specialmente in questo periodo difficile per il nostro Paese, di domandare a me stesso quale fosse il ruolo dell’informazione, ovvero se essa debba rispondere alle esigenze dei proprietari-imprenditori-editori oppure ai cittadini. Credo che sia un diritto pretendere una sana e corretta informazione, considerato che quasi tutta la stampa viene finanziata con denaro pubblico. Personalmente trovo scandaloso che i principali quotidiani, a eccezione del Fatto, abbiano taciuto sulle dichiarazioni pronunciate dall’onorevole Orlando, vicesegretario del Pd, sul pericolo di un preordinato disegno da parte di lobby affaristico-imprenditoriali-editoriali di scompaginare l’assetto governativo per mettere le mani sui miliardi di euro per la ripresa socio-economica del nostro Paese. Credo che un primo indizio sulle dichiarazioni dell’ex ministro Orlando sia riscontrabile nella richiesta di Fca di ottenere un prestito da 6,3 miliardi garantiti per l’80 per cento dallo Stato italiano. Quello che non capisco è il silenzio delle principali forze di opposizione sul tema.

Luigi De Luca

 

Trump, un presidente miliardario quanto folle

Quanto sono irresponsabili alcuni potenti della terra? Donald Trump, che vorrebbe, tra l’altro, far processare e far sbattere in galera Barack Obama, continua a comportarsi da provetto “microbiologo”. Ha fatto licenziare prestigiosi scienziati per il solo fatto che hanno illustrato lo stato dell’arte. E ancora, il virologo ufficiale della Casa Bianca Fauci ha sostenuto che occorrerà un anno o due per avere un vaccino. Lui, il “competente” Donald (esperto non si sa in che cosa), per vellicare la pancia dei suoi supporter No vax, ha tuonato: “Il virus se ne andrà, con o senza vaccino”. Il presidente stramiliardario sfondato, proprietario di mezza America, ha espresso così la sua solidale dottrina economica: “Meglio i morti che fermare l’economia”. E, comunque, secondo l’illustre “epidemiologo” Trump, il contagio potrebbe essere fermato “ingerendo o iniettando del disinfettante”.

Marcello Buttazzo

 

Fca/1: ci saranno sanzioni se non rispetta l’accordo?

Ho letto con molto interesse gli articoli sulla questione Fca e confesso di essere un po’ perplesso sulla sicurezza mostrata dal ministro Gualtieri. Non vedo quali siano le sanzioni previste se Fca non dovesse rispettare i termini dell’accordo. Come si valuta la sua eventuale inadempienza? Entro quanti anni deve disporre i propri investimenti per le attività in Italia? Se non onorasse il debito, ne nascerebbe una sofferenza per la banca che poi in definitiva graverebbe sulle tasche dei poveri depositanti. Non stiamo, poi, a guardare la superficialità dell’Innominabile che è impegnato a riportare la Boschi ministro. Voglio vedere se è capace di far cadere il governo per lei.

Marco Olla

 

Fca/2: i prestiti al settore delle auto sono rischiosi

Leggo con molta apprensione del prestito che il governo intende garantire a Fca nonostante la loro fuga in paradisi fiscali europei o le promesse da loro non mantenute. Ma ora non ci sarà più il ritorno all’acquisto delle auto come prima (e il settore era già in crisi): nel breve periodo non ci sono soldi e, nel lungo, le priorità delle persone cambieranno in maniera sostanziale. Questa fusione di Fca in Psa servirà solo a mettere insieme due debolezze che non faranno una forza. Se esistono investimenti a rischio, prestare soldi a Fca in questo momento è un rischio grandissimo.

Stefano Zaccaron

 

I NOSTRI ERRORI

A corredo dell’articolo sul Fatto di ieri – “Capalbio, mare solo dopo la schedatura” –, al posto della foto dell’attuale sindaco di Capalbio, Settimio Bianciardi, è stata pubblicata quella del precedente sindaco, Luigi Bellumori. Ce ne scusiamo con gli interessati, i cittadini di Capalbio e i lettori.

FQ

Un nostro attento lettore, Nicola Maggio, ci segnala che nell’articolo “Sono tutti contro tutti”, sul Fatto del Lunedì, viene citata la società farmaceutica americana Merck, da non confondere con la tedesca Merck Kgaa, a sua volta denominata semplicemente Merck in tutto il mondo (tranne che negli Stati Uniti, ove è denominata Emd Serono). Le due società sono entità totalmente distinte e separate.

FQ

Fase 2. Riaprire non significa “liberi tutti”: mascherine e distanza sono obbligatorie

Gentile redazione, le disposizioni governative sulle modalità di comportamento dei cittadini, in occasione della riapertura delle attività e della circolazione da lunedì, sono molto chiare e devono essere note a tutti. Della necessità di riavviare il sistema produttivo non vi è dubbio alcuno, ma solo il comportamento dei singoli sarà in grado di scongiurare un nuovo dilagare dell’epidemia, e a tale proposito numerosi sono stati gli appelli alla responsabilità inviati alla popolazione.

Abitando io nel centro di Roma, la mia passeggiata pomeridiana si svolge, quasi sempre, tra piazza del Popolo e piazza Venezia. Domenica pomeriggio, forse in previsione della imminente riapertura del giorno dopo, i romani hanno pensato di dover “scaldare i motori” e così un fiume di gente si è riversata in piazza del Popolo, via della Scrofa, piazza in Lucina, piazza del Pantheon e via del Babuino. Le raccomandazioni di osservare la distanza di sicurezza e di portare la mascherina sono state disattese da una gran massa di persone e in particolare dai giovani, non pochi dei quali si sono abbandonati ad abbracci e baci collettivi.

Infastidito, ma ancor più preoccupato, mi sono rivolto ad alcune pattuglie di carabinieri per sollecitare un loro intervento. Non ho ottenuto risposta, e sì che nel corso del colloquio un gruppetto di giovanette, rigorosamente tutte a braccetto e senza mascherina, ci è passato vicino.

Egregio presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, se i romani continueranno a comportarsi in questo modo, ho il timore che una nuova chiusura non tarderà a rendersi necessaria e questa volta il danno per l’economia sarà irreversibile.

Distinti saluti.

Marcello Scalzo

Il grande spettacolo dei presidenti: santi o mitomani?

Come i nostri lettori sanno, ci stiamo appassionando alla saga dei Presidenti di Regione, a cui da lunedì è passata la palla dell’interruttore chiusure/aperture. Ieri, intervenendo su Sky, Attilio Fontana è tornato sull’affaire Ospedale in Fiera (chiuso perché non ci sono ricoverati). “L’ospedale sarà sempre allestito e sarà uno dei presidi più importanti. È talmente importante che nonostante le strumentali polemiche che si sono fatte è stato preso ad esempio da tante altre Regioni e anche da una nazione importante come la Germania che a Berlino ha realizzato una cosa assolutamente identica alla nostra. Se si vuole fare polemica, si può fare polemica su tutto”. Per carità, noi non vogliamo fare polemica: vorremmo solo sapere perché non risponde alle domande e alle critiche di un altro Luciano (Gattinoni, uno dei maggiori esperti mondiali di terapia intensiva e rianimazione, guest professor a Gottinga, in Germania, e professore emerito alla Statale di Milano).

Al Fatto (un mese fa!) il professore disse tra le altre cose che una terapia intensiva deve essere interna all’ospedale “perché ti può servire un cardiologo, il laboratorio, qualunque cosa”… . E dunque l’ospedale in Fiera è “un’operazione politica” che “fa ridere i polli”. Però resterà lì in attesa di una eventuale seconda ondata in autunno, e avrà le stesse criticità della primavera. Ma va bene: chi siamo noi per dire che si potevano potenziare i presidi negli ospedali già esistenti?

A proposito di Fiera delle vanità, attraversando il Paese (virtualmente, fino al 3 giugno) arriviamo al paradiso del cittadino italiano: la Campania. Regione dotata di innumerevoli meraviglie, tra cui uno showman che in queste settimane ha perfezionato un format televisivo (che ha come unico protagonista lui medesimo e le mirabolanti prestazioni della sua macchina amministrativa). Nel suo live quotidiano ci delizia con affermazioni perentorie, incontrovertibili, imperative come un comandamento o come l’ordine di uno sceriffo. Attenzione: “Lo Stato italiano dovrebbe vergognarsi per i fondi per la sanità che manda alla Campania. Siamo la Regione più colpita. C’è un blocco nordista che prevale. Anche durante l’epidemia siamo la Regione che ha ricevuto meno tamponi di tutta Italia. Un tampone ogni 50. Al Veneto ogni 16, quattro volte di più. Piemonte uno ogni 19, Lombardia uno ogni 22”. Morale: “Abbiamo fatto un miracolo. Abbiamo dimostrato di essere la regione più efficiente d’Italia perché abbiamo il numero più basso di decessi”. Naturalmente non contesteremo la matematica del Santo Vincenzo (che fa miracoli), ci limiteremo a dire che la Campania ha avuto pochissimi morti (400 circa, contro i 15 mila della Lombardia) perché non ha praticamente avuto focolai. L’ultima trouvaille di De Luca è stata non firmare il protocollo (unica Regione a non aderire) con la Stato per la riapertura e differire il tutto di ben tre (fondamentali) giorni. Che lo sceriffo di Salerno strepitasse per avere ventilatori polmonari quando a Bergamo le persone morivano come mosche si poteva forse ascrivere alla cautela, comprensibile in quel momento. Ora però è tutto chiaro: De Luca si gioca la ricandidatura a suon di battute televisive (si vota in autunno) con estrema disinvoltura. Basterà? Più che della realpolitik e della Fiera delle vanità avremmo bisogno di amministratori locali capaci di gestire i loro territori con saggezza, in grado di rinunciare alle luci della ribalta più che rivendicare il ruolo di “governatore” di inesistenti Stati federali.

La “Capitale morale” ora merita un racconto diverso (e migliore)

Chiedo scusa se parlo di Milano, la grande città che necessita di massiccia manutenzione nella sua narrazione, nel suo racconto, di una rifondazione urgente della sua leggenda costruita forsennatamente negli anni recenti a colpi di grattacieli, di Expo, di luccichìo modernista. Aggiungiamo dunque al vasto capitolo di come il Covid cambierà le nostre vite, l’allegato dolente che dovrà ridisegnare la narrativa della “capitale morale” e “modello per il Paese”, la grande città europea che si è svegliata una mattina, scoprendosi “solo” città italiana, come le altre: feroce delusione per chi ci era cascato (quasi tutti).

Dunque, ecco: la vernicetta brillante si è sfarinata in un paio di mesi, la mano di coppale che rendeva tutto luccicante è venuta giù quasi di colpo, e Milano si è trovata aggrappata al ricordo delle sue eccellenze per non guardare nel baratro delle diseguaglianze spaventose portate alla luce dal lockdown, dal fermo imposto, dalla crisi che morde e morderà. Si è svegliata, insomma, senza trucco, senza belletto, senza messa in piega, stordita come quando ci si guarda allo specchio e ci si trova, di colpo, invecchiati. Il sindaco Sala che sale sul Duomo e si affida alla Madonnina, per dirne una, non suona tanto diverso dal Salvini tonante che agitando il rosario affidava (proprio in quella piazza, ma sotto, raso terra) il Paese al Sacro Cuore di Maria; e davvero non si riesce a pensare a nulla di più lontano dal furore calvinista della città degli affari e dei dané, del “qui si lavora”.

Come sia nata la leggenda è difficile dire: una città non grande, che funziona bene, con la grande massa della sua piccola e media borghesia (dire “ceto medio” è ormai una finzione scenica) eternamente disposta a farsi sedurre dall’ideologia del primato economico, del “noi siamo migliori”. Ma sta di fatto: le grandi voci di Milano, quelle che l’hanno raccontata magnificamente per decenni, erano voci critiche, sarcastiche, impietose. Il Testori delle periferie, il Bianciardi de La vita agra, Fo non ne parliamo, ma anche la stralunata malinconia di Jannacci, le atmosfere cupe di Scerbanenco, la sanguinosa critica a un arricchimento repentino e ottundente di Lucio Mastronardi (maestro ahimé dimenticato). Raccontavano tutti – appena prima o durante il boom economico – le ombre cattive create dalle luci accecanti del “progresso” e della modernità. Maestri veri.

Poi, quasi più nulla. Dalla metà degli anni Ottanta, la favola fasulla della “Milano da bere” ha nascosto, se non cancellato le rughe della città, e Milano è rimasta per più di trent’anni impigliata in un racconto unidimensionale: la moda, il design, i grattacieli, le eccellenze, i soldi. Solo luci, e delle ombre vietato parlare. Tutti ricchi, tutte modelle, tutti designer: la percezione di Milano nel resto del Paese (considerato miseramente Italia, mentre qui siamo in Europa, ossignùr) è stata questa, per anni, per decenni. Innaffiata, e concimata, e ideologizzata, tanto che bastava dubitarne o storcere il naso (si ricordino i dubbi su Expo) per essere accusati di disfattismo, di pessimismo che fa male agli affari.

Intanto, quando piove, un paio di quartieri si allagano (problema trentennale e anche più), i sanitari devono trasferire in tutta fretta malati Covid ad altre stanze, meno allagabili, e il lockdown, con la città spaventata e zitta, ha rivelato un esercito di schiavi, cottimisti pedalatori che le consegnano il cibo a domicilio, 2 euro e spiccioli a recapito. Essendoci in giro solo loro per due mesi, Milano ha potuto vedere i suoi lavoratori poveri, resi visibili dallo spegnersi dello scintillìo. I costruttori di leggende – sempre funzionali al mercato, ovvio – non hanno fatto un buon servizio a Milano, hanno semmai il torto di averla trasformata in macchietta. Ora serve un racconto più vero. Milano se lo merita.

Statuto lavoratori: 50 anni e non sentirli

I 41 articoli della legge 300 (Statuto dei lavoratori) furono approvati il 20 maggio 1970. A cinquant’anni di distanza merita ricordarne un paio di punti di forza e di attacchi subìti.

Il primo punto paradigmatico fu rivendicato dallo stesso padre giuridico dello Statuto. Gino Giugni, ricostruendone a ritroso il percorso costruttivo, ricordò che vi avevano trovato dignitoso compromesso due visioni contrapposte: quella marxista, che intendeva legalizzare la presenza dei partiti nei luoghi di lavoro facendo leva sui diritti individuali dei lavoratori; quella socialista, che puntava al sistema delle autonomie facendo leva sulla necessità di sostenere le forze sociali coinvolte. Questa seconda posizione, difesa da Giugni, puntava a “un ordinamento giuridico che, anziché prescrivere tutti i comportamenti dovuti e quelli vietati, apre in una serie di direzioni nell’ambito delle quali i gruppi organizzati possono esprimere le loro capacità di autoregolazione”. Un esempio ne è l’autoregolazione del diritto di sciopero.

Il secondo punto paradigmatico, squisitamente attuale, dello Statuto, sta nel suo privilegiare il cittadino sul lavoratore e nel sancire che, anche nei luoghi di lavoro, i diritti dei cittadini non possono essere espropriati. In altri termini lo Statuto prende atto che ormai il lavoro rappresenta appena un decimo della vita complessiva del lavoratore. Questo aspetto ne fa un corpus normativo che travalica la fabbrica e la stessa società industriale perché, come ha notato Umberto Romagnoli, il più acuto dei nostri giuslavoristi, “la vitalità dello Statuto non è legata a un modo di produrre storicamente determinato. E ciò per la semplice (ma decisiva) ragione che il problema dell’esigibilità dei diritti di cittadinanza nei confronti del datore di lavoro si pone indipendentemente dal variare nel tempo e nello spazio dei modelli dominanti di produzione e organizzazione del lavoro”. A suo tempo si discusse molto se lo Statuto fosse anti-industriale: in effetti lo era ma non da posizioni pre-industriali, come insinuavano i conservatori, bensì da posizioni strutturalmente postindustriali e culturalmente postmoderne.

Dopo lo Statuto nessun aspetto della vita sociale rimase come prima, anche perché la vampata che ne consentì l’approvazione fu tutt’uno con il movimento studentesco, con il rifiuto della meritocrazia e della gerarchica, con l’ondata libertaria. Le lotte presto debordarono dalla fabbrica per diventare lotte urbane per la casa, la salute, la parità, i trasporti, l’ambiente. Lo testimoniano la legge sul divorzio (1970), il nuovo diritto di famiglia (1975), la legge sull’aborto e la riforma sanitaria (1978).

Gli operai uscirono rafforzati dalle lotte per lo Statuto e furono percepiti come classe vincente, quindi pericolosa. Di qui la reazione delle destre, compattate dall’anti-operaismo e attivissime nel ricondurre sotto la cappa dei poteri forti tutta la fitta e variegata congerie di movimenti, ordini e media. Il neo-capitalismo italiano, esaltato dal traino di Reagan e della Thatcher, agì su tutti i fronti per frammentare gli operai, separarli dagli studenti, contrapporre il soggettivismo al classismo, trasformare l’orgoglio di classe in disorientamento, il ribellismo in servizievole terrorismo. La lotta di classe dei poveri contro i ricchi trasmutò in lotta di classe dei ricchi contro i poveri. Una lotta senza quartiere che seppe sfruttare astutamente, spregiudicatamente l’eterogenesi dei fini. Tutto fu utilizzato contro la sinistra, perfino alcune idee e alcuni gruppi di sinistra: dal soggettivismo di riviste intellettuali come Quaderni Piacentini, al ribellismo di gruppi giovanili come Lotta Continua, dai vari tentativi di golpe ai terrorismi d’ogni colore, dal rilancio del consumismo più sfrenato alla mortificazione della scuola, docile e lesta nel tramutarsi in strumento di disimpegno e di ignoranza diffusa.

Sul piano giuridico e istituzionale il picconamento dello Statuto è stato implacabile, con almeno tre attacchi efferati: il referendum del 1993 con cui, complice Rifondazione Comunista, fu inferto un duro colpo ai tre maggiori sindacati; l’articolo 8 del decreto legge n. 148 del 2011, con cui si attribuì alla contrattazione collettiva periferica la facoltà di derogare in peius sia alla contrattazione nazionale sia a gran parte della stessa normazione legificata; il Jobs act sciaguratamente promosso da un Pd trascinato su posizioni demenziali dai Renzi e dagli Ichino, cripto-liberisti camuffati da socialdemocratici.

Così oggi la classe dominante in Italia può fare propria la dichiarazione di Warren Buffett: “C’è la guerra di classe, d’accordo. Ma è la mia classe, siamo noi ricchi che stiamo facendo la guerra, e la stiamo vincendo”. Ma non è mai detta l’ultima parola.

Un piano graduale contro l’astinenza da satira

Dimenticheremo quarantena e lutti, come i nostri nonni e i nostri genitori si lasciarono alle spalle la guerra, perché la natura umana è fatta così. Ricordo una volta, a Roma, sulla metro: c’era una donna in gramaglie, talmente affranta dal dolore che gli altri passeggeri le chiesero cosa le fosse successo. Allora lei raccontò, nella commozione di tutti, che si asciugavano le lacrime e si soffiavano il naso, la fine immatura del suo primogenito, e poi del secondo figlio. Ma alla morte del terzo, l’interesse dell’uditorio era già diminuito, e quando arrivò la morte del quarto, divorato durante una vacanza a Sharm da un coccodrillo, tutti i viaggiatori scoppiarono a ridere.

Siamo sicuri che tutti, proprio tutti, desiderino la fine della pandemia? Primo dopoguerra. Un amico chiede a un impresario di pompe funebri: “Come vanno gli affari?” E lui: “Malissimo. Penicillina del cazzo!”

In Italia, l’astinenza satirica sta causando ripercussioni negative sulla salute mentale della popolazione. “Il ritorno alla normalità satirica dovrà essere graduale”, ha ammonito il prof. Billo Rorschach, presidente del Consiglio superiore di sanità mentale (Cssm). “Durante una pandemia la gente vuole solo svagarsi, come durante la grande Depressione del ’29 la gente affollava i cinema per vedere Fred Astaire e Ginger Rogers. Così, la gente in quarantena si è disabituata alla satira. Occorre prevenire ogni choc, specie al nord, dove decenni di craxismo, berlusconismo e leghismo hanno favorito l’affarismo, il bigottismo e il baciapilismo, come dimostrato dal siparietto tv in cui Barbara D’Urso recitava l’Atto di dolore con Platinette. Il ripristino satirico avverrà, dunque, per tappe. Israele, da anni esperta di apartheid contro il popolo palestinese, nonché di comicità, grazie a una tradizione ebraica che annovera campioni come Groucho Marx e Woody Allen, ha elaborato una strategia possibile. La popolazione sarà divisa in tre fasce di età (da 0 a 18 anni, dai 18 ai 65, dai 65 alla tomba) cui verranno somministrati prodotti divertenti graduati per impatto: umorismo (impatto debole: “Vorrei un uomo che mi amasse come i gatti amano le scatole”), comicità (impatto medio: “Una relazione è seria quando lui ti porta a casa a conoscere la sua bambola gonfiabile”) e satira (impatto forte: “Gasparri? Da piccolo era il topo del quartiere”). La satira agli anziani non prima di dicembre, dunque, come servizio essenziale, magari avvalendosi di volontari con laurea Dams o equipollente, che siano in grado di sdrammatizzare certi contenuti abrasivi con citazioni di Deleuze, mentre il nonnino sorbisce il suo brodino, e il nonnetto il suo brodetto. Sempre che in autunno non ci sia un colpo di coda della pandemia, o di Bruno Vespa. Che spesso coincidono. (Sono il solo a vedere la contraddizione tragica fra la Pesach, che celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto, e la schiavitù in cui l’Israele di Netanyhau tiene il popolo palestinese? E per evitare la solita manfrina: sei un antisemita se quei sei milioni ti hanno fatto piacere, non se critichi la politica di apartheid del governo Netanyahu. Ma chiudo subito la parentesi, non vorrei causarvi uno choc da satira).