Perversioni: Matteo come ci spiegherà la crisi?

Lo so, è un pensiero ricorrente, ma all’irresponsabile che cova in me stuzzica l’idea di un Matteo Renzi che avesse il coraggio di mandare a casa il governo Conte. E non soltanto per l’imperdibile spettacolo che ne seguirebbe. Anche in politica infatti il bluff può essere un’arte. Per dire, la Marcia su Roma, che l’esercito regio avrebbe potuto spazzare via senza problemi (e Mussolini ne era conscio) è un caso di scuola. A cui, evidentemente per la sua monumentale tragicità, è assurdo accostare i continui, maldestri tentativi di estorsione del senatore di Scandicci. Che alla vigilia del voto sul ministro della Giustizia, Alfredo Bonafede, farfuglia un “ci voglio pensare” che nel linguaggio della casbah di Montecitorio significa: “quanto mi dai?”.

A nostro modesto avviso, il premier potrebbe tranquillamente respingere il ricatto del palo della banda dell’ortica senza particolari conseguenze. Mettiamo però il caso che al piromane per caso sfugga un cerino acceso e che il Paese apprenda che il governo, oplà non c’è più, e che di conseguenza tutti gli orripilanti decreti contenenti i miserevoli 55 miliardi di aiuti alla popolazione siano rinviati a data da destinarsi. Nella nostra perversione vorremmo che fosse lo stesso Renzi a spiegarlo agli italiani (magari da un bunker sotterraneo protetto da teste di cuoio), per vedere l’effetto che fa. Licenziato l’avvocato pugliese, non così sgradito alla maggioranza degli italiani (ma sono dettagli), e dopo essermi ben apparecchiato con patatine e popcorn, mi godrei: a) la ricerca immediata di un De Gaulle della Provvidenza, come auspicato dai più esimi editorialisti; b) in assenza di un generale a portata di mano, la successiva processione nel casale umbro di Mario Draghi che, qualcosa mi dice, potrebbe anche sciogliere i cani; c) l’appassionante lettura delle testate Fca, una volta che il prestito di 6 miliardi e rotti, già proposto dal governo dell’inadeguato premier evaporasse come rugiada di primavera.

L’autunno che verrà

Tutti ci auguriamo che questa Fase 2 sempre più velocemente ci traghetti verso la vita normale dalla quale ci sentiamo troppo distanti. Perché ciò si realizzi, dobbiamo percorrere dei tragitti obbligati e non abbassare la guardia, controllando i nostri contatti, non sottovalutando alcun sintomo, seguendo un comportamento idoneo alla pandemia. Il percorso verso la normalità, che speriamo di raggiungere presumibilmente a inizio del nuovo anno, dovrà traghettarci attraverso l’esperienza autunnale. Ci attende una sfida che dovremo affrontare e vincere: la stagione influenzale. Sappiamo che ogni anno il suo inizio cade tra ottobre e novembre e si protrae fino a marzo-aprile. L’influenza è una malattia che può manifestarsi in forma grave fino a procurare la morte. Con molta probabilità, il prossimo autunno SarsCov2 non ci avrà ancora abbandonato del tutto e le due infezioni si troveranno a convivere. Bisogna condurre una massiccia campagna vaccinale, in modo da proteggere la popolazione e ridurre la circolazione del virus. Ciò che potrà rivelarsi una vera sfida sarà la diagnosi. Entrambe le infezioni si manifestano con sintomi sovrapponibili. L’errore diagnostico sarà in agguato e avremo bisogno di test di laboratorio in grado di differenziare le due cause. Questi test esistono e sono molto attendibili e rapidi. Saremo in grado di averne a sufficienza? Si sta procedendo con l’identificazione di un percorso diagnostico e con l’approvvigionamento del materiale necessario? Come accade per Covid-19, la maggior parte di questi test è prodotta all’estero, non in Italia. Pensiamoci in tempo!

Cento miliardi? Ma pure duecento

Ve le ricordatele fake news? Un tempo se ne parlava assai, specie in connessione con certi russi cattivi. Ecco, ora pensate alle fake news e alla cifra 100 miliardi. Breve nota metodologica. Ovviamente tutte le posizioni su quel che dovrebbe o non dovrebbe fare l’Ue in questo dramma sono legittime: prestiti col Colosseo in pegno o le riforme incorporate, Bce come se piovesse o no, sussidi a gratis, Mes, Bei, Sure, monsignore, vossia, cherie, mon amour (nun te reggae chiù). Detto questo, ieri abbiamo letto un po’ dovunque che il Recovery Fund da 500 miliardi proposto da Francia e Germania – e quindi non dalla Commissione Ue, l’unica titolata – darà 100 miliardi all’Italia “a fondo perduto”, “da non rimborsare”. Dove sta scritto? Non si sa o, meglio, si sa che l’Italia dovrebbe ripagare, ancorché con tempi lunghi, la sua quota parte dei 500 miliardi (una settantina), che “100 miliardi” è il parere (interessato) di un’anonima “fonte di governo” all’Adnkronos nella serata di lunedì (ripresa dai meglio giornali) e che “a fondo perduto” l’ha detto Conte, ma nel comunicato franco-tedesco c’è scritto il contrario. Sia chiaro: magari ce ne danno 200 di miliardi – hai visto mai? – solo che nessuno lo sa. A questo proposito bisognerebbe ricordarsi che la libertà di pensierino, garantita a tutti, non significa libertà di cazzata, specie se ti fai pagare per leggerla.

Marchetta a pedali per queen Elizabeth

Con la fase 2 cambiano pure le abitudini dei media: basta virologi, serve sentire il parere degli esperti in ripartenza, in riaperture. Ieri l’AdnKronos, fedele a questo principio, ha perciò pensato bene di intervistare un guru in tema di biciclette, una luminare di cui non c’eravamo colpevolmente accorti finora. Trattasi di Ludovica Casellati, fondatrice – udite udite – “del magazine online viagginbici.com, punto di riferimento del cicloturismo” – hai detto niente – “e ideatrice dell’Urban Award con l’Anci e del Luxurybikehotels.com”, nonché “da tutti conosciuta nel settore” come LadyBici. Ah, accidentalmente, ma proprio per caso, la suddetta Casellati risulta anche figlia dell’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta. Ma, convinti che questo non abbia certo influito sulla scelta di intervistarla, scopriamo così che “la bici in questo momento è un simbolo di rinascita, come lo è stato con Coppi e Bartali nel Dopoguerra. Ci vogliono scelte coraggiose da parte degli amministratori per disegnare un nuovo modo di muoversi in città”. Come dire: se proprio qualcuno cercasse una consulenza, non esiti a contattarmi. Chiamare in orari pasto o scrivere a viagginci.com.

La ex Fiat vale un terzo delle domande a Sace, ma alle Pmi mancano 3 miliardi

La fame di liquidità degli imprenditori è tanta, la soluzione per placarla lunga e impervia. Sono le stesse misure previste dal decreto Liquidità a rappresentare un ostacolo alla veloce erogazione del denaro. Altro che modello targato Fca (6,3 miliardi) “tutto e subito” che sta per essere replicato con i Benetton (2 miliardi). Da fine aprile migliaia di imprenditori sono in attesa dei prestiti garantiti dallo Stato, quindi sicuri per le banche, che non arrivano a causa di una macchina che si è inceppata nel suo stesso sdoppiamento: da una parte il Fondo di garanzia per le Pmi gestito dal Mediocredito Centrale (che eroga fino a 800mila euro), dall’altro la garanzia statale della Sace (gruppo Cdp) per i miliardari.

Gli effetti dell’una e dell’altra, comunque, faticano a vedersi. Secondo gli ultimi dati diffusi da Sace, le potenziali operazioni di finanziamento in fase di istruttoria da parte delle banche sono 250 per un valore di 18,5 miliardi di euro (il che significa che i 5 miliardi di garanzia Fca sarebbero un terzo del totale). Dalla potenza all’atto, per così dire, ce ne passa: si tratta di un credito complesso che ha bisogno di tempo per trasformarsi in liquidità. Serve l’istruttoria della banca (l’autocertificazione antimafia, l’ultimo bilancio, la situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata con le esposizioni già in essere e i debiti scaduti da oltre 90 giorni eccetera eccetera), l’iter si concretizza in una delibera da parte del cda dell’istituto e la palla passa a Sace che può emettere la garanzia. Snodo che fino a oggi ha visto concedere solo 6 prestiti per la miseria di 40 milioni.

Anche l’altro canale, quello dei piccoli prestiti fino a 25 mila euro, resta un muro di gomma. Il sistema bancario l’ha rallentato prima con la richiesta di documenti non necessari, poi con l’obbligo di estinguere subito i fidi già aperti, ora con altre lungaggini. “Anche se il Fondo di garanzia ha avuto una reazione immediata, alcuni istituti caricano più operazioni, altre meno”, ha ammesso Laura Aria, dg per gli incentivi alle imprese del ministero dello Sviluppo davanti alla “Commissione banche”. Così, al 18 maggio, il contatore sul sito del Fondo di garanzia segna 237.896 finanziamenti richiesti per operazioni fino a 25 mila euro, per un importo pari a quasi 5 miliardi di euro, che arriva a 12,2 miliardi solo aggiungendo 30 mila domande di prestiti fino a 800mila euro.

L’Abi (cioè le banche) parla di “significativa accelerazione”, i numeri dimostrano che i paletti restano e che gli istituti continuano a valutare il merito creditizio, cioè non vanno a vedere la situazione attuale, ma quella prima del Covid. “Di fronte a segnalazioni che stringono un po’ il cuore, noi ci premuniamo subito di chiamare la banca per capire che è successo, se è il comportamento singolo di un direttore o sistematico della filiale che non vuole erogare i 25 mila euro”, ha spiegato il ministero.

Al Mise sono preoccupati anche dei mancati rimborsi: “Il rischio che il credito non venga poi ri pagato potrebbe riguardare un imprenditore su tre”. Per questo il Fondo di garanzia accantona il 30% di quanto erogato e ha chiesto maggiori risorse fino a 3-4 miliardi di euro per soddisfare il flusso di domande arrivate e in arrivo. La metà della garanzia in arrivo per Fca.

Mittal lascerà l’ex Ilva, si tratta per l’indennizzo

Era un epilogo scritto e oggi nel governo non lo nascondono neanche più. L’ex Ilva di Taranto non ha più un padrone, nel senso che il colosso franco-indiano ArcelorMittal ha di fatto abbandonato al suo destino il gruppo siderurgico in amministrazione straordinaria e di cui è affittuario in forza di un contratto siglato nel 2017 – quando si è aggiudicato la gara per la vendita – e che ha stracciato l’autunno scorso. L’unico obiettivo della multinazionale ora è lasciare l’Italia.

Ilva vive ore drammatiche. Ieri hanno scioperato gli operai di Genova Cornigliano. Venerdì sarà sciopero a Taranto. A far scattare le proteste è il ricorso senza giustificazione alla cassa integrazione per migliaia di persone in un gruppo che ne impiega qui oltre 10 mila. Mittal ha ridotto al minimo la produzione di acciaio e la quasi totalità degli impianti sono fermi a valle del ciclo produttivo in tutti i siti italiani. Gli investimenti per l’ambientalizzazione sono bloccati e gli impianti in stato di abbandono, mentre l’azienda non parla coi sindacati. Ieri i ministri Stefano Patuanelli (Sviluppo) e Nunzia Catalfo (Lavoro) hanno convocato tutti per lunedì, ma la situazione è chiara.

“Gli indiani di fatto è come se non esistessero. I manager europei non rispondono neanche più al telefono…”, spiegano al Fatto autorevoli fonti dell’esecutivo. Ora l’unica partita è strappare un indennizzo adeguato, ma è una sfida in salita. Solo il 6 marzo Mittal e i commissari governativi hanno stabilito di riscrivere i termini del contratto per la cessione degli stabilimenti dell’ex Ilva che a novembre 2019 il colosso guidato da Lakshmi Mittal aveva stracciato scatenando un gigantesco contenzioso civile a Milano (con tanto di inchieste aperte dalle procure di Milano e Taranto sulle maxi-perdite e gli impianti depauperati): quell’accordo ha fatto decadere anche il ricorso dei commissari. Con la crisi del Covid, però, Mittal si è rimangiato tutto.

Il piano industriale che l’ad Lucia Morselli – chiamata da Mittal nell’agosto 2019 per gestire lo scontro con l’esecutivo – doveva presentare a inizio maggio non c’è. Nei ministeri romani ritengono che la casa madre inglese di Mittal lo abbia bocciato. E infatti negli ultimi giorni i manager europei del gruppo sono come spariti: nei mesi scorsi Morselli aveva azzerato le prime linee di manager stranieri portati dal gruppo franco tedesco sostituendoli con dirigenti italiani. Nelle ultime settimane Mittal ha accumulato oltre 40 milioni di debiti coi fornitori e la cassa del gruppo sarebbe di fatto azzerata.

Nel governo ormai sanno che Mittal se ne sta andando. L’obiettivo, disperato, è ottenere un indennizzo adeguato. Una clausola prevista nell’accordo di marzo permette a Mittal di lasciare Ilva pagando una penale di 500 milioni da esercitare tra il 1° e il 30 novembre prossimo. Il governo chiede almeno un miliardo. L’atteggiamento del gruppo lascia supporre che l’obiettivo sia mettere l’esecutivo spalle al muro contando sul fatto che più va avanti lo stallo più si deteriorano gli impianti, già non in grandi condizioni vista l’assenza di manutenzioni. Insomma, di cavarsela con qualche centinaio di milioni, tanto più che il 2020 di Ilva si chiuderà con almeno mezzo miliardo di perdite.

Il malumore a Roma sale di ora in ora. Soprattutto all’interno del governo e nei confronti del ministero dell’Economia. Allo staff di Roberto Gualtieri diversi colleghi contestano di aver dimostrato “più attenzione nei confronti di Mittal che dello Stato italiano”, cercando di non imporre condizioni vincolanti a Mittal nel corso della trattativa nella convinzione di ammorbidire così l’atteggiamento della multinazionale. “A Via XX settembre neanche volevano imporre una penale a Mittal, è stata inserita solo grazie a Conte e Patuanelli – si lamenta una fonte di rango – In queste settimane durante le riunioni tecniche gli uomini del Tesoro hanno sempre cercato di minimizzare gli allarmi dei commissari che chiedevano invece di obbligare Mittal a giustificare ritardi e comportamenti inaccettabili”. Al Tesoro non avrebbero dato nessuna indicazione precisa neanche al plenipotenziario italiano nel negoziato, il manager Francesco Caio. Con l’uscita della multinazionale, a sobbarcarsi il peso del rilancio dell’Ilva sarà lo Stato. Il colosso franco indiano aveva promesso 1,25 miliardi di investimenti ambientali e altrettanti di investimenti produttivi. Ora servono almeno 2 miliardi: uno il governo spera di ottenerlo da Mittal, su cui ricadono anche altre penali per aver sciolto il contratto. L’esecutivo spera anche che in qualche modo possa pesare la super fideiussione versata da Mittal a garanzia di Banca Intesa, finanziatrice dell’operazione, ma le armi sono assai spuntate. Un segnale inquietante mentre si dettano condizioni a Fca per ottenere la garanzia pubblica su un prestito miliardario.

La garanzia a Fca garantisce il dividendo di 5,5 mld a Exor

Nella vicenda Fca ci sono diversi piani su cui esercitare il giudizio: c’è il piano morale, ci sono legittime posizioni politiche che investono questioni più grandi delle garanzie statali su un prestito da 6,3 miliardi alla casa automobilistica e c’è il minimo sindacale che va chiesto in cambio dell’uso di strumenti pubblici che assicurano un vantaggio a chi li usa. A quest’ultimo proposito, ovunque nel mondo, a partire dagli Usa, chi usufruisce di aiuti di Stato s’impegna a rispettare alcune condizioni: ad esempio il divieto di acquisizioni o di distribuire utili agli azionisti e bonus ai manager per la durata del sostegno pubblico.

Il ministero del Tesoro, che deve autorizzare l’operazione, ha invece deciso – nonostante nel governo ci siano posizioni diverse – di non imporre nemmeno il divieto di pagare dividendi agli azionisti per i tre anni della garanzia (oggi il divieto dura 12 mesi), né il blocco della retribuzione variabile del top management. Almeno in questo senso si tratta di un grosso favore (e doppio, come vedremo) a Fiat Chrysler o, meglio, ai suoi azionisti, tra cui soprattutto i numerosi rivoli della famiglia Agnelli che la controllano attraverso una finanziaria olandese: l’anno prossimo, infatti, la holding (olandese) Exor incasserà un bell’assegno da 5,5 miliardi (sotto forma di dividendo straordinario) in virtù dell’accordo con Peugeot e le altre (Psa) che finirà in discreta parte, quasi 2 miliardi, nelle tasche di John Elkann e del centinaio di eredi della famiglia riuniti nell’accomandita Giovanni Agnelli NV, anch’essa olandese.

Per dividere i piani e capire che siamo sotto il minimo sindacale, serve qualche esempio. La posizione “morale” sarebbe quella di Carlo Messina, ad di Banca Intesa, l’istituto che staccherà l’assegno a Fca, che così si rivolse agli imprenditori italiani con sede e fondi all’estero: “È ora di far tornare i soldi nelle aziende, ricapitalizzarle per contribuire ad accelerare il recupero del Paese”, i soldi pubblici “devono servire solo per pagare affitti, fornitori e preservare l’occupazione e non a rafforzare imprese che finora si sono mosse egregiamente sui mercati. I proprietari di queste imprese, spesso imprenditori con notevole ricchezza, dovrebbero lasciare le garanzie di Stato ai settori deboli”. Ebbene, Fca e la sua controllante avrebbero – e con larghezza – la cassa per pagare stipendi e fornitori da soli: non sono però obbligati a farlo, si può criticarli moralmente, ma stanno solo usando una legge dello Stato. Come abbiamo scritto ieri, la garanzia pubblica sull’80% di un credito di 6,3 miliardi (destinato alle attività italiane) consentirà però a Fca di risparmiare circa mezzo miliardo di interessi al netto del costo della garanzia.

E ancora. Una legittima posizione politica è invece sostenere che Fca dovrebbe riportare la sede in Italia, ma in un sistema che prevede una completa mobilità dei capitali – in particolare all’interno dell’Ue – si tratta di una posizione-bandiera senza molte speranze di essere applicata a meno di una sorta di rivoluzione politica. E veniamo, infine, al minimo sindacale. Bene farà il governo a prevedere impegni vincolanti – inseriti nel decreto con cui il Tesoro concederà la garanzia a Fca – sui livelli occupazionali e gli investimenti in Italia pena la decadenza della garanzia stessa, anche se – va ricordato – il caso ArcelorMittal (qui accanto) insegna che le multinazionali hanno un’idea piuttosto lasca persino degli impegni presi con tanto di contratto.

Resta la domanda. Perché il governo italiano dovrebbe consentire alla Exor di usare la cassa che non ha voluto impiegare per pagare fornitori e dipendenti per staccare un assegno quasi pari al prestito che si va a garantire? La posizione del Tesoro e del ministro Roberto Gualtieri, che pare uscita vincitrice del confronto nel governo e nella maggioranza, è questa: bloccare la distribuzione di utili per tre anni avrebbe depresso troppo il valore di Borsa delle aziende. Sottotesto che illumina meglio la portata del favore: in quel caso è possibile che anche i prezzi individuati per la fusione con Psa si sarebbero dovuti rivedere a vantaggio dei francesi e il “premio” per gli azionisti Fca – cioè soprattutto Exor, cioè soprattutto gli Agnelli – sarebbe stato minore.

Dal canto loro, Peugeot e le altre, che hanno sede in Francia, a fine aprile hanno annunciato che – anche per tenersi le mani libere – non chiederanno garanzie allo Stato francese (che è loro azionista al 12%).

Siri, l’assistente vocale Apple non solo risponde ma ascolta

Siete in macchina con una persona cara e state discutendo di questioni strettamente personali. Siete in camera da letto o magari siete in soggiorno a giocare con i bambini. Siete un giornalista che incontra una fonte, un medico che visita un paziente, o un avvocato che incontra un cliente. Il rischio che le vostre conversazioni più intime o professionalmente sensibili possano essere ascoltate non è fantascienza, se avete vicino un iPhone, un Apple Watch o anche un iPad.

Sì, perché questi device elettronici hanno un assistente vocale: si chiama Siri. È quello a cui potete chiedere di trovare il ristorante più vicino, o di fare una ricerca su Internet per sapere di più su una certa malattia. In teoria, si dovrebbe attivare solo quando pronunciate le parole “Ehi Siri”, ma il rischio che possa attivarsi da solo, per errore, è una realtà.

Quanti sono stati ascoltati in questo modo, a loro insaputa? È impossibile dare una risposta, in assenza di dati certi. Ora, però, le cose potrebbero cambiare: un giovane ex contractor della Apple ha appena presentato una richiesta ufficiale alle autorità europee di protezione dei dati, per chiedere di indagare sull’assistente vocale Siri. Una vera e propria tegola in testa all’azienda della Silicon Valley che, dopo le rivelazioni di Edward Snowden, ha tanto investito sull’immagine di gigante con una cultura della privacy.

Il caso Siri è emerso per la prima volta nel luglio scorso, quando il Guardian rivelò il problema sulla base di testimonianze anonime. Ora, però, uno degli ex contractor della Apple ci mette la faccia e si espone personalmente con la richiesta di indagare presentata alle autorità europee, proprio a due anni dall’entrata in vigore del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr). Il giovane si chiama Thomas Le Bonniec, è francese, ha una specializzazione in Sociologia e racconta di agire per ragioni etiche, dopo aver ascoltato conversazioni estremamente private e in alcuni casi inquietanti, come le fantasie di un pedofilo.

“Tra il 13 maggio 2019 e il 16 luglio 2019, sono stato assunto da Globe Technical Services, uno dei subappaltatori della Apple, con sede a Cork, in Irlanda. Ero assegnato al progetto di trascrizione di Siri, chiamato Bulk Data, scrive Le Bonniec nella sua lettera, “ho ascoltato centinaia di conversazioni ogni giorno”, racconta, precisando: “Queste registrazioni venivano spesso captate al di fuori di ogni attivazione di Siri, ovvero al di fuori di un contesto in cui l’utente lo attivava espressamente per una richiesta e senza che ne fosse consapevole e venivano raccolte in database per correggere le trascrizioni delle registrazioni fatte dal dispositivo”.

Le Bonniec scrive che “queste registrazioni non erano limitate agli utenti dei device della Apple, ma vedevano anche coinvolti parenti, bambini, amici, colleghi” e così “ho ascoltato gente che parlava del suo cancro, di persone care morte, di religione, sesso, politica, scuola, o droga, senza che qualcuno avesse l’intenzione di attivare Siri”.

L’intervento di operatori umani che ascoltano le istruzioni che l’utente dà a Siri si rende necessario per migliorare le prestazioni dell’assistente vocale, un processo che tecnicamente si chiama grading.

Secondo il racconto di Thomas Le Bonniec, senza l’intervento umano, tecnologie come Siri non potrebbero portare a termine i compiti richiesti. Questo, ovviamente, non significa che per ogni richiesta fatta all’assistente vocale c’è dietro un essere umano in ascolto pronto a eseguirla, ma che la capacità di capire le richieste viene affinata grazie al lavoro umano.

Il Fatto Quotidiano ha interpellato Apple, che alle nostre domande per sapere quante conversazioni sono state ascoltate in questo processo di grading, ha risposto: “Apple non fornisce questi numeri”. Dopo che il Guardian rivelò il caso nell’estate scorsa, l’azienda ha introdotto una serie di cambiamenti. Oggi sostiene che “di default, Apple non conserva le registrazioni audio di Siri: gli utenti possono scegliere di aiutare Siri ad apprendere dai campioni di audio delle loro richieste registrate. Questi campioni sono limitati agli utenti di Apple. Questi utenti hanno scelto di condividere porzioni delle loro interazioni per aiutarci a rendere Siri migliore”.

Nella sua lettera alle autorità europee, Thomas Le Bonniec sostiene che “nulla è stato fatto per verificare se Apple ha davvero chiuso il programma” e offre la sua collaborazione alle autorità. Al Fatto ha spiegato di aver raccolto molti screenshot per documentare quello che afferma. “Il rischio che mi assumo avrà senso solo se a questa lettera seguirà un’inchiesta”, scrive alle autorità europee.

Ennesimo spot per l’idrossiclorochina. Covid-19, tutte le false verità di Trump

Idrossiclorochina come salvavita rispetto al Covid-19. L’annuncio del presidente Trump di aver intrapreso una cura volontaria non sorprende. Sin dall’inizio dell’emergenza, The Donald ha sponsorizzato l’idrossiclorochina a dispetto delle avvertenze degli specialisti; quel prodotto può avere effetti collaterali gravi. Trump usa sempre il suo stile, che è una sorta di spot; nessuno può essere sicuro che lui assuma quella medicina, ma gli basta dirlo per apparire un capo coraggioso e rassicurante in vista delle elezioni di novembre. Solo che i suoi spot vengono poi smascherati come bugie. Ecco alcuni esempi.

7 e 19 febbraio – “Quando arriveremo ad aprile, il clima più mite avrà un effetto molto negativo su questi tipo di virus.” Ma l’Organizzazione mondiale della sanità afferma che il coronavirus “può essere trasmesso in tutte le aree, comprese quelle che hanno sempre un clima caldo e umido”.

27 febbraio – “L’epidemia sta per scomparire. Un giorno, come per miracolo, scomparirà”. Al contrario Anthony Fauci, direttore dell’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive, si diceva allarmato dall’onda crescente dei contagi, con il passare delle settimane.

17 marzo – “Ho sempre saputo che il pericolo è reale. Ho capito che era una pandemia molto prima che fosse chiamata pandemia … L’ho sempre considerata una cosa molto seria.” In realtà Trump inizialmente ha minimizzato la portata del Covid-19. Ne ha parlato come di una influenza comune.

23 aprile – Durante un briefing, Trump suggerisce agli esperti dello staff medico di verificare la possibilità di usare disinfettanti per trattare il Covid-19, una formula che uccide il virus “in un minuto”. La stampa verifica che si tratta di un prodotto venduto da un santone imbonitore verso cui i federali indagano. Trump si difende dicendo che il suo tono era “sarcastico” ma il video del briefing lo smentisce.

10 maggio – In risposta alle critiche alla sua amministrazione, Trump scrive su Twitter: “Confrontate con il disastro di Obama-Sleepy Joe dell’influenza suina H1N1”. Ma l’accostamento è improponibile: nel 2009 quel ceppo fu segnalato rapidamente in California e due settimane dopo furono distribuiti i farmaci. Un vaccino fu disponibile in sei mesi.

11 maggio – “Chiunque abbia bisogno di un test, lo ottiene”. Ma la verità è che gli Stati Uniti non hanno abbastanza test.

Manu perde il fascino e l’Assemblea nazionale

Il partito di Emmanuel Macron, La République en marche, ha perso la maggioranza assoluta in Assemblea nazionale che conservava dalle Politiche del 2017: 17 deputati vicini a Macron, tra cui sette “marcheurs” delusi, hanno sbattuto le porte del suo partito, annunciando ieri la formazione del nuovo gruppo parlamentare, il nono, “Ecologia, Democrazia, Solidarietà”. In piena epidemia di Covid-19, questa crisi di partito è un brutto colpo per il presidente francese che, a più della metà del suo mandato, ha già alle spalle una profonda crisi sociale, con le proteste dei Gilet gialli e mesi di scioperi che hanno paralizzato il paese, oltre che una grave crisi degli ospedali pubblici, iniziata molto prima dell’epidemia del Covid. Da ieri LaRem conta 288 seggi in Assemblea, un seggio in meno, dunque, uno solo ma molto simbolico, dei 289 necessari per avere la maggioranza assoluta.

In tre anni, già diversi deputati sono fuggiti da LaRem stanchi dei metodi e della politica della maggioranza. Come ha fatto notare ieri il quotidiano conservatore Le Figaro, il partito di Macron, che poteva contare nel 2017 su 314 deputati (su 577), ha perso l’8% dei suoi seggi in Assemblea. Il nuovo gruppo è stato presentato ieri in conferenza stampa come “indipendente”, “non un gruppo di opposizione” ma “positivo, di proposte e di innovazione politica”. Ne fanno parte soprattutto figure dell’ala gauche di LaRem e di sensibilità ecologista (il 65% sono donne). Tra loro, Cédric Villani, il mediatico matematico, medaglia Fields 2010, che dopo essersi candidato a sindaco di Parigi con una lista dissidente era stato poi espulso dal partito: “Siamo stati eletti come rappresentanti liberi e non per piegarci agli ordini”, ha detto. Alcuni di loro sono ex fedelissimi di Macron, come Aurélien Taché, prima socialista, poi “marcheur” dal 2016, che critica l’orientamento “troppo a destra” della politica dell’Eliseo. Ci sono poi Matthieu Orphelin, vicino al popolare ex ministro dell’Ecologia di Macron, Nicolas Hulot, che si era dimesso a sorpresa in segno di protesta contro la politica poco “verde” del governo, e Delphine Batho, ex ministra Ps. Per chi resta fedele a Macron i “frondisti” sono dei “traditori”. La portavoce del governo, Sibeth Ndiaye, ha definito la creazione del nuovo gruppo un “controsenso politico”.

Mentre il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, ha minimizzato la crisi: “La maggioranza non è in pericolo”, ha detto. Di fatto la fronda, che era nell’aria già da diversi giorni, è stata meno importante di quanto ci si aspettasse (si era parlato di un gruppo di 58 deputati) e LaRem, per quanto indebolito dal seggio mancante, può sempre contare sugli alleati centristi del MoDem di François Bayrou. Sul piano dell’opposizione, a destra, i Républicains hanno parlato di “fallimento di un metodo e di un’ideologia”. Per Jean-Luc Mélenchon della France Insoumise, sinistra radicale, quello di ieri è stato l’ennesimo episodio della “baraonda macronista”. Mentre per la leader dell’ultra destra Marine Le Pen è stata l’occasione di chiedere ancora una volta la “dissoluzione dell’Assemblea nazionale”: “In una democrazia perfetta – ha detto la Le Pen -, quando le crisi si susseguono e in più si perde la maggioranza, bisogna tornare agli elettori”. È un momento grave per la Francia di Macron con la peggiore crisi economica dalla Seconda guerra mondiale che si sta preparando e il drammatico bilancio dell’epidemia di Covid-19, con 28.022 morti e un’ecatombe nella case di riposo (10.308).

Il Consiglio di Stato non fa altro che bacchettare il governo per misure prese contro la pandemia, ma contrarie alla privacy (gli ha vietato l’uso dei droni) o alle libertà individuali, compresa quella di culto (gli ha ordinato di autorizzare le messe). Macron ha perso la fiducia dei francesi, molto scettici sulla gestione della crisi sanitaria con gli scandali sulla carenza di mascherine e di tamponi, le continue contraddizioni all’interno del governo e la polemica per la riapertura delle scuole, l’11 maggio, per molti troppo frettolosa. Si contano già almeno 63 denunce contro i membri dell’esecutivo, soprattutto contro il premier Edouard Philippe. Una Commissione d’inchiesta parlamentare sarà creata in giugno per fare luce sulla gestione della crisi.