La commissione: via Sirignano dalla Dna. Disse: “Di Matteo è un mezzo scemo”

Nino Di Matteo? “Un mezzo scemo”, deve essere fuori dal pool stragi della Direzione nazionale antimafia. Barbara Sargenti, pm della Dna ed ex pm romana? Una che “deve prendere botte sui denti”, troppo vicina all’ex procuratore Giuseppe Pignatone.

È la tarda primavera del 2019 e a parlarsi ripetutamente al cellulare sono il solito Luca Palamara, intercettato dai pm di Perugia che lo indagano per corruzione e Cesare Sirignano, pm della Dna della corrente centrista Unicost come Palamara. Al centro dei colloqui l’assetto della Dna secondo i loro desiderata e la nomina del procuratore di Perugia nell’interesse dell’indagato Palamara e delle sue trame, anche attraverso l’uso di un esposto dell’ex pm romano Stefano Fava per danneggiare il procuratore aggiunto della capitale Paolo Ielo.

Sirignano è a un passo dal trasferimento per incompatibilità ambientale. Oggi si vota al plenum del Csm la relazione del togato di Area (progressisti) Ciccio Zaccaro, della Prima commissione, presieduta da Sebastiano Ardita (AeI). La relazione di minoranza di Concetta Grillo (Unicost) chiede l’archiviazione.

“Sirignano – scrive Zaccaro – non si è limitato a condividere con Palamara critiche aspre nei riguardi di questo o quel collega del suo ufficio” ma le ha inserite “in un disegno volto a mettere le pedine nei posti giusti e a condizionare gli assetti nell’ufficio”.

A proposito di colleghi in Dna, Sirignano non sopporta Di Matteo, ora al Csm. “Dinanzi alla critica di Palamara sulla decisione del procuratore Cafiero di ‘fare il gruppo con Di Matteo dentro’”, cioè il pool stragi, Sirignano sbotta: “E voi l’avete portato come fosse il Pataterno in croce, è un mezzo scemo”. Sul pool stragi, aggiunge: “Bisogna parlare con Federico”. La telefonata è del 7 maggio, fatalità vuole che il 26 Cafiero estromette Di Matteo dal pool per un’intervista del pm in tv in occasione dell’anniversario dell’attentato a Capaci. Il procuratore lo accusa di aver rivelato riflessioni del pool, anche se Di Matteo aveva parlato in base a sentenze definitive. La “punizione” di Cafiero è finita alla Settima commissione del Csm, Di Matteo mesi fa ha auspicato che si pronunci nel merito, anche se lui non è più in Dna.

Nella relazione di Zaccaro si ricostruisce pure che Sirignano ha chiesto a Palamara di contattare Cafiero e l’ex consigliere del Csm Antonio Lepre, Mi, legato a Cosimo Ferri, per dare una ridimensionata a De Simone che “rema contro Cafiero e dobbiamo mettere nel calduccio”. E Palamara: “Ma quella è una matta”. Sirignano: “I matti vanno trattati da matti. Devi far venire Federico”. C’è poi il capitolo sulla nomina del procuratore di Perugia. Sirignano “vende” a Palamara l’ormai ex amico Giuseppe Borrelli, allora procuratore aggiunto di Napoli, ora procuratore di Salerno. Gli dice che Borrelli a Perugia sarà “affidabile”, ma Borrelli no ne sa nulla. E quando vengono pubblicate le intercettazioni, a giugno scorso, Borrelli parla con Sirignano, lo registra e presenta un esposto. “Borrelli – scrive Zaccaro – non aveva fornito a Sirignano alcun tipo di rassicurazione di quelle cercate da Palamara”.

Il risiko di Palamara e le cene dei togati per fare le nomine

Anche la nomina dell’ex procuratore di Trani, Antonino Di Maio, ebbe il sostegno di Luca Palamara e di Unicost. E se per la Procura di Roma Palamara puntava alla “discontinuità” con il procuratore uscente, Giuseppe Pignatone, per quella di Trani Di Maio rappresentava la perfetta continuità con il suo predecessore, Carlo Maria Capristo, il quale era persino disposto “a guidarlo” nei primi passi a Trani come hanno svelato Lanfranco Marazia e Silvia Curione, due pm sentiti dalla Procura di Potenza come testimoni. Entrambi ora a Bari, erano stati il primo a Taranto e la seconda a Trani, sempre sotto la guida di Capristo.

E Di Maio è indagato a Potenza per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. Delle nomine di Di Maio e Capristo s’è occupata anche la Procura di Perugia, mentre indagava su Palamara per corruzione. Va precisato che, alla fine dell’inchiesta, pur mantenendo l’accusa di corruzione, i pm perugini non hanno contestato a Palamara atti contrarii ai doveri d’ufficio: né da pm, né da componente del Csm. Sulle nomine di Capristo e Di Maio, sentito come persona informata sui fatti, l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini riferisce alla Procura perugina: “Tutta la componente di Unicost era molto schierata su Capristo”. Ma precisa: “Non ho ricordi su attività sollecitatoria di Palamara”. “La nomina per cui vi fu un particolare impegno da parte di Palamara – prosegue Legnini – fu per il posto di procuratore di Trani: Palamara sostenne fortemente la nomina di Di Maio”. E nell’aprile 2017 la nomina di Di Maio a Trani va in porto. Il suo concorrente, Renato Nitti, all’epoca procuratore aggiunto a Bari, fa ricorso: il Consiglio di Stato nell’ottobre 2018 gli dà ragione. Gli atti tornano al Csm. Nel febbraio 2019 Unicost e Magistratura Indipendente non mollano e, nonostante il Consiglio di Stato, il Csm stabilisce che Di Maio resta al suo posto.

Due mesi dopo, il 2 aprile 2019, Di Maio ha un appuntamento a cena proprio con i due maggiori esponenti di Unicost e Mi: Palamara e il parlamentare Pd Cosimo Ferri al ristorante Mamma Angelina di Roma. Con loro, nel programma di Palamara, anche il neoquestore di Roma Carmine Esposito e il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio. “Quindi” dice Palamara al ristoratore romano “il primo locale di Roma, Mamma Angelina, per il questore eh”. “Va bene mio caro sarai servito”, gli risponde il proprietario del ristorante. E Palamara aggiunge: “Solito riservato, io, lui, Fuzio e il procuratore di Trani”. Alle 18 Palamara estende l’invito anche a Ferri: “Senti ma stasera a che ora finisci te?”, gli chiede. Poi continua: “Stiamo col questore, Riccardo e pure Nino se passavi un attimo…”. Nitti ha continuato la sua battaglia e quest’anno è diventato procuratore di Trani. E per Di Maio è stata una fortuna perché gli ha evitato il divieto di dimora: con l’abbandono del ruolo, infatti, sono venute meno le esigenze cautelari indicate dai pm.

Anche la nomina di Capristo alla Procura generale di Bari fu fortemente caldeggiata da Unicost ma sfumò per un solo voto. Dagli atti di Perugia, però, emerge anche l’interessamento per un’altra Procura: quella di Matera. E nulla c’entrano Palamara e Unicost. L’interessamento, vero o millantato che sia, riguarda un funzionario del ministero dell’Interno, Filippo Paradiso, ritenuto vicino, secondo plurime testimonianze, sia a Matteo Salvini, sia all’attuale capo di gabinetto del Viminale, Matteo Piantedosi.

A parlare di lui, dinanzi al procuratore di Potenza Francesco Curcio, sono i due pm di Trani Curione e Marazia, che lo incontrano proprio a casa di Capristo: “Disse che Paradiso era un suo amico – racconta Curione – e quest’ultimo ci disse, parlando in generale della Procura di Taranto, che l’allora facente funzioni Pietro Argentino aveva ottime probabilità di diventare procuratore capo a Matera. Sul momento – conclude Curione – rimasi sorpresa della conoscenza di dinamiche della magistratura da parte di un dipendente di altro ministero”. Nulla rispetto alla sorpresa del pm Marazia: “Paradiso spinto da Capristo, che aveva evidenziato come (…) Argentino era rimasto amareggiato, perché non aveva avuto alcun voto in commissione per diventare procuratore di Taranto, disse che avrebbero profuso il massimo impegno per far diventare Argentino procuratore a Matera. Parlava al plurale, come se lui e altri si sarebbero potuti impegnare in favore di Argentino. Nell’estate 2017” a un funerale “era presente Paradiso. Mi disse con aria soddisfatta che era stato durissimo ma che ce l’avevano fatta a fare diventare Argentino procuratore di Matera tanto che di lì a poco si sarebbe insediato”. Sentito dal Fatto, Paradiso smentisce la ricostruzione.

“Il procuratore di Taranto voleva comandare a Trani”

Taranto

Carlo Maria Capristo era soprannominato “il maestro” e intorno a sé aveva un “club di fedelissimi” per mezzo dei quali continuava a controllare una parte della Procura di Trani nonostante da tempo fosse il capo degli inquirenti di Taranto. Un club ristretto che contava su una rete di conoscenze di alto livello politico, imprenditoriale, istituzionale e delle forze dell’ordine.

È quanto ha scoperto la Procura di Potenza guidata da Francesco Curcio, che ha ottenuto gli arresti domiciliari per Capristo e altre 4 persone. Si tratta dell’ispettore di polizia che faceva da autista a Capristo, Michele Scivittaro, e i tre fratelli imprenditori del barese Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. I cinque sono accusati di tentata induzione a dare o promettere utilità: secondo la Procura, nell’estate 2018 Capristo, attraverso Scivittaro, avrebbe fatto pressioni sulla pm di Trani Silvia Curione affinché procedesse contro un uomo che i fratelli Mancazzo avevano denunciato per usura. L’obiettivo del gruppo, per i pm potentini, avrebbe garantito ai tre fratelli un vantaggio patrimoniale sia come parti civili nel processo che la Curione avrebbe dovuto richiedere, sia per l’accesso al fondo dedicato alle vittime di usura. Dalle indagini, però, la giovane pm tranese aveva compreso che quelle denunce erano infondate e così aveva aperto un fascicolo per calunnia contro i tre fratelli.

Dalle intercettazioni è emerso il rapporto stretto tra i Mancazzo e gli uomini più vicini a Capristo. Uno di questi è Scivittaro, che nel luglio 2018 su richiesta del “maestro” entra nell’ufficio della Curione e le chiede di velocizzare le indagini. Lei denuncia tutto al successore di Capristo, il procuratore Antonino Di Maio, ma questi chiede l’archiviazione minimizzando la vicenda. A questo punto la Procura generale di Bari avoca le indagini e poi trasmette tutto alla Procura di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati in servizio a Taranto. La Procura potentina interroga la Curione e non solo. Interroga anche il pm Lanfranco Marazia, marito della Curione e magistrato in servizio a Taranto alle dipendenze di Capristo. Le loro coraggiose dichiarazioni e le intercettazioni portano alla luce il “club dei fedelissimi”.

In una intercettazione, in particolare, l’ex cancelliere di Trani, Domenico Cotugno, molto vicino a Capristo, parla con Gaetano Mancazzo: “Se tu hai bisogno di qualche cosa… vedi che comandiamo noi ancora là. Quindi stai tranquillo”. Trani, in sostanza, è ancora nelle mani dei pochi vicini a Capristo. “Sopra a cinque dita di una mano si potevano contare eh! Non è che erano assai i fedelissimi”, aggiunge Cotugno, che non è al momento indagato. L’ex cancelliere tira in ballo nomi importanti. Come quello della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. “È un’amica nostra” racconta Cotugno a Mancazzo aggiungendo: “Casellati quando stava al Csm gli fece la relazione perché lui (Capristo, ndr) doveva andare a Bari. E devi vedere che bella relazione”. Contattato dal Fatto, lo staff della presidente ritiene di non commentare. Tra le amicizie più intime di Capristo, però c’è soprattutto Filippo Paradiso, già collaboratore di Matteo Salvini e indagato in un filone della mega-inchiesta romana su un presunto giro di sentenze comprate anche al Consiglio di Stato e sfiorato dall’inchiesta sui falsi dossier Eni. Paradiso frequenta la casa di Capristo e secondo quanto emerso in altre indagini avrebbe avuto un ruolo nella sua nomina a Taranto.

Per il gip è un vero “centro di potere a Trani” che include pubblici ufficiali e soggetti privati legati al procuratore Capristo, “capace non solo di influenzare le scelte di quella Procura, ma anche di coinvolgere altre istituzioni”. Tutto a disposizione di Capristo. Che non si fa problemi a utilizzare pezzi dello Stato per un tornaconto personale. L’ispettore Scivittaro, infatti, non è solo il suo ambasciatore presso la pm Curione, ma è l’uomo che si occupa di tante faccende personali. Addirittura dalle intercettazioni emerge come in un caso organizzi le analisi del sangue per un familiare del magistrato. In cambio, Capristo avrebbe firmato e certificato le fantomatiche ore di straordinario annotate dal poliziotto: tra gennaio 2018 e agosto 2019, come hanno documentato la Guardia di finanza e la Squadra mobile di Potenza, Scivittaro in orario di lavoro si reca in posti che nulla hanno a che fare con i compiti di autista e di scorta di Capristo. Per entrambi, quindi, c’è anche l’accusa di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico.

La lezione di legalità e coraggio che non è terminata a Capaci

“Tra i tuoi libri, quale preferisci?”. Durante gli incontri nelle scuole, prima o poi arriva sempre questa domanda e io rispondo sempre in due tempi. Prima la regola: “Per uno scrittore, i libri sono figli e un padre non fa mai torti o privilegi”. Poi l’eccezione: “Però è vero che un paio di libri mi stanno un po’ più a cuore degli altri”. Uno è la La vita è una bomba (2001), ambientato a Sarajevo, il primo libro che ho pubblicato, il secondo è Per questo mi chiamo Giovanni.

Se La vita è una bomba è la mia prima partita in serie A, Per questo mi chiamo Giovanni è la mia Champions League, non perché sia stato il mio romanzo più venduto e perché, dopo sedici anni e una trentina di ristampe, sia diventato di fatto un libro di testo, ma perché sapere che migliaia di ragazzi hanno imparato la splendida lezione di legalità, coraggio e generosità di Giovanni Falcone attraverso le mie pagine resta, di gran lunga, la più grande gratificazione da scrittore.

Presentai per la prima volta Per questo mi chiamo Giovanni nel Salento, a Calimera, paese natale di Antonio Montinaro, uno dei ragazzi della scorta morti a Capaci. Sono stato più volte a Palermo, nell’aula bunker dell’Ucciardone o altrove, per celebrare la ricorrenza del 23 maggio. È ormai in terza cifra il numero delle scuole che ho visitato per discutere di questo libro, a cominciare dai tanti istituti dedicati a Falcone e Borsellino. (…) Sinceramente non pensavo che i ragazzi si sarebbero appassionati in questa misura per l’avventura umana e professionale di Giovanni Falcone. Anzi, temevo di annoiarli raccontando loro una storia che rischiava di cadere nella predica moraleggiante: i buoni, i cattivi, la legge…

Lo stesso argomento mafia era una sfida non banale. Da Per questo mi chiamo Giovanni in poi si è sviluppato un ricco filone della narrativa per ragazzi sulla criminalità organizzata, che ha toccato soprattutto la camorra, e che è arrivato anche al cinema. Pif ha letto questo libro. Ma nel 2004 parlare di mafia ai ragazzi era una sfida quasi senza precedenti, infatti il primo editore cui lo proposi lo accettò, ma lo tenne nel cassetto e io lo pubblicai altrove. (…)

I ragazzi, per costituzione d’anima, sono i più vicini alla carica ideale che ha alimentato la missione professionale del magistrato palermitano, i più pronti ad apprezzare il valore delle rinunce in una “vita da topo”, come scritto nel romanzo: le nuotate all’alba per evitare attentati, l’impossibilità di cinema, stadio, ristoranti e qualsiasi divertimento pubblico, la negazione persino della gioia più alta, la paternità (“Non mettiamo al mondo orfani”). Il tutto per servire un ideale e per migliorare la vita degli altri. Quando negli incontri si ragiona di questo aspetto, faccio sempre notare che, in tutte le foto che abbiamo, Falcone e Borsellino sorridono. Non erano flagellanti che amavano il dolore, alla sera non si inginocchiavano sui ceci per soffrire. Erano due amici che amavano la vita. E allora cosa avevano da sorridere in quelle vite blindate “da topi”? Con la domanda infilo nelle tasche dei ragazzi un sospetto: forse quel sorriso, la felicità in genere, non ha tanto a che fare con le cose che abbiamo o facciamo, ma con un ideale profondo, da vivere con passione, che dà senso a tutte le nostre azioni. Può essere la legalità, ma anche la conoscenza, una professione, una persona da amare…

Probabilmente quel sospetto è il regalo più prezioso che Giovanni Falcone fa ai suoi giovani lettori. Attorno alla storia vera del magistrato ho costruito una cornice di fantasia: un padre palermitano che racconta al figlio, nato nel giorno di Capaci, chi fosse il magistrato di cui porta il nome. Lo fa perché Giovanni è vittima di un bullo, anche se non lo dice, e ragionando di certi meccanismi (l’omertà della paura, il coraggio delle scelte), il padre è convinto di poter avvicinare la soluzione del problema. La cornice mi ha aiutato ad avvicinare ancora di più Falcone al mondo dei ragazzi (…). La lezione del magistrato ha una modernità tutta sua che cresce nel tempo invece di consumarsi. Ogni volta che la politica, intossicata dagli interessi di parte, si affanna e sgomita in cerca di visibilità, il bosco di carta dei giovani lettori di Falcone diventa il rifugio ideale. Aria buona.

Marta, “sospetto Covid”: da marzo, zero tamponi

“Una svista? Ancora me lo chiedo. So solo che l’Usca, che non mi ha mai visitata, ha detto al mio medico di stare tranquilla perché il mio tampone era negativo. Peccato che a me il tampone non sia mai stato fatto”. Marta Nisticò ha 36 anni ed è impiegata, a Milano, in una multinazionale. Di origini calabresi, vive a San Giuliano Milanese. Da quasi due mesi la perseguitano febbre, dolori al torace, difficoltà respiratorie, tosse. È chiusa da sola in casa, senza assistenza, a eccezione di quella del suo medico di famiglia, che l’ha inserita tra i casi Covid riconosciuti e l’ha segnalata due volte all’Ats di Milano, senza risultati. “Mi domando su chi vengano eseguiti quei migliaia di tamponi giornalieri che vengono sbandierati dalla Regione Lombardia. Io credo che vengano fatti solo a chi è in via di guarigione, per verificare se ancora positivo. Ma quanti sono nelle mie condizioni? In quanti stanno ancora aspettando? E quanti sono i nuovi contagiati?”, si chiede la ragazza.

Quando ha cominciato ad avvertire i primi sintomi?

Verso i primi di marzo. Ho chiamato il sostituto del mio medico di base, che si era nel frattempo ammalata di Covid. Mi prescrive qualche giorno di tachipirina, ma stavo sempre peggio. Mi sono anche dovuta separare dalla mia bambina di otto anni, che si è trasferita dal padre.

Si è rivolta all’ospedale?

Sì, il 3 aprile ho chiamato il 112 e mi hanno portata al pronto soccorso del policlinico di San Donato, anche se in quel momento non avevo febbre. Un infermiere mi urlò contro: “Cosa viene a fare lei qui, questo è un ospedale Covid!”. Dalla lastra non risultava nulla. Non hanno nemmeno scritto il referto. Solo dopo, dal mio medico, ho saputo che a volte la polmonite interstiziale si vede solo con la Tac.

E allora che ha fatto?

Sono tornata a casa e mi sono nuovamente rinchiusa, in attesa del tampone. Ha continuato a seguirmi il mio medico di famiglia, che mi aveva segnalato anche all’Usca. Mi hanno chiamata, una volta: l’8 aprile. Poi il silenzio, mai visti. Il giorno dopo il mio medico mi ha detto che l’Usca lo aveva avvertito che il mio tampone era negativo: peccato non mi fosse mai stato fatto. La mia dottoressa è caduta dalle nuvole. Eravamo nel pieno della saturazione degli ospedali, e anche lei non sapeva più come muoversi. Poi, quando mi è risalita la febbre, ha richiesto di nuovo il tampone. Sono quasi due mesi che aspetto.

Chi la sta aiutando?

I vicini di casa, e faccio la spesa online.

I suoi genitori sono in Calabria, ma suo padre ha scritto anche al procuratore di Milano Francesco Greco, per segnalare la sua situazione. Farà un esposto?

Non so. Ogni volta mi dico: adesso mi assisteranno, adesso mi faranno il tampone, magari nel frattempo starò meglio, guarirò… Poi torna la febbre e penso: non è possibile. Fortunatamente il mio medico mi ha dato subito il Plaquenil, per i problemi respiratori.

Vista la situazione, che idea si è fatta della sanità della regione in cui vive?

Tantissime persone sono state assistite, è indubbio. Mi resta sempre l’impressione, però, che qualcosa ci sfugga, che qualcosa venga nascosto. Penso ai tamponi che vantano ogni giorno di eseguire. Ma quanti invece sono ancora nella mia situazione? Io non voglio fare il test sierologico e il tampone privatamente. Pretendo che mi venga pagato dalla sanità della mia regione, quella per cui pago anche le tasse. Non ne faccio una questione di soldi. Ne faccio una questione di principio: dov’è l’assistenza a cui ho diritto?

Il doc sulla pandemia che inchioda la Ue: allarme sottovalutato

Le righe incriminate portano la firma di Vicky Lefevre, capo pro tempore dell’unità di Salute pubblica dell’Ecdc: il rischio comportato dal Covid-19 per l’Europa è “basso per le prossime (2-4) settimane”, si legge nelle minute delle riunioni dell’Advisory Forum del “Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie” tenute il 18 e il 19 febbraio. Invece di lì a poco il morbo venuto da Wuhan avrebbe travolto il continente. E ieri, quando il testo ha iniziato a circolare sui siti d’informazione guida da El Pais, l’organismo Ue a cui gli Stati guardano per avere indicazioni in tema di malattie infettive e pandemie è finito nella bufera.

È il 18 febbraio, in Cina ci sono quasi 2mila morti e 73mila contagiati, nel resto del mondo 900 casi in 30 Paesi. Il forum consultivo dell’agenzia è riunito nel quartier generale di Solna, in Svezia. Attorno al tavolo ci sono 26 rappresentanti senior di istituti nazionali di sanità pubblica – tra cui Silvia Declich, dell’Iss – gli osservatori di due ong, quattro dell’Oms e due funzionari della Commissione Ue. L’obiettivo di ognuno è tornare in patria con indicazioni chiare su come affrontare l’epidemia. La Lefevre è chiamata ad aggiornare i convenuti sulla “attuale situazione epidemiologica per il Covid-19 e sulla valutazione del rischio dell’Ecdc”. Gli stenografi annotano: l’agenzia “ha preso in considerazione i primi 40 casi in Europa(…). Al momento essi riguardano principalmente turisti arrivati dalla Cina e soggetti anziani. Quelli autoctoni appaiono per la maggior parte casi lievi”. Poche righe sotto il virgolettato che sta facendo discutere: “L’attuale valutazione del rischio da parte dell’Ecdc – si legge a pagina 2 della minuta – era che esso sarebbe stato basso per le prossime (2-4) settimane. Questa valutazione era basata sul fatto che l’influenza stagionale dovrebbe raggiungere il picco nelle prossime settimane e che la trasmissione di Covid-19 inizierà solo dopo”. L’inglese non è dei migliori e il periodo è scritto al tempo passato, a sottolineare che la valutazione si basa su ciò che del SarsCov2 era noto fino a quel momento. “Sono minute che poi vengono inviate ai partecipanti, ma che spesso sono scritte in maniera approssimativa”, spiega al Fatto una fonte qualificata. Ancora: Vicky Lefevre – “laureata in veterinaria” con esperienze nel campo della sicurezza alimentare in Belgio, si legge sul sito dell’Ecdc – si trova da poche settimane a sostituire l’esperto Denis Coulombier alla guida dell’unità di Sorveglianza dell’agenzia. Ma la sostanza è chiara: il 18 febbraio – quando i primi casi del virus erano stati registrati già da un mese in diverse parti del continente – l’Ecdc non aveva percezione di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco. Due giorni dopo,il 20, il tampone eseguito all’ospedale di Codogno avrebbe individuato il 38enne Mattia Maestri come “paziente 1”, sancendo nei fatti l’inizio dell’emergenza in Italia.

Nella discussione che segue pochi dei convenuti sembrano aver capito cosa sta per accadere. I più, Spagna in testa, si concentrano sulla necessità di monitorare i contagi tra le persone tornate dalla Cina. Solo il danese Kåre Mølbæk va oltre, spiegando che “era importante sapere quando e dove cercare il virus e la Cina forse non era nemmeno più il problema”. Una valutazione a posteriori azzeccata, visto che ormai il contagio si stava diffondendo tra gli europei. La Declich parla due volte e nel primo intervento centra uno dei temi principali: “Si è interrogata – si legge al 41° dei 130 punti – sulla possibilità che i casi asintomatici possano trasmettere la malattia e se debbano essere posti in quarantena”. Ma è l’intervento di un francese quello che fotografa meglio la situazione: a pagina 6 si parla dei 4 scenari messi a punto dall’Ecdc e Bruno Coignard specifica: “Il quarto, che prevede una trasmissione su larga scala che avrà un impatto significativo sul sistema sanitario, è ritenuto il più probabile”.

Lo studio di Galli&C.: a Milano ad aprile sfuggiti 231 mila casi

Nell’area metropolitana di Milano dall’inizio dell’emergenza Covid solo un caso su 20 è stato diagnosticato come positivo. Il resto è sfuggito. Una percentuale drammatica, che rilancia l’allarme dei contagiati asintomatici soprattutto oggi, in piena Fase 2. Il dato è contenuto in uno studio – in fase ancora di pre-stampa – al quale hanno lavorato 16 ricercatori divisi tra l’ospedale Sacco, l’Università Statale e il Policlinico di Milano. Tra i firmatari, anche il professore Massimo Galli. In queste 18 pagine dello studio sono tante le novità che potrebbero far cambiare la linea della storia di SarsCov2 in Italia. Tra queste, la retrodatazione della comparsa del virus a Milano nella prima metà del dicembre scorso, e il dato per il quale i primi vettori di diffusione sono stati i giovani e non gli anziani.

La ricerca si basa sull’analisi sierologica del sangue di 789 donatori dell’area milanese. Di questi, il 60% proviene da Milano città. Il sangue è stato prelevato dalla banca del Policlinico dove ogni anno vengono raccolti circa 40 mila campioni. Naturalmente essendo donatori si tratta di persone sane e certificate. Senza patologie generali e senza sintomi Covid o simil Covid. I campioni di sangue vanno dal 24 febbraio (tre giorni dopo la scoperta del paziente 1) all’8 aprile. Tutti sono stati analizzati “mediante un test immunologico a flusso laterale” attraverso il “metodo Elisa”, il più affidabile in assoluto e con una percentuale di errore sotto l’1%.

Il primo dato che impressiona è il numero di questi individui sani ma positivi agli anticorpi (IgM e IgG) contro il virus. Alla data dell’8 aprile ben il 7% del campione è risultato sieropositivo. Il che apre uno squarcio nell’indeterminato mondo dei sommersi. Si legge nello studio: “A livello della provincia di Milano, queste stime corrisponderebbero all’8 aprile a 231.460 casi non diagnosticati, il che significa che solo uno su 20 è stato diagnosticato dal ministero della Salute”. La cifra, si legge nello studio, ben si accorda al dato nazionale che indica nel 9,8% (poco meno di 6 milioni) la popolazione contagiata dal virus. Insomma, un altro mondo se solo si pensa che i dati ufficiali della Regione Lombardia comunicati la sera dell’8 aprile parlavano di 12.039 contagi totali.

Se questa è la fotografia di quella giornata, ancora più interessante l’istantanea che emerge dall’analisi dei primi giorni dell’emergenza. A partire dal 24 febbraio al primo marzo, del totale dei donatori analizzati, il 4,6% ha mostrato di essere positivo ai due tipi di anticorpi. Il dato comprende sia IgM che IgG. “Questi numeri – si legge nel report – indicano che l’infezione si stava diffondendo nella popolazione prima” che si verificasse “il rapido aumento dei casi gravi di Covid-19”. Il che conferma la corsa del virus a partire almeno dal 26 gennaio come ha spiegato lo studio del professor Galli sulle sequenze complete di SarsCov2.

La percentuale del 4,6% applicata in modo proporzionale alla popolazione dell’area metropolitana (3,2 milioni di abitanti) indica che nell’ultima settimana di febbraio nel Milanese i positivi potevano essere circa 150 mila. Che fine hanno fatto oggi? La domanda resta senza risposta. E, nell’ipotesi di nuovi focolai, questo diventa ancora più inquietante. Tanto più che ieri in Lombardia i casi sono risaliti: 462 in più con il 50% tra Milano e Bergamo.

I campioni analizzati nello studio stanno, come età, in una forbice tra i 18 e i 70 anni. Ma è nelle fasce più giovani che si concentra quel 4,6% dei primi giorni di epidemia. “L’impatto divergente dell’età sulle tendenze della sieroprevalenza – si legge – è coerente con la possibilità che prima delle restrizioni la diffusione di SarsCov2 fosse maggiormente presente negli individui più giovani, mentre dopo la chiusura di scuole e università la diffusione sia stata supportata da contatti tra soggetti più anziani”.

Se i primi vettori a Milano sono stati i giovani, la diffusione del virus potrebbe anche essere retrodatata, oltre il 26 gennaio. I ricercatori hanno analizzato circa 120 campioni di sangue del dicembre 2019. Due di questi, collocati nella prima metà del mese, sono risultati positivi agli IgG. SarsCov2 era presente a Milano in quel periodo? Lo scenario appare suggestivo, ma allo stato non viene confermato perché ancora troppo piccolo il numero dei campioni.

Lo si capirà nelle prossime settimane quando da un lato quei campioni saranno rianalizzati per eliminare il sospetto di “falsi positivi” e dall’altro verrà aumentato il numero dei test.

Contrordine, Bonura ritorna in carcere

La scarcerazione di Francesco Bonura, fedelissimo di Bernardo Provenzano, aveva aperto un caso e scatenato le polemiche. Il suo nome era in cima a una lista di detenuti per mafia che erano stati mandati ai domiciliari o stavano per esserlo per gravi problemi di salute aggravati dal rischio del coronavirus. Con Bonura era stato scarcerato anche il camorrista Pasquale Zagaria, fratello di Michele. E lo stesso destino si aspettavano boss come Raffaele Cutolo e Nitto Santapaola. Non torneranno in libertà. E chi è uscito ritornerà in cella. Per Zagaria il giudice di sorveglianza deciderà venerdì. Per Bonura invece il provvedimento, con effetti immediati, è di ieri.

Le scarcerazioni dei condannati per mafia sono al centro di una polemica alla quale il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha posto rimedio col decreto che detta nuove regole: “Un segnale ai boss”. Una norma del provvedimento attribuisce al Dap il potere di segnalare ai magistrati di sorveglianza le soluzioni sanitarie più idonee per consentire il rientro dei detenuti scarcerati.

Nel frattempo, dalla notizia della scarcerazione di Bonura data dall’Espresso, c’è stato il cambio al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, appunto, con Dino Petralia (e il suo vice Roberto Tartaglia) al posto di Francesco Basentini.

Tra le polemiche culminate con la presentazione della sfiducia a Bonafede è arrivato il 10 maggio il decreto del ministro che sulle scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime di massima o di alta sicurezza ha aperto un “nuovo corso”, anche al Dap. Ora il giudice di sorveglianza dovrà acquisire il parere del procuratore nazionale antimafia e valutare la “permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile”. Sarà in sostanza compiuto un monitoraggio e una rivisitazione che prima non c’era.

Le nuove disposizioni riportano in carcere o nelle strutture sanitarie attrezzate molti dei detenuti che erano stati scarcerati e messi ai domiciliari negli ultimi giorni, quindi. E fanno restare in cella quelli che pensavano di utilizzare la minaccia del coronavirus per lasciare gli istituti di pena. È questo il caso di Francesco Bonura, che sta scontando una condanna a 20 anni ormai vicina alla conclusione ed è affetto da patologie oncologiche. Ma il riesame ha cambiato il quadro clinico. “Gli esami di rivalutazione – scrive il giudice di sorveglianza Gloria Gambitta – eseguiti durante la degenza non hanno evidenziato alcuna recidiva o ripresa di malattia oncologica”. E quindi “è cambiata l’incidenza del virus sul quadro clinico” di Bonura. Per questo il boss dell’Uditore torna in carcere dopo neppure un mese.

Il suo nome figurava già in testa alla lista delle revisioni preparata dal vice capo del Dap, Roberto Tartaglia. E venerdì toccherà a Pasquale Zagaria, fratello del capo dei Casalesi Michele, conoscere la sua sorte che, con ogni probabilità, lo riporterà in carcere ancora una volta. È cominciato il percorso di “rientro” dei boss di mafia scarcerati per l’emergenza Covid.

Bonafede, “un segnale” per placare Renzi e Pd

“Alle 9 riunione nella stanza di Matteo”. Il messaggio di Davide Faraone è arrivato ieri sera ai senatori di Italia Viva. Non entusiasti: “Decidono tutto loro. Non va bene”, era il commento più gettonato. La certezza è che questa mattina in Senato si voteranno le due mozioni di sfiducia per il ministro della Giustizia, il 5Stelle Alfonso Bonafede. E i voti di Italia Viva potrebbero essere decisivi. Così ieri Maria Elena Boschi è stata per due ore a Palazzo Chigi, dove prima ha parlato con il capo di gabinetto del premier Goracci e poi con lo stesso Giuseppe Conte. Piano shock, famiglia e soprattutto giustizia, i temi sul tavolo.

Perché Renzi vuole un segnale dal Guardasigilli. Magari in tema di prescrizione. “Il resto va bene” dicono da ambienti renziani. Ergo, l’aria che tira è che Iv non arriverà a sfiduciare Bonafede. E una prova indiretta potrebbero esserlo anche i contatti di ieri sera tra Boschi e il ministro per i Rapporti con il Parlamento, il grillino Federico D’Incà, sui lavori sul decreto liquidità. “Chi vuol far cadere un governo non ragiona su riunioni” è la lettura in ambienti di governo. Si vedrà oggi, il giorno delle due mozioni, diverse tra loro. Quella della Lega e del centrodestra chiede conto a Bonafede della scarcerazione dei boss, delle rivolta nelle carceri e dello scontro con il magistrato Di Matteo sulla sua mancata nomina al Dap. Quella di Emma Bonino mette sotto accusa tutto l’operato del governo in materia di giustizia. Dalla “violazione del principio di ragionevole durata del processo” alla gestione del Covid nelle carceri. Insistendo sulla necessità di scarcerare i detenuti “più vulnerabili all’infezione”. Invece Iv chiede anche poltrone. Renzi rivendica per Luigi Marattin la presidenza della Commissione Bilancio della Camera. E la Boschi cerca riconoscimenti per sé: è capogruppo alla Camera, nutre altre aspirazioni per ora frustrate, ma intanto diventa la front woman dei renziani, invece della capodelegazione, Teresa Bellanova.

Si racconta che punterebbe a sostituire Elena Bonetti, ministro della Famiglia in quota Iv. Nel frattempo il Pd ha fatto sapere a Renzi che si tratta di un voto sul governo, non su Bonafede. “Se lo sfiduciano si apre una vera crisi per l’esecutivo, non c’è dubbio” ha scandito a Un Giorno da pecora il capogruppo dem alla Camera, Graziano Delrio. Ma per il Pd non è il momento di far cadere Conte. E in assenza di un piano B anche Renzi studia una strategia. Per esempio, potrebbe far mancare qualche voto. Senza arrivare allo show down. Oggi parlerà subito dopo Bonafede, che ieri ha passato la giornata a limare il suo intervento: costruito innanzitutto per “smontare le due mozioni di sfiducia” come raccontano fonti di via Arenula. Dove hanno trovato piuttosto sgrammaticata soprattutto quella del centrodestra. Ma nel suo discorso potrebbe esserci anche un segnale politico sulla giustizia. Rivolto innanzitutto a Iv, certo, ma anche a una bella porzione del Pd. Ieri sera il capogruppo dem in Senato Andrea Marcucci, già pasdaran renziano, lo ha detto dritto: “In molte occasioni Bonafede non ci è piaciuto affatto, per esempio sulla prescrizione. Il Guardasigilli ora deve ricordarsi di essere in un governo di coalizione nella stesura delle riforme del processo penale e civile”.

Tradotto, serve un’apertura: forse non solo sui processi, perché c’è anche il tema delle intercettazioni. Ma il segnale per placare la maggioranza verrà definito con precisione dal ministro solo poco prima del suo intervento alle 9,30 di oggi. “Prima bisognerà vedere come è trascorsa la notte, forse anche la primissima mattina” spiegava ieri una fonte qualificata. Perché i colloqui andranno avanti fino all’ultimo. Non a caso ieri Bonafede è stato chiamato anche da ministri e big del Pd. E ha tenuto aperto il canale con Palazzo Chigi, per capire l’esito dell’incontro con Boschi e ragionare sulla linea da tenere in Aula. Una prova da non sbagliare.

’O Sceriff, anello di congiunzione tra politica e commedia dell’arte

Lo chiamano il Mike Tyson del Volturno per via della gentilezza. Spara ganci ai nemici in forma di parole: “Cafone”, “Fesso”, “Sfessato”, “Farabutto”, “Infame”, “Somaro”, “Chiavica”, “Iettatore”, “Pippa”, “Mezza pippa”. “Nullità”.

È il grande, inarrivabile Vincenzo De Luca, santo patrono della Campania, anello di congiunzione tra l’universo e Salerno, tra la politica e la commedia dell’arte che ogni giorno da trent’anni gli spalanca il sipario, con tripudio di applausi, fischi, denunce, plebisciti, processi, triccheballacche e struffoli alla crema. Nell’ora più buia della nazione, i suoi occhi sempre fiammeggiano. In questi tre mesi De Luca ha preso il virus a mazzate e qualche volta pure il governo Conte, pilotando sulle curve di una pandemia a bassa intensità.

Invece di essere contento, nella notte in cui nasceva la rocambolesca Fase 2, tra gli strilli dei 20 governatori, se n’è uscito dalla sala parto sbattendo la porta. E intorno alle tre e mezza ha dettato “Io non firmo”. Era il suo modo di fare il fenomeno in faccia al mondo. Cosa che gli riesce quasi sempre: “Devo difendere la mia immagine di carogna”.

De Luca nacque potentino, anno 1949. Crebbe a Salerno. Divenne comunista. Fece il militare con Fausto Bertinotti, peccato che nessuno sceneggiatore, tipo i Vanzina, se ne sia mai accorto. All’università provò con Medicina, poi scelse Filosofia, più congeniale al suo eloquio, tesi discussa con Biagio De Giovanni, il filosofo, che lo indusse a considerarsi allievo di Gramsci e di Gobetti: “Le mie radici sono a Torino”.

A Salerno scese in piazza con i braccianti taglieggiati dalla camorra. Lo chiamavano il Professore, il suo slogan era: “Resisteremo un minuto in più dei casalesi”. Quando archiviò i braccianti e scese a combattere le lotte di corridoio del Pci-Pds-Ds, il suo slogan divenne: “Resisterò un minuto in più di Bassolino”.

Di quella inimicizia si raccontano mirabili litigi. Con rischio collisione fisica. E un povero Fassino segretario nazionale che provò a pacificarli (“E adesso datevi la mano”) ma scese il gelo in sala e l’istante dileguò. In palio due temperamenti e il popolo.

De Luca il popolo lo massaggia di elogi e lo mastica di improperi. Lo asseconda in piazza e lo fulmina in tv. Quattro volte sindaco a Salerno, per vent’anni ha fatto il bello e il cattivo tempo, ripulito strade, aperto asili nido, sottratto il ciclo dei rifiuti alle emergenze con la differenziata al 70 per cento, la Sanità sopra la media, la criminalità sottotraccia. Ma ha anche moltiplicato il debito della città, 200 milioni a occhio, e il cemento sul paesaggio: “C’è chi apre la bocca e chi apre cantieri”, ha detto, lodandosi.

Annovera un numero cospicuo di denunce. “Me le leggo dal barbiere e le distribuisco”. Sono un discreto campionario del codice penale: abuso d’ufficio, abuso edilizio, truffa, corruzione, concussione, associazione a delinquere. Lui non si stropiccia la pettinatura, ma combatte con una batteria di avvocati e massima tigna, orientandosi dentro un labirinto di processi, rinvii, condanne, appelli, revisioni, che manderebbe ai pazzi pure Perry Mason. Politicamente è stato dalemiano, bersaniano, renziano. Senza dimenticare Letta e Zingaretti.

In Parlamento ci capitò una legislatura, ma s’annoiava: “Mi si anchilosò il dito a forza di schiacciare”. L’opera della sua vita è stupefacente anche nel nome, il Crescent, una enorme mezza luna di colonne e vetro-cemento a quadretti, lunga 300 metri, alta 30 che imprigiona una piazza, il mare e l’horror vacui. Un monumento d’alta geometria con l’anima funeraria, uno di quegli immensi ossari da Dopoguerra, firmato dal catalano Ricardo Bofill, l’ennesimo archistar che disegna non-luoghi buoni per qualunque luogo, dall’Alaska ai Tropici. È stato proprio De Luca a certificarne la vocazione cimiteriale quando all’inaugurazione dei lavori, anno 2007, si commosse: “L’urna con le mie ceneri starà proprio qui, al centro della piazza”. Evviva, hanno pensato i meno superstiziosi. Per sua fortuna il cantiere ha ancora infiniti guai da attraversare, una ventina di denunce di Legambiente, altrettante fazioni che difendono l’opera o che la odiano, magistrati e carabinieri che indagano: tutto secondo lo standard italiano delle grandi opere.

Identico destino capitato a lui che modestamente si considera una grande opera del Sud assediata da insulsi nemici, i “consumatori abusivi di ossigeno” che battezzandolo Vincez’o Sceriff gli rimproverano di avere armato i vigili urbani di manganello e spray. Di avere promesso “calci nel culo agli zingari” e galera “ai cafoni imbratta-muri”.

Eppure l’animo gentile non gli manca. Ha una ex moglie, due figli, una nuova compagna. E quando è di buonumore riempie le piazze con le fontane, le aiuole di fiori, i viali di graziosi grattacieli. Miracolo che sta provando a replicare da quando, anno 2015, ha conquistato la Regione Campania appoggiato a sinistra, ma pure a destra con il suo amico Caldoro, vincendo la poltrona di governatore: “Adesso cambierà la musica”. Invece partì un altro contenzioso giudiziario, politico, psichiatrico. Perché in base a una condanna per un parco acquatico, avrebbe dovuto restituire lo scettro, cosa che lui considerò un’offesa, anzi “una puttanata”, alla quale mostravano di credere solo pochi “giornalisti sfessati” come Travaglio , “spero di incontrarlo di notte, al buio”, e Rosy Bindi che ai tempi dell’Antimafia, lo dichiarò “impresentabile”. Gentilezza alla quale replicò: “Rosy? Una infame da uccidere”.

Per Carlo Verdone, De Luca è “il più grande attore vivente”. Un retore che costruisce ponteggi di parole, promesse come cupole, insulti a campanile: “A forza di teleconferenze avremo ministri con la faccia da tablet”, “Salvini è uomo da inzuppare i würstel”, i giornalisti “bestie malvissute”. È teatro da applauso. Con l’orazione finale da dedicarci a vicenda: “A dio piacendo salverò i miei polmoni dal virus, non il mio fegato dagli imbecilli”.