“Sarei stato più cauto. Si ballerà con il virus per altri cinque mesi”

“A me non sta bene che si parli di rischio calcolato. Io vorrei che le autorità mi garantissero che le mosse fatte minimizzano il rischio”.

Alessandro Vespignani, fisico di formazione, è epidemiologo a Boston, dove dirige il Network Science Institute alla Northeastern University. È membro della task force della Casa Bianca e studia l’evolvere della pandemia negli scenari che si aprono con la Fase 2.

È d’accordo con la riapertura di praticamente tutto in Italia?

Ni. Sarei stato più cauto.

Lei ha detto che la riapertura poteva essere fatta solo se funziona un’infrastruttura di controllo. Che significa?

Che si riescono a intercettare i casi, si isolano preventivamente, e si riescono a spegnere i focolai. Così controlli la traiettoria epidemica nei mesi futuri.

E si sta facendo?

Non lo so. Per questo mi auguravo un po’ più di cautela. Andiamo al 3 giugno verso una riapertura completa, ma per sapere gli effetti ci vogliono settimane. Adesso c’è un’ansia generale. L’ha detto il presidente del Consiglio: è un rischio calcolato.

C’è una possibilità che i contagi non risalgano?

C’è, se il governo e le regioni stanno organizzando un’infrastruttura di controllo puntuale, e se gli italiani si assumono la responsabilità. Non stare nei luoghi affollati senza mascherine, non esagerare con le file, coi ristoranti, diminuisce tantissimo la trasmissibilità. L’ultimo elemento di speranza è che ci sia una sensibilità del virus alla stagionalità: a temperatura, umidità e raggi ultravioletti.

Alla scoperta dei due turisti cinesi positivi a Roma, il Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie diceva che il contagio da asintomatici era improbabile. Era così impossibile immaginarlo?

No, era un rischio e tutti sapevamo che c’era. Non si sapeva quanto fosse importante. Sars nel 2002 è stato un esempio: la mortalità era alta, ma la trasmissione asintomatica era limitata. Quando sento dire che la Sars è sparita, ricordo che Covid ha trasmissione asintomatica.

Nel suo saggio L’algoritmo e l’oracolo (Il Saggiatore) spiega come si possono fare previsioni in modo scientifico. Così ha previsto Ebola. Quali previsioni fa sul futuro della pandemia?

Col Centre for desease control and Prevention ogni settimana facciamo previsioni per le prossime 4 settimane. Davanti a un virus completamente nuovo, il fatto che non sappiamo come influirà la stagionalità ci pone in svantaggio.

Quanto durerà?

Secondo me abbiamo davanti 5-6 mesi in cui questa cosa sarà con noi. Faremo un balletto in punta dei piedi con dei rischi: che alcuni Paesi sbaglino gli interventi, creando problemi per tutti, fino all’arrivo del vaccino.

Quanti ritiene siano i contagi reali in Italia?

Intorno all’8,5% della popolazione, quindi 4-5 milioni di persone in totale, compresi i guariti.

Se è così ampio il denominatore, molti si sentiranno autorizzati a dire che la letalità è la stessa dell’influenza.

Non lo è. Questi numeri dicono che la letalità è intorno all’1%, siamo a un fattore 10 rispetto all’influenza, che è 0,1%. È la differenza che intasa gli ospedali e non riesci a curare la gente. Un’influenza non fa 30 mila morti in due mesi, non satura le terapie intensive. Tra l’altro, per tutta la popolazione è l’1%, ma sopra i 60 anni è sopra il 25%.

La app: se non vengono fatti i tamponi, a che serve?

La app è una cosa bellissima, non vedo l’ora che funzioni. Però non basta. È una delle armi che abbiamo, tra cui tamponi e sierologia; serve gente che fa il lavoro dei tracciatori, non solo di nuovi contagi, ma anche i follow up, chiamare i contatti e seguirli.

La Cina fa fare la quarantena a chi viene dall’estero prima la partenza e dopo l’arrivo. Noi no. Chi viene dalla Ue entra senza quarantena successiva. Non è pericoloso?

Questa è una di quelle misure che devi eliminare se vuoi che la gente viaggi. Ma se la rimuovi il 3 giugno insieme a tutto il resto, ho paura che questo vada a creare una situazione distruttiva generale. Stiamo reimportando casi? Li stiamo generando noi? Aspettare un paio di settimane poteva essere più saggio.

I turisti non avranno la app sul telefono e, se positivi, non verrebbero diagnosticati in Italia.

Certo. La cosa importante era proprio favorire il tracciamento dei casi internazionali, con piattaforme in intercomunicazione. Gli italiani li tracci, ma se poi viaggiano, o vengono casi da fuori…

Qual è la principale differenza tra l’approccio italiano e americano?

Anche qui, alcuni posti si stanno muovendo bene, altri sono in una situazione di rimozione psicologica del problema. Gli unici preparati erano quelli scottati dalla Sars: Singapore, Hong Kong, Cina.

Che pensa dei virologi che vanno in Tv, pagati, a esprimere opinioni non supportate dal metodo sperimentale sulla mutazione del virus in una forma meno aggressiva?

Non si può fare scienza in questo modo. Il termine “aggressività” non ha senso. Si parla di trasmissibilità, virulenza, letalità. È vero che questi virus perdono virulenza: perché c’è immunità di massa, perché il nostro organismo sviluppa protezioni incrociate, ecc.; ma prima di dire una cosa del genere bisogna avere degli studi scientifici. Senno è compiacenza, come quella pre-pandemia, quando c’era chi diceva che era un’influenzetta. Una cosa criminale. È pseudoscienza.

Crede che i pareri discordanti degli scienziati in questi mesi abbiano provocato una degradazione, uno scadimento della dignità epistemologica della scienza?

Gli scienziati di buon senso quando non sono sicuri dicono “non lo so”. Per fortuna c’è una storicizzazione delle cose. Poi tutto se questo viene anche sporcato con ospitate a pagamento… È già un privilegio e un dovere per gli scienziati poter comunicare col mondo in questo momento.

“Ora decidono i presidenti” Gimbe: rischio non calcolabile

Fase 2, delegare alle regioni la gestione sanitaria significa “rischio non calcolato e non calcolabile”. La denuncia arriva da Fondazione Gimbe: l’assenza di una strategia sanitaria centralizzata a livello nazionale e la mancanza di un sistema di monitoraggio completo potrebbero avere pesanti conseguenze nella situazione attuale in cui, di fatto, i risultati sul contenimento sono affidati alle responsabilità dei singoli cittadini. Insomma, mascherine e norme di distanziamento sociale potrebbero non bastare. La linea di demarcazione nel cambiamento di strategia è il “passaggio di consegne” tra ministero della Sanità e regioni: un “decentramento decisionale” che per il presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta, accentua “il cortocircuito di competenze tra governo e regioni in tema di tutela della salute”. Cartabellotta parla di “giravolta normativa senza precedenti nella storia della Repubblica”: il dl 16 maggio 2020 n. 33 (art. 1, comma 16) demanda infatti interamente alle regioni la responsabilità del monitoraggio epidemiologico e delle conseguenti azioni lasciando al ministero il ruolo di “spettatore passivo”.

Il messaggio è chiaro: delegare per non incorrere in contrasti di competenze. Ma c’è dell’altro: secondo un report le regioni finora non hanno fornito tutti i 21 indicatori previsti dal decreto stesso, e tra quelli inviati non tutti coinciderebbero con quanto previsto; dunque non utilizzabili per la definizione del livello di rischio. Da rimarcare inoltre la “propensione diversificata ad effettuare tamponi diagnostici” e i ritardi nell’avvio delle indagini siero-epidemiologiche oltre alle diseguaglianze su organizzazione e gestione delle Unità Speciali di Continuità Assistenziali (Usca): primo e fondamentale presidio di individuazione di possibili nuovi casi e potenziali veicoli di trasmissione di contagio.

Task force: triste addio. La politica spodesta i tecnici severi e rigidi

Ricorderete, probabilmente senza molta nostalgia, il bollettino quotidiano della Protezione civile delle ore 18. Ricorderete pure la “nazionale dei virologi” e dei tecnici che in questo periodo hanno imperversato in televisione e sui giornali. Si poteva pronunciare con la stessa cadenza di quella di Bearzot dell’82: Borrelli, Brusaferro, Arcuri – Gallo, Ricciardi, Rezza – Burioni, Ippolito, Capua…

Sembra passato un secolo, ma c’è stato un lungo momento, nella tremenda stagione del Covid, in cui sembrava che la politica avesse delegato ogni responsabilità al sapere tecnico-scientifico. E che il destino del Paese fosse tutto nelle mani del comitato che telecomandava Palazzo Chigi, in splendida libertà dai lacciuoli futili della vanità, del consenso e del potere.

Una fuga dalla politica sublimata in aprile dalla nomina di Vittorio Colao, un manager con una discreta carriera nel settore privato, ex amministratore delegato di Vodafone, a capo di una task force di tecnici che avrebbero dovuto indicare la via di un nuovo sviluppo dopo le devastazioni lasciate dal virus.

Ecco, se davvero c’è stata una resa della politica alla superiorità della scienza, quella fase è finita, non esiste più. A un certo punto – contando pure la task force sulle fake news e i 74 esperti al lavoro sui sistemi per il tracciamento dei positivi – la pletora di tecnici assoldati da Conte aveva raggiunto numeri importanti (li ha calcolati Wired): 4 gruppi di lavoro per 111 esperti (aumentati ulteriormente a maggio per garantire un minimo di rappresentanza femminile). Dopo aver messo in campo questo esercito di professionisti, al momento delle decisioni cruciali, la politica si è ripresa tutto quello che era suo.

Della task force di Colao, in particolare, c’è il rischio di conservare un ricordo non proprio indelebile. Il manager si avvia già a concludere il suo mandato, che scade il 7 giugno (a meno che non gli venga rinnovato il mandato) e fino a questo momento il contributo nella gestione della crisi e nei modelli di ripartenza è stato sostanzialmente impalpabile. Il rapporto di Colao con Conte (relazione a distanza, visto che il manager ha lavorato da Londra) non è mai decollato. Colao e la sua squadra (17 uomini ai quali sono state affiancate, tardivamente, 5 donne) erano stati presentati dal premier con queste parole: “Un comitato di esperti in materia economica e sociale con il compito di elaborare e proporre misure necessarie a fronteggiare l’emergenza e per una ripresa graduale nei diversi settori delle attività sociali, economiche e produttive”. Avrebbero dovuto scandire le riaperture. Hanno scritto e presentato documenti, linee guida, proposte. Nella sostanza non hanno inciso mai.

L’altro grande gruppo di lavoro è il sopracitato Cts, il comitato tecnico-scientifico che ha indirizzato i movimenti del governo nella fase del lockdown. Arrivati al momento fatidico delle riaperture, la politica è tornata a fare da sé.

Non è mistero che medici e virologi del Cts volessero più prudenza. Che le linee guida fossero quelle finite nel documento dell’Inail: una ripresa molto più rigida di quella pensata dal governo e soprattutto dai presidenti delle Regioni (e dagli “spettatori” di Confindustria). Così nell’estenuante trattativa finale tra Conte e i governatori, i tecnici in buona sostanza non hanno toccato palla. È illuminante, in tal senso, l’intervista all’Huffington Post di Sergio Iavicoli, direttore del dipartimento di medicina, epidemiologia e igiene del lavoro dell’Inail e componente del Cts: “Le nostre erano solo raccomandazioni al decisore politico, non linee guida”. E dunque “non si può dire che il nostro lavoro sia stato sconfessato”. Come a dire: noi non dovevamo mica decidere nulla, abbiamo solo dato dei suggerimenti. Spesso ignorati. Come la distanza minima nei ristoranti, una delle battaglie campali di questi giorni: è passata dai quattro metri quadri per cliente proposti dall’Inail all’unico metro concordato da governo e Regioni.

È la Fase 2: l’emergenza era la salute, ora sono i soldi. Qui comanda la politica. Domani chissà.

Sindaci e Regioni spaventati. “Così non va, richiudiamo”

“Così non va: rischiamo di dover chiudere di nuovo”. Il pressing per accelerare la Fase 2 è arrivato soprattutto dagli enti locali, angosciati dal dover rassicurare i cittadini e stanchi di aspettare l’uscita dall’emergenza di tutte e venti le Regioni. Alcuni episodi di queste ore, però, hanno già allarmato sindaci e governatori, che non nascondono l’ipotesi di dover tornare indietro e costringere i residenti alle limitazioni tipiche della Fase 1, così come prevede l’ultimo decreto varato dal governo. Un messaggio che, sperano gli amministratori locali, dovrebbe funzionare da deterrente contro feste, spritz e rimpatriate fuori regola.

In Veneto, ad esempio, diversi filmati diffusi sui social testimoniano una ripresa della movida ben lontana dalle norme anti-contagio, che prevedono sì la possibilità di uscire, ma sempre evitando assembramenti. E invece a Padova ecco cori e musica tutti insieme fuori dai locali, abbracci e mascherine abbassate sul mento, tanto che il presidente della Regione Luca Zaia ha già perso la pazienza: “Ci sono arrivate decine di foto e video dei centri delle nostre città con movida a cielo aperto. In dieci giorni io guardo i contagi. Se aumenteranno richiuderemo bar, ristoranti, spiagge e torneremo a chiuderci in casa col silicone”.

Anche perché adesso in Veneto le cose vanno meglio, ma all’inizio dell’emergenza coronavirus la regione di Zaia è stata una delle zone più colpite. Un caso simile è quello di Bergamo, dove già domenica sono circolate fotografie di decine di persone a spasso per le vie del centro senza troppo curarsi delle regole, così da provocare la rabbia del sindaco Giorgio Gori: “Non vi sono bastate centinaia di morti nella nostra città? Vogliamo ritrovarci tra un mese di nuovo nei guai? Ve lo chiedo di nuovo: per piacere, metteteci serietà, impegno e rigore”.

A Palermo non sono invece bastati gli appelli preventivi del sindaco Leoluca Orlando, che nei giorni scorsi aveva pregato i suoi cittadini di essere prudenti nell’uscire di casa. Alla Vucciria, il mercato che di sera si anima di locali, due sere fa si sono radunati decine di giovani e Orlando ieri ha dovuto di nuovo minacciare restrizioni: “Mi auguro di non essere costretto a chiudere alcune zone della città, ma dipende dal comportamento di ciascuno. Bisogna smetterla di fare passeggiate inutili, tutti nella stessa strada finendo per creare le condizioni per un danno irreparabile”.

La questione è seria, tanto che alla Vucciria alcuni gestori dei locali hanno proposto al Comune di avere in gestione più spazio di suolo pubblico, così da poter far rispettare le norme di sicurezza a chi si ferma a bere qualcosa poco più in là del pub. Anche il presidente della Sicilia Nello Musumeci è preoccupato: “Temo che si debba tornare indietro. Non vorrei farlo, ma se le scene della Vucciria dovessero ripetersi sarò costretto ad adottare provvedimenti”.

Stesso avviso recapitato ai suoi cittadini dal sindaco di Parma Federico Pizzarotti, che su Facebook si è lamentato di alcune foto che testimoniano assembramenti per strada: “O ci mettiamo in testa che la Fase 2 non significa fare quello che si vuole e chissenefrega delle regole oppure mi vedo costretto a nuove ordinanze restrittive già dai prossimi giorni, da subito”.

E persino nella Campania di Vincenzo De Luca, il presidente che più di tutti ha tardato le riaperture “per non dover richiudere” in un secondo momento, le cose non vanno meglio. A Benevento sono bastate le prime 48 ore di Fase 2 per far infuriare il sindaco Clemente Mastella: “Vedo scene incredibili per il corso e non solo. Si tratta di assembramenti pericolosi. Se non c’è autocontrollo sarò costretto a misure energiche”. Le stesse invocate da Beppe Sala a Milano già dopo le riaperture del 4 maggio, quando decine di persone erano state riprese a passeggiare sui Navigli.

Immagini che il sindaco definì “vergognose”, ma che per i dieci giorni successivi non hanno comunque portato a ulteriori restrizioni in Comune, nonostante pure il presidente della Regione Attilio Fontana si sia detto “pronto a richiudere” se qualcosa andasse più storto di come già procede in Lombardia.

Ora, avvertimenti a parte, in tutta Italia sarà l’andamento dei contagi a imporre le scelte. Ieri sono tornati a salire i morti (162, lunedì erano stati 99) e i nuovi positivi (813, erano 451), ma c’è stato un considerevole aumento dei tamponi (63.158 contro 36.406) e anche un calo dei malati di 1.424 unità. Buoni i dati sui ricoveri: in terapia intensiva si trovano 716 persone, 33 in meno di lunedì, con altre 9.991 persone ricoverate negli altri reparti (-216).

Castigo senza delitto

Oggi il Parlamento promette di battere il record di ridicolaggine stabilito con la mozione “Ruby nipote di Mubarak”. Infatti voterà su due mozioni di sfiducia al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che dicono l’una l’opposto dell’altra: quella del centrodestra lo accusa di aver fatto uscire troppa gente dalle patrie galere; quella di Più Europa (Bonino&C.) lo accusa di aver tenuto troppa gente dentro. E Italia Viva, decisiva per la loro approvazione o bocciatura, è tentata di votarne almeno una. A caso. Il fatto che l’una dia a Bonafede dello scarceratore e l’altra del carceriere è un dettaglio che non tange questi buontemponi, perché hanno letto solo il titolo. E non le motivazioni, del tutto superflue per un non-partito animato da non-idee e pieno di non-elettori. Noi siamo andati a leggere le due mozioni, scoprendo particolari davvero avvincenti.

La mozione Bonino imputa a Bonafede di non aver ancora portato “in Parlamento la riforma del processo penale”. Il che è vero, ma solo perché il ddl, pronto dal giugno 2019, fu bloccato prima da Salvini e poi da Iv. Altra accusa: “un’idea puramente afflittiva della pena”. Niente indulti né amnistie. Ora, l’ultima autorevole proposta di indulto e amnistia venne dal presidente Napolitano, d’intesa con il premier Letta, nell’ottobre 2013. E sapete chi la bloccò? L’Innominabile, neosegretario in pectore del Pd: “Sarebbero un autogol e un clamoroso errore”. La terza accusa è il decreto che “ha imposto la revisione, con effetto retroattivo” delle scarcerazioni di mafiosi: decreto appena approvato da tutta la maggioranza giallorosa, Iv compresa. La quarta accusa è “la soppressione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio”: coerente dal pulpito boniniano, ma da quello renziano proprio no, visto che il primo a lanciare l’idea nel 2014-2015 fu l’Innominabile e poi i suoi uomini in commissione Giustizia. Quindi, se i renziani votano la mozione di Più Europa, si danno almeno quattro zappe sui piedi. Ma potrebbero pure votare la mozione Lega-Fratelli d’Italia, cui s’è subito associata Forza Italia. E qui, se possibile, si ride ancor di più. Cogliamo fior da fiore: “Bonafede ha iniziato ad accettare il principio, indimostrato e scientificamente falso, del nesso di causalità tra detenzione in carcere e contagio”. Poco sotto, oplà: “da parte del Dap, a fronte dell’emergenza sanitaria nazionale, non sono state predisposte, all’interno degli istituti, adeguate misure di prevenzione sanitaria e anti-contagio Covid-19 a tutela di detenuti, operatori e visitatori… mettendoli tutti a grave rischio della loro salute”.

Oh bella: ma se è “falso” il “nesso di causalità tra detenzione in carcere e contagio”, che bisogno c’era di “misure di prevenzione sanitaria e anti-contagio”? La verità è che le carceri sono rimaste il luogo più sicuro d’Italia (e non solo) proprio perché Bonafede e il Dap del famigerato Basentini intervennero subito con pre-triage e misuratori di febbre per detenuti e agenti, reparti isolati per i “nuovi giunti”, blocco delle visite personali (sostituite con colloqui via Skype), mancati rientri serali per i semiliberi e snellimento della Svuotacarceri di Alfano (votata nel 2010 da tutto il centrodestra) che consente di scontare ai domiciliari le pene residue di 18 mesi, con braccialetto elettronico sopra i 6 mesi, salvo per i mafiosi e condannati per altri reati gravissimi. Ma non è finita, perché i tre partiti di centrodestra rimproverano a Bonafede anche di non aver affidato il Dap a Nino Di Matteo, cioè al pm che hanno passato gli ultimi 15 anni a insultare a difesa degli imputati del processo Trattativa, da Dell’Utri a Mori (se lo amavano tanto, in gran segreto, perché non gli han proposto il Dap, anziché affidarlo all’indimenticabile Tinebra?). Ora sarebbe davvero strepitoso se i renziani votassero quel documento, visto che l’Innominabile, non più tardi di tre mesi fa, tuonò contro i magistrati che osano sospettare B. e Dell’Utri di rapporti con la mafia e con le stragi (indovinate un po’ con chi ce l’aveva). E, quando era premier, prese le proposte della commissione Gratteri-Davigo-Di Matteo sulla riforma del processo e le imboscò in un cassetto.

Ma c’è di meglio e di più: se la Bonino accusa Bonafede di ostacolare scarcerazioni, indulti e amnistie, il centrodestra lo dipinge come un furbacchione che scatena le rivolte nelle carceri “finalizzate ad alimentare la discussione su indulti, amnistie e provvedimenti che avrebbero potuto alleggerire il carcere per gli uomini della criminalità organizzata” e poi “avanza ipotesi di interventi normativi volti incredibilmente ad accogliere le richieste dei rivoltosi”. Infatti, quando i giudici ne mettono fuori qualche centinaio fra lo scandalo generale (anche di Iv), Bonafede fa subito un decreto per tentare di riportarli dentro (votato anche da Iv). Naturalmente il Parlamento è sovrano e ogni partito può votare come gli pare: ma sarebbe interessante sapere quale terribile delitto (a parte le leggi anticorruzione e antiprescrizione, le manette agli evasori e la riforma del voto di scambio) avrebbe commesso Bonafede per meritare un simile castigo. E, soprattutto, se sia un carceriere o uno scarceratore: che sia entrambe le cose è altamente improbabile.

Alla scoperta di nuove strade, e di Future

Carisma. Non c’è bisogno di aggiungere altro per raffigurare Future e il suo progressivo impatto nell’immaginario hip hop. Record in classifica paragonabili solo a Elton John. Collaborazioni con The Weeknd, Kanye West, Pharrell Williams, Rihanna e Juice Wrld. L’artista di Atlanta – vero nome Nayvadius D. Wilburn – ha pubblicato dal 2012 a oggi 32 album, 24 dei quali sono mixtape, giusto per definire cos’è l’urgenza di comunicare per Future. High Off Life contiene 21 brani per 70 minuti di trap e rap, con l’ausilio del gotha della scena americana: Travis Scott, Lil Uzi Vert, Lil baby, Youngboy Never Broke Again, Young Thug, Meek Mill e, naturalmente, il sodale Drake.

L’altro “pezzo da novanta” ha già accompagnato Future nel suo album di debutto Pluto e, successivamente, in Honest fino a partecipare interamente nel mixtape What A Time To Be Alive. Life Is Good, la loro più recente collaborazione – avrebbe dovuto dare il titolo all’ottavo album, ma visti i tempi si è ritenuto grottesco intitolarlo in questo modo.

Eppure in una recente intervista, il rapper forgiato nella sofferenza insiste a ripetere il suo nuovo mantra: “Il nuovo album riguarda la vita. Troppe tragedie e catastrofi nel mondo. Goditela fintanto che ce l’hai, bisogna essere riconoscenti in ogni momento”. Quattro figli da altrettante donne diverse e alcune cause in corso per altri bambini da riconoscere dopo le prove del Dna. Le liriche ancora una volta rincorrono le relazioni finite nell’abisso della disperazione e le conseguenti corse verso droghe e sostanze anestetizzanti. In Future – anima tormentata ma consapevole di voler evolversi e uscire dalla melma – emerge la lucidità, il flusso di coscienza diretto e tagliente e la volontà di riscatto sociale. Ecco il carisma. Posted With Demons apre al pubblico il suo lato oscuro, il suo percorso sui carboni ardenti dell’autodistruzione. Eppure “Se le strade non ti uccideranno, ti renderanno forte”. Dev’essere stato il suo pensiero dopo aver guadagnato il Grammy Awards per King’s Dead insieme a Kendrick Lamar, James Blake e Jay Rock per la colonna sonora di Black Panther.

Se l’Italia riparte, il rock e il pop chiudono (al 2021)

L’Italia riapre, il rock e il pop chiudono. Dal tavolo di Assomusica, i maggiori promoter nazionali hanno ufficializzato il rompete le righe della filiera live. Lo slogan, metà proclama e metà Caporetto, recita: “Estate 2020 insieme ci fermiamo. Estate 2021 insieme ripartiamo!”. In che modo, si vedrà. Perché il rinvio al prossimo anno dei maxitour costerà al settore più di 350 milioni di euro, senza calcolare l’indotto. Resteranno deserti gli stadi, l’Arena, il Circo Massimo, le location dei festival. La vera scommessa sarà arrivare in condizioni praticabili all’appuntamento con il palco, tra dodici mesi. Del resto, sarebbe stato un bagno di sangue finanziario confermare eventi studiati per decine di migliaia di spettatori, fatalmente intruppati, solo per i mille consentiti dal Decreto Rilancio per gli show all’aperto o i duecento al chiuso. E con tutte le limitazioni di sicurezza e sanitarie richieste ai partecipanti. Così, artisti e impresari hanno alzato una bandiera grigia: non si sono arresi, ma postdatano l’impegno. Qualcuno la prende con filosofia: Vasco si mostra in uno scatto da ozioso, mentre l’agenda l’aveva già chiamato alle prove. Tiziano Ferro sorride a denti stretti, ringraziando il governo per aver finalmente fornito indicazioni, mentre Ultimo non sembra averla presa benissimo: già due settimane fa aveva fiutato il vento contrario. “Questa situazione ha spazzato via ogni nostra ambizione”. Più in là, la stoccata al governo “…che forse non da’ il giusto peso ed importanza alla musica e all’arte in generale. Poi però ci chiedono di cantare su instagram o in qualche trasmissione per alleviare il dolore alla gente…”. Una stilettata, quella di Ultimo, che aveva fatto il paio con la levata di scudi degli artisti che “fanno divertire”, come da sortita di Conte.

Inutile elencare i rinvii: è un aeroporto con tutti i jet a terra. Dalle autocelebrazioni di Ligabue alle sette donne di “Una.Nessuna.Centomila”; dalla Nannini al Franchi o Baglioni a Caracalla, passando per gli acuti del Volo e di Bocelli. E Rock in Roma, Firenze Rocks, gli I-Days, Bologna. Sonic Park, Lucca Festival, Pistoia Blues. Amplificatori spenti ovunque. E i biglietti già acquistati? Occhio alla storia dei “voucher”: i decreti hanno autorizzato la soluzione del “buono”, valido ora fino a 18 mesi. Il fan potrebbe pure frazionarlo su più eventi. Sì, ma il rimborso? Non c’è obbligo. E poi si sa, gli amanti della musica, i biglietti conquistati se li tengono stretti come feticci, comunque vada. Intanto, le spese già sostenute dei fans fanno accumulare interessi sui conti di agenzie nazionali e internazionali, promoter, artisti che hanno preteso lauti anticipi. Mentre forse, con il consenso dell’acquirente, potrebbero essere utilizzati per sostenere il ventre molle della filiera: tutti quei tecnici “a chiamata” ora ridotti a elemosinare contributi. Perché la musica non è il calcio: a meno di non farne un format tv è follia immaginare di ripartire a porte chiuse. O senza i lavoratori ridotti sul lastrico.

Siamo tutti più Piccoli senza il grande Michel

Era già tutto in quel Piccoli. Per lui cognome, per chi ci recitava accanto destino. Non faceva ombra, era oltre, Michel Piccoli era il sole. Gli occhi, il sorriso, l’eleganza naturale e perfino ineluttabile: aveva l’aura, e l’aura come il potere logora chi non ce l’ha. Che registi così diversi, in epoche tanto differenti, ne abbiano fatto il proprio volto, addirittura l’alter ego, dice di quanto sia stato poliedrico e necessario, versatile e indispensabile: non un uomo per tutte le stagioni, ma tutte le stagioni di un uomo, questo ha incarnato Michel Piccoli, morto a 94 anni il 12 maggio scorso per un ictus. Se ne va più di un pezzo di cinema, qualcuno a metà tra sineddoche e sinonimo, la parte per il tutto che non s’è data confini, limitazioni, contingentamenti: la Settima Arte, italiana, europea e mondiale, è più piccola ora.

La notizia della scomparsa arriva nel centenario della nascita di Wojtyla, un altro papa attore come egli fu nell’Habemus Papam di Nanni Moretti sulle ali del Gabbiano di Cechov: a chi sosteneva che “per le leggi della natura, ogni vita deve avere fine”, il suo cardinale Melville dava del “sazio, e perciò indifferente verso la vita”.

La sazietà non l’ha praticata, nemmeno l’indifferenza, pur variamente esplorata, da Buñuel a Ferreri. Non si è risparmiato, che se ne servissero per accreditarsi, per darsi delle aspirazioni, financo una raison d’être, non s’è sottratto mai, e le oltre duecento produzioni tra grande e piccolo schermo lo testimoniano: Piccoli ha sempre fatto il suo, ovvero quel che non riusciva agli altri. Il cinema italiano, per esempio, difettava di interpreti per ruoli borghesi, Michel aveva arte e parte, e sopperì alla grande: tutti possono avere un primo piano, solo lui il piano nobile.

Corpo apollineo con licenze dionisiache, è l’attore feticcio di Marco Ferreri, dai capolavori Dillinger è morto (1969) e La grande abbuffata (1973) passando per L’udienza, La cagna, Non toccare la donna bianca, L’ultima donna e Come sono buoni i bianchi (1988): organismo nichilista e ordigno bellico insieme, è chiamato a far implodere il dispositivo borghese, il Sistema che alimenta se stesso e cannibalizza il resto.

Non è dissimile quel che gli chiede Luis Buñuel, che lo vuole ne La selva dei dannati (1956) e altre cinque volte, Il diario di una cameriera (1964), Bella di giorno, La via lattea, Il fascino discreto della borghesia e Il fantasma della libertà (1974): alla voce “segni particolari”, gli ultimi due non sarebbero dovuti mancare alla carta d’identità di Piccoli, che pure rifugge le classificazioni.

C’è nei suoi lavori uno scarto tra il visibile e l’ineffabile, il detto e l’invisibile, ed è in questo slittamento di sensi il senso ultimo delle sue prove: savoir-faire, minaccia garbata, pericolo felpato (l’esordio è proprio Silenziosa minaccia, in originale Sortilèges, nel 1945), indossa sovente l’elusività e l’indecifrabilità del Potere, e non fa prigionieri, nemmeno in platea. Origini ticinesi, natali parigini il 27 dicembre del 1925, viene da una famiglia di musicisti, il che forse spiega l’andamento sinfonico della carriera. Consacrazione internazionale con Il disprezzo di Jean-Luc Godard, la complicata trasposizione da Alberto Moravia del 1963, ha felice consuetudine anche con Claude Sautet, per cui cala il poker L’amante (1970), Il commissario Pelissier, Tre amici, le moglie e (affettuosamente) le altre, Mado (1976), e Manoel de Oliveira, per cui collabora in Party (1996), Ritorno a casa, Specchio magico, il sequel di Bella di giorno Bella sempre e Rencontre unique (2007).

Ha potuto tutto, o quasi: affiancare Anna Karina ne La calda pelle di Jean Aurel e Jane Fonda ne La calda preda di Roger Vadim; farsi dirigere da Alfred Hitchcock in Topaz; battezzare l’opera prima di Costa-Gavras Vagone letto per assassini (1965); fregiarsi della Palma d’Oro quale miglior attore a Cannes 1980 per il Salto nel vuoto di Marco Bellocchio.

Tantissima Italia, dal Diabolik di Mario Bava (1968) a Todo modo di Elio Petri (1976) e Il mondo nuovo di Ettore Scola (1982); tantissima Francia, da Jacques Demy per Josephine (1967) a Claude Chabrol in Dieci incredibili giorni (1971) e L’amico di famiglia (1973), fino a Leos Carax, per Rosso sangue (1986) e Holy Motors (2012).

Tre le mogli, quella mezzana la chanteuse Juliette Gréco. Pochissimi i premi: quattro nomination ai César, tre candidature e un riconoscimento onorario nel 2011 agli Efa, l’Orso d’Argento a Berlino per Gioco in villa (1982), il David di Donatello per il profetico Habemus Papam: “Durante le riprese – ricorda Moretti – è sempre stato disponibile, generoso, mai capriccioso, e ha capito al volo cosa volessi raccontare attraverso la figura di quel Papa così umano e sofferente. Per noi spettatori è un grande dolore, se ne va un gigante del cinema e del teatro”. Già, il premio più importante l’ha avuto solo lui: essere Michel Piccoli.

 

Biden e Sanders, la strana coppia dem: ma la base radicale non vuole Sleepy Joe

Paese che vai, stessa sinistra che trovi: divisa e capace di regalare la vittoria alla destra. Negli Usa, rischia di ripetersi il copione del 2016: una “parte consistente” degli elettori di Bernie Sanders “non è per nulla entusiasta” all’idea di votare Joe Biden, così come non lo era di votare Hillary Clinton. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Jeff Weaver, uno dei consiglieri del senatore del Vermont leader della sinistra democratica, denuncia un “chiaro e pericoloso trend” che potrebbe determinare la sconfitta di Biden a novembre. Parallelamente, sul New York Times, l’analista Giovanni Russonello s’interroga perché Biden non salga nei sondaggi, come il contesto potrebbe lasciare supporre, con Donald Trump tra due fuochi, la pandemia che ancora infuria e l’economia che s’è fermata. Gli ultimi dati della John Hopkins University mostrano che, alle 18 di ieri, i contagi negli Usa s’avvicinavano a 1.500.000 e che i decessi stavano per superare i 90 mila. Trump promette vaccino gratis per tutti – quando ci sarà – ma è visibilmente nervoso: replica alle critiche di Barack Obama, che lo accusa di “non sapere quel che fa”, agitando lo spettro d’un fantomatico ‘Obamagate’ ed evocando la prigione per il duo Obama-Biden, come nel 2016 chiedeva le manette per la Clinton. Ipotesi che ieri il ministro della Giustizia, Barr, ha smentito. Le grane per l’Amministrazione del magnate non finiscono mai: l’ultima tocca il segretario di Stato Mike Pompeo, uno ‘yes man’ del presidente, su cui l’ispettore generale del Dipartimento di Stato, Steve Linick, nel frattempo licenziato, stava conducendo un’indagine per accertare l’uso improprio di personale federale per ritirare i pasti al ‘take away’ o i vestiti in lavanderia o portare a passeggio il cane. .

Le difficoltà di Trump e dell’Unione non paiono però attenuare le divisioni del campo democratico, che, nota Weaver, potrebbero avere conseguenze molto pericolose nei battleground States, cioè quegli Stati in bilico, come Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Iowa, Ohio, North Carolina, Florida, Arizona, dove si decideranno, anche per un pugno di voti, le elezioni del 2020. Weaver, che ha recentemente lanciato il Pac ‘America’s Promise’, proprio con l’obiettivo di indurre la base progressista a sostenere il centrista Biden per evitare altri quattro anni di Trump presidente, afferma che è “reale e urgente aiutare Biden a consolidare la posizione tra i sostenitori di Sanders”. “Se l’intera base di Sanders andrà a votare per Joe a novembre – scrive ancora Weaver, riferendosi in particolare ai giovani, ai latinos e alla working class –, l’ex vicepresidente potrà sconfiggere Trump e restituire ai democratici la Casa Bianca”.

L’ex vice di Obama è conscio del problema: il candidato democratico cerca di chiamare a raccolta tutto l’elettorato centrista e progressista e, al di là degli endorsement formali, s’è preso in squadra un’icona della sinistra, Alexandria Ocasio-Cortez, che sarà co-presidente della task force sul clima, accanto a John Kerry, che da segretario di Stato contribuì nel 2015 all’accordo di Parigi sul clima. Quello sul clima è uno dei gruppi di lavoro costituiti da Biden e Sanders, che la Ocasio-Cortez sosteneva. La giovane deputata di New York è tra le promotrici del Green New Deal, un piano contro i cambiamenti climatici molto ambizioso.

Secondo un sondaggio USA Today – Suffolk University, il 20% degli elettori di sinistra afferma che non voterà per Biden e il 60% non è per niente entusiasta all’idea di sostenerlo. Per il Pew Research Center, quasi la metà dei ‘sanderisti’ (il 47%) ritengono che le differenze ideologiche impediranno l’unità della sinistra.

Vaccino, una doccia fredda su Oxford: il macaco si ammala

Case di cura e governo britannico. Diverse inchieste giornalistiche lo hanno dimostrato: il Regno Unito ha ottenuto che il sistema sanitario non venisse travolto liberando reparti ospedalieri per far posto a malati di Covid. Dove ha trasferito quei pazienti? Nelle case di cura, senza fare test per verificare che fossero positivi. Sta emergendo che molti sarebbero stati infettati in ospedale, da personale a sua volta infettatosi per carenza di protezioni, e hanno diffuso il contagio fra gli altri residenti. I decessi ufficiali, dentro e fuori gli ospedali, nelle ultime 24 ore sono stati 160, per un totale di 34.796 e 2.684 nuovi contagi.

Ora il governo punta a rimediare con due strategie: potenziamento della campagna di tamponi e tracciamento e sviluppo rapido del vaccino. Sul primo punto, il ministro della Salute Matt Hancock ha annunciato che chiunque sopra i 5 anni con sintomi potrà ricevere il tampone e che i “tracciatori” incaricati di verificare la diffusione del virus sono già 21 mila.

La partita fondamentale è però la scoperta di un vaccino sicuro ed efficace, unica garanzia per il ritorno alla normalità. A livello globale le sperimentazioni sono 130, fra cui quella dell’Università di Oxford (con la Irbm di Pomezia e il colosso farmaceutico AstraZeneca) che giorni fa aveva annunciato di aver ottenuto risultati incoraggianti nei trial del suo ChAdOx1 con i macachi ed è ora in fase di sperimentazione umana. Tanto che il governo si era sbilanciato nella promessa, se tutto andrà bene, di avviarne la distribuzione già a settembre. Ieri la doccia fredda: secondo quanto riporta il Telegraph, le scimmie sottoposte ai trial si sono ammalate e questo sta mettendo in dubbio la sua efficacia sugli umani. C’è ottimismo invece sulla prima fase dei trial clinici della società statunitense Moderna che, in collaborazione con il National Institutes of Health, è fra le otto al mondo in fase di sperimentazione umana. Ma lo studio non è ancora stato sottoposto a revisione indipendente e, in ogni caso, l’eventuale vaccino non sarebbe pronto prima di gennaio.

E la competizione per l’immunizzazione sta diventando una nuova frontiera geopolitica. Gli otto progetti più avanzati sono rispettivamente uno in Europa (Oxford), tre negli Stati Uniti (oltre a Moderna anche Pfizer e Inovio), quattro in Cina. Se il vaccino è la chiave per la ripresa di lavoro, scambi globali, turismo, il rischio è quello del sovranismo sanitario. Un pericolo da cui mette in guardia Jane Halton, ex membro direttivo dell’Oms e oggi presidente della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations: “Adesso siamo tutti nella stessa barca. Ma appena ci sarà un vaccino, temo che questa unità svanisca, lasciando il posto a un nazionalismo del vaccino, in cui ogni paese pensa prima a se stesso a discapito del resto del mondo, e sarebbe un disastro per tutti”. La Halton è una delle molte voci che spingono per una cooperazione internazionale anche nella fase di distribuzione, che dia la priorità ai più vulnerabili a livello globale, per evitare che le nazioni più avanzate abbandonino a se stesse quelle con meno risorse, amplificando in modo imprevedibile gli effetti già rovinosi della crisi sanitaria ed economica.