Sulla pandemia inchiesta indipendente: il Dragone si nasconde dietro l’Oms

Non è un’assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità come le 72 precedenti quella che si è aperta ieri, rigorosamente in videoconferenza, dalla casa madre di Ginevra. L’obiettivo è lanciare un’indagine ufficiale sulle origini del Covid-19 e come si è diffuso nel mondo. L’Onu punta ad approvare la risoluzione europea-australiana che chiede di avviare “il più presto possibile un processo di valutazione” per analizzare la risposta sanitaria internazionale e le misure adottate dall’Organizzazione per arginare la pandemia. Come previsto, il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus – ex politico etiope accusato da più parti di aver coperto il comportamento ondivago della Cina nell’ammettere la pandemia a causa del suo enorme peso nell’economia dell’Etiopia – ha tentato di posticipare l’inchiesta.

Ghebreyesus ha affermato: “Inchiesta sì, ma al momento opportuno quando sarà superata l’emergenza”. È l’Australia, molto più dell’Unione europea, però a sollecitare con veemenza e senza tentennamenti l’avvio di un’inchiesta indipendente di fronte al colosso cinese che invece pretende sia seguita dall’Oms.

Intanto il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, continua a traccheggiare e a sottolineare la situazione ancora sconosciuta e pericolosa in cui l’umanità sta vivendo dall’inizio dell’anno: “Un virus microscopico ci ha messo in ginocchio e ancora non sappiamo cosa fare”. Per quanto riguarda l’indagine, anche Guterres è perplesso quanto il capo dell’Oms: “Non è il momento di un’indagine. Non abbiamo mai visto tanta unità tra i Paesi contro il coronavirus. In molti hanno ignorato le raccomandazioni dell’Oms. Quando ci saremo lasciati alle spalle il Covid, allora sì dovremo andare a fondo delle origini e delle responsabilità”.

Non la pensa così Scott Morrison, il premier australiano capofila di fatto di 122 nazioni che sono d’accordo con lui sulla necessità di un’indagine sotto l’egida della comunità internazionale e non dell’Oms. Da settimane Morrison si dice granitico nell’intenzione di “perseguire quello che è una azione molto ragionevole. L’emergenza ha determinato il blocco dell’economia globale. Sembrerebbe del tutto ragionevole e sensato che il mondo chieda di avere una valutazione indipendente di come tutto ciò è accaduto, in modo da poter imparare le lezioni e impedire che accada di nuovo”.

La Cina vede l’inchiesta come una caccia alle streghe politica, orchestrata dagli Stati Uniti e progettata per umiliare Pechino. “Pechino si è comportata in maniera aperta, trasparente e responsabile nella lotta contro il Covid-19”, ha ribadito nel suo intervento il presidente cinese, Xi Jinping. La Cina “considera una propria responsabilità la sicurezza sanitaria globale”. Il leader è d’accordo con Guterres: “Ci vorrà un’indagine esaustiva basata su scienza ed eseguita con professionalità, ma solo quando l’emergenza sarà sotto controllo”.

Il panorama vede finora 122 nazioni (su 194) a favore di una indagine indipendente su come si è propagato il covid-19. Francia e Gran Bretagna, per questione economico-commerciali sono sulla stessa posizione dei due leader dell’Onu, ossia combattere il virus e non cercare di dare la colpa a qualcuno. Gli Stati Uniti invece sono solidamente al fianco di Canberra e non è una sorpresa la loro voglia di farla pagare alla Cina, non solo per la pandemia: “Nel fornire le informazioni sulla pandemia, l’Oms deve cambiare e diventare più trasparente”, ha detto il ministro americano della Sanità, Alex Azar, che guida la delegazione degli Stati Uniti dopo aver affermato il sostegno degli Usa a “un’inchiesta indipendente sull’operato” dell’agenzia della Sanità delle Nazioni Unite.”

Il progetto di risoluzione verrà presentato oggi, ma per essere approvato necessita del sostegno di due terzi dei 194 membri dell’Assemblea. Secondo l’agenzia Reuters, che ne ha visto la bozza in anteprima, nel testo non si menziona la Cina o Wuhan. E Taiwan, nemica numero uno del Dragone, dopo essere stata esclusa dall’Assemblea, ha accusato Pechino di bullismo. Alla faccia dell’unità mondiale contro il Covid-19.

Il Recovery Fund si dimezza e dentro ci sono “condizioni”

Da Palazzo Chigi fanno buon viso a cattivo gioco e valorizzano il poco di buono che c’è nella proposta franco-tedesca di Recovery Fund: l’Europa per la prima volta emette debito comune in discreta quantità e lo distribuisce attraverso il suo bilancio e, dunque, “è un buon punto di partenza”. I motivi per gioire nell’ufficio di Giuseppe Conte finiscono più o meno qui, perché lo strumento solidale su cui aveva puntato tutta la sua strategia, finora s’è ridotto a ben poco, sostanzialmente a un fatto simbolico: non duemila, non 1.500, ma 500 miliardi di euro da distribuire in tre anni ai “Paesi e settori più colpiti” dalla pandemia e senza, al momento, un “meccanismo ponte” che consenta interventi immediati (una delle richieste dell’Italia, inserita anche nel comunicato finale dell’ultimo Consiglio europeo).

È vero che la proposta vera e propria ai Paesi dell’Ue deve arrivare dalla Commissione, ma un documento congiunto di Francia e Germania indirizza la discussione in modo quasi definitivo: la cifra totale potrebbe persino scendere per accontentare la prevedibile opposizione dei Paesi “frugali” (Olanda, eccetera), mentre Italia, Spagna e gli altri perdono il loro alleato più importante, Parigi, che come da tradizione alla fine decide di trovare un accordo a due con Berlino.

In attesa di definire i dettagli, la proposta franco-tedesca funziona così. Il bilancio Ue viene alzato dall’1 al 2% del Prodotto interno lordo europeo per i prossimi tre anni, che in soldi fanno 165 miliardi circa l’anno, 500 in totale: questi soldi non sarebbero coperti dai contributi degli Stati membri come il bilancio normale, ma dall’emissione di debito comune finanziato (e ripagato) in solido da tutti percentualmente alla dimensione del loro Pil in un lasso di tempo medio-lungo (“anche oltre” il 2027). Questo, ovviamente, significa che questo debito – arrivando come una spesa della Commissione – non sarà un prestito e non finirà subito nella contabilità nazionale aumentando il rapporto col Pil, ma d’altra parte bisogna capire quanti soldi arriveranno nei vari Paesi per capire se l’Italia ci guadagnerà oppure no e quanto: nel bilancio Ue finora è stata contributore netto (ha versato più di quanto ha preso).

Quanto all’uso di questi fondi e a come saranno distribuiti è tutto avvolto nel fumo: “Poi vedremo come usare questi soldi, ma intanto abbiamo trovato il modo di procurarceli”, ha risposto ai cronisti Angela Merkel, mentre Emmanuel Macron ci ha tenuto a dire che questa intesa a due è il contributo che Francia e Germania danno al dibattito e non certo una proposta definitiva. In realtà però, nonostante l’understatement della Cancelliera, ci sono dei discreti paletti su come i soldi potranno essere usati: si procederà “sulla base del programma di bilancio Ue e nel rispetto delle priorità europee” e il piano “si fonderà su un impegno chiaro da parte degli Stati membri per l’applicazione di politiche economiche sane e un programma di riforme ambizioso”. Siamo, a un dipresso, alle “condizioni” previste dai Trattati vigenti per qualunque “aiuto” in sede europea: in mancanza di dettagli applicativi, si può comunque dire che il Consiglio Ue si lascia la possibilità di intervenire largamente sulla politica fiscale degli Stati in un momento, si presume, in cui il Patto di Stabilità non sarà più sospeso a causa dell’emergenza come oggi. Un bilancio, insomma, con pochi chiari e molti scuri.

La posizione italiana ne risulta oggettivamente indebolita, anche se Conte – che ci tiene ad accreditare l’idea che Macron abbia portato al tavolo anche la posizione italiana – fa buon viso a cattivo gioco: “La proposta franco-tedesca è un primo passo importante nella direzione auspicata dall’Italia. Ma per superare la crisi e aiutare imprese e famiglie serve ampliare il Recovery Fund. Siamo fiduciosi in una proposta ambiziosa da parte della Commissione Ue: apprezziamo lo sforzo fatto dalla Germania, ma questo punto di partenza non deve essere rivisto al ribasso, ma semmai ampliato”.

Sono, all’ingrosso, i toni usati dallo spagnolo Pedro Sánchez, che stridono invece con la sostanziale bocciatura – nell’eterno gioco delle parti tra Germania “buona” e piccoli Paesi del Nord “cattivi” – arrivata dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz: “Ho appena avuto un buono scambio con i primi ministri di Danimarca, Paesi Bassi e Svezia sull’attesa proposta della Commissione Ue sul Recovery Fund e sul bilancio pluriennale aggiornato. La nostra posizione rimane invariata: prestiti e non aiuti”.

L’Italia può consolarsi se non altro con l’abbassamento dello spread (a 215) seguito all’annuncio di Merkel e Macron, ma i mercati sono volubili: l’effetto annuncio non durerà per sempre.

Peccato e salvezza: i grandi romanzi e le sacre scritture

Diversi critici sostengono che la letteratura moderna si presenta come una parodia dell’epica o delle Scritture. L’Ulisse di Joyce lo è in effetti di entrambe. Stephen Dedalus e la sua accesa polemica anticlericale, Molly Bloom come improbabile semidivinità pagana, Leopold Bloom e il suo zoppicante inseguimento dei passi omerici.

Finita l’era in cui era possibile essere eroi, e parimenti in epoca di scetticismo religioso, alla letteratura occidentale non è rimasto – per mantenere la sua forza – che fare il gioco del funambolo sull’eredità di Atene e di Gerusalemme. Che si cerchi di riformularla, questa eredità, o si impieghi la vita nel tentativo di scrollarsela di dosso, gli impianti dell’epica, della tragedia greca, del Vecchio e del Nuovo Testamento, ce li portiamo dentro. Per ciò che riguarda il mondo cristiano, negli ultimi due secoli è più evidentemente facile ritrovarne le tracce nella letteratura nord-americana che in quella europea. Herman Melville era un profeta veterotestamentario fuori tempo massimo, prossimo di Giona, in continuo dialogo (o polemica) con Qoelet. Se devo tuttavia citare un autore che per me ha avuto su questo piano un’importanza fondamentale, penso con certezza a William Faulkner. Ricordo la prima volta che ho letto in modo compiuto L’urlo e il furore, Luce d’agosto, Mentre morivo, Assalonne, Assalonne!, Palme selvagge. Tutto il meraviglioso armamentario del modernismo (flussi di coscienza, continui cambi di prospettiva, gestione di cronologie non lineari, sinestesia) veniva utilizzato per raccontare peccato e redenzione, tradimento e perdono, tragedia e speranza, fedeltà e ribellione, corruzione e desiderio, tracotanza e sacrificio. L’impianto biblico era chiarissimo (e del resto Faulkner era di New Albany, in piena Bible Belt) ma al tempo stesso quei romanzi mi parvero in giovinezza come l’unica eresia praticabile – eretici rispetto alla superfi cialità del discorso pubblico che domina il mondo laico, eretici per libertà rispetto alle retoriche confessionali – per gravitare il più vicino possibile intorno al nucleo irriducibile che ci mantiene umani. A proposito di parodie: Faulkner diceva di essersi accostato all’Ulisse di Joyce (da cui ha preso il meglio) “come un predicatore battista analfabeta davanti alla Bibbia: con fede”. Al tempo stesso raccontava in modo scanzonato da dove veniva la sua quasi perfetta conoscenza dei testi sacri: “Il mio bisnonno era un uomo gentile e garbato, anche nei confronti di noi bambini. Voglio dire, nonostante fosse scozzese, non era né particolarmente pio né severo: era semplicemente un uomo dai principi inflessibili. Uno di questi era che tutti, bambini e adulti, dovessimo tenere pronto un verso della Bibbia a mo’ di scioglilingua quando la mattina ci riunivamo a tavola per la colazione; se non avevi il verso bell’e pronto, non ti veniva data la colazione; ti veniva permesso solo di lasciare la stanza e di tornare quando te n’eri imparato uno (c’era una zia nubile che in quella situazione faceva un po’ da sergente maggiore, si ritirava con il colpevole e gli dava una bella rinfrescata che, la volta dopo, gli avrebbe permesso di superare l’ostacolo)”. L’utilizzo antiretorico dei testi sacri non serve a Faulkner a fare una professione di fede che avrebbe indebolito la forza dei suoi libri, ma a offrirci – in un modo che all’epoca mi spiazzò e mi emozionò moltissimo, e peraltro continua a farlo – una possibilità di salvezza. “Tra il nulla e il dolore, preferisco il dolore”. Credo che precetti come questi abbiano più speranza di fare breccia nel cuore dei giovani, istintivamente allergici al nichilismo. La salvezza cui si fa riferimento è naturalmente quella spirituale. Cosa fare nella vita per rimanere umani? Provare a amare, rispettare la propria e l’altrui complessità, scegliere la profondità, persino a rischio del proprio benessere e a costo dell’inquietudine perenne. In questo modo siamo ad esempio portati a considerare salvi, o perlomeno a guardare con occhi compassionevoli, gran parte dei componenti della famiglia Compson ne L’urlo e il furore, persino il suicida Quentin. Il vero peccato non è commettere errori, anche gravissimi, o farsi vincere dalle proprie debolezze, ma diventare indifferenti. Questa salvezza individuale diventa la salvezza di un intero popolo nell’altra grande figura della letteratura americana che, ponendosi sul capo opposto del secolo rispetto a William Faulkner, ne raccoglie l’eredità. Si tratta di Toni Morrison. Da un uomo a una donna. Da un wasp a un’afroamericana. Romanzi come Amatissima, Sula, Il canto di Salomone rileggono a propria volta il modernismo (portandolo sulle soglie del XXI secolo), e usano le suggestioni della tragedia greca e delle Scritture per adattare al tempo presente un tema che nella Bibbia torna di continuo: il riscatto di un popolo oppresso. Non Israele, questa volta, ma l’enorme comunità afroamericana. Da una vastità all’altra: il respiro dei romanzi di Toni Morrison sembra passare per Esodo e per Isaia, e mantiene questa forza che saremmo portati ad associare, sul piano scenografico, a montagne o grandi distese d’erba o sabbia, perfino quando – ad esempio con Jazz – si circonda invece di suggestioni metropolitane. Negli ultimi anni, una scrittrice che è riuscita credibilmente a portare temi religiosi sul territorio della narrativa è Marilynne Robinson. In un’epoca in cui le religioni vengono strumentalizzate in modo particolarmente ostinato dal potere politico, Robinson è riuscita a scrivere alcuni dei romanzi più complessi, sfuggenti e profondi tra quelli usciti nel XXI secolo. Si tratta di Gilead, Home e Lila, pubblicati in un arco temporale che va dal 2004 al 2014, anche se l’esordio dell’autrice avvenne nel lontano 1980 con un libro intitolato Housekeeping. È tuttavia la cosiddetta trilogia ad aver imposto la voce di Robinson a livello internazionale. Questi tre romanzi sono ambientati nell’immaginaria cittadina di Gilead, nell’Iowa (com’era del resto immaginaria la faulkneriana contea di Yoknapatawpha, nel Mississippi), dove le vicende della famiglia del reverendo congregazionalista John Ames si intrecciano con quelle della famiglia del reverendo presbiteriano Robert Boughton. Non c’è pagina nei romanzi di Robinson che non ponga i suoi protagonisti davanti a una scelta. In certi casi si tratta di una scelta pratica: fare o non fare una determinata cosa, con tutte le conseguenze etiche che ne derivano. Ma in altri casi, e sono la maggior parte, proprio perché si possa fare quella scelta in libertà, Marilynne Robinson riesce a illustrare i crocicchi mentali davanti a cui ci troviamo di continuo, i percorsi interiori che riusciamo a padroneggiare quando non ne siamo vinti soccombendo alla forza della rabbia, della frustrazione, dell’invidia, della gelosia, del risentimento. Al tempo stesso, Marilynne Robinson riesce a mostrarci il percorso che conduce al superamento di questi ostacoli interiori oltre i quali, inaspettatamente, possono spalancarsi territori completamente nuovi, calpestando i quali riconosciamo in noi una forza, un’energia, una sapienza e insieme una leggerezza del mondo insospettati. Siamo nel campo dell’etica? Siamo nel regno della religione? O si tratta solo di psicologia sostenuta dalla forza dirompente della narrativa a cui sono piegati persino i temi religiosi? Siamo addirittura nel campo delle neuroscienze? E cosa c’entrano le neuroscienze con il cristianesimo? In realtà la religione cristiana, così presente nei libri di Marilynne Robinson, non mi sembra chieda al lettore una professione di fede.

“Le zone-franche, vero rifugio nelle case”

Paola Marella ha un dono: quando parla rende rassicuranti anche concetti che rassicuranti proprio non sono. Lei è il guru dei programmi televisivi sulla casa, compravendita, affitti, arredamento; ed è il guru anche del caro vecchio bon ton, quando un tono di voce superiore non è solo un tono di voce superiore.

Come sta?

Sono stati due mesi impegnativi, e non credo di essere la sola, ma è andata.

È uscita di casa?

Scherziamo? Al massimo per la spesa, altrimenti ho rispettato alla lettera le indicazioni.

Cosa ne pensa dei milanesi sui Navigli?

Mi ha suscitato molta impressione, ma dopo due mesi proprio in tanti non ne potevano più.

Consigli per la casa: cambieranno le esigenze?

Già adesso non è più come prima: c’è una maggiore richiesta di spazi esterni, qualunque tipo di sfogatoio; (ci pensa) ho un’amica con un appartamento di 300 metri quadri e neanche un balcone. Vuole vendere.

E poi?

Sarà fondamentale ripensare gli ambienti, creare degli angoli-studio dove l’adulto o i figli si possono rifugiare senza venir disturbati.

Zone-franche.

Esatto, e soprattutto andrà potenziata la Rete; (resta in silenzio un secondo) comunque dobbiamo ricominciare, con tutte le precauzioni, ma è necessario.

Non ne può più.

(Sorride) Eh…

Come ha impiegato il tempo?

Mi sono iscritta pure a dei corsi online.

Di cosa?

Di psicoanalisi con il professor Recalcati e uno di aggiornamento professionale.

Ha cucinato.

(Tono stupito) Io?

Sì.

No, zero, non sono dedita ai fornelli; mi ha scritto un’amica chef: “Ho apprezzato che sui social non ti sei finta cuoca”.

E la spesa?

Piatti già pronti e verdure.

Pulizie?

Ho ordinato i cassetti, le fotografie, selezionato i documenti.

Tante risate…

Vabbè, ho sfruttato il tempo, guidata da una regola fondamentale: oltre i dieci anni, il documento si butta.

Libro da “pandemia”.

Le fedeltà invisibili di Delphine de Vigan e Il ritratto di Ilaria Bernardini.

Serie Tv.

Soprattutto Fauda, poi aggiungo I diavoli e Grey’s Anatomy; da Grey’s non riesco a staccarmi; ah, aggiungo Freud, quella Vienna di fine Ottocento è suggestiva.

La prima vera uscita?

Ieri per un appuntamento di lavoro alle 11. Finalmente sono tornata su un cantiere.

E…

Mi ha fatto un po’ effetto, è stato come tornare al primo giorno di scuola.

 

Albertino Samonà, la cultura siciliana tra Salvini e Tolkien

È ora di finirla col ritenere la destra italiana da sempre stitica quanto a intellettuali e figure culturalmente rilevanti. Prima di tutto ci sono i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse Moscia di Libero, ovvero il poker di due di picche Feltri-Senaldi-Farina-Facci. Roba forte, ma così forte che l’altro giorno quelle vecchie beccacce hanno chiesto a Formigoni (condannato per tangenti nella sanità regionale) di difendere Fontana e Gallera proprio sulla sanità. Genio puro: quasi come chiedere a Moggi di dar lezioni sulla sportività. E poi c’è Alberto Samonà, il nuovo Assessore leghista ai beni culturali e dell’identità siciliana voluto da Musumeci. E già questo è meraviglioso, perché scegliere un leghista per valorizzare l’identità siciliana attiene di per sé alla psichiatria conclamata. Evidentemente Musumeci, memore delle infinite affettuosità pronunciate in quasi trent’anni dalla Lega nei confronti del sud, ha voluto premiare il partito di Salvini. E lo ha fatto in grande, perché ha scelto quel bel giuggiolone di Samonà. Palermitano, classe (poca) ’72. “Giornalista, saggista e scrittore” (per mancanza di prove). Detto “Albertino”. Proviene dalla famiglia siciliana Samonà, che ha annoverato al suo interno diversi scrittori e intellettuali (poi, verosimilmente, è venuto al mondo lui per fare media col passato). Ha scritto per Libero e Il Secolo d’Italia, ma ha anche dei difetti. Wikipedia ci informa che il Samonà “ha pubblicato diversi libri su tematiche simboliche, religiose e sulla conoscenza di sé”, frase che non vuol dire nulla e dunque per lui va benissimo. Il Samonà è un affascinante mix tra un camerata ipotetico e un trasformista di rincalzo. Sul finire degli anni 80 è dirigente palermitano del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Msi (“Eravamo una bella squadra, c’ero io ma anche Cantarella e Tricoli”). Fa poi parte delle associazioni ambientaliste Fare Verde e Gruppi ricerca ecologica. Nella seconda metà degli anni 90 fonda il Circolo politico-culturale Julius Evola. Nel gennaio 2018 si presenta alle “parlamentarie” del M5S per il Senato superando la selezione online, ma viene escluso dalla lista. Perché? Perché è un grande amico di Musumeci. Qualcuno fa arrivare a Di Maio alcuni articoli di Samonà che, per le Regionali del 2017, definiva Musumeci (opposto al 5 Stelle Giancarlo Cancelleri) il candidato migliore. E Di Maio lo fa togliere dalle liste. Albertino non se la prende troppo e, nel settembre 2018, si ricicla responsabile del Dipartimento Cultura della Lega Salvini Premier per la Sicilia occidentale. Ama Lucio Battisti, Franco Battiato e la saga del Signore degli anelli di Tolkien. Ha proposto di recente di intitolare una strada in ogni Comune a Giorgio Almirante. Altre grandi passioni di “Albertino” sono esoterismo e massoneria (“Ma non sono un massone”, garantisce). Repubblica ricorda che “Samonà ha scritto anche per riviste del Goi, il Grande oriente d’Italia e più volte ha intervistato i responsabili dell’organizzazione che raggruppa molte logge massoniche, ultimo Stefano Bisi”. Assai attivo sui social, ha inanellato svariate perle. Tipo: 1) Il 25 Aprile è una festa che divide gli italiani. 2) Mattarella è esecrabile perché ha osato ricordare che l’antifascismo è un valore. 3) Avvincenti interviste a garbati ex terroristi di destra come Fioravanti. 4) Amene teorie complottiste sul Coronavirus. 5) Freddure raggelanti su Bella Ciao e la fascistissima Giovinezza. 6) Tributi commossi a quel noto galantuomo di Stefano Delle Chiaie. Eccetera. Condoglianze culturali, meravigliosa Sicilia.

“Caso Di Matteo”, Il conflitto è inesistente

Nell’intervista resa domenica scorsa a La Repubblica, la presidente del Senato Casellati ha dichiarato, in relazione al “caso Bonafede-Di Matteo”: “Sono preoccupata. Per la prima volta nella storia della Repubblica registro un conflitto grave tra un membro del Csm e il ministro della Giustizia, che sono espressioni di due organi interdipendenti. Certo è che un conflitto di questo genere non può restare senza risposta. Anche il Csm deve fare la sua parte. L’amministrazione della giustizia esige in primo luogo regole e giudizi eguali per tutti, perché non sopporta opacità di sorta. Solo così si può riconquistare la fiducia dei cittadini”.

Tralasciando qualsiasi considerazione in ordine all’ultimo periodo che afferma cose ovvie e che non hanno nulla a che vedere con il “caso Bonafede-Di Matteo” della “pasionaria Berlusconiana” sono, anche storicamente, prive di qualsiasi fondamento.

Innanzitutto, nel caso in questione, non vi è stato alcun “conflitto”, tantomeno “grave”, tra un membro del Csm e il ministro della Giustizia. Quando Bonafede propose a Di Matteo nel giugno 2018 la nomina a capo del Dap, per poi ritrattarla il giorno dopo quando il magistrato aveva dato la sua disponibilità, quest’ultimo non era membro del Csm e il fatto che egli abbia rivelato tali circostanze alcuni giorni orsono, divenuto, nel frattempo, componente di tale organo, non cambia alcunché perché egli non ha contestato il ministro in virtù del suo “status” di componente del Csm, ma addirittura non lo ha proprio contestato essendosi ben guardato dal muovere censure al Guardasigilli per la sua scelta del capo del Dap nella (diversa) persona di Francesco Basentini, nomina (forse sbagliata) che, comunque, rientrava nella esclusiva competenza del ministro.

Sarà opportuno ricordare alla Casellati che un “conflitto” (di quelli veri) tra il Csm e il ministro di Giustizia – (trasformatosi in un duro scontro tra alcuni membri e il Guardasigilli) – vi fu nel 1992 in occasione della nomina del (primo) Procuratore nazionale antimafia quando tre componenti del Csm – (i due togati Alfonso Amatucci dei “Verdi” e Gianfranco Viglietta di M.D. e il laico del Pds Franco Coccia) – votarono a favore di Agostino Cordova, e due (giustamente) a favore di Giovanni Falcone (uno si astenne).

Il ministro Martelli non si pronunciò sul “concerto” (previsto per gli incarichi direttivi) e chiese altra documentazione che il Csm rifiutò di inviare. Lo scontro, violento, prolungato – (terminò solo con la morte del valoroso e coraggioso magistrato nella strage di Capaci) – finì per personalizzarsi con accuse nei confronti del ministro, che “voleva imporre al Csm il suo candidato”, e dello stesso Falcone, al punto che il ministro sentì il dovere di affermare: “I membri del Csm, che hanno sferrato una campagna propagandistica contro il giudice Giovanni Falcone hanno compiuto un’infamia”, ottenendo come risposta un atto di citazione con il quale il laico Coccia chiedeva al Guardasigilli un risarcimento di un miliardo di lire (!!).

Così circoscritto nei suoi giusti (e modesti) termini il “caso Bonafede-Di Matteo”, la sortita della seconda carica dello Stato – che si dichiara “preoccupata” perché “il conflitto è grave” e necessita di “una risposta” e che “anche” il Csm deve fare “la sua parte” – fa sorgere un dubbio: non è che, per caso, la “risposta” riguardi la sfiducia presentata in Senato dall’opposizione nei confronti del ministro di Giustizia e che “la parte”, che si vuole il Csm faccia, consista in una delibera che censuri il comportamento del consigliere Di Matteo ?

Il Csm renda conto alla collettività

Sembra essersi cristallizzato a un anno addietro il momento del risveglio dell’attenzione interna ed esterna attorno allo spinoso tema dell’etica nell’esercizio della carica di componente del Csm. Dibattiti, prese di posizione, procedimenti e misure disciplinari, dimissioni, nuove elezioni seguirono reattivamente alle notizie (a proposito anche di conturbanti mercanteggiamenti del passato) filtrate attraverso le larghe maglie dell’indagine della Procura di Perugia. Sembrava, appunto, che questa sequenza avesse tacitato soddisfacentemente il montante sentimento di riprovazione e sbigottimento che circolava nell’opinione pubblica.

L’occasione è stata ripetutamente (auto)celebrata nei mesi successivi da parte di molti consiglieri con evidente senso di liberazione e sollievo. E la vita consiliare è proseguita senza apparenti scossoni nel modo che qui di seguito si cerca di descrivere, seppur in forma solo esemplificativa. Una prima caratteristica riguarda la risalente e consolidata abitudine, ereditata da un passato che non si estingue, in atto esistente presso la componente togata di votare provvedimenti riguardanti singoli Magistrati (in prevalenza nomine, ma anche trasferimenti, progressioni di carriera, incompatibilità) secondo il criterio della compattezza all’interno di ciascuno dei gruppi (le correnti nobilitate al rango di espressioni di pluralismo culturale), nel senso che tutti gli appartenenti al medesimo gruppo si esprimono alla stesso modo: a onor del vero, questo di frequente non accade in un giovane gruppo in cui uno o due consiglieri hanno, anche in importantissime occasioni, levato la propria voce fuori dal coro. Il fenomeno, va ripetuto, tutt’altro che nuovo, presenta una curiosità statistica rilevante. I procedimenti riguardanti nomine e trasferimenti hanno, come è noto, natura concorsuale e dovrebbero procedere attraverso giudizi individualmente espressi dai commissari sulla base di motivate e autonome scelte. La curiosità sta nel fatto che, per singolarissima coincidenza, tutti gli appartenenti al medesimo gruppo, con la citata eccezione, abbiano di regola la medesima opinione, al pari di quanto è stato deprecato in inchieste giudiziarie con riguardo alle Scuole nei concorsi universitari. Un po’ come avviene in Parlamento con i gruppi politici, con la non piccola differenza che il procedimento di formazione delle leggi è del tutto privo di carattere concorsuale. Naturalmente, la coincidenza può essere spiegata, oltre che con l’appartenenza correntizia del candidato al concorso (ed è questa la tesi che sembra prevalere nelle varie liste dei magistrati italiani, sempre più insofferenti e sfiduciati), anche con la persuasiva autorevolezza esercitata dai cosiddetti capi gruppo (carica di conio creativo ed extraregolamentare) nei confronti degli appartenenti “minori”. Insomma, vi è ampia materia di riflessione e, soprattutto, di auto ed eterocritica, presumibilmente con conseguenze risolutive e radicali.

Vi è, tuttavia, da registrare una più che positiva novità nella attuale prassi consiliare, costituita dal comportamento dei laici votanti (il vicepresidente si astiene), i quali, sebbene scelti da tre distinti schieramenti politici, votano in assoluta autonomia e solo raramente e motivatamente assumono posizioni comuni all’interno del proprio gruppo, in effetti inesistente. Ottimo esempio di esercizio della carica in senso conforme alla fiducia ricevuta con l’elezione parlamentare. Nella stessa scia di grande apprezzamento è giusto collocare la presenza dei 2 componenti di diritto, Primo Presidente e Procuratore Generale della Cassazione, i quali partecipano con lodevolissima assiduità ed equilibrio ai lavori consiliari e, nelle occasioni nelle quali avvertono il dovere nascente dal loro alto Ufficio di prender parte alle votazioni, con risolutezza e responsabilità, lo fanno, noncuranti di inviti a riflettere sul se deflettere.

Tra luci (limitate ma del massimo prestigio) e ombre (passate e presenti, ove non auspicabilmente e irreversibilmente diradate) il potere giudiziario nella sua componente costituzionalmente rappresentativa, oggi più che mai, è chiamato a render conto del proprio operato alla collettività, non trascurando l’obbligo di convincerla con comportamenti e non con sole parole della relativa conformità ai precetti giuridici ed etici solennemente richiamati nel giugno del 2019. Da un’improvvisa e fastidiosissima afasia è auspicabile guarisca presto anche l’Associazione Nazionale Magistrati.

Mail box

Non sottovalutiamo proprio adesso gli asintomatici

Tredici positivi in un paese in Campania: subito zona rossa. Ma sembra che stiano meglio di noi! Non è che c’è una spasmodica ricerca di nuovi contagiati e ormai sono quasi tutti asintomatici, cioè la malattia è alla stregua di “quasi niente”? Forse il governo sta bene in piedi anche sfruttando la paura del popolino e prorogando lo stato di emergenza di 6 mesi?

Daniele Marianelli

 

Gentile Daniele, gli asintomatici purtroppo non sono “niente” perché possono contagiare altri senza saperlo. Quindi le cose vanno molto meglio, ma occorre sempre massima cautela.

M. Trav.

 

Io, bisnonna sola: mi fate compagnia voi del “Fatto”

Mamma di tre stupendi figli, nonna e bisnonna, vivo da sola da quando il nido è rimasto vuoto, perché questa è la vita. Per fortuna, a tenermi compagnia da anni, c’è il Fatto Quotidiano, al quale sono abbonata. Senza non potrei proprio stare. Il vostro è un giornale “unico”: anche con il lockdown, imperterrita, tutte le mattine sono uscita di casa, per ritirare la mia copia del Fatto.

Grazie a tutti voi.

Marisa Cardone

 

Grazie a te, cara Marisa, troppo buona.

M. Trav.

 

Grazie ai nostri lettori e abbonati per il sostegno

Sento parlare di crisi dell’editoria nonostante il contributo economico dello Stato e allora mi chiedo come facciate voi del Fatto a portare avanti l’azienda senza i finanziamenti pubblici. Una spiegazione può essere: professionalità, oculatezza di spesa e conquista di mercato “volando bassi”. Complimenti per lo straordinario lavoro: grazie di essere nostri portavoce.

Stefano Masiero

 

Caro Stefano, è tutto merito di voi lettori e abbonati che continuate a sostenerci, sempre più partecipi e numerosi. Grazie.

M. Trav.

 

Turismo, servono aiuti a fondo perduto

Mi chiamo Michele, un anno fa ho avviato un affittacamere a Roma e andava bene. Dalla metà di febbraio non lavoro, e dovrò rimborsare le tante disdette a causa del blocco dei voli. Finora ho ricevuto 600 euro; ho un dipendente indiano ma la Cig non arriva e lui deve mangiare. Sto lottando per ritardare l’affitto… Le strutture turistiche sono state tra le prime con incassi zero e saranno le ultime a rivedere la luce se non tornano gli stranieri che rappresentano l’80 per cento dei clienti. Non si è pensato a un aiuto a fondo perduto per il turismo, però diamo miliardi ad Alitalia e agli eredi di Agnelli: vi sembra logico?

Michele Giagnorio

 

Abbiamo mezzi “nostri” per uscire dalla crisi?

Ho letto con interesse l’articolo di Laroma Jezzi di mercoledì scorso; vorrei chiedere cortesemente all’autore di chiarire meglio, magari con qualche sua proposta, le ultime righe del pezzo: “Dobbiamo fare fronte con i mezzi che già abbiamo”. Di questi tempi si parla solo di Mes, Eurobond ecc. ma mai di un piano per usare i mezzi che già abbiamo. Ma ne abbiamo?

Massimo Fabbrini

 

Caro Massimo, il mio punto di vista è che non ci deve essere debito “verso” l’Europa ma, nel caso, “con” l’Europa. Se questo non si fa, non possiamo indebolirci ancora di più sui mercati internazionali e pregiudicare la nostra credibilità. I mezzi che già abbiamo sono 5.000 miliardi di ricchezza privata, l’ottava nel mondo. In un precedente articolo ho suggerito di assoggettare a tassazione le plusvalenze latenti. Forse lì può trovare qualche risposta in più.

P. L. J.

 

Addio al Maestro Bosso e al suo sorriso miracoloso

Siamo sempre noi, i soliti amici, ma non in veste di critici della politica né della disonesta informazione: vorremmo dedicare un pensiero alla meravigliosa anima di Ezio Bosso. La sua morte, così impietosa, ci ha lasciati interdetti, provocandoci emozioni tristi e dense… Analizzando l’ultima intervista abbiamo riscontrato che la sua parola mai così sciolta e comprensibile, che la luminosità e la serenità del suo viso, che la profondità del senso di ogni sua frase hanno del miracoloso! Ci è sembrato un breve momento da frapporre alla frenesia di questo vivere aspro e pieno di incognite, scaturite dal Covid-19, che pongono ancor più la condizione umana in difficoltà.

Emanuele e Marco Sansolini

 

Solo i lombardi non hanno capito il disastro al Nord

Sono un vostro lettore dal primo numero. Vi scrivo dalla val Camonica, qui la parola d’ordine della Lega è dimostrare che la privatizzazione di quasi metà della Sanità lombarda non solo non è stato un errore ma addirittura un valore aggiunto; tipo: “Avete visto quegli ospedali privati di Brescia/Bergamo/Milano come sono stati efficienti, solerti e bravi? E che macchina potente è la Regione? Nessuno avrebbe potuto fare ecc. ecc… Quello che non ha funzionato è sfiga mondiale, anzi cinese”. Ora, io ricordo di aver letto, proprio sul Fatto, che l’entrata in campo delle strutture private non è stata affatto rapida, che è stata necessaria una sveglia governativa e che comunque dopo pochissimi giorni le suddette strutture stavano già battendo cassa. Onestamente ho l’impressione che in Italia tutti abbiano capito benissimo il disastro della Lombardia… tranne i lombardi.

Roberto Balili

Non può essere solo un luogo di ricreazione, che mortifica i bravi docenti

Gentile redazione, vi scrivo in merito all’articolo pubblicato martedì 5 maggio, in cui la ministra della Pubblica istruzione, Lucia Azzolina, rispondeva a uno studente di quinta elementare che chiedeva la riapertura delle scuole. Nutro per la ministra un certo rispetto: dopo ministri quali Fioroni, Moratti o Gelmini, che non avevano mai insegnato e non avevano alcuna competenza sui problemi della scuola, la Azzolina ha insegnato in un liceo, ha due lauree con specializzazione in legislazione scolastica e mi sembra persona competente.

Premesso ciò, la lettura del vostro articolo ha suscitato in me una certa ilarità perché mentre nella sua risposta la ministra si dice felice di sapere che il ragazzo vuole “tornare a scuola per studiare”, in realtà, rileggendo attentamente la lettera dello studente (?) si può notare che il verbo “studiare” non compare mai: il ragazzo scrive infatti “voglio tornare a scuola per giocare con i miei compagni”. Per “giocare” quindi, e non per “studiare”. Trovo questo equivoco molto significativo e sintomatico della rappresentazione mentale della scuola che hanno nelle loro teste la maggior parte dei ragazzi di oggi: la scuola non è più un luogo di pensiero, di studio, ma un luogo di ricreazione, di svago. Questo è frutto delle politiche pedagogiche buoniste degli ultimi trent’anni, a causa delle quali la scuola si è trasformata in un luogo di semplice socializzazione, dove si deve prima di tutto “star bene” senza sforzo, senza impegno. Una catastrofe culturale e sociale. Per la politica di dover dare un diploma a tutti gli italiani, si rilasciano diplomi (evidentemente falsi) anche ad autentici analfabeti. Le prove Invalsi sono la verifica che smentisce questa ipocrita facciata. Ne ho prova diretta essendo stato insegnante, anche in commissioni di Maturità, fino all’anno scorso, ora, per fortuna, in pensione.

Tiziano Corsi Residori

 

Gentile signor Residori, in molte scuole il mandato è che i discenti “stiano bene a scuola”, che gli insegnanti non coprano più del programma minimo (compilando carte su carte), che non si rischino ricorsi per eventuali bocciature.

Questa ipocrisia mortifica i docenti più validi (giovani e anziani), che per fortuna però esistono – io e Lei, senz’altro, ne abbiamo incontrati tanti – e grazie alla residua libertà di insegnamento portano avanti con coraggio (talora contro i loro stessi dirigenti) una vera missione.

È grazie a loro se nonostante tutto gli studenti “bravi” continuano a essere tra i migliori d’Europa.

Ma il livello medio – ha ragione – precipita, e con esso la capacità di tanti giovani di orientarsi nel mondo.

Filippomaria Pontani

Torna la normalità: respiriamo lo smog e facciamo incidenti

Benvenuti a questa rubrica. Spero mi piaccia come piace a voi.

In poco meno di un mese, la Commissione Tecnico-Scientifica dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha valutato, grazie a un iter rapido messo a punto per l’emergenza Coronavirus, ben 80 domande di autorizzazione per l’avvio di sperimentazioni e studi clinici su farmaci per pazienti affetti da CoVid-19. Fra questi medicinali, c’è un tonico inventato nel 1898 da un cercatore d’oro del Klondike, già farmacista, per alleviare gli effetti della carestia dovuta all’improvvisa sovrappopolazione dei territori di Bonanza. I primi risultati sono promettenti: una ex-professoressa d’arpa, novantenne, le cui dita non si piegavano più per un’artrite deformante, colpita dal CoVid-19 ha bevuto un sorso di quel tonico e non solo è guarita, ma si è rimessa a suonare il suo strumento e adesso sta facendo una tournée in Nuova Zelanda con i California Dream Men, che si scopa a batteria nel backstage prima di andare in scena. E mio nonno? Era tutto congestionato, ha bevuto la pozione, e si è svegliato tre giorni dopo a Formosa. Si stava sposando con l’ex-moglie di Milingo, ok, ma respirava di nuovo!

Per alleviare i sintomi, c’è chi ha proposto l’agopuntura. Non fatemi ridere. Da diecimila anni, gli stessi cinesi sanno che è una stronzata. Ci prendono per il culo. Ti infilano gli aghi, chiudono la porta, ti guardano da uno spioncino e si pisciano addosso dalle risate.

Altri sostengono che i massaggi orientali siano un toccasana. Una volta sono andato in un centro massaggi. Speravo nel gran finale. La massaggiatrice era ributtante e fumava Gauloises. Il gran finale? Si è impiccata.

So tutte queste cose perché ho studiato medicina. Alla Scuola Radio Elettra. In sei mesi ero medico, come Umberto Bossi. E in Lombardia sono messi così male che ci assumerebbero entrambi!

La pandemia è una tragedia, d’accordo, però dobbiamo guardare avanti e fare tesoro dell’esperienza. Per esempio, quando la quarantena ha azzerato il traffico, lo smog è sparito, a tutto vantaggio dei bronchi e della natura. E per due mesi non ci sono stati incidenti d’auto (quasi: qualche imbranato è riuscito a cappottare anche nelle strade vuote). Ora: immaginate che l’automobile non sia stata ancora inventata. E Satana vi proponga di guadagnare miliardi fabbricando automobili se, in cambio, siete disposti a sacrificare la vita di un milione di persone l’anno, ferendone altre 54 milioni (cioè il numero delle vittime di incidenti d’auto nel mondo, ogni anno). Senza considerare gli altri milioni di persone che moriranno per malattie respiratorie e tumorali dovute allo smog. Bene. Se Satana vi proponesse questo patto, voi accettereste? Lo chiedo perché, un secolo fa, Ford, Benz, Daimler, Porsche e Agnelli lo accettarono.

Dialoghi della Fase 2. “Certo che so che giorno è. È maggio”.

Nuove pubblicità. “Biscotti Betterbutter. Senza coronavirus”.

Ritorno alla normalità. Roma, piazza Navona. All’ingresso di un bar, un cartello dice: “Toast di tutti i tipi”. Un turista spiritoso entra e chiede un toast di coccodrillo. Ma siamo a Roma. Il cameriere va, torna e dice: “Mi dispiace. Abbiamo finito il pane”.