Il pericolo del “periodo canaglia”. I tamponi sono ancora pochi e lenti

Nelle infezioni in genere, nelle pandemie particolarmente, il fattore che può fare la differenza sul numero di vittime dirette o indirette, come sui nuovi contagi, è il tempo. Innanzitutto il tempo dell’intervento delle cure con ricovero con le terapie. Ma ricovero appropriato e terapia posso essere adottati solo se viene effettuata una buona diagnosi. Sappiamo che, nel periodo infernale di questa pandemia, avevamo il fiato sul collo dei nostri specialisti di terapia intensiva che, solo dopo una nostra risposta diagnostica, avrebbero potuto scegliere se isolare o no un paziente.

E questa decisione aveva una doppia valenza: intervento adeguato sul malato, ma anche, in caso di risposta negativa al Covid, disponibilità di un posto in isolamento o terapia intensiva per un altro. In gioco c’era la vita. Oggi che le terapie intensive si stanno svuotando il tempo è ancora principe. Sappiamo che l’unico mezzo diagnostico per Covid-19 è il tampone: ebbene, ancora in molte realtà sanitarie il risultato impiega decine di giorni per arrivare al medico curante. Dal punto di vista epidemiologico della diffusione del contagio, questo fenomeno è ancor più grave.

Sappiamo che ci sono molti asintomatici che possono contagiare altri soggetti. Cosa accade nei 10-15 giorni (in una regione si è parlato di 50 giorni!) di attesa del risultato? Questo è quello che chiamo “periodo canaglia”. La persona sta bene, ha fatto un controllo per un motivo che potrebbe anche sottovalutare e dipende dal suo senso di responsabilità stare in isolamento. Cosa accade? È questa la causa dei contagi familiari, detti “di condominio”, non meno gravi di quelli al di fuori dalle mura domestiche. Il tempo precedente al laboratorio (prelievo) e quello successivo (utilizzo del referto) possono essere velocizzati, ma oggi ci troviamo davanti a un problema italiano. Gli strumenti che siamo riusciti ad acquistare per potenziare i nostri laboratori impiegano, in media, dalle 3 alle 5 ore per un ciclo diagnostico (da 48 a 96 tamponi). Esistono strumenti che sono a caricamento continuo e impiegano 15 minuti. Peccato che non li produciamo in Italia e bisogna accontentarsi di “quello che arriva”.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Zingaretti “imbarazzato” dovrà riabilitare Lotti

Nicola Zingaretti deve prendere una decisione su Luca Lotti. Messa così appare un’impresa. Il segretario dem non è un decisionista e il tema Lotti è sempre delicato. Stavolta si tratta di riabilitare Lotti. Adesso che una parte dell’inchiesta di Perugia sulle nomine al Consiglio superiore della magistratura si è conclusa e il “lampadina” non è mai risultato indagato.

Un anno fa l’ex ministro si autosospese dal partito per le intercettazioni che svelarono le trame al Csm. Le parole e le manovre del “lampadina” furono captate dal telefono del pm Luca Palamara. Dopo un durissimo intervento dell’ex tesoriere Luigi Zanda e un confronto con Zingaretti, Lotti comunicò l’autosospensione dal partito finché non sarebbe terminata l’inchiesta di Perugia. Un espediente di valore mediatico per slegare il Nazareno dalle sorti di Lotti. L’accordo tra il segretario e l’ex ministro fu semplice: se non vieni coinvolto nel fascicolo di Perugia, com’è poi accaduto, l’autosospensione decade all’istante. Ragione per cui Lotti, seppur imputato nel processo Consip, aspetta la riabilitazione di Zingaretti per tornare a riprendere l’attività partitica nel Pd.

Interrogato sul punto, il segretario fa sapere che la questione “non è stata esaminata”. La prevedibile riposta attendista di Zingaretti, però, stabilisce che il “rientro” di Lotti fra i dem non è automatico come sancito l’anno scorso. Il “lampadina” al solito preferisce non commentare la reazione di Zingaretti.

In questo periodo di quarantena politica, la scelta più importante di Lotti è stata una non scelta: non seguire la scissione di Matteo Renzi e congiungersi alla comitiva di renziani in purezza di Italia Viva.

Segno che l’inossidabile rapporto tra Luca&Matteo è mutato nel profondo, non la visione di Lotti che ha sempre preferito muoversi all’interno di un movimento politico strutturato anziché esplorare zone sconosciute e insidiose. Assieme a Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, Lotti è il capo di base riformista, una corposa corrente del Pd che permette a Zingaretti di governare il partito. Il gruppo di Guerini e Lotti conta 18 senatori su 35, 35 deputati su 90, tre membri della segretaria al Nazareno, un ministro e tre sottosegretari nel governo di Giuseppe Conte.

I numeri di base riformista sono consistenti e Guerini è tra i ministri che ha il miglior dialogo con l’altro “segretario” dem, cioè Dario Franceschini, e con il Quirinale. Il caso Lotti ha una rilevanza che Zingaretti non può ignorare. Non potrà indugiare a lungo se l’intera corrente chiederà del “lampadina.”

Finirà che l’ex ministro nonché ex renziano sarà riabilitato con un messaggio pieno di affetto dell’amico Nicola. Con i suoi tempi, ovvio.

Assalto delle toghe contro Woodcock dopo il caso Consip

Non era solo Luca Palamara a essere ostile a Nino Di Matteo. Anche l’attuale segretario di Unicost, Francesco Cananzi, scriveva il 23 aprile 2018, subito dopo la sentenza Trattativa che aveva dato ragione alla linea dell’accusa sostenuta anche dal pm palermitano: “Di Matteo incredibile. Io credo che si debba investigare a 360 gradi però i modi dell’indagine (D’Ambrosio Napolitano) e le esternazioni pubbliche prima e dopo non vanno bene. Non ce n’è bisogno e sono dannose. Mettono anche in difficoltà il giudice che rischia di essere strumentalizzato. Così la vedo io”.

I consiglieri del Csm della precedente consiliatura non vedevano di buon occhio nemmeno il pm di Napoli, Henry John Woodcock. Lo si scopre sempre dalle chat trovate nel telefonino sequestrato al pm Palamara nell’indagine perugina che ha terremotato il Csm nel 2019. Anche la corrente progressista Area, quando Woodcock finisce sui giornali per un’iniziativa giudiziaria ingiusta, sembra schierarsi contro di lui. La Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone aveva iscritto il magistrato napoletano per un’inesistente fuga di notizie (errore ammesso poi con la richiesta di archiviazione firmata dai pm), in favore del Fatto.

Il consigliere Csm Valerio Fracassi, oggi presidente della sezione dei Gip di Brindisi (capogruppo di Area nella consiliatura precedente) il 5 luglio 2017 scrive a Palamara: “Perquisizione a casa di Marco Lillo disposta dalla Procura di Napoli mentre Woodcock è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio con Lillo. Sbrigati! Non possiamo aspettare oltre”. Palamara risponde: “Ti aggiorno. Sto sudando sette camicie”.

Quel giorno l’autore dello scoop sul caso Consip era stato perquisito dai pm di Napoli (ingiustamente come poi la Cassazione stabilì ordinando la restituzione di pc, cellulari e carte sequestrate in tre abitazioni diverse) per provare l’accusa sballata contro Woodcock. Fracassi chiedeva di sbrigarsi a Palamara, allora relatore di una pratica a carico di Woodcock in prima commissione del Csm. Oggi Fracassi minimizza: “Non ricordo bene ma penso che volessi dire a Palamara di procedere speditamente con quella pratica visto che c’era clamore sui giornali. Non c’era però nessun intento ostile nei confronti del collega Woodcock”.

Un altro esponente di Area, il consigliere del Csm Lucio Aschettino, in quel momento è membro della prima commissione, competente sui trasferimenti per incompetenza ambientale. Il 17 luglio 2017 viene sentita dalla prima commissione del Csm la pm di Modena Lucia Musti. Alcuni giornali sostengono che avesse riferito così le frasi del capitano Scafarto del Noe: “Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi”. In realtà non aveva detto al Csm una frase simile e i fatti non si erano svolti così, però in quel periodo tutto faceva brodo per la grancassa dei giornali filo-renziani. Il consigliere del Csm di Area, Aschettino, commentava: “Ha fatto un gran casino”. Ma Palamara rintuzzava: “Assolutamente no Lucio, è stata molto precisa e lineare”. Poi il 24 luglio vengono auditi in commissione anche il procuratore reggente di Napoli Nunzio Fragliasso e il procuratore generale Luigi Riello. Aschettino e Palamara, in corso di audizione, chattano. Alle 17 e 15, Aschettino scrive: “Chiedi di sentire D’Avino (procuratore aggiunto di Napoli, ndr). So che Palascandolo (la pm Parascandolo inizialmente co-delegata nel fascicolo Consip con Woodcock e Celeste Carrano, Ndr) si è chiamata fuori perché in disaccordo”. Palamara chiede: “La sentiamo?”. E Aschettino: “Dopo D’Avino”. Palamara concorda: “Ok”. E Aschettino: “Non mi sembra marginale perché Reillo (Pg di Napoli, Ndr) ha sostanzialmente detto che si sono voluto tenere il procedimento anche se non di competenza Dda” e Palamara: “Esatto”. Il 18 settembre 2017 i procuratori aggiunti D’Avino e Giuseppe Borrelli sono ascoltati ma la performance, per Palamara, è deludente. Cesare Sirignano, pm di Unicost della Dna gli chiede: “Come è andata?”, Palamara replica: “Così così. Era come dicevi tu. Peppe cacasotto”. E D’Avino?: “Meglio”.

Per Aschettino comunque parlano più delle chat i comportamenti: “La mia posizione sulla vicenda Woodcock era che non ci fossero nemmeno gli estremi per avviare la procedura ex articolo 2 né per l’incompatibilità ambientale né funzionale. I messaggi in cui suggerisco a Palamara di chiedere le audizioni di D’Avino e Parascandalo erano solo per verificare la correttezza dell’operato del collega. L’audizione del procuratore Borrelli poi ha chiarito completamente tutte le questioni, tanto che non siamo andati avanti”.

Capalbio, mare solo dopo la “schedatura”

Qualche giorno fa, tra la vippanza romana e non con casa a Capalbio, si è sparso il terrore. “Hai sentito? Il sindaco vuole mettere in quarantena!”. “Nooo, ma non è possibile!”. Questo il tono delle telefonate tra le signore della Roma bene spaventate dall’eventualità di dover passare 14 giorni chiuse tra le mura domestiche. “E poi, se uno ha tre settimane di ferie che fa, ne passa due in casa?”, ci s’interrogava. Il tam tam ha viaggiato veloce coinvolgendo parecchi vip con dimore nella piccola Atene: Paolo Mieli, Chicco Testa, Giorgio Napolitano, Pigi Battista, Corrado Formigli, Lucrezia Lante della Rovere, Nicola e Luca Zingaretti, solo per dirne alcuni. E poi i Puri Negri, i Falck, i Caracciolo, i Marzotto. Tutti pronti alla rivolta.

Tranquilli, non sarà così. Sarà però obbligatorio compilare un questionario in cui bisognerà indicare in quanti si soggiornerà, in che periodo e dove s’intende andare al mare. “La quarantena è una storia passata, frutto di un equivoco”, spiega il sindaco Settimio Bianciardi, eletto giusto un anno fa a capo di una lista civica che, per la prima volta, ha spodestato la sinistra, con la Lega che invece si è attestata primo partito.

Ad aprile, infatti, alcuni proprietari di seconde case, trasgredendo la legge, sono riusciti a trasferirsi nelle abitazioni maremmane per trascorrervi il lockdown. Alcuni l’hanno fatto addirittura nottetempo, per sfuggire ai controlli, ma all’Argentario qualcuno è stato beccato e rispedito indietro. “Ne ho mandati via 3 o 4 pure io”, racconta Bianciardi. “Così all’inizio di maggio, ancora in pieno lockdown, ho detto: volete venire nelle seconde case? Benissimo, se lo fate, dovrete stare 14 giorni in quarantena. Ma ora siamo in un’altra fase e dal 3 giugno tutti saranno i benvenuti”, spiega il sindaco. Quarantena capitolo chiuso, dunque. E il questionario? “Ho pensato che sapere quante persone frequenteranno il nostro mare sarà utile per regolare lo spazio e gli accessi nelle spiagge”, sostiene Bianciardi, che ha inviato circa 3.800 questionari (uno per famiglia, ovvero 1.800 famiglie locali, e 1.500 nelle seconde case). Che vanno compilati e spediti entro il 21 maggio. Alcuni proprietari hanno ricevuto una telefonata direttamente dal sindaco. Capalbio ha 13 km di spiaggia, da Chiarone alla Torba passando per Macchiatonda e Burano, di cui solo uno in concessione agli stabilimenti, tutto il resto è libera. “Vorrei che le distanze fossero più di un metro, così darò agli stabilimenti la possibilità di allargarsi 20 o 30 metri, per mettere lo stesso numero di ombrelloni mantenendo gli standard di sicurezza”, spiega il sindaco. Il resto della spiaggia libera sarà divisa in due: quella totalmente free e una parte dove bisognerà prenotarsi con un’apposita app, affittandone “un pezzo”. “Voglio evitare la possibilità di sovraffollamento”, dice il primo cittadino. Anche se in questa parte di Maremma, proprio grazie all’ampiezza della spiaggia, folle ammassate non si sono mai viste. “Stiamo lavorando per far passare a tutti una bella estate. Però siamo passati dal lockdown totale al liberi tutti, forse occorreva andare per gradi”, conclude il sindaco.

Spiagge libere addio: boom di “concessioni” ai privati

Le limitazioni a ombrelloni, giochi in gruppo e bagni in compagnia non sono certo il miglior incentivo in vista della stagione balneare. Ma le misure anti-contagio potrebbero avere un altro effetto collaterale a svantaggio di chi vuole andare al mare, perché quest’estate rischia di ridursi al minimo lo spazio destinato alle spiagge libere ad accesso gratuito.

Diversi enti locali, infatti, stanno pensando di affidare queste aree pubbliche a gestori privati, aumentando le concessioni balneari. Un modo per venire incontro agli stabilimenti, che per rispettare le distanze di sicurezza dovranno ridurre il numero di ingressi rispetto agli anni scorsi, ma anche una decisione che farà ricadere i costi sui bagnanti, a quel punto rimasti senza spiagge libere e costretti a rivolgersi a strutture a pagamento.

In Abruzzo l’ipotesi è già sul tavolo della Regione e dei Comuni: “È possibile, solo per il 2020, l’affidamento di porzioni di spiagge libere ai balneatori e agli albergatori, una sorta di concessione eccezionale”, ha confermato settimana scorsa il portavoce locale di Anci Enrico Di Giuseppantoni, al termine di un incontro con un gruppo di sindaci e con alcuni rappresentanti della giunta di Marco Marsilio.

L’idea è diventata realtà a Giulianova (Teramo), dove il Comune ha già pubblicato i bandi per l’assegnazione di dieci tratti di spiaggia libere prevedendo un sistema di punteggi che andrà a vantaggio “dei titolari di concessioni demaniali confinanti”.

Risultato: i privati sgraveranno il Comune dalla pulizia e dal controllo del rispetto delle norme anti-contagio (il metro di distanza, il divieto per gli sport), ma saranno gli stessi privati a gestire gli ingressi, allineando le tariffe delle ex spiagge libere al loro listino.

In Campania già ad aprile il Mattino aveva riportato la volontà del governatore Vincenzo De Luca di “abolire le spiagge libere”, prima che il Sindacato italiano balneari esortasse la giunta a “valutare l’affidamento delle spiagge libere solo su richiesta espressa dei concessioni”, in modo da “dare confronto ai Comuni” e, per i gestori, “recuperare spazi erosi dalle prescrizioni Covid”. Si vedrà.

Il tema riguarda anche le coste della Sardegna: in questi giorni a Cagliari si sta discutendo della possibilità di dare in gestione la nota spiaggia del Poetto, emblema di quel che potrebbe accadere nell’intera Regione. Per scongiurare l’idea, i Progressisti hanno scritto una lettera alla giunta di Christian Solinas: “La necessità di approntare le necessarie misure di sicurezza non diventi in alcun modo pretesto per estendere in modo incontrollato le concessioni demaniali e assaltare i beni collettivi”.

Stesso appello rivolto dal Movimento 5 Stelle dell’Emilia-Romagna al presidente Stefano Bonaccini: “Chiediamo di non abbassare ulteriormente la quota (già molto esigua) di spiagge libere per aumentare, anche solo eccezionalmente per la prossima estate, l’affidamento a stabilimento balneari e albergatori come sta pensando di fare l’Abruzzo”. E come potrebbe fare anche la Calabria, almeno se darà ascolto al segretario-questore dell’Assemblea regionale Graziano Di Natale: “Occorre intervenire per aumentare, in deroga ai piani spiaggia, la superficie da concedere ai lidi e agli stabilimenti balneari”.

Più soft, ma comunque a pagamento, l’idea del governatore della Liguria Giovanni Toti, che la scorsa settimana ha ipotizzato un ingresso a prezzo simbolico (nell’ordine di pochi euro a famiglia) per le spiagge libere. Il senso non cambia: qui come altrove trovare uno spazio gratuito potrebbe essere impresa per pochi.

Deserto a Serravalle: la vita di ieri è rimasta appesa ai manichini

I più felici sono i manichini. L’uomo che corre, la ragazza con il bikini fluo. Ti osservano mentre con la mascherina premi contro la vetrina. Tu che hai la pancetta post quarantena e i capelli lunghi stile New Trolls. Loro diventati statue di polistirolo: l’uomo prima del virus. La nostra vita di ieri.

Lunedì 18 maggio ore 10, riaprono le chiese e un altro tempio: l’outlet di Serravalle, il più grande d’Europa. Qui, al crocevia tra Milano, Torino e Genova, dove fino a marzo nel parcheggio vedevi uno accanto all’altro il monovolume che eruttava famiglie vocianti e la limousine nero specchiato da cui scendevano russe con minigonne inguinali. Qui dove approdavano pullman di cinesi e donne arabe con il burqa. Sei milioni e mezzo di visitatori l’anno, più di Pompei.

E adesso? Deserto. Alle dieci di ieri mattina riaprono i cancelli, ma nel parcheggio non c’è anima viva. Senti perfino le cicale.

Il paradiso dello shopping, ovunque cartelli che annunciano sconti mostruosi. Ecco l’ingresso, l’arco dove ti imbattevi in una muraglia umana. Ti aggiri solitario tra piazze e strade, in questo stile tra le città di Giorgio de Chirico e un ranch texano. Duecentoquaranta negozi tutti per te. Ma chissà quanto durerà; a giugno riapriranno i confini tra regioni e paesi europei e vedremo se sarà più forte la febbre del virus o quella dei saldi. Eppure già all’ingresso vedi quanto sia cambiata la nostra vita. Ci sono i vigilantes a distribuire guanti e offrire gel. Ma i clienti farebbero la gioia del professor Roberto Borioni: tutti con mascherina. Una volta per venire all’outlet il sabato c’era chi si metteva in tiro; oggi l’eleganza, il piccolo vezzo si vedono dalla protezione rossa, in tinta con le unghie. Da quella grigia come la cravatta. A colpirti è la naturalezza: camminare un po’ distanti, parlare guardandosi di tre quarti è già abitudine. Anche i saluti si sono adeguati: una volta ci si levava il cappello, oggi si sfila la mascherina da un orecchio. Ci si riconosce dagli occhi. Questi due signori che camminano sotto il sole accanto alla fontana li hai già visti. Quello sguardo lo conosci… il professore di tuo figlio? Ma no, è l’ex ministro Sandro Bondi con la moglie Manuela Repetti. Dai salotti del Cavaliere all’outlet. Ma sembrano più sereni oggi: “Abitiamo a Novi Ligure, qui vicino, è una scelta di vita” e riprendono a camminare per la piazza, con quel passo un po’ titubante di tutti noi usciti dal lockdown. È come essere a San Pietro per ascoltare la messa in quattro gatti. Manca qualcosa… forse l’odore inconfondibile di outlet che raccoglie la ventata dal negozio di profumi, l’aroma del caffè, il sapore di hamburger e il gel del ragazzo con il ciuffo. Ora no, senti ogni odore, ogni rumore: i tuoi passi, il colpo di tosse (e d’istinto stringi la mascherina). Centinaia di negozi per te, eppure non te la godi: ti manca la folla. Ma non ti ricapiterà mai di vedere le commesse che si fanno avanti, ti chiedono come stai: “Ci sono mancati i clienti. Dopo due mesi con mio marito e mia madre… non vedevo l’ora di chiacchierare. Avevo bisogno di qualcuno a cui dire tutte le parole che mi sono rimaste dentro”, racconta Lucia srotolando cravatte di ogni colore. Quasi non ci fai caso quando all’ingresso del negozio di casalinghi la ragazza ti si piazza davanti e ti punta il termometro sulla fronte. Viene già naturale ricoprirsi i guanti di gel. Ci vuole solo un po’ di tempo per imparare lo strano codice della strada, tutte quella frecce disegnate nei corridoi. Al primo incrocio tra due scaffali del reparto scarpe incontri una signora carica di pacchi ed è tutto un “prima lei”, “Vada pure”, finché il commesso vi soccorre: “Precedenza a destra”. Diventerà anche questa un’abitudine. Verrà un giorno che non ci faremo più caso, non ricorderemo più di avere la mascherina. Non servirà nemmeno più sorridere.

Milano ora prende le misure “È come inaugurare di nuovo”

La nuova fase di Milano inizia con un senza tetto che arrotola il materasso con cui ha dormito sotto la Galleria Vittorio Emanuele. Sono le sette del mattino e le vetrine delle grandi firme della moda vengono pulite dagli inservienti. Poco più in là i caffè prendono le misure per lasciare un metro tra un tavolo e l’altro. Oggi è il giorno della ripartenza per oltre “4.800 bar, 3.400 ristoranti, 2.900 parrucchieri, 220 negozi di abbigliamento e 700 di calzature” come snocciola il sindaco Sala. Si tornano a celebrare anche le messe. In Duomo possono entrare solo in sessanta dopo il controllo della temperatura. Niente acqua santa all’ingresso, ma gel igienizzante. “Vi abbiamo aspettato tanto” dice monsignor Gianantonio Borgonovo.

Al posto del segno di pace ci si scambia un sorriso e i sacerdoti indossano guanti e mascherine per distribuire la comunione. Ma c’è un altro rito che ritorna a celebrarsi a Milano. Quello del caffè al banco. In tanti hanno montato dei plexiglass per separarsi dai cliente. Davanti ai bar di piazza San Babila si crea una processione di fronte a chi è aperto. Intanto in corso Venezia sono tornate le auto, ma anche le biciclette che sono sempre di più sulla nuova ciclabile. A pochi metri da qui, c’è il saloni di parrucchieri Charmes e Cheveaux. I due soci Davide e Paolo sono riusciti ad aprire soltanto perché “fin dal primo giorno di lockdown ci siamo immaginati come sarebbe potuta essere la fase di convivenza con il virus”. Così hanno ordinato i plexiglass, le mantelline monouso, le visiere, i termometri. “Chi ha aspettato l’ordinanza regionale non è riuscito ad aprire” raccontano mentre mettono a posto i capelli delle prime clienti. Si entra dopo aver misurato la temperatura, gli oggetti personali vengono imbustati in sacchetti. Spostandosi verso Nord, all’ora di pranzo, il cortile di San Filippo Neri, una storica osteria di Precotto, è tornato a vivere. Qui da oltre trent’anni si servono risotti, mondeghili. I primi ad arrivare sono gli operai, mentre gli impiegati arrivano più tardi. In cucina comanda Piero Zanotta: “Siamo una grande famiglia, è stato difficile, ma non abbiamo mai lasciato soli i nostri lavoratori anche quando i soldi della cassa non arrivavano e abbiamo dovuto anticiparli noi” spiega mentre prepara vitel tonnè. Suo figlio Mario che gestisce l’osteria ha avuto l’intuizione di trasformare i camerieri in fattorini e così sono riusciti a rimanere a galla. Oggi i tavoli che fino a tre mesi fa ospitavano venti persone oggi ne accolgono solo cinque. “Se possiamo convivere con il virus rispettando regole e stando attenti, siamo noi a doverci e a dover responsabilizzare gli altri”.

Dopo pranzo le vie dello shopping milanese tornano a ripopolarsi. Fuori dai grandi magazzini si crea qualche piccola coda prima dell’apertura. “È come se avessimo inaugurato un nuovo negozio – spiega il ceo della Rinascente Pierluigi Cocchini – dovevamo riaprire le porte e ripartire senza dimenticare la sicurezza”. Nei camerini si provano i vestiti e quelli che non vanno bene vengono imbustati e sanificati All’ora dell’aperitivo, mentre i pendolari ritornano a casa sui treni, sui Navigli rispuntano i tavolini dei dehor. “Ci siamo dovuti arrangiare noi, se aspettavamo la Regione, campa cavallo” racconta Alfio che gestisce l’osteria ligure. Non tutti sono riusciti a riaprire oggi. Tanti ombrelloni sono rimasti chiusi limitandosi all’asporto. In attesa dei turisti e con la speranza che la curva dei contagi non torni a crescere.

Il primo tele-paziente Covid: “Troppi rischi negli ospedali”

“Che paura la prima volta al pronto soccorso Covid. Per fortuna sono riuscito a essere curato a casa con la telemedicina”.

Mai una linea di febbre, nonostante una polmonite bilaterale con versamento pleurico. Tosse, invece. E poi le apnee notturne, le difficoltà respiratorie.

Massimo Spelta, 63 anni, ex manager del gruppo Parmalat, combatte contro il Covid 19 nella sua casa di Codogno, nel Lodigiano, dal 26 marzo scorso: telemedicina, appunto.

Ben 54 giorni così, intervallati da sette tamponi, alcuni negativi e alcuni positivi. L’ultimo ieri mattina, il prossimo domani: ancora non è guarito.

“Ma quando il primario del pronto soccorso dell’ospedale di Lodi mi ha detto: sto cercando cinque pazienti che siano nella possibilità di essere seguiti dalla loro abitazione, ho alzato subito la mano. Perché la mia più grande preoccupazione, da quando sono entrato al pronto soccorso, era quella di morire da solo, in ospedale, senza i miei familiari accanto. E ora mi sono reso conto che la telemedicina potrebbe essere il futuro, anche per le tante persone affette da malattie croniche”.

Partiamo dall’inizio: quando ha iniziato ad avvertire i primi sintomi?

Da tempo avevo un po’ di tosse. Il 18 febbraio avevo fatto una visita pneumologica all’ospedale di Codogno, dove mi era stato riscontrato un deficit respiratorio. Lo stesso giorno in cui, in quell’ospedale, era entrato, per poi rifiutare il ricovero, il paziente uno. Ma per alcune settimane ho tirato avanti da solo, con antibiotici, assistito dal mio medico di famiglia. Solo il 24 marzo, quando i problemi respiratori erano peggiorati, ho pensato di fare una lastra privatamente. E ho scoperto di avere una polmonite con un versamento pleurico. Il giorno dopo, su richiesta urgente del mio medico, ero già all’ospedale di Lodi.

L’impatto con l’ospedale deve essere stato molto forte se ha deciso di scegliere la telemedicina…

È stato il momento più brutto. Al pronto soccorso Covid, dove mi hanno fatto il primo tampone, tutto il personale aveva lo scafandro, potevo riconoscere medici e infermieri solo leggendo il nome sulla targhetta. Non c’erano posti disponibili e ho trascorso la notte su una poltrona, preoccupatissimo e impaurito. Quella notte ho visto tanta gente arrivare e non c’era un letto libero, tanti stavano su brandine. Poi, il giorno dopo, il primario mi ha detto che c’era la possibilità della telemedicina: e il mio morale è andato subito su.

Come viene seguito a casa?

Mi hanno dato un saturimetro, per misurare l’ossigenazione del sangue. E il collegamento a un software sviluppato da un’azienda di Lodi, la Zucchetti, insieme all’Asst e in collaborazione con Medici senza frontiere. Due volte al giorno, grazie a questo software, rispondo a un questionario con domande sul mio stato di salute, come il livello di ossigeno nel sangue, la temperatura corporea, i sintomi che eventualmente si presentano, come vomito o dissenteria. Il resto della strumentazione, come il misuratore della pressione, ce l’avevo a casa.

E si sente sicuro così?

Sì, tutti i dati, che sono a disposizione anche del mio medico, arrivano alla centrale dell’ospedale di Sant’Angelo Lodigiano. E so che se ci sono difficoltà il personale medico e infermieristico è sempre pronto a intervenire rapidamente. Se il livello di ossigeno nel sangue è basso mi fanno subito un test, per esempio mi fanno camminare con il flussimetro al dito. E poi mi chiamano regolarmente. All’inizio anche tre o quattro volte al giorno, adesso un po’ meno perché sto migliorando: quando non li sento vuol dire che va tutto bene, che i dati che inserisco nel questionario sono nella norma. Fino ad ora tutto ha funzionato. Non mi ha mai fatto paura il coronavirus. Mi fa paura, invece, non essere vicino alla mia famiglia.

Tamponi a tutti a basso costo: Firenze ci prova

Come ormai sappiamo tutti, in questa fase 2 sarà necessario tracciare velocemente i nuovi positivi da Covid-19, cioè fare i tamponi rapidamente ai contagiati e diffusamente ai loro contatti. Il problema, ci dicono gli esperti, è che ne facciamo ancora troppo pochi. Perché? Non tanto perché manchino i tamponi in sé, quanto i reagenti per processarli: il governo qualche giorno fa ha fatto una richiesta di fornitura aperta ad aziende di tutto il mondo, ma ovviamente tutto il mondo ora ha bisogno di reagenti per i tamponi e trovarli è difficile. Per questo quello che sta accadendo in Toscana – e, in particolare, tra l’università di Firenze e l’azienda ospedaliero-universitaria Careggi – è degno di nota: si tratta del primo tentativo di dare una risposta di sistema, e di sistema pubblico, alla cronica difficoltà di approvvigionamento di reagenti. In sostanza, grazie anche al Consiglio regionale e al coinvolgimento dell’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze, esiste la possibilità – solo la possibilità per ora – di organizzare la produzione pubblica di reagenti per permettere di testare la popolazione su larga scala risparmiando pure un bel po’ di soldi.

Partiamo dall’inizio. Racconta il rettore dell’Università di Firenze, Luigi Dei: “Poco prima di Pasqua mi ha chiamato il direttore sanitario di Careggi e, sapendo che sono un chimico, mi ha chiesto se potevamo fare qualcosa per i reagenti, visto che avevano problemi di approvvigionamento su uno dei cinque necessari a processare i tamponi. Io mi sono fatto mandare le schede tecniche e un campione e alla fine abbiamo prodotto alcune soluzioni e le abbiamo fornite ‘al buio’ al laboratorio perché le verificasse: è venuto fuori che il nostro reagente funziona al pari di quello venduto”. Insomma, l’Università di Firenze – come succede anche altrove, ad esempio a Padova – si è prodotta in casa uno dei reagenti necessari a processare i tamponi: ad oggi 25 litri che servono per 25mila tamponi, distribuiti a Careggi e altri laboratori toscani.

A lavorare alla “ricetta” è stata la professoressa Sandra Furlanetto del Dipartimento di Chimica: “Abbiamo prodotto un reagente che funziona e da allora riceviamo un sacco di richieste da aziende per la formula, ma per noi è fondamentale che questa cosa venga gestita senza interessi economici. Per questo abbiamo mandato la formula solo alle università che ce l’hanno chiesta, ad esempio Sassari, e al ministero della Salute e alla Protezione civile: gli è arrivata circa un mese fa e siamo in attesa della valutazione del Comitato tecnico-scientifico”. Nel frattempo, Furlanetto lavora alla riformulazione degli altri 4 reagenti e pensa al futuro: “C’è un discorso di costi industriali: per produrne su larga scala, a fronte di una preparazione piuttosto semplice, serve una struttura attrezzata”.

Per questo il rettore Dei s’è rivolto all’Istituto chimico farmaceutico militare: “Ho scritto al direttore. Se si decidesse di usare quella struttura si potrebbero realizzare migliaia di litri in tempi ragionevolmente brevi. Forse, da un punto di vista di produzione industriale, anche se si mettessero insieme tutte le università italiane potremmo avere una produzione pubblica importante: parliamo di costi bassi e un impatto decisivo per la salute”. Per capirci, solo il reagente auto-prodotto finora ha un costo di mercato di circa 114 dollari per 200 millilitri, all’ingrosso 570 dollari al litro: a Careggi lo hanno prodotto con 25 euro al litro. E parliamo di un solo reagente su 5.

L’idea dell’Università di Firenze, in attesa che si esprimano da Roma, in Regione è piaciuta. Ne ha parlato il governatore Enrico Rossi e sabato il Consiglio regionale ha approvato un ordine del giorno che chiede alla Giunta di “riorganizzare i laboratori di patologia clinica degli ospedali pubblici” e “attivarsi col governo per affidare la produzione dei reagenti necessari all’Istituto chimico farmacologico militare”.

Il programma, però, non è così semplice come potrebbe sembrare. Il motivo ce lo spiega Gianni Rossolini, direttore di Microbiologia proprio a Careggi, cioè l’uomo che ha usato i reagenti auto-prodotti: “Per noi è stato un aiuto: una delle nostre linee produttive era bloccata. Però quali composti chimici servono dipende dai macchinari che si usano e dal processo che si è scelto: non c’è un unico standard. Noi stessi, pur di fare più tamponi possibili, abbiamo linee di produzione diverse, che normalmente per un laboratorio sarebbe un controsenso”.

Insomma, perché la cosa abbia un senso bisogna sostanzialmente imporre uno standard unico e per questo è fondamentale “riorganizzare i laboratori pubblici” come chiedono la Regione Toscana e ora anche il Forum per il diritto alla salute: “Serve un Piano nazionale: il governo emani un decreto che finanzi immediatamente la produzione pubblica di reagenti a basso costo”. Il Forum cita un appello di Andrea Crisanti e della Fondazione Hume, secondo cui il costo totale per tampone, autoproducendo i reagenti e usando i laboratori pubblici, sarebbe di 15 euro: testare il 20% della popolazione – 12 milioni di persone – costerebbe 180 milioni di euro.

Fontana ci ripensa ancora: “I test non danno patenti”

Una “patente di immunità”, l’aveva definita il 7 aprile presentando il test messo a punto dal San Matteo di Pavia con la multinazionale Diasorin, del quale la Regione ha poi acquistato 500mila kit. “Entro 2 settimane è attesa la certificazione Ce, poi si potrà partire con i test sulla popolazione”, aveva specificato. E il 23 la sperimentazione era iniziata nelle province di Bergamo, Brescia, Lodi e Cremona per monitorare la diffusione del Covid-19 tra la popolazione. Poi il 13 e il 16 aveva ribadito il concetto, utilizzando il medesimo concetto di patente di immunità, inteso come strumento in grado di dire se un soggetto ha sviluppato anticorpi dopo essere venuto a contatto con il SarsCov2 ed è protetto o meno da una seconda infezione. Ora Attilio Fontana ha cambiato idea: “I test sierologici, non lo dico io ma il ministero che lo ha ripetuto in due circolari, non hanno nessuna valenza diagnostica, ma semplicemente epidemiologica – ha detto ieri il presidente a “Timeline”, su SkyTg24, facendo finalmente suo un concetto che l’Istituto Superiore di Sanità va ripetendo da mesi – Facciamo i test sierologici per cercare di capire come si è mosso il virus, ma non c’entra niente con la diagnosi. Questa folle corsa che pongono in essere i privati per fare il test sierologico è inutile”. “Noi pertanto – aveva specificato già sabato – sconsigliamo al singolo di effettuarlo, perché se dovesse risultare positivo dovrebbe comunque sottoporsi al tampone”.

Eppure solo il 12 maggio la sua giunta aveva approvato una delibera con cui autorizzava i centri privati a somministrare l’esame del sangue ai cittadini che ne facciano richiesta. Quella? “Abbiamo concesso l’autorizzazione non potendo impedire ai laboratori privati di effettuarli e anche per regolamentare una situazione che si stava già verificando sul territorio – ha detto ieri il governatore – con la condizione che il laboratorio offra però anche la possibilità di effettuare il tampone, qualora il soggetto risultasse positivo agli anticorpi. Se anche il tampone dovesse risultare positivo, provvederemo a rimborsare la tariffa pagata per la prestazione”, ha aggiunto annunciando la decisione arrivata dopo la sollevazione dei sindaci del bresciano. Solo a chi risulta positivo al Covid-19, quindi, come recitano le Faq pubblicate sul sito della Regione: “In caso di positività – si legge – il costo del tampone viene restituito nei limiti di cui alla Dgr n. XI/3132/2020 (la delibera che ha autorizzato i centri privati, ndr) tramite le Ats”. “Chi ha la colpa di risultare negativo deve pagare, quindi – commenta Samuele Astuti, consigliere del Pd – è una follia. Bisogna rimettere ordine nella sanità lombarda. La Regione deve farsi carico del 100% dei suoi cittadini”.

Nel frattempo la curva dei contagi nella Regione continua, seppur lentamente, a flettere. Come nel resto d’Italia, dove ieri per la prima volta dall’inizio dell’emergenza il numero delle persone morte con il coronavirus è rimasto sotto quota 100: sono state 99 le vittime comunicate dalla Protezione Civile nel bollettino delle 18. Che ha registrato 451 nuovi casi totali (domenica l’aumento era stato di 675 unità), che portano il totale a 225.886: un incremento percentuale dello 0,20%, il più basso finora. Un dato incoraggiante, arrivato tuttavia a fronte di soli 36.406 tamponi, numero che risente del consueto calo dovuto al weekend. Calo registrato anche in territorio lombardo, dove i test comunicati sono stati 5.078, la metà di quelli di sabato: 175 sono i nuovi casi comunicati dall’assessorato al Welfare (85.019 totali) e 24 le vittime (15.534 in tutto). Anche nell’altra Regione osservata speciale, il Piemonte, arrivano dati che lasciano intravedere un abbassamento della pressione: 72 i nuovi contagi (per un totale di 29.619) e 20 le vittime (3.672 in tutto).