Sesso, droga e piccioni Autocertificazione addio

Addio autocertificazione. Il passaporto del Covid-19 non serve più. Ha scandito le fasi della quarantena e si è fermata al 18 maggio. Tacciono le stampanti, riposano i toner, torniamo sans papier: ci riprendiamo le strade, con cautela, ma senza il sospetto di essere clandestini, senza quel brivido colpevole alla vista di un posto di blocco.

In questi mesi l’autocertificazione è stata la più realistica declinazione della parola libertà, seppure in un linguaggio orrendamente burocratico di misure vigenti, limitazioni, sanzioni, Regioni di partenza e Regioni d’arrivo, esigenze comprovate, urgenze assolute, situazioni di necessità. Una collina di fogli A4 ammonticchiati vicino alla porta di casa o nel cruscotto dell’auto; una, dieci, cento autocertificazioni. Hanno cambiato testo, font e formato ogni volta che il governo correggeva una virgola sulla natura della nostra reclusione collettiva. Abbiamo contato almeno 5 autocertificazioni diverse in 70 giorni, trovare quella giusta era diventato un gioco. Ma ora addio. Ci siamo voluti bene, in qualche modo strano, ma è davvero meglio non vedersi più.

Queste settimane buie hanno fatto fiorire una letteratura e un’epica delle autocertificazioni. Su quei fogli si è sperimentato ogni registro: ironia, disperazione, bisogno, romanticismo, erotismo, nonsense, follia. C’era bisogno di un testamento, eccolo: le 10 autocertificazioni più belle di tutta la quarantena.

10) Animalista. La struggente fuga dalla famiglia di un ragazzo di Albano Laziale è stata narrata, sul foglio bianco, con queste parole: “Al momento sono senza casa perché mia madre e mia nonna non mi vogliono più con loro e quindi passo il tempo a dare da mangiare ai piccioni, la ritengo una cosa importante”.

9) Navigatore. Sotto Pasqua, a Mugnano di Napoli, tre persone lontane dall’indirizzo di residenza, si sono giustificate così con i carabinieri: “Abbiamo bisogno di acquistare degli elettrodomestici, ma ci siamo persi per colpa del navigatore”.

8) L’amante. Un uomo è stato multato a Verona malgrado l’autocertificazione testimoniasse la natura incontestabile del suo stato di necessità: “Appuntamento con l’amante”.

7) La moglie. Ma si combatte su entrambi i lati della barricata. Così una signora di Nettuno (in provincia di Roma) ha provato a giustificare la comprovata esigenza di pedinare il suo congiunto: “Seguo mio marito per vedere se ha un’amante”.

6) Stipsi canina. Come fare se il quadrupede non si sbriga? Un uomo è stato fermato insieme al suo cane in un Comune diverso da quello di residenza, 12 chilometri lontano da casa. Alla polizia ha risposto con eloquenza: “Cosa ci posso fare se i bisogni li fa solo qui?”.

5) Pokemon. Como, 31 anni. Sul foglio dell’autocertificazione ha scritto che è uscito di casa per “cacciare i Pokemon”. E in effetti, come hanno accertato i carabinieri, stava giocando a Pokémon GO con il tablet. Denunciato.

4) La rimpatriata. Ancora in pienissima fase 1, quattro infermieri e un fisioterapista si “assembrano” in casa di una sesta persona, a Gravina di Catania. Tutto limpido, niente da nascondere. Sull’autocertificazione c’è scritto: “Pranzavo insieme a colleghi di lavoro”.

3) La droga/1. Firenze, 33 anni, mostra alla polizia un’autocertificazione schietta, diretta, sincera: “Devo comprare droga”.

2) La droga/2. Più articolato invece il ragionamento di un’altra vittima dell’astinenza trovata distante da casa: “Nel mio territorio purtroppo c’è carenza di spacciatori”.

1) Il lavoro. Difficile contestare anche la necessità professionale di un 31enne di Catania, fermato nei pressi dell’Ospedale Garibaldi. “Sto andando al lavoro”. È un parcheggiatore abusivo, doppia multa. Ma con la Fase 2, vedrete, si sistemerà tutto.

Renzi: salvare Bonafede per la Boschi ministro

La trattativa va avanti tra Italia Viva e il resto della maggioranza. Perché domani si vota la mozione di sfiducia al Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Se passa, cade il governo, come da Palazzo Chigi è trapelato più volte. Matteo Renzi si tiene le mani libere: “Tutto è ancora aperto”, va dicendo ai suoi. Ma il ragionamento, quello ufficiale, tiene conto del fatto che Conte avrebbe dato segnali importanti a Iv con “la cancellazione dell’Irap”, “la vittoria di Teresa Bellanova sui migranti”, “il Dl per anticipare la riapertura”. Non basta, però. Iv sta chiedendo un incontro al premier, che forse potrebbe esserci proprio oggi. Tranchant un membro del governo: “Se vuoi presentare delle proposte non chiedi un incontro con il presidente del Consiglio ma con i tuoi alleati. Se vuoi incontrare solo Conte vuoi poltrone, non il sì alle tue proposte”.

Ma il pressing di Iv cresce di ora in ora. Sul tavolo ci sono ufficialmente i temi e ufficiosamente le poltrone. Partiamo dalle seconde. La vera battaglia dei renziani è quella di portare Luigi Marattin alla guida della Commissione Bilancio della Camera, ora che si cambiano i vertici degli organismi di Camera e Senato. Battaglia in salita, in realtà. E da più parti si dice che la vera ambizione dell’ex premier, più che di far cadere questo governo al buio, sarebbe ottenere un rimpasto. In realtà, lui qualche perplessità ce l’ha: in una situazione come questa, toccare un ingranaggio potrebbe far precipitare tutto. Accanto a questo c’è un tema “classico” per il renzismo: le ambizioni di Maria Elena Boschi. “Vuole fare il ministro”, è la convinzione anche di pesi massimi del Pd. Di certo, ha ricominciato con grande protagonismo. E mal sopporta la visibilità della Bellanova. Abbastanza per portare Renzi a chiedere più posti di governo? Chi lo sa. Nel frattempo, sul tavolo c’è la richiesta di un’accelerazione sul piano choc e l’impegno a ridiscutere di prescrizione. Un materiale incandescente per uno scambio, visto che più volte sul tema il governo ha rischiato. Non sono un caso le parole della Boschi di ieri: “La riflessione che dovremo fare in queste 48 ore riguarda non solo e non esclusivamente le accuse di Di Matteo nei confronti del ministro della Giustizia”. Ma “il ragionamento è più ampio. La valutazione riguarda il suo operato e le ricadute politiche che le valutazioni hanno sul governo e il suo insieme”. Nelle notizie messe in giro da Renzi si parla di un sondaggio tra i senatori di Iv, che vorrebbero in larga maggioranza la sfiducia di Bonafede. Difficile credergli, visto che quasi nessuno di quel gruppo vuole rischiare la caduta del governo.

Ma un dato è certo: domani sarà lo stesso Renzi a intervenire in Aula. Magari per difendere il ministro. Prevista pure un’Assemblea del partito, dopo le dichiarazioni in Aula del Guardasigilli. In tutto questo, Conte ha spostato la sua informativa a giovedì. Meglio vedere prima come va a Palazzo Madama. I numeri sono ballerini. Le slavine, a volte, imprevedibili.

M5S, Di Maio pensa al futuro: donna leader e patto tra i big

L’ex capo ora sta benissimo senza esserlo: libero di studiare e muoversi da ministro degli Esteri, alleggerito delle mille incombenze da risolvere, non più al centro di ogni agguato o semplice isteria a 5Stelle. Ma il futuro del M5S passerà ancora da Luigi Di Maio: il primus inter pares che riflette se ricandidarsi o meno da capo politico, da qui a fine anno. Con gran parte dei dimaiani che glielo ripete, da settimane: “Luigi, lascia perdere, chi te lo fa fare di caricarti di nuovo tutte quelle rogne?”. E Di Maio si sta convincendo. Sta davvero valutando se lasciare spazio a un’altra figura, a una donna. Con il primo nome che resta quello della sindaca di Torino, Chiara Appendino, già sussurrato dallo stesso Di Maio dopo quel 22 gennaio in cui su un palco si sfilò la cravatta, dimettendosi da capo. Fedelissima stimata nel Movimento, che piace al mondo delle imprese (e al Pd), preziosa per provare a recuperare terreno nel Nord dove il Movimento è sprofondato nelle urne e nei sondaggi. Ma ci sono due ostacoli: lei non è convinta, e a tanti potrebbe sembrare una nomina troppo di area.

Per questo c’è un’altra opzione che prende forma, la vicepresidente del Senato Paola Taverna: veterana con cui nelle ultime settimane l’ex capo ha ricucito, colmando una distanza reciproca che solo sei mesi fa pareva frattura insanabile. Amatissima dalla base, potrebbe portare in dote a Di Maio altri pezzi del M5S. Controindicazioni: ha una personalità molto forte, e i grillini del Nord potrebbero leggerla come una scelta troppo romano-centrica.

Di certo Di Maio ha già chiare almeno un paio di cose: il nuovo M5S dovrà avere una vera segreteria, una struttura “il più possibile unitaria” come la definisce un dimaiano di sicura fede. Capace di assorbire problemi, anime diverse e (eresia) correnti. E non le potrà bastare un voto del web, sulla piattaforma Rousseau. Per la segreteria Di Maio pensa anche a un patto politico tra i maggiorenti del M5S, e magari anche a un luogo fisico dove confrontarsi e vararla.

D’altronde lo ripetono anche tanti big nelle loro conversazioni: “Dobbiamo ridefinire cosa siamo, la rotta politica, la nostra idea di Italia”. Quindi gli Stati generali di marzo cancellati dalla pandemia, il primo congresso del M5S, prima o poi dovranno svolgersi. Forse tra ottobre e novembre, stando alle voci di dentro. Nonostante le difficoltà tecniche e nonostante Davide Casaleggio, che avrebbe voluto in tempi brevi un voto sulla piattaforma, sulla sua creatura, per eleggere un nuovo capo politico. Ma meno di un mese fa in videoconferenza ha sbattuto contro il muro di tanti dirigenti, primi tra tutti Di Maio e Taverna. “Il sistema di votazione su Rousseau ha portato all’anarchia” sibilò il ministro degli Esteri. Sancendo una differenza anche di concetto, tra il Casaleggio che nel web vede l’unico habitat possibile per il M5S, e il Di Maio che vuole anche strutture e segreterie, insomma gli strumenti della politica classica.

Da abbinare alla piattaforma, non più unica cassaforte del potere, da ripensare anche con una robusta modifica dello Statuto: altra partita delicatissima, che si gioca sotto traccia già da mesi. “E poi ridurre l’influenza di Casaleggio gli consentirebbe di ricompattare i parlamentari” ammette una fonte qualificata. Eletti che Di Maio sente e vede regolarmente. Prima del coronavirus, anche con cene apposite.

In queste settimane tanti sono tornati dalla sua parte. Ma lì fuori c’è ancora Alessandro Di Battista. “Molti sono tentati dal candidarsi a capo politico” raccontano. Però l’unico sfidante possibile è l’ex parlamentare romano, ancora forte tra gli iscritti, appoggiato da veterani come Barbara Lezzi, Max Bugani e Ignazio Corrao. Di Maio vorrebbe inglobarlo, come una figura essenziale nella nuova struttura unitaria, e schivare una sfida comunque scivolosa. Ma Di Battista aveva e ha voglia di correre, per portare avanti le sue idee di grillino della vecchia guardia. L’ex capo lo sa e aspetta. Perché non ha fretta, di tornare.

Bonaccini: “Eravamo in contatto con le Sardine”

Se ci fosse qualche dubbio, l’ambizione è palese fin dal titolo del libro: La destra si può battere. Dall’Emilia-Romagna all’Italia, idee per un Paese migliore (Piemme). Stefano Bonaccini parte dal racconto della campagna elettorale per le regionali, quelle che a fine gennaio lo hanno confermato presidente dell’Emilia-Romagna, ma il suo orizzonte è nazionale. In una fase d’emergenza che ha messo a nudo i governatori affidandoli al giudizio impietoso dei numeri, Bonaccini ha mantenuto alti i consensi personali e, al pari del leghista Luca Zaia, può rivolgere le sue aspirazioni al partito: “Il Pd deve avere un’identità più netta, deve aprirsi alla società, accogliere le competenze migliori che fuori ci sono, a partire dai territori. E questo vuol dire demolire le liturgie che non rispondono più al tempo presente al pari delle correnti interne che non organizzano più un pensiero ma solo destini personali”. Detta così sembra una rottamazione fuori tempo massimo, ma il riferimento è soprattutto al contatto con la gente: “Se nelle piazze abbiamo trovato migliaia di persone ad aspettarci è solo perché le abbiamo chiamate a una sfida importante e a una scelta chiara, portando argomenti e proposte”.

È innegabile però che il successo delle piazze emiliane sia stato ispirato dalle Sardine. Bonaccini lo sa e infatti da quando i giovani riempiono Piazza Maggiore a Bologna inizia un coordinamento: “Contatti diretti con gli organizzatori non ne ho avuti. Ma un rapporto a distanza così positivo o una convergenza così complessa può funzionare solo se c’è un ufficiale di collegamento che fa bene il suo mestiere. L’ho trovato in un ragazzo in gamba che ha tenuto i rapporti con Mattia Santori da un lato, col mio staff dall’altro”. Così “l’aggiornamento reciproco è stato quotidiano ma discreto: noi sapevamo cosa facevano le Sardine, loro sapevano cosa facevamo noi”. Uno scambio di informazioni “prezioso per contrastare insieme, in modo separato ma coordinato, l’avversario”. Tradotto: dove non voleva andare l’uno, andava l’altro, come nella celebre Bibbiano. Alla fine ha funzionato.

2×1000, Pd e Lega sono “irregolari” Ma li salva il Covid

Da ultimo ci hanno provato con il decreto Rilancio, ma il tentativo di farsi anticipare ad agosto anziché a fine anno i fondi del 2 per mille delle dichiarazioni dei redditi è sfumato. Almeno per ora: perché i partiti sono pronti ad affilare le armi per mettere le mani prima possibile sulla torta che nel 2019 è stata di 18 milioni generosamente donata dai contribuenti. Al dire il vero però, dei 101 soggetti politici che per accedere ai benefici di legge si sono piegati ai controlli solo la metà (per la precisione 52) hanno presentato una rendicontazione che ha passato l’esame. E gli altri?

La relazione annuale della Commissione di Garanzia per la trasparenza dei partiti presieduta dal magistrato della Corte dei Conti, Amedeo Federici racconta che tra i partiti c’è chi spera di cavarsela in Zona Cesarini: in 22 hanno presentato il rendiconto del 2018, ma non sono comunque a posto. E si tratta di big, dal Pd alla Lega (i due maggiori beneficiari delle donazioni del 2 per mille dello scorso anno, rispettivamente con 8,4 e 3,1 milioni) che sono stati invitati a sanare le irregolarità. Con comodo, s’intende. Perché grazie al Coronavirus hanno potuto beneficiare della sospensione dei termini prevista da due decreti sull’emergenza che hanno congelato i procedimenti amministrativi prima fino al 15 aprile e poi al 15 maggio. E non è detto che sia finita qui.

Ma chi sono i magnifici 22? Si è già detto del Pd, che era in affanno anche sul rendiconto 2017 tanto da costringere la Commissione di Garanzia a chiedere ripetutamente lumi su una serie di voci (per esempio sulla garanzia a favore della società Democratica srl da 1,4 milioni o sulle svalutazioni di partecipazioni per un altro milione) prima al tesoriere Francesco Bonifazi e poi a Luigi Zanda che ora si è dimesso. Anche il Carroccio per mesi ha ricevuto ripetuti inviti a chiarire sui rendiconti, ma il tesoriere Giulio Centemero dice che è tutto a posto e che quindi la Lega è in regola per ricevere il 2 per mille. E che importa se manca qualche pezza d’appoggio magari finita tra i documenti sequestrati dalle Procure per l’affaire 49 milioni. Nella lista di partiti e movimenti che hanno rendicontato sì, ma nei cui confronti c’è un’attività di controllo ancora in itinere per l’annualità 2018, compaiono anche la Lega per Salvini premier, Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, l’Udeur e pure l’Udc, ma anche Articolo Uno, Lista civica Zingaretti presidente, Lista Crocetta. E poi Rifondazione comunista, Partito Socialista e altre sigle meno note.

A scorrere la relazione della Commissione di garanzia si scopre che c’è chi sta messo peggio: gli inottemperanti conclamati, i partiti che hanno già ricevuto il cartellino giallo che prelude alla multa di 200 mila euro prevista per chi non abbia presentato i documenti prescritti e nemmeno “fornito gli elementi utili a superare gli addebiti”: si tratta di 20 soggetti a cui è stata notificata la contestazione prima e poi anche l’ordinanza di ingiunzione. In questo girone, compaiono tra gli altrui la Lista Storace e Più Europa, il Partito dei pensionati e la Lista Nello Musumeci presidente: in 5 hanno proposto ricorso contro la sanzione e, va senza dire, sperano di salvarsi in corner.

Ma sono stati distribuiti anche alcuni cartellini rossi: la partita di fronte ai controllori si è conclusa con la cancellazione dal registro dei partiti per l’anno di imposta 2020 per “La Puglia Prima di tutto”. E per il “Movimento per le destre Unite” che ormai deve averci fatto il callo: ha subìto la stessa sanzione anche per gli anni 2016, 2017, 2018 e 2019. E tuttavia spera per il 2021.

Una speranza che invece è sfumata per quelli che si sono visti proprio negare l’iscrizione al registro dei partiti. Nella relazione della Commissione di Garanzia non si fa menzione di nuove richieste finite nel cestino, con annessa esclusione dalla destinazione volontaria del 2 per mille o dalle detrazioni per le erogazioni liberali in denaro. Cosa che era invece avvenuta in diversi casi negli scorsi anni. Tra tutti quello di Forza Nuova: iscrizione negata per la mancanza di un requisito su tutti, quello dello statuto che, per legge, deve garantire l’osservanza dei principi di democrazia, di rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.

Repubblica: la redazione processa Molinari

Un gran casino. Con la redazione spaccata in tre. E uno scontro durissimo tra il comitato di redazione e il neo direttore, Maurizio Molinari. Sono stati una domenica e un lunedì di fuoco a Repubblica, dove i giornalisti si sono ribellati per come si è deciso – domenica – di trattare la notizia della richiesta da parte di Fca del prestito di 6,3 miliardi da parte di Banca Intesa con la garanzia di Sace, società di Cassa Depositi e Prestiti.

John Elkann, nuovo padrone di Repubblica, è presidente di Fca e dunque sembra dettare la linea anche al giornale. Al cdr non è piaciuta la presentazione della notizia, sbilanciata in favore del gruppo automobilistico, con tanto di analisi da parte di Francesco Manacorda dal titolo inequivocabile: “Una formula innovativa che aiuterà migliaia di imprese”. Così il sindacato del quotidiano di Largo Fochetti ha chiesto al direttore di pubblicare un comunicato ai lettori, ma Molinari ha rifiutato. A quel punto la redazione s’è infuriata e ieri è stata convocata un’assemblea con all’ordine del giorno due punti: ricadute del caso Fca e dimissioni del cdr, che infatti si è presentato dimissionario. A fine giornata il giornale è stato chiuso, ma l’assemblea ha votato un documento per ribadire le proprie posizioni.

A Repubblica il clima è teso dal giorno del licenziamento di Carlo Verdelli, il 23 aprile. A molti, infatti, non è piaciuto il modo in cui è stato fatto fuori, a 14 mesi dal suo insediamento, un direttore che si era fatto amare e aveva restituito una forte identità al giornale. Forse troppo, per i nuovi padroni.

Dopo un primo momento di calma, venuto con le rassicurazioni di Eugenio Scalfari, il clima è tornato torrido. “Da una parte ci sono gli estimatori di Verdelli, la parte più a sinistra, che vede malissimo la nuova gestione. All’opposto ci sono quelli, più moderati, che vogliono dare fiducia al nuovo vertice. E in mezzo c’è chi sta alla finestra in attesa degli eventi”, racconta una fonte interna al giornale.

Uno che non ha aspettato, però, è stato Gad Lerner, una delle prime grandi firme a lasciare il quotidiano, insieme a Pino Corrias. “Mi ero imposto di aspettare, di non fare scelte affrettate. Ma nel frattempo, in poche settimane, Repubblica è già cambiata. Non la riconosco più”, ha scritto il giornalista su Facebook, annunciando la decisione di interrompere la collaborazione. La sterzata al centro di Repubblica è evidente, a partire dalla prima pagina, assai più soft rispetto a quella di Verdelli. “Se iniziano ad andare via altre firme, allora c’è un problema…”, dicono a Largo Fochetti, dove adesso si teme un’emorragia di cronisti.

E i riflettori sono puntati su Michele Serra, Ezio Mauro, Roberto Saviano, Francesco Merlo. “A volte i lauti stipendi non bastano a trattenere le persone”, confida un cronista. Come si è visto con Lerner, che Verdelli aveva ricominciato a far scrivere con frequenza (suo lo scoop sui morti di coronavirus al Pio Albergo Trivulzio di Milano, nell’aprile scorso). Anche perché nel frattempo Carlo De Benedetti sta costruendo il suo nuovo quotidiano, Domani, diretto da Stefano Feltri, pronto ad accogliere i transfughi.

Nonostante l’ampia fiducia concessa a Molinari dalla redazione (220 sì, 36 no, 44 astenuti e 54 assenti), gli screzi non sono mancati. E alcuni hanno sorriso amaramente, per esempio, di fronte alla decisione di Molinari di istituire un premio produttività: ogni settimana all’autore dell’articolo migliore vanno una “R” stilizzata e 600 euro lordi in busta paga. “Idea padronale e fantozziana”, l’ha bollata qualcuno, ricordando la famosa Coppa Cobram, la gara ciclistica cui erano sottoposti il ragionier Fantozzi e i suoi colleghi.

“Fca? Altro che odio di classe, si chiama conflitto d’interessi”

La Fiat, oggi Fca, è il paradigma della nostra storia contemporanea. Il potere forte dell’economia che mangia quello debole, la politica. Gianni Cuperlo qui non è in discussione la legittimità della richiesta del prestito garantito dallo Stato, ma l’etica che la indirizza.

Forse la si può riassumere così: io ti offro una garanzia solida per il prestito che la banca ti farà. In cambio non è lesa maestà chiedere garanzie altrettanto solide su come, dove, quando impiegherai quelle risorse. Intendo garanzie occupazionali e non solo. Non mi pare un atto sovversivo.

Il Pd ritiene giusto ottenere da Fca vincoli più stringenti circa la destinazione del prestito e l’azzeramento del dividendo ai soci per tutta la durata del prestito. Lei è d’accordo?

Certo, ma sarebbe curioso il contrario, per quanto il passato riservi una lunga sequenza di trasferimenti più che indulgenti. Oggi, però, nel pieno di una tragedia che stravolge la nostra economia, chiedere piena trasparenza sulla distribuzione dei profitti tra le varie filiali e sulla ripartizione del carico fiscale nei vari paesi è la premessa per ragionare.

Come giudica allora il veto del ministro dell’Economia sugli emendamenti che introducevano una norma di igiene pubblica?

Non sono nella testa del ministro. Penso che abbia ragione Romano Prodi, non un estremista, quando si parla di politiche industriali, “Fca non è più un’impresa italiana, legittimo finanziarla ma occorrono garanzie”. Mi faccia dire una cosa in più: se poi nel passaggio più tragico della storia recente la scelta fosse di riportare la sede legale e fiscale in Italia, sarebbe un atto da apprezzare.

I poteri forti esistono ovunque e sono propri di una società in cui l’élite capitalistica detiene non solo fette della produzione, ma il grosso dell’informazione. Orlando intravede una capacità manipolativa e una forma di pressione indebita.

Orlando ha sollevato un tema che riguarda l’asimmetria di potere tra la politica e altri soggetti che ciascuno può giudicare più o meno forti. La si può condividere o no, ciò che non ha molto senso è liquidare quella posizione come istigazione all’odio di classe. Ho il massimo rispetto per i giornali e chi li fa, ma se su un foglio dai nobili trascorsi leggo che è giusto cercare all’estero “vantaggi fiscali offerti da altre legislazioni e una maggiore linearità del diritto societario” penso che sia altrettanto legittimo segnalare il dubbio di un piccolo conflitto di interessi tra quella testata e gli interessi del suo nuovo editore.

I poteri forti comunicano la loro supremazia con i propri mezzi di comunicazione.

Non amo le caricature e appena uno dice “poteri forti” il rischio è dietro l’angolo. Diciamo che Urbano Cairo o John Elkann hanno un po’ più potere di me e di lei. Così può andare?

Questo è un governo nato da un’emergenza che a causa di una emergenza assai più grande invece di rinsecchire trova vitalità. La sua fortuna coincide col suo limite esistenziale.

Sullo “stato di emergenza” si sono riempiti scaffali. Questo governo è nato per la follia del capo della Lega. Ora la pandemia è uno spartiacque, ne avremmo fatto volentieri a meno, ma è nelle svolte drammatiche che si misura la vitalità di un disegno. Adesso la prova è salvare l’economia e rimettere in piedi il Paese. Saranno i risultati, non manovre di palazzo, a dire se questa scommessa ha ancora un senso.

Giuseppe Conte chi è? Un dc contemporaneo? Un populista con la pochette? Una nuova e forte personalità che potrà guidare una coalizione in cui il Pd sia forza trainante?

Conte è un premier senza precedenti per le modalità che lo hanno condotto a Palazzo Chigi. Oggi sa di avere il sostegno pieno del Pd, non potrei giurare lo stesso per le altre forze della maggioranza. Una cosa credo di poterla dire: dopo questo governo per noi ci sono solo le urne. Ognuno ci pensi.

Un mucchio di gente ha sulle scatole questo governo.

L’idea di precipitare il Paese in una crisi di governo ora, nel pieno di una recessione senza pari, sembra una follia. Poi, non mi nascondo che la nuova Confindustria sia la più antigovernativa dai tempi del primo centrosinistra.

Il Pd sembra governare con meno fatica il rapporto con i 5S che con il gruppo del suo ex segretario. Com’è possibile?

No, si sbaglia, con Bersani i rapporti sono ottimi!

Nel Pd riparte lo scontro Orlando lo porta a sinistra

Il nuovo posizionamento dei giornali Repubblica e Stampa. La ricerca, nel Pd, di una battaglia di sinistra, che sia anche identitaria. E che si scontra con componenti molto più liberal. Ancora. Le ambizioni dei singoli. La difficoltà quotidiana del governo giallorosa di andare avanti. E le diverse anime dei dem che entrano in gioco sono molte e si intrecciano tra loro nel dibattito sul prestito da 6,3 miliardi che Fca sta chiedendo a Intesa San Paolo, con garanzia pubblica.

“Fetido venticello della calunnia sparata a caso e un tanto al chilo che finisce per avvelenare tutti i pozzi” . Così Massimo Giannini, neo direttore de La Stampa, domenica rispondeva al vicesegretario del Pd Andrea Orlando che chiedeva di vincolare il prestito a “impegni” della società, poneva il problema della sede legale e fiscale di Fca e parlava di “gruppi editoriali e centri di potere che tenteranno di buttare giù il governo”. Ieri lo stesso Orlando di buon mattino così risponde: “Secondo il direttore de La Stampa poiché ho osato ipotizzare che alcuni soggetti dell’informazione potrebbero essere condizionati dagli interessi dei loro editori sarei praticamente alla stregua di coloro che sui social linciano quotidianamente Liliana Segre e Silvia Romano”.

La durezza verbale colpisce, tanto più trattandosi di un gruppo editoriale da sempre vicino al Pd. Ma con la nascita della nuova Gedi targata Exor (la cassaforte degli Agnelli) gli orientamenti cambiano. Tutto parte da una battaglia che si è intestato lo stesso Orlando. Sulla quale, poi, i vertici del partito lo stanno seguendo. Esito non scontato: perché era stato proprio il governo, di cui il Pd fa parte, nella persona del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri a dare parere negativo a un emendamento di Bersani che chiedeva di dare aiuti solo a chi paga le tasse in Italia. Su Gualtieri si moltiplicano i malumori dem. E Orlando, dunque, si incunea. Raccontano che stia giocando una sua partita: vorrebbe entrare al governo ed è “molto arrabbiato” con Nicola Zingaretti. D’altra parte, in occasione del varo del governo, era stato costretto a fare un passo indietro. Aveva investito sul partito: ma il segretario lo presidia con maggior costanza di quella prevista. Se non c’è il rimpasto, punta al posto di capogruppo a Montecitorio. Non si tratta di sole poltrone: Orlando sta cercando da tempo di traghettare il Pd più a sinistra e di essere il “frontman” di questa operazione. Non a caso, la dichiarazione di Zingaretti sul tema arriva solo nel tardo pomeriggio: “Nelle politiche di incentivi e prestiti con garanzia statale alle imprese e ai grandi gruppi industriali deve essere determinante la finalità di utilizzo delle risorse che devono servire a stabilizzare l’occupazione in Italia e a non delocalizzare le produzioni”. Era stato preceduto dal suo “mentore”, Goffredo Bettini. Su questa posizione anche il ministro Peppe Provenzano. Mentre in mattinata il capogruppo in Senato, Andrea Marcucci (un altro di cui si dice voglia entrare al governo) dichiara: “Il prestito chiesto a una banca privata da Fca serve a garantire lo stipendio dei dipendenti e dei fornitori di tutta la filiera”. Posizione diametralmente opposta.

Su una posizione più sfumata è Graziano Delrio, capogruppo a Montecitorio, parecchio critico con il governo. Equilibrismi invece da Base Riformista (la corrente del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, oltreché di Luca Lotti): “Le preoccupazioni di Orlando sono legittime”, si legge in una nota affidata ad Andrea Romano. Però, “è da apprezzare che queste preoccupazioni trovino risposta pienamente positiva nella normativa predisposta dal governo”. Tradotto: nel decreto c’è già “tutto” (ovvero l’obbligo di usare questi prestiti per la produzione in Italia). Nel Pd la battaglia ricomincerà

Perché la ex Fiat sorride grazie al mega-prestito

L’affaire Fiat Chrysler Automobiles agita la maggioranza giallorosa. I fatti: Fca Italia chiederà all’assicurazione pubblica Sace la garanzia sull’80% di un credito da 6,3 miliardi erogato da Intesa SanPaolo per le sue attività italiane. Come previsto dal “decreto Liquidità”, la garanzia dovrà essere autorizzata da un decreto del ministro dell’Economia. Per i giornali di proprietà dell’ex Lingotto (il gruppo Gedi che edita, tra gli altri Repubblica e La Stampa) è una grande operazione che salva l’indotto permettendo di pagare i fornitori. Per gli addentellati padronali nella politica, a partire da Italia Viva, le polemiche sono strumentali. Questo, per dire, è Matteo Renzi: “Bene Fca. Sbagliato evocare ‘poteri forti’ e ‘interessi dei padroni’. È un prestito che serve a investire in Italia: che male c’è? Mi sarei preoccupato se non lo avesse fatto”. Le cose però sono un po’ più complesse.

Problema fiscale. Fca dal 2014 ha sede legale in Olanda e fiscale nel Regno Unito. Sulle attività italiane (a cui sono destinati i prestiti garantiti) paga le tasse in Italia (solo mezzo miliardo nel 2019 perché sono in perdita da anni). Diverso è il caso dei dividendi, cioè la parte degli utili distribuita agli azionisti. Di per sé, non sono tassati molto neanche in Italia: viene applicata un’aliquota Ires del 24% solo sul 5% dell’ammontare, cioè un’aliquota effettiva dell’1,2%. Su un dividendo di 2 miliardi parliamo di 25 milioni sottratti all’erario italiano. Poi ci sono gli utili prodotti all’estero. Il fisco olandese di fatto rende esentasse i dividendi, ma permette anche di ridurre l’aliquota formale sugli utili abbattendo gli imponibili. Nel 2019, per dire, Fca ha fatto ricavi per 108 miliardi, e utili per 6,6 miliardi, pagando imposte per soli 1,3 miliardi. Un “tax rate” dell’1,5%, assai invidiabile in Italia e forse dovuto anche alle perdite assorbite negli anni precedenti dall’acquisto di Chrysler.

C’è poi un altro aspetto: anche se è difficile che Fca riesca a portare molti profitti generati dall’Italia fuori dal nostro Paese con i meccanismi elusivi del transfer pricing è pure vero che non sappiamo se nel 2014 siano stati trasferiti all’estero anche beni poco tangibili come marchi, brevetti e ricerca scientifica. A ogni modo tutte le multinazionali concentrano servizi sulla casa madre, cosa che genera utili finanziari (su cui il fisco olandese chiede imposte assai basse). Vale la pena poi di ricordare che a fine 2019 Fca ha riconosciuto 730 milioni all’amministrazione fiscale italiana per aver sottostimato il valore di Chrysler pagando meno tasse.

Il regalo. Fca e la sua controllata Exor ha liquidità sufficiente per garantire prestiti infragruppo senza dover ricorrere alla garanzia pubblica, tanto più che ha in pancia ancora parte dei ricavi della vendita di Magneti Marelli. Se vi ricorre è perché così si tiene la liquidità e, avendo lo Stato italiano un rating migliore di quello dell’ex Fiat (è mantenuto sul livello “investment” solo dall’agenzia Fitch), risparmia sui costi di finanziamento. Considerato il merito di credito tra Stato italiano e Fca è verosimile che su un prestito a 3 anni il risparmio sia anche superiore al mezzo miliardo (e questo al netto dei costi della garanzia pubblica, che sono a carico di Fca). Il divieto di distribuire dividendi vale solo per 12 mesi: significa che Fca nel 2021 potrà staccare agli azionisti 5,5 miliardi del dividendo straordinario previsto dalla fusione con Peugeot, somma pari al prestito garantito dallo Stato. Per l’ex Lingotto è un’operazione perfetta. I soldi verranno usati per saldare i fornitori italiani (che non è una gentile concessione, ma un dovere).

Gli investimenti. La speranza del governo italiano – che la garanzia sui debiti impegnerà Fca a investire davvero in Italia – è cosa buona e giusta. Finora, però, Fca non ha mai mantenuto gli impegni sugli investimenti previsti (gli ultimi annunci, risalenti al 2018, parlano di 5 miliardi nel quinquennio).

Le garanzie. Finora Sace ha effettivamente erogato garanzie su prestiti di una quarantina di milioni e ha operazioni “potenziali” in essere con circa 250 aziende per un totale di 18,5 miliardi. Da sola la garanzia a Fca vale un terzo dell’ammontare “potenziale”.

“Senza la garanzia non investivano” La resa del Tesoro

Dopo giorni di polemiche al Tesoro, la frase se la lasciano sfuggire: “Il rischio era di perdere del tutto Fiat, fornire l’alibi per un ridimensionamento degli impianti e l’addio agli investimenti promessi”. Riassume il senso di un’operazione che appare un regalo al colosso con sede legale in Olanda e fiscale nel Regno Unito e alla olandese Exor, cassaforte degli Agnelli, ma che al dicastero guidato da Roberto Gualtieri difendono con forza, definendola una, per così dire, scelta di politica industriale – l’unica a disposizione – di fronte a uno scenario drammatico, vista la tappa finale: “Fra 8 mesi ci sarà la fusione con Peugeot, il punto è far restare in Italia almeno quel che ora c’è, vista anche la crisi enorme che attraverserà il settore”. Insomma, sfruttare la garanzia pubblica sui debiti come arma, l’unica, in un sistema – il mercato unico europeo – che lascia gli Stati senza munizioni per evitare fuga all’estero e delocalizzazioni.

Come noto, Fca Italia, cioè Fiat-Chrysler, chiederà alla pubblica Sace – come previsto dal “decreto Liquidità”, previa autorizzazione del Tesoro – la garanzia statale sull’80% di un credito da 6,3 miliardi erogato da Intesa Sanpaolo da usare per le attività italiane. Così risparmierà centinaia di milioni sui costi di finanziamento. La trattativa con Fca va avanti da settimane. Solo ieri il colosso ha girato a Intesa la richiesta formale di garanzia, che a sua volta la banca girerà a Sace.

È una somma ingente e per autorizzarla servirà un decreto del ministro, che è già pronto, negoziato da settimane con gli uomini Fca, insieme a giuristi e tecnici del ministero dello Sviluppo guidato dal 5 Stelle Stefano Patuanelli. È su quel testo che al Tesoro insistono per spiegare il senso di un provvedimento, il decreto Liquidità, che sembrava scritto fin dall’inizio per la fu Fiat (balzata in Borsa dell’8% il giorno dell’approvazione).

Gualtieri in serata assicura che nel decreto ministeriale sono previsti almeno tre impegni stringenti, pena la perdita della garanzia. Il primo, che a cascata si tira dietro gli altri, è l’impegno a fare gli investimenti promessi nel piano industriale: 5 miliardi annunciati a novembre 2018 e mai davvero partiti, l’ultimo di una serie di annunci dell’ex Lingotto, già ai tempi di Sergio Marchionne, rimasti lettera morta e a cui nessuno ha mai davvero creduto: oggi, implicitamente, lo ammette anche il Tesoro, dove ì rivendicano di aver ottenuto un investimento aggiuntivo (alcune centinaia di milioni di euro su uno stabilimento nel Sud).

Il secondo impegno è che Fca possa ridiscutere i livelli occupazionali in Italia (dove impiega 55 mila operai nei diversi stabilimenti falcidiati dalla cassa integrazione) solo con l’ok dei sindacati. Il terzo è a non delocalizzare altre produzioni. Impegni segnati nel decreto del ministero e che spingono Roberto Gualtieri a credere di aver in qualche modo inchiodato Fca a una serie di impegni con l’Italia che invece Fca non voleva rispettare, specie dopo l’annuncio della fusione con Psa-Peugeot: “Ora che si fondono coi francesi, è nostro interesse tenerli ancorati qui in qualsiasi modo”. Già questo dà l’idea di quanto fossero considerate attendibili, nelle stanze del governo, le promesse fatte da John Elkann e soci in questi mesi: “La realtà è che se ne volevano andare. Solo così possiamo assicurarci che rispettino i patti”.

Nel decreto gli impegni sono vincolanti, pena la perdita della garanzia statale. Ma nessuno sa se reggeranno ai cambiamenti in atto. Se, per dire, basterà aver inserito la nota “Precisiamo che gli impegni rimarranno fermi anche nel caso in cui la fusione con Psa abbia attuazione” per legare le mani alla nuova società che nascerà dalla fusione che dovrà completarsi nel 2021. Tanto più che, di fatto, sarà una vendita di Fca ai francesi: basti l’accordo – questo sì vincolante, perché stabilito in un contratto di vendita – stracciato la scorsa estate da ArcelorMittal sull’ex Ilva di Taranto per ricordare al lettore quanto i governi siano impotenti di fronte alle multinazionali.

Insomma, la garanzia, una cifra enorme che da sola vale il 4% dell’intero ammontare previsto dal decreto, non servirà solo a pagare i fornitori di Fca, a secco da settimane, ma è anche l’unico modo per tenere ancorato quel che resta della Fiat all’Italia e a costo zero, anzi guadagnandoci – dicono al Mef – perché la garanzia statale è onerosa e pagata dal beneficiario. Il dicastero di Gualtieri, però, ha deciso di non estendere oltre i 12 mesi il divieto di distribuire dividendi. “Sono una Spa, sarebbe crollato il titolo in Borsa…”, è la difesa. Così, però, nel 2021 Fca potrà staccarsi il dividendo straordinario previsto dall’accordo con Psa: 5,5 miliardi – più o meno equivalenti alla liquidità garantita dallo Stato – di cui 1,5 andrà alla Exor degli Agnelli, completamente esentasse per il fisco italiano. Sarebbe una beffa gigantesca, attenuata solo dalle promesse informali, ancora una volta, fatte balenare nei colloqui. Quella, per dire, di riportare il marchio Ferrari in Italia (oggi la holding è olandese) e non far fuggire all’estero Comau, il gioiellino della componentistica torinese, che secondo gli accordi con Peugeot sarà oggetto di una spartizione postuma tra i due gruppi.

Il senso finale lo dà Gualtieri: “La fusione con Psa rende pressante usare le condizionalità del decreto per preservare l’ancoraggio di Fca all’Italia”.