Giovanni Paolo II, Ratzinger e Ruini: dove nasce la guerra ai diritti civili

L’atavico e spesso irrisolto nodo tra cattolicesimo e liberalismo è il filo che tiene insieme una lunga conversazione tra il cardinale Camillo Ruini e il senatore già teocon Gaetano Quagliariello.

Da una parte l’alfiere indomito della Chiesa interventista dopo la fine dell’unità politica dei credenti (il partito “unico” della Dc, mai clericale). Dall’altra uno storico, oltre che politico, che di suo il liberalismo lo ha conosciuto su due fronti, sia da radicale sia da berlusconiano, per poi approdare a una posizione conservatrice sui diritti civili, dall’aborto all’eutanasia, fino alle unioni tra persone dello stesso sesso e all’utero in affitto. Non a caso il libro s’intitola Un’altra libertà (a cura di Claudia Passa, Rubbettino, 115 pagine, 15 euro) e sarà presentato il 22 maggio alle 18 e 30 in una videoconferenza della Fondazione Magna Carta con lo scrittore Gianrico Carofiglio, il giudice della Consulta Nicolò Zanon, gli stessi Ruini e Quagliariello.

Il bersaglio del libro sono “i nuovi profeti del paradiso in terra”. La torsione impressa da Quagliariello è prettamente crociana: ieri comunismo e nazismo, oggi il “totalitarismo della tecno-scienza” che vuole imporre per legge la morte e la teoria gender. Di qui la lezione di “don Benedetto” che sottende alla tesi del senatore: se nel Novecento l’alleanza tra cristianesimo e libertà fu contro Hitler e Stalin, nel terzo millennio deve rinnovarsi per sconfiggere il post-umanesimo.

Ma se la speculazione filocattolica di un certo liberalismo (ovviamente non quello illuminista) poteva un tempo valere per le libertà politiche, sociali ed economiche, oggi si trova davanti una montagna difficile da superare.

Dove ancorare, infatti, i fatidici valori non negoziabili? Il testo più citato da Ruini è l’enciclica Evangelium Vitae di San Giovanni Paolo II, di cui oggi ricorre il centenario della nascita. L’aborto è “omicidio”, così come la fine di Eluana Englaro. Possono, allora, bastare “la libertà creatrice di Dio” evocata da Ruini o il debole espediente pronunciato successivamente da papa Ratzinger, cioè l’invito ai non credenti a vivere come se Dio esistesse? Il liberalismo sconta il rischio evidente del clericalismo affogando a morte in un esteso concetto del senso del limite i diritti individuali.

Addio alle classi pollaio, si studia bene: manca solo il bonus-mamma

La scuola materna ai tempi del coronavirus funziona così: tu ascolti i mille video delle maestre, poi dipingi, tagli, incolli, mentre l’under cinque spizzica i filmati, poi si stufa, poi colora un po’, poi se ne va fuori mentre tu lo insegui per mettere la foto sul drive. Non molto diversamente va la scuola elementare o le medie: il ragazzino va assistito continuamente, primo nel trovarli, i compiti, poi stamparli, lavorare insieme, scannerizzare. Va detto che anche prima della pandemia – vista la scarsa autonomia dei nostri figli, che a dieci anni a malapena si allacciano le scarpe – l’assistenza ai compiti portava via un bel po’ di tempo. Ma sicuramente il virus ha fatto tornare in auge il vecchio vessillo dell’home schooling, bandiera ideologica che molti genitori rivendicano. D’altronde, nel nostro paese non è obbligatoria la presenza sui banchi, ma l’istruzione: quindi l’educazione a distanza, a casa, anche in piccoli gruppi, è possibile. Certo, questa istruzione priva i bambini di molte cose, una socialità più vasta, anzitutto. Ma ha anche molte frecce al suo arco: una grande intimità con i genitori-educatori, la possibilità di lavorare con più tempo, senza classi pollaio, con una didattica decisamente dedicata.

E dunque forse si potrebbe rivalutare questa pratica, anche perché è possibile che di crisi sanitarie-ecologiche, con relative quarantene, ce ne saranno ancora. C’è solo un ma: l’home schooling non è retribuito e forse non è del tutto giusto. Perché se io non mando mio figlio a scuola, lo stato risparmia e quei soldi potrebbero tornare indietro a una madre entusiasta di insegnare. Un po’ come per il parto in casa, checché se ne pensi: oggi molte regioni lo rimborsano, perché l’ospedale non spende una lira. Ma forse è una visione troppo liberale, in un paese ex cattocomunista, ora ultraliberista, ma che per il liberalismo vero non è mai passato.

L’aula è palestra di convivenza (l’unica rimasta) per i più piccoli

Lo ricordiamo tutte l’episodio di Piccole donne: Amy punita davanti a tutta la classe per non so che storia di limoncini, e mamma March che decide di farla studiare a casa, senza castighi e umiliazioni. Beata Amy, pensavamo noi bambine alle prese con maestre antipatiche e compagni bulletti. Che sollievo imparare restando in cameretta e risparmiarsi tante noie, a cominciare dalla sveglia alle sette. La pandemia, con la chiusura delle scuole, ci ha costretto a vedere le cose dal punto di vista di una mamma di oggi, e sono molto meno rosee. Alle consuete incombenze domestiche e all’eventuale smart-working si sono aggiunti compiti da preside-bidella, con l’incarico di sorvegliare puntualità del figlio-alunno, efficienza della connessione internet, andamento delle lezioni e orario della merenda. E dopo tre mesi perfino i ragazzini più ostili ad aula e lavagna sognano una ricreazione o un’uscita didattica con i compagni. Hanno tutte le ragioni. La scuola è rimasta l’unica palestra di convivenza reale per i futuri cittadini, che non potranno sperimentarla da grandi sul posto di lavoro, sempre più precario e parcellizzato, né nella volatile e puntiforme socialità del tempo libero (feste, spettacoli, vacanze). E per quanto carente possa essere a volte la didattica e rari gli insegnanti stile Attimo fuggente o Dangerous Minds, a scuola si impara a confrontarsi con l’altro in un luogo sicuro, che anche nelle condizioni più disagiate mantiene la nobiltà di una grande conquista, l’istruzione pubblica.

Lo home-schooling va bene per quelli come i genitori di Louisa Alcott, membri di una setta trascendentalista che diffidava dell’insegnamento laico e del contatto con i figli del volgo profano, e oggi sarebbe sicuramente no-vax (per inciso, Jo, la più intelligente delle Piccole donne, da adulta fonda una scuola. Dove si mescolano ragazzi ricchi e poveri. E ci va pure la figlia di Amy).

Calcio & Covid-19, le regole “segrete”

Al 99% il 13 giugno ricomincia la Serie A e tra gli addetti ai lavori circola già il nuovo e segreto protocollo delle partite in tempi di Covid-19. Noi siamo riusciti ad averne una copia: queste le principali novità.

Mascotte. I giocatori non entreranno più in campo temendo per mano un bambino, ma Burioni.

Scelta di campo. L’arbitro non potrà più maneggiare monetine. Per il testa o croce dovrà munirsi di Pos, i capitani di carta di credito e chi pagherà di più sceglierà palla o campo.

Scambio di gagliardetti. Sarà proibito. Un corriere Sda presente a bordo campo li prenderà in carico e li recapiterà alle sedi dei club entro e non oltre 5 giorni lavorativi.

Rimesse laterali. Non sarà più permesso asciugare il pallone infilandolo sotto la maglia; uno steward provvederà a sterilizzarlo e a riconsegnarlo al giocatore incellophanato.

Portieri. Non potranno più sputarsi sui guanti, a meno di non calzare sopra di essi guanti usa e getta su cui scaracchiare prima di ogni tiro. Una confezione da 20 pezzi sarà a disposizione accanto ai due pali al prezzo di 0,50 euro a guanto più Iva.

Distanziamento. I giocatori dovranno osservare una distanza minima di 1,5 metri dall’avversario. Chiellini ha facoltà di cambiare sport.

Esultanza. Scatta il divieto assoluto di baci, abbracci e capriole dopo un gol. Ai giocatori è però concesso di scambiarsi like, emoticon e cuoricini via WhatsApp tornando verso metà campo.

Cambi. Al momento della sostituzione, giocatore e allenatore non potranno più affrontarsi vis-à-vis, ma raggiungeranno una postazione munita di doppio pc per potersi insultare via mail.

Punizioni. In barriera lo spazio tra un giocatore e l’altro dovrà essere di un metro. Protestano i portieri, ma c’è grande attesa per il primo gol su punizione di CR7 dopo due anni.

Penalty. In caso di conclusione ai calci di rigore, i giocatori non potranno più abbracciarsi a catena a centrocampo, ma dovranno abbracciarsi da soli.

Simulazioni. Se Chiesa o Dybala cadranno in area, l’arbitro fischierà rigore a patto che la distanza dal difensore sia stata di almeno un metro. Se il Var mostrerà che un contatto anche minimo c’è stato, verranno espulsi.

Var. L’arbitro potrà andare a rivedere un’azione solo indossando una mascherina che copra anche gli occhi.

Scambio di maglie. È consentito a patto che a bordo campo sia attivo un lavasecco a gettone che igienizzi gli indumenti mentre i giocatori si bevono un tè caldo con Caressa.

Spogliatoi. Potranno accedervi non più di tre dirigenti o ex dirigenti per squadra. A Moggi saranno consentite solo visite ai congiunti, quindi arbitro, guardalinee e addetti al Var.

Telecronisti. Lavoreranno in smartworking, ma Bergomi potrà andare a trovare Caressa nel suo giorno libero. Piccinini non potrà più urlare “Mucchio selvaggio!” ma solo “Assembramento rarefatto!”.

Tiki Taka & C. A tutte le trasmissioni sarà chiesto di rinnovare totalmente il loro parco opinionisti; leccare infatti non sarà più consentito.

Basta grandi opere: la lotta ecologica riparta dal basso

Si moltiplicano in questi giorni gli studi sulle correlazioni assai probabili tra la pandemia in atto e i disastri legati alla crisi ambientale: l’incremento di entropia in atmosfera, dovuto agli inquinamenti prodotti dalle attività umane, comporta ulteriori accelerazioni dei fenomeni degenerativi in atto. Si richiamano gli scenari previsti, da almeno un quarantennio, da filoni di ricercatori, come gli studiosi allora riuniti attorno a Giulio Maccaccaro, il fondatore di “Medicina democratica” , sulle interazioni tra gravi crisi epidemiologiche e grandi alterazioni inquinanti: smog che ammorba per mesi interi grandi regioni, cementificazione con consumo abnorme di suolo e distruzione degli ecosistemi urbani, deforestazioni con perdita di ecosistemi sempre più grandi; impedimenti e costrizioni alla zoocenosi, perdita di biodiversità, fino alla “morte dell’organismo territorio”, che tende a perdere la sua parte biotica.

Alla fine della prima Repubblica, una trentina d’anni fa, con la crisi del modello economico urbano-industriale italiano degli anni sessanta e settanta, il buon senso – prima che la politica di piano – reclamava drastiche riconversioni ecologiche, basate innanzitutto sulle regole ambientali dei territori. Viceversa si è puntato ancora su programmi ad alto impatto ambientale e paesaggistico: se l’industria implodeva, si realizzavano nuove cascate di cemento per attrezzature, servizi, residenze. Si rilanciava – invece di bloccare e riqualificare – la “città diffusa”.

Con la denuncia di “una carenza di infrastrutture che blocca il Paese” (stessi slogan dell’immediato dopoguerra), ecco i nuovi progetti, con liste enormi di opere, fuori da ogni pianificazione: quegli anni venivano allegramente marcati dagli ormai inutili “Piani Autostrade” e per altri tipi di megastrutture; e finalmente l’ Alta Velocità ferroviaria. Che sanciva tra l’altro la politica delle “Grandi Opere”, con la Legge Obiettivo del 2001 del governo di destra guidato da Silvio Berlusconi. Di recente definita “criminogena”: l’apoteosi della degenerazione finanziario-speculativa di economia, politica e informazione.

Tale programma straordinario di grandi lavori ha costituito in realtà una formidabile fonte di spesa e sprechi, diventando un enorme strumento di trasferimento di risorse pubbliche al capitale privato. Il regime di “emergenza e straordinarietà” affidava di fatto le scelte di fase esecutiva al blocco “concessionario – contraente generale (imprese)” che coglieva che era possibile convogliare presto sul progetto grandi flussi di risorse. Si trascuravano sovente istanze tecniche fondamentali: molti progetti non avevano nemmeno fattibilità certa, la valutazione ambientale era un problema e si taroccava o si ometteva, qualsiasi razionalità economico-programmatica era ridicolizzata. Ma, allorché si doveva effettivamente realizzare l’opera, i problemi tecnici occultati riemergevano e si trasformavano in blocchi, spesso stop definitivi. I flussi di denaro ingenti si interrompevano, le imprese spesso fallivano. Il meccanismo era tale per cui le finanze private venivano sempre garantite prima delle condizioni di crisi; dal pubblico che pagava per tutto questo.

Molte inchieste giudiziarie hanno illustrato questo sistema. Che ha disseminando sul territorio nazionale centinaia di cantieri sospesi o addirittura mai avviati, con ulteriore distruzione di ecosistemi, degrado ambientale e consumo di suolo. Appare chiaro che il meccanismo si inceppava per la ferma intenzione di massimizzare i flussi finanziari, a scapito della risoluzione reale dei problemi; invece si attribuiscono blocchi e fallimenti “agli ambientalisti, ai comitati, all’odiosa burocrazia”.

Oggi l’urgenza è rappresentata dalla chiusura definitiva di tutto questo; per una svolta ambientale autentica. Reali inversioni di tendenza possono scaturire da un radicale cambio di registro decisionale: sostegni forti agli accordi globali di contenimento dei grandi inquinamenti, e riconversione tecnologica ed ecologica di filiere e produzioni. Basate sulle caratteristiche ambientali e culturali dei contesti del Belpaese, con applicazioni dei piani paesaggistici non solo in funzione di tutela, ma per la riqualificazione dei territori; e quindi sugli “statuti dei luoghi” e sulle “regole ambientali” locali. Si sono già avviati anche nel nostro Paese migliaia di progetti di riqualificazione paesistica ed economia verde che muovono dal “basso”, dagli abitanti e produttori locali organizzati. Scienza e ricerca guardano molto a tali innovazioni: per esempio, la “Società dei Territorialisti”, urbanisti e studiosi assai attenti ai valori dei luoghi, organizza periodicamente incontri in cui si offre spazio, voce e supporto scientifico ad azioni di questo tipo; che si battono per bloccare il degrado e formulare visioni di sostenibilità sociale e ambientale dei contesti, investendo e rifertilizzando in tale logica anche la politica istituzionale.

Macché prestiti, ci fanno un favore

Breve guida su un piccolo caso di scuola nel vasto mondo del dibattito pubblico degli editori più o meno impuri e/o comunque legati tra loro da rapporti personali e d’affari. Cose da tenere a mente a questo fine: 1) Fca Italia, cioè Fiat-Chrysler, ha chiesto all’assicurazione pubblica Sace – come previsto dal “decreto liquidità”, previa però autorizzazione del Tesoro – la garanzia statale sull’80% di un credito da 6,3 miliardi di euro da usare per le sue attività italiane: questo le permetterà di pagare meno interessi; 2) Fca ha sede legale in Olanda e fiscale a Londra; 3) Exor – che controlla Fca insieme a 16 giornali (Repubblica, Stampa, etc) e cosette tipo la Ferrari – ha sede in Olanda, come l’accomandita Giovanni Agnelli che controlla Exor. Tradotto: gente che – in modo del tutto legale – si sceglie assetto giuridico e fiscale su un menù gentilmente messo a disposizione da Stati compiacenti, ora chiede garanzie a un Paese a cui sottrae base imponibile.

Se qualcuno però fa notare che, in cambio, potrebbe riportare la sede fiscale in Italia o assumersi qualche impegno (tipo pubblicare i suoi bilanci divisi per nazione per sapere cosa fa e dove), apriti cielo: giornali che hanno raccontato chi prende il Reddito di cittadinanza come un fannullone succhiasangue – “non si vive di soli sussidi”, tuonava ancora ieri il direttore de La Stampa e, s’intende, i sussidi dei poveri – o commentatori che trovano scontato che, se prendi qualche miliardo dall’Ue, tu debba dare in pegno i primogeniti, oggi vergano elegie “all’operazione di sistema”. Repubblica, del tutto casualmente proprietà di Exor, ci spiega che questo prestito è “una formula innovativa che aiuterà migliaia di imprese”. Fca, infatti, userà i soldi per pagare stipendi e fornitori, che – par di capire – altrimenti non avrebbe pagato e quei soldi daranno “una spinta forte all’economia del Paese”. Capito? Manco gli servono, lo fanno per noi e questo “mette in secondo piano le polemiche di queste ore” sulle sedi (e le tasse) all’estero. D’altronde, così fan tutte: “La scelta di spostare la sede fuori dall’Italia è stata ed è comune a molte multinazionali italiane, compresi gioielli come Ferrero e Luxottica”. Su La Stampa, stessa Exor, ci spiegano invece che questa è una “misura a sostegno di tutto il settore dell’auto” e poi, anche loro, che lo fanno tutti: “In Francia 5 miliardi per Renault” (che, per amore di cronaca, ha sede in Francia e lo Stato come azionista) e “Berlino puntella il settore aereo” dando “9 miliardi” a Lufthansa (per carità di patria non ricorderemo cos’hanno scritto su Alitalia).

Ma non di solo conflitto d’interesse esplicito vivono i giornali: ci sono anche quei dettagli che deliziano gli intenditore. Sul Corriere di Cairo, già della Sera, in un pezzo sulla vicenda improvvisamente si spiega che il prestito è “coerente con la missione di Intesa Sanpaolo nel supportare l’economia del Paese”. Parliamo della banca che fu azionista di Rcs e oggi è il suo principale creditore. L’ad, Carlo Messina, ad aprile si rivolse così agli imprenditori con capitali all’estero: “È l’ora di far tornare i loro soldi nelle aziende, ricapitalizzarle per contribuire ad accelerare il recupero del Paese”. Di più: quei soldi “devono servire solo per pagare affitti, fornitori e preservare l’occupazione (…) Imprenditori con notevole ricchezza accumulata dovrebbero lasciare le garanzie di Stato ai settori deboli”. Messina, che come Bruto è un uomo d’onore, sicuramente ricorderà queste sue parole a John Elkann prima di staccargli l’assegno.

Ora brevettano pure la natura: la salute oggi è solo business

Erano altri tempi, un altro mondo: nel 1954, Jonas Salk, il ricercatore americano che aveva scoperto il vaccino contro la poliomielite, annunciò che rinunciava al brevetto in nome della salvezza dell’umanità. “Si può forse brevettare il sole?”, aveva risposto ai giornalisti sorpresi che rinunciasse a una tale fortuna. “Penso che la conoscenza biologica fornisca analogie utili per comprendere la natura umana. Le persone pensano alla biologia in termini di questioni pratiche come i farmaci, ma il suo contributo alla conoscenza dei sistemi viventi e di noi stessi sarà altrettanto importante in futuro. È molto più importante cooperare e collaborare. Siamo coautori, insieme alla natura, del nostro destino”, aveva spiegato in seguito. Di fronte alle parole di Jonas Salk, le dichiarazioni del direttore di Sanofi, Paul Hudson, che su Bloomberg ha annunciato che, in caso di scoperta del vaccino contro il Covid-19, avrebbe riservato le prime dosi agli Stati Uniti, illustrano l’abisso che ci separa dai valori della medicina e dell’università del passato. Non è più questione di collaborazione, di conoscenza condivisa, né di bene comune.

Da decenni ormai la salute è diventata un business. Le Big Pharma, le grandi multinazionali del farmaco che dominano il settore, non si fanno più scrupoli a brevettare ciò che madre natura ha creato. Brevetterebbero pure il sole se fosse consentito. Con il Covid-19 questi sviluppi assumono una dimensione ancora più agghiacciante. A fine aprile, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una dichiarazione per chiedere la massima cooperazione internazionale nella lotta contro la pandemia, inclusa l’universalità del vaccino. Ma la Cina e gli Stati Uniti hanno deciso che le cose sarebbero andate diversamente: vaccini, test, farmaci, e tutto ciò che può contribuire a combattere la pandemia, sono finiti al centro di una guerra commerciale, di una lotta tra potenze. Sin dall’inizio della pandemia, Donald Trump, presidente dell’America First, aveva dichiarato che la scoperta del vaccino sarebbe stato un successo esclusivamente americano. Anche Wall Street ne aveva gioito: per il mondo della finanza, la salute, come l’industria alimentare, è il settore rifugio in questi tempi incerti per guadagnare miliardi di dollari. In questa lotta per la supremazia, il presidente americano è pronto a tutto. A inizio febbraio, la stampa tedesca aveva rivelato che il governo degli Stati Uniti aveva tentato di mettere le mani su un piccolo laboratorio tedesco per ottenere in esclusiva i risultati delle sue ricerche promettenti sul Covid-19. “La Germania non è in vendita”, aveva risposto seccamente il governo tedesco. Di fronte alle proteste, il governo Usa aveva dunque fatto marcia indietro, ma non ha rinunciato al suo obiettivo e anzi ha continuato a offrire miliardi di dollari di finanziamenti per attirare i più grandi gruppi farmaceutici non americani. Molti hanno ceduto, consapevoli che per loro ci sono in prospettiva miliardi di profitti: se dovessero scoprire il vaccino, i laboratori saranno infatti liberi di stabilirne il prezzo, dal momento che i prezzi dei farmaci negli Stati Uniti non sono sottoposti ad alcuna regolamentazione. È in questo contesto che Sanofi si è associato con il concorrente GlaxoSmithKline in un progetto finanziato dagli Stati Uniti per sviluppare un vaccino anti-Covid e, in caso di riuscita, produrne 600 milioni di dosi all’anno, almeno all’inizio. “Il governo americano ha il diritto di ricevere per primo i vaccini perché ha investito e preso un rischio”, ha spiegato Paul Hudson a Bloomberg. Le reazioni sono state numerose. “Nessuno deve essere lasciato indietro a causa di dove vive o di quanto guadagna”, ha dichiarato il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. In Francia, l’Osservatorio per la trasparenza delle politiche sul farmaco ha denunciato: “Da parte di Sanofi si tratta, né più né meno, di un ricatto per ottenere maggiori sovvenzioni pubbliche”. “Il vaccino contro il Covid-19 deve essere un bene mondiale e sottrarsi alle leggi del mercato”, ha dichiarato il presidente Macron. Mentre, da parte sua, il premier Edouard Philippe ha assicurato di aver parlato con Sanofi e aver ottenuto “tutte le garanzie che il vaccino sarà distribuito in Francia”.

Questa polemica mostra ancora una volta il dilettantismo e le ambiguità del governo francese. Come può fingere di aver appena scoperto come stanno le cose? A differenza della Germania e della Gran Bretagna, che hanno accettato di fornire fondi significativi ai loro gruppi farmaceutici per aiutarli a finanziare le ricerche per lo sviluppo di vaccini contro il Covid-19, la Francia ha scelto di non fare nulla. I progetti di ricerca sul vaccino sono stati esclusi dai primi appelli pubblici “flash Covid-19” a presentare progetti per contrastare l’epidemia. Come si può credere che il governo non fosse al corrente che Sanofi stesse partecipando al programma americano sui vaccini? L’intervento provocatorio del ceo di Sanofi lo ha costretto a reagire. Ma se Hudson non avesse fatto queste dichiarazioni pubbliche, il governo si sarebbe fatto sentire? Di fronte alle tante reazioni, Sanofi si è difeso spiegando che aveva scelto deliberatamente la via della provocazione per scuotere l’Europa. Mentre gli Stati Uniti e la Cina si sono messe in assetto da combattimento, l’Unione europea fa fatica a avviare programmi di ricerca comuni per combattere il Covid-19. Il 7 maggio, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno partecipato a un grande Telethon per finanziare la ricerca contro il Covid-19. Sono stati raccolti circa 7,5 miliardi di euro ma, a questo stadio, non è stato ancora lanciato alcun progetto concreto. Dopo le dichiarazioni di Hudson, Sanofi ha fatto sapere di aver avviato “discussioni molto costruttive con le istanze dell’Unione europea e con, tra gli altri, i governi francese e tedesco” per portare avanti delle ricerche in Europa. Significa che Sanofi avrà il via libera per finanziare la sua ricerca con fondi pubblici?

Da anni i successivi governi in Francia hanno deciso di lasciare al settore privato tutti i progetti in materia di salute, abbandonando ogni ambizione per la ricerca pubblica. Anno dopo anno, gli investimenti per la ricerca si sono fatti talmente esigui che i laboratori pubblici sono stati costretti a mendicare sussidi e finanziamenti da gruppi privati. Sanofi, come altre case farmaceutiche, finanzia le ricerche dell’Istituto nazionale per la salute e la ricerca (Inserm) e dei numerosi Centri ospedalieri universitari (Chu). Ma queste ricerche vengono realizzate su ambiti definiti dai gruppi privati che, naturalmente, conservano la proprietà intellettuale e traggono tutti i vantaggi commerciali dei lavori svolti dal pubblico. E la cosa appare a tutti assolutamente normale. Nell’alta amministrazione da molto tempo si pensa che il pubblico non valga nulla, che nel pubblico non si hanno idee, successi, ambizioni, che il pubblico possa dunque essere spogliato di tutto il suo lavoro, senza che ciò sconvolga nessuno a livello del ministero della Ricerca, dell’Università e della Salute. Delle scoperte finanziate con il Telethon, vale a dire con i doni dei francesi, si sono così ritrovate nelle mani di privati e sono state acquistate a centinaia di milioni, e anche di miliardi, senza che la ricerca pubblica sia associata né direttamente né indirettamente ai benefici commerciali. Questa situazione è diventata una regola generale accettata a tutti i livelli dello Stato. Da anni lo Stato distribuisce denaro pubblico, concede aiuti e sgravi fiscali senza chiedere alcuna contropartita. E questo vale ancora di più per le aziende come Sanofi, fiori all’occhiello della nazione, che devono essere “in condizione di sostenere la concorrenza mondiale”. Terzo gruppo farmaceutico al mondo, leader mondiale nei vaccini, Sanofi, nato dalla fusione di gruppi pubblici, è il prodotto della ricerca pubblica. Deve il suo sviluppo anche alla previdenza sociale e all’Agenzia del farmaco, che gli assicurano ogni anno gran parte del suo fatturato. Si aggiungono inoltre diverse sovvenzioni. “Sanofi è una società francese la cui attività di ricerca è finanziata dal Credito d’imposta per la ricerca (Cir) – un credito annuo di 150 milioni di euro – e dal Credito d’imposta sull’occupazione per la competitività (Cice) – 13 milioni nel 2013, passato a 24 milioni nel 2018”, ha ricordato il partito Socialista. Ma queste sovvenzioni del governo francese, diversamente dai finanziamenti del governo americano, non sono considerate da Sanofi una presa di rischio abbastanza importante da parte della Francia e non danno alcun diritto sul vaccino. Pur avendo ricevuto 1,5 miliardi di euro di sgravi fiscali in dieci anni, “Sanofi, nello stesso arco di tempo, ha tagliato più di 2.800 posti per la ricerca e abbandonato interi settori, come l’Alzheimer. Il laboratorio non innova più”, accusa l’Osservatorio per la trasparenza delle politiche sul farmaco. Solo ora, con la pandemia di Covid-19 e il blocco della produzione dei farmaci in Cina, il governo francese si è reso conto che l’80% dei principi attivi presenti nei farmaci erano fabbricati in Cina e che non vi era più alcuna garanzia nelle forniture.

Rincorrendo il massimo profitto, Sanofi aveva deciso anni fa di delocalizzare in India o in Cina le sue produzioni di farmaci diventati di dominio pubblico o poco redditizi, senza alcuna reazione a livello statale. Il rischio è che, una volta superata la polemica, e perché Sanofi resti un’azienda competitiva nel mondo, si riprendano le vecchie abitudini. Eppure la crisi del Covid-19 ci sta insegnando tutt’altro: che la salute non può essere un prodotto commerciale, ma è un bene comune. “Bloccheremo il Covid-19 solo se siamo solidali. Stati, produttori e settore privato devono agire insieme perché tutti traggano vantaggio dai frutti della scienza e della ricerca”, ha detto il dottor Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, avvertendo che il virus molto probabilmente resterà una minaccia globale ancora a lungo, soprattutto se dei paesi o delle persone resteranno escluse dal vaccino o dai farmaci perché non guadagnano abbastanza per permetterseli.

Il vaiolo è stato sradicato in tutto il mondo grazie a vaste campagne di vaccinazione gratuite. Per lo stesso motivo, la poliomielite è stata quasi sradicata. Il morbillo invece, il cui vaccino è ancora sotto brevetto privato, continua a fare danni.

(traduzione Luana De Micco)

Vaccini, egoismo e guerra tra gli Stati

Sembrava di essere al festival dell’Eurovisione: per tre ore Ursula Von der Leyen ha sorriso davanti alla telecamera ringraziando capi di Stato, sovrani, ambasciatori, che sfilavano in video annunciando il loro contributo alla ricerca del vaccino Covid 19. Il 4 maggio scorso è stata la giornata di Ursula. La Commissione europea ha ricevuto 7,4 miliardi di euro da 60 paesi (l’Italia ha promesso 140 milioni), presenti tutti gli europei, molti arabi e persino la Cina. Grande assente l’America di Trump. Poi, alla fine della festa la ciliegina sulla torta. La rockstar Madonna annuncia di offrire 1 milione di dollari in questa corsa contro il tempo. “Il virus ci ha reso tutti uguali, non importa quanto sei ricco, famoso o simpatico, se la barca affonda, affondiamo tutti”, aveva detto Madonna pochi giorni prima in un video postato su Instagram mentre prendeva un bagno in una vasca di latte e petali di rose. La Presidente della Commissione europea non poteva sperare di meglio per chiudere la sua crociata di buoni propositi: “Il mondo è unito contro il coronavirus, vincerà”, ha concluso Von der Leyen.

Che il mondo intero cerchi per la prima volta lo stesso vaccino, in tempi record, è assodato. Ma se resterà unito nel distribuire il vaccino, è molto meno sicuro, perchè lo Stato che avrà per primo un brevetto sul vaccino covid sarà come il vincitore di una guerra, avrà un peso geopolitico sul resto del mondo e cercherà di distribuire la pozione magica prima ai suoi cittadini-elettori.

 

Solo pochi possono produrre cosi tanto

Fabbricare un vaccino è costoso, molto rischioso perchè il margine di errore è altissimo – intorno al 60% – e finora poco redditizio. Alle grosse industrie farmaceutiche conviene produrre medicinali che servono nel tempo, per malattie croniche o antivirali. Per invertire questa tendenza occorrono colossali finanziamenti pubblici. Il Senato americano ha già approvato, lo scorso 26 marzo, un piano per la ricerca di medicinali covid da 12,4 miliardi di dollari.

Secondo l’ultimo bollettino dell’Oms dell’11 maggio, delle 110 società che stanno cercando il vaccino covid, solo 8 sono passate alla fase di test clinici, sull’uomo. Di queste quattro sono in Cina, due negli Stati Uniti e due in Europa. Da settimane volano i finanziamenti pubblici per spingere le società che hanno i mezzi a mettere l’acceleratore. Investigate-Europe ha provato a contare la montagna di fondi inviati a società private o organismi pubblici. Ma la maggior parte sono tenuti segreti. Impossibile tracciarli. Sappiamo che solo quattro multinazionali saranno poi capaci di produrre le gigantesche dosi necessarie (si parla di 20 miliardi di dosi): la britannica Gsk (GlaxoSmithKline), la francese Sanofi e le americane Merck e Pfizer. “Se si vuole assicurare che i vaccini siano disponibili al prezzo più basso, i governi devono finanziare tutto lo sviluppo del vaccino, altrimenti il settore privato non avrà incentivi a produrli”, dice Reinhilde Veugelers, economista all’Università di Lovanio, autrice per il Think tank Breugel di una proposta su come assicurare che il vaccino covid resti in mani pubbliche. “Ci vuole un hub che coordini l’accesso ai vaccini. L’Ue può farlo. Dovremmo essere sicuri che i progetti finanziati siano poi prodotti con delle licenze gratuite per tutti. Noi non diremo Europe first”.

 

Il nazionalismo del vaccino

Invece i governi, almeno quelli più avanti nella ricerca, hanno già alzato muri. Il ministro della salute britannico, Matt Hancock, il 23 aprile ha dichiarato che “per qualunque vaccino prodotto nel Regno Unito, i cittadini britannici devono essere i primi della fila”, facendo riferimento alla sperimentazione sugli uomini cominciata lo stesso giorno dallo Jenner Institute per l’Università di Oxford, a cui partecipa la nostra azienda Irbm di Pomezia. Il brevetto poi apparterrà solo alla società britannica che potrà decidere cosa farne.

Ancora più aggressivi gli Stati Uniti, con la loro ormai consueta America First. Il vice Presidente Mike Pense ha illustrato a inizio maggio il programma americano anticovid con l’auspicio “di sviluppare un vaccino per il popolo degli Stati Uniti”. Il programma si chiama Warp Speed e prevede di “riversare risorse essenzialmente illimitate in studi comparativi senza precedenti su animali, prove umane accelerate e produzione”, secondo una fonte citata dal magazine Science. E “di avere 300 milioni di dosi pronte entro il gennaio 2021 di un prodotto collaudato, riservato agli americani”. Non si parla solo di ricerca, ma anche e soprattutto di capacità di produzione.

È la ragione che ha spinto il colosso francese Sanofi a stringere un’alleanza, già da febbraio, con l’autorità pubblica americana Barda e ad annunciare lo scorso 13 maggio che Sanofi produrrà i vaccini prima per gli americani. “Tutti i vaccini saranno prodotti negli Stati Uniti”, ha detto a Investigate-Europe il Ceo di Sanofi, Paul Hudson. Il colosso francese con sede a Parigi ha fatto saltare dalla sedia il presidente francese Emmanuel Macron che offrendo 1,5 miliardi di euro alla raccolta europea del 4 maggio, aveva dichiarato con un grande sorriso: “Il vaccino sarà un bene pubblico mondiale”. Non la pensa così chi deve investire miliardi in macchinari, esperti, tecnologie e forse scoprire dopo qualche mese che il vaccino contro il coronavirus, appena messo in produzione, non è tanto efficace: “Il governo degli Stati Uniti ha il diritto al più grande preordine perché ha investito nell’assunzione del rischio”, ha concluso Hudson.

 

L’Unione prova a entrare nella gara

Anche la Commissione europea si è gettata nella mischia cercando di piantare le sue bandierine. Il 16 marzo scorso, nell’ansia di mostrare che agiva, la Commissione ha promesso 80 milioni di euro a una sola società privata, la tedesca Curevac, il giorno dopo la rivelazione un giornale tedesco annunciva l’offerta da un miliardo di dollari di Trump per acquistare da Curevac l’esclusività sul vaccino Covid. Notizia poi smentita dalla stessa Curevac. Investigate-Europe ha ricostruito la storia, scoprendo che il dono è in effetti un prestito agevolato della Bei (Banca europei degli investimenti), offerto alla società con sede a Tubingen e, soprattutto, senza condizioni sull’uso del brevetto futuro. Lo stesso per i 5,7 milioni di euro offerti dal programma europeo Horizon2020 a due centri, il Karolinska University Hospital di Stoccolma e un consorzio gestito dall’università di Copenaghen. Ancora una volta i soldi pubblici per la ricerca vengono concessi senza condizioni, in sostanza i gruppi farmaceutici possono godere dei fondi e poi chiedere altri soldi per il pagamento dei vaccini. E spesso il brevetto resta anche segreto. “L’Europa deve assicurarsi che i consumatori non paghino due volte, sotto forma di investimenti per la ricerca e poi ancora per acquistare il vaccino”, spiega Ancel la Santos, dell’Ufficio per la protezione dei consumatori a Bruxelles (Beuc). In realtà il contribuente rischia di pagare addirittura tre volte: per la ricerca, per la produzione del vaccino e poi per il suo consumo.

Un modo per limitare i costi potrebbe essere imporre delle “licenze obbligatorie”, uno strumento previsto dagli accordi commerciali internazionali: in alcuni casi, le autorità nazionali possono autorizzare società o persone diverse dal proprietario del brevetto a utilizzarlo senza il consenso del proprietario. “La licenza obbligatoria è più uno spauracchio che uno strumento reale. Ha la funzione di una minaccia”, spiega l’avvocato Ansgar Ohly, professore di giurisprudenza all’Lmu di Monaco.

A chiudere il quadro dei maggiori player c’è anche la Cina che ha cominciato a studiare il coronavirus con due mesi d’anticipo e quattro sue società stanno già portando avanti test sugli uomini. Gli Usa accusano la Cina di voler usare il vaccino come arma geopolitica, ma secondo il portavoce dell’ambasciata cinese a Bruxelles, le critiche sono infondate: “Abbiamo condivisola sequenza del genoma del virus in tempo da record, la Cina è pronta a lavorare con il resto del mondo accelerando lo sviluppo e la produzione di vaccini e altri prodotti medici per garantire la loro equa distribuzione”.

 

Oms in crisi, sale il Cepi e Bill domina

In questo caos e anarchia sul prossimo vaccino covid dovrebbe essere l’Organizzazione mondiale della salute (Oms) a gestire il traffico e a imporre regole del gioco trasparenti e universali ai 194 paesi che ne fanno parte. Ma il 14 aprile scorso l’agenzia Onu ha ricevuto un pugno nello stomaco con il ritiro degli Stati Uniti, in aperto contrasto su come l’Oms abbia gestito la pandemia e forse coperto i silenzi cinesi sul reale impatto del coronavirus. Un “crimine contro l’umanità”, ha giudicato questo gesto di Trump il caporedattore della rivista The Lancet, Richard Horton. Ma ormai è un fatto: l’Oms è in profonda crisi, prova ne sia che il programma per la ricerca del vaccino covid, Act Accelerator, sia già moribondo per la mancata adesione di Stati Uniti, Cina, Russia e India. Uscendo di scena gli americani, con il loro generoso budget di mezzo miliardo di dollari all’anno, il primo finanziatore dell’Oms è ormai Bill Gates, il patron di Microsoft, che con la sua Bill and Melinda Gates Foundation, alimenta con 250 milioni all’anno l’agenzia Onu, influenzando campagne e investimenti su medicinali strategici.

 

Gates è come Blackrock nella finanza

Ha fondato nel 2000 Gavi (The Global Alliance for Vaccines and Immunisation), sostiene molti governi per campagne di prevenzione, per esempio contro la malaria, è tra i sostenitori della nuova emergente agenzia Cepi, che gestirà i fondi raccolti dalla Commissione Ue. Ma al tempo stesso Gates è anche un importante investitore che compra azioni delle maggiori compagnie del big-pharma, quelle che tra l’altro saranno chiamate a fabbricare le dosi di vaccino covid. Nel 2017 il Trust che finanzia la Fondazione ha investito 323 milioni di dollari nel settore farmaceutico. Un palese conflitto d’interessi che nè l’America di Trump, nè l’Europa di Macron e Merkel, riescono ad arginare.

“Il sindacato? Senza ruoli ora è una cosa invisibile”

“Lei mi sta chiedendo perché anche il sindacato è divenuto invisibile?” Cinquant’anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori: la più formidabile spinta alla tutela della dignità della persona, al rispetto della sua identità e dei suoi diritti. Cinquant’anni dopo Sergio Cofferati, il leader sindacale al quale è intestata la più imponente manifestazione di massa che l’Italia ricordi, i tre milioni in piazza contro l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, risponde quasi stupendosi della domanda.

“Ho l’età e anche la memoria per mettere in fila ciò che abbiamo sbagliato. Non abbiamo creduto abbastanza a dare reputazione al sindacato. La legge sulla rappresentanza avrebbe dovuto imporre a chiunque parlasse a nome dei lavoratori di provarlo: tu chi sei, chi rappresenti, in che modo hai raccolto le tessere. Esisti per davvero o è una rappresentazione scenica?”

Avete raccolto 5,5 milioni di firme per ripulire il sindacato dalle presenze farlocche, gialle. Dai burocrati di corridoio. E poi quelle firme le avete buttate nel cesso.

Le abbiamo inviate al Parlamento per chiedere una legge. Ma la politica non ci ha ascoltato.

Non vi ha ascoltato forse perché voi per primi non ci avete creduto.

Questo a me non lo può dire. Però concordo sul fatto che non abbiamo speso abbastanza tempo, energia, passione per portare al traguardo quella misura che liberava il sindacato dalla opacità.

Il guaio infatti è che i sindacalisti sono spesso scambiati (o scambiabili) per un ulteriore perno burocratico della macchina già infernale dello Stato. Un potere essenzialmente ostruttivo.

Ho l’età giusta per guardare alle responsabilità nostre. E le ho detto io per primo che la battaglia contro l’abolizione dell’articolo 18, quello del licenziamento senza giusta causa, doveva essere completata dalla legge sulla rappresentanza e poi dalla nostra capacità di intuire che il lavoro non si sarebbe svolto solo nelle fabbriche, sarebbe ben presto divenuta una occupazione solitaria.

Tanti sono i lavoratori divenuti invisibili. Invisibili loro e invisibile il sindacato.

Abbiamo provato a organizzarli, avevamo anche immaginato una sigla (Undil) che potesse rappresentare il lavoro individuale. Non c’è stata capacità di raccordo.

Gramsci avrebbe detto che vi è mancata la connessione sentimentale. Un sindacato dei lavoratori che non sa farsi riconoscere dai lavoratori è contro natura.

Non abbiamo saputo comunicare, non abbiamo saputo trovarli.

Forse non vi siete neanche impegnati a cercarli.

Il nostro difetto è di non aver combinato un granchè nella comunicazione.

Ai suoi tempi la Cgil come la Cisl e la Uil avevano fior di uffici stampa e riviste. I soldi li spendevate, ma forse vi interessava guadagnarvi l’intervista sui giornali, il peso mediatico nel tg. Condizionare la stampa non innovare, sfidare, denunciare.

Non siamo stati bravi a comunicare la nostra presenza, il bisogno di avere un sindacato anche nei tempi nuovi del lavoro. Nonostante ciò si può mai dire che senza il sindacato l’Italia avrebbe fatto così grandi conquiste nella tutela della dignità e dei diritti dei lavoratori?

Lo Statuto ha compiuto cinquant’anni.

L’unico Paese del mondo occidentale che ha voluto uno Statuto. Altri hanno leggi generiche, noi una Tavola dei diritti. E per arrivare a scriverlo e approvarlo servirono vent’anni. Dalla metà degli anni cinquanta il sindacato ha spinto, lottato. Di Vittorio è stato una guida formidabile.

Adesso che ce l’abbiamo non sappiamo che farcene.

Adesso dovremmo ricordare quanto bene ha fatto all’Italia. Grazie allo Statuto abbiamo accompagnato il primo ventennio, dal 1970 al 1990 di conquiste progressive. E sempre grazie allo Statuto siamo riusciti a sostenere la grande crisi degli anni novanta, lo spaventoso buco di bilancio con la tassazione sui conti correnti deciso dal governo di Giuliano Amato. Ricorda? Eravamo sull’orlo del precipizio.

Si era in piena emergenza.

E l’Italia è rimasta in piedi anche grazie alla responsabilità del sindacato, alla sua rispettabilità. I lavoratori hanno pagato con sacrifici economici quel tempo, la riduzione dei salari è stata generalizzata, ma senza mai vedersi ridotti i diritti. Le sembra poco?

Non sembra poco.

Ecco, la forza, la vitalità, l’energia del sindacato e anche la sua capacità di governare la crisi sono un patrimonio inestinguibile.

Oggi la crisi pialla lavoro e lavoratori. Li espelle fino a scioglierli in un magma indistinto.

La crisi fortissima del 2009 che rimuove dalle fabbriche chi lavora è figlia di una competizione sciagurata. Agli inizi del duemila abbiamo scelto, sbagliando, di darla vinta a quella corrente politica, capeggiata dal primo ministro britannico Tony Blair, che riteneva fosse il costo del lavoro e del prodotto a rendere vincente un’azienda. Abbiamo dimenticato la lezione di Jacques Delors: innovazione, ricerca, alta qualità sono le componenti che faranno la differenza. La conoscenza, la scuola sono le fucine della nostra ricchezza. Non l’abbiamo ascoltato, e così ci siamo trovati a mani nude contro il resto del mondo.

La crisi finanziaria prima, la pandemia oggi. Tutto si svuota.

La pandemia è come una pialla estranea ai nostri comportamenti, ai pensieri, alle logiche che ci hanno guidato. Ma se ne esce solo riprendendo il filo giusto. Ora sappiamo dove abbiamo sbagliato.

Uno Statuto del mondo nuovo per avere libertà e democrazia

All’alba del suo cinquantesimo anniversario, lo Statuto dei lavoratori e delle lavoratrici si presenta come uno strumento menomato, lacerato dalla bulimia di riforme che si sono succedute a partire dalla fine degli anni Novanta fino ai giorni nostri. Istituzionalizzazione delle rivendicazioni politiche e sociali che avevano caratterizzato il decennio precedere, la manomissione dello Statuto altro non è che la formalizzazione nero su bianco di quella controrivoluzione neoliberale iniziata a metà degli anni Settanta e sfociata in Italia nella gestione della crisi del bienio 1992-1993.

La realtà dei fatti mostra inequivocabilmente che tutti i presupposti teorici e ideologici a fondamento dello smantellamento dello Statuto hanno fallito. Abbassando diritti e salari non si crea più occupazione, la produttività né tantomeno la competitività dell’economia non aumentano lasciando libere le imprese di disporre a proprio piacimento della forza lavoro. La precarietà non è uno stato passeggero ma un circolo vizioso da cui non è possibile sottrarsi invocando ulteriori retoriche come quella del merito individuale.

Oggi in Italia, il 14% di lavoratori erano a rischio povertà già prima della crisi del covid-19, il part-time involontario, usato dalle imprese come forma di riduzione dell’orario di lavoro e dei salari, ha raggiunto il 67% dei lavoratori a tempo parziale, il doppio rispetto alla media europea, le discriminazioni di genere e di età costringono ampie fasce della popolazione a cedere a ricatti sempre più violenti. Inoltre, l’adozione di nuove tecnologie nei processi produttivi, raramente identificabili con l’automazione che espelle lavoratori, è una scelta unilaterale senza voce in capitolo per chi quella tecnologia la subisce, i lavoratori.

Pensare il futuro significa allora decidere in che modo restituire sicurezza sociale e libertà nel e dal lavoro, significa rimettere al centro obiettivi democratici. Lo Statuto del lavoro di domani, quello da costruire oggi, non può esimersi dall’adottare un principio di base: nessun lavoratore può essere povero, indipendentemente dall’età, dal genere, dalla nazionalità, dal tipo di contratto e regime orario. Da qui, l’esigenza di introdurre un salario minimo legale, come soglia sotto la quale nessun lavoratore può essere retribuito, complementare alla contrattazione collettiva nazionale, così come già avviene in moltri altri Paesi europei e non. Contrariamente a quanto viene spesso sostenuto, a minare l’efficacia della contrattazione nazionale non è il salario minimo, bensì la centralità della contrattazione di secondo livello che sbilancia e individualizza i rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro; la stessa che aumenta le diseguaglianze e la frantumazione tra lavoratori, anche della stessa azienda.

Allo stesso tempo metodi come l’appalto di manodopera e il lavoro a cottimo vanno aboliti dal nostro ordinamento. Basti pensare che già quando fu approvato lo Statuto erano già stati fortemente disciplinati o aboliti grazie a leggi come la 369/1960, conquiste di civiltà di lunghe lotte sindacali. Tuttavia, il tema delle esternalizzazioni, anche quando non rasenta il caporalato, ha bisogno di maggiori rigidità e una inderogabile responsabilità da parte del committente che deve rispondere insieme all’appaltatore delle condizioni di lavoro, delle retribuzioni e dei contributi sociali che spesso vengono evasi.

Bisognerà bandire tutte le forme di lavoro gratuito o di lavoro non riconosciuto come stage e tirocini, ad inizio durante e a fine carriera lavorativa. Altrettanto indispensabile è rendere operativi i principi costituzionali per cui ogni lavoratore ha diritto alle ferie, alla malattia, alla maternità: tutte cose che i datori di lavoro devono garantire a prescindere dal tipo di contratto.

Non ci può inoltre essere né libertà né democrazia senza conoscenza. Per questo, la conquista delle 150 ore di formazione svincolata dagli interessi e bisogni aziendali va rafforzata e resa obbligatoria, affinché la cultura e il sapere tornino ad essere elementi fondanti della nostra società. Strumenti senza i quali la democrazia economica e l’urgenza di introdurre meccanismi di controllo da parte dei lavoratori sulle scelte aziendali sarebbero impossibili. La conoscenza è uno strumento fondamentale per la democratizzazione dell’orgtanizzazione del lavoro, di cui sempre più fa parte l’uso di nuovi dispositivi tecnologici (app, software ecc). L’adozione delle nuove tecnologie non è mai imparziale rispetto ai processi di accumulazione e sfruttamento.

La nostra società non può più permettersi discriminazioni di alcun tipo, a partire da quelle di genere. Tra i molti strumenti necessari a tale scopo, una misura di civiltà è ad esempio l’introduzione per legge del congedo obbligatorio per entrambi i genitori per i primi tre mesi di vita del neonato.

Uno Statuto dei lavoratori e delle lavoratrici all’altezza delle sfide del futuro deve saper immaginare che un manager non può guadagnare più di tre volte quello che guadagna un operaio. Si dirà che è una pazzia! Che non è mai esistita una legge del genere. A chi contesta si dirà che è arrivato il momento per farla.

Tuttavia, un progetto di ricostruzione sociale e politica non può fare a meno delle grandi spinte che, nei secoli e decenni passati, hanno reso tali trasformazioni realizzabili. Sono le grandi mobilitazioni di massa, attorno alle quali il popolo dell’abisso si è unito e risollevato.

Il progresso sociale ha bisogno di stabilità e di sicurezza, così come democrazia e uguaglianza necessitano di rigidità per essere strumenti di libertà.