Prima Brodolini, poi Donat-Cattin: due facce per un solo riformismo

Due “padri”: Giacomo Brodolini, il socialista, e Carlo Donat-Cattin, il cattolico democratico. E due grandi “madri”: due delle “levatrici” ideali della politica e della società del Novecento, il socialismo riformista e la dottrina sociale della Chiesa.

Per li rami, l’identità essenziale dello Statuto dei Lavoratori – oltre che nelle lotte operaie dell’Autunno Caldo del 1969 – è tutta qui: racchiusa nell’impronta di due ministri del Lavoro e nelle loro idee fondative di un impegno e di una coerenza.

Brodolini, marchigiano e in gioventù antifascista nel Partito d’Azione, passò poi al Psi di Pietro Nenni e arrivò nel dicembre del 1968 alla guida del ministero del Lavoro, nel primo governo guidato dal dc Mariano Rumor, portandosi dietro l’esperienza di vicesegretario nazionale della Cgil. Dove, in accordo con Giuseppe Di Vittorio e attirandosi gli strali di Palmiro Togliatti, fu l’estensore del documento che condannava l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956.

Il suo esordio è tragico, ma nello stesso tempo pone le basi per l’avvio di un riforma che riguardava i diritti e la dignità del lavoro e che proprio da un grande socialista, Filippo Turati, era stata battezzata per la prima volta con quella definizione: “Statuto dei lavoratori”. Sono i “Fatti di Avola”: quando in Sicilia, il 2 dicembre 1968, due persone rimasero uccise dopo che la polizia aveva aperto il fuoco contro i manifestanti che chiedevano l’abolizione delle “gabbie salariali” in agricoltura. Il 24 giugno dell’anno seguente, Brodolini farà ancora in tempo a presentare il disegno di legge per il futuro Statuto, ma dovrà dimettersi all’inizio dell’estate per le sue gravi condizioni di salute: morirà di cancro l’11 luglio.

All’inizio di agosto, nel nuovo esecutivo ancora guidato da Rumor, il dicastero tocca a Donat-Cattin. Piemontese di origini savoiarde, giovane dirigente antifascista nel Comitato di liberazione di Ivrea (Torino), giornalista e poi sindacalista della Cisl negli anni della contrapposizione alla Cgil a “trazione comunista” ma anche delle battaglie sindacali contro la Fiat guidata dal “padrone” Vittorio Valletta. In quel momento, Donat-Cattin è il leader della corrente di Forze Nuove che incarna le posizioni della sinistra sociale della Dc e anche le innovazioni sindacali delle Acli. Sarà il ministro dell’Autunno Caldo, sino a meritarsi il titolo di “ministro dei lavoratori”, imporrà ad Agnelli e alla Confindustria il contratto dei metalmeccanici nel dicembre del 1969, nei giorni di Piazza Fontana e nelle stesse settimane in cui riuscirà a strappare al Senato il primo sì alla legge che, dal 1970, porterà per sempre la sua firma.

A unire quei due destini e quelle diverse ma convergenti aspirazioni riformiste, sarà il giuslavorista (e poi anche lui ministro del Lavoro) Gino Giugni, lo studioso di area socialista al quale Brodolini aveva affidato il compito di scrivere il testo. Il professore, a un certo punto, avrà dei dubbi. Soprattutto su quell’articolo 18 poi oggetto di tanti scontri, ma Donat-Cattin sembrò parlare anche a none di Brodolini e gli replicò: “In questo momento si può fare tutto”.

E appena due anni più tardi, nel discorso di inaugurazione della neonata Fondazione Brodolini presieduta proprio da Giugni, toccherà ancora a Donat-Cattin difendere quella battaglia: “Si è infatti iniziato a discutere e a mettere in forse le conquiste dei lavoratori, con richieste di restaurazione dei vecchi equilibri…”.

“Vogliamo tutto”: l’Autunno caldo che mutò l’Italia

La memoria dello “Statuto”, cinquant’anni dopo, non può avere un solo compleanno. Ma va scovata, invece, ripensando al titolo di un romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, e provando ad affondare nei ricordi di un intero biennio, quello tra il 1968 e il 1969, che ridisegnò il mondo, e un po’ anche l’Italia, a cominciare proprio dal lavoro.

Con quell’Autunno caldo: l’ossimoro climatico, coniato nel settembre 1969 dal leader socialista Francesco De Martino, destinato a indicare per sempre la più importante lotta sindacale e il punto più alto di uno “scontro di classe” che, pur senza raggiungere esiti rivoluzionari, preceduto e poi accompagnato dal ’68 studentesco, avrebbe visto cambiare il Paese sulla spinta di una modernizzazione irrefrenabile dei suoi assetti sociali, culturali e di costume.

Che cosa resta oggi di quei giorni? Niente, se si prende atto che i fatti di allora, le dinamiche, le persone, i protagonisti, i sindacati, i partiti, gli operai soprattutto, sono scomparsi: rimasti per sempre nel loro contenitore, il Novecento, assieme alle idee e alla realtà che volevano trasformare. Molto, invece, se la memoria non si fa tradire dalla nostalgia e serve per comprendere, ormai con il distacco della storia, un sommovimento epocale dell’Italia.

I numeri di quei mesi, riletti adesso, appaiono ciclopici. Tra i 5 e i 6 milioni di lavoratori pronti a lottare, scioperi per mezzo miliardo di ore di astensione dal lavoro, 46 contratti di categoria da rinnovare, la scoperta della cassa integrazione di massa, degli scontri con le forze dell’ordine, delle occupazioni delle fabbriche, del picchettaggio contro i “crumiri”, delle nuove forme di lotta. Accompagnati dall’ascesa – oltre la volontà degli stessi partiti della sinistra – della leadership sindacale di Cgil, Cisl e Uil, dall’inadeguatezza conservatrice della Confindustria e dal tentativo di una modernizzazione anche padronale, guidata da Gianni Agnelli.

Un terremoto sociale e politico che Bruno Trentin, allora leader della Fiom-Cgil, avrebbe definito proprio “il secondo biennio rosso italiano, sicuramente non meno importante del primo, il 1919-1920”. L’innesco di un decennio di conflitti durissimi che dalle fabbriche si estesero a tutta la società, destinato a concludersi solo nel 1980 (ancora una volta a Torino dove l’Autunno caldo era cominciato) con la “marcia dei quarantamila”: l’epilogo-sconfitta.

Ed è proprio lì, in quel biennio, in quel grande “compleanno allargato” prolungatosi sino al 20 maggio del 1970, che il “vogliamo tutto” della classe operaia seppe scrivere, grazie al riformismo di Giacomo Brodolini, di Carlo Donat-Cattin e di Gino Giugni, lo “Statuto dei lavoratori”. Imponendo la svolta che si attendeva dal 1947 e dall’entrata in vigore della Costituzione.

Nei dieci anni successivi poi, partendo proprio da quelle norme, la legislazione italiana sarebbe salita come su un ottovolante della modernità. Trasformata dall’eredità del centro-sinistra di Moro e Nenni e attuando riforme sino ad allora bloccate. Dal divorzio (1970), passando per l’obiezione di coscienza e il servizio civile (1972), la legge Basaglia che aboliva i manicomi e quella sull’aborto (entrambe del 1978), sino all’abrogazione del delitto d’onore: sarebbe arrivata solo nel 1981.

E la legge dei diritti si prese la fabbrica

Per gli equivoci della storia lo Statuto dei lavoratori fu approvato il 14 maggio del 1970 (il 20 andrà in Gazzetta ufficiale) con l’astensione del Pci e il voto favorevole dei liberali, storicamente il partito degli imprenditori.

Ma l’astensione non elimina il fatto che la legge veniva dal profondo della cultura e della vita del movimento operaio. Il primo a parlarne e a immaginare uno “Statuto dei diritti” fu, nel 1952, il segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, di cui, non casualmente, Giacomo Brodolini fu vicesegretario. Di Vittorio parla all’inizio degli anni 50 quando ancora la reazione industriale non si è manifestata del tutto con la forza dei reparti confino o dell’emarginazione della Cgil in Fiat. Solo l’inizio degli anni 60 e con l’avvento del centrosinistra quelle idee sono riabilitate.

Quando il Psi nel 1963 entra direttamente nel governo guidato da Aldo Moro, il segretario socialista Pietro Nenni riprende la bandiera dello Statuto anche in competizione con il Pci, e cerca di affermare così quello che Moro chiama nel suo discorso alla Camera “lo spirito dei tempi”. Il presidente del Dc, nel suo discorso di insediamento, esporrà “il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali , uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro”.

Come ricorda Ilaria Romeo, dell’Archivio storico della Cgil, “nel febbraio 1964 la segreteria della Cgil formalizza con una lettera a Nenni non solo il proprio giudizio positivo sullo Statuto, ma ribadisce la richiesta che la legge garantisca i diritti costituzionali dei lavoratori”. Gino Giugni entra a far parte della Commissione nominata dal ministro del Lavoro Bosco per predisporre un progetto di legge, anche se lo stesso Bosco, un dc, è contrario al progetto. Ma la vita del centrosinistra sotto Moro è travagliata per motivi più gravi. Nel 1964 si manifesta il “piano Solo”, pulsioni golpiste che fanno riferimento addirittura al presidente della Repubblica, Antonio Segni. Non è tempo per una misura di grande apertura al mondo del lavoro e il progetto si inabissa.

Nel Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1970, ricorda ancora Romeo, il governo ribadisce l’impegno per uno Statuto dei lavoratori. Pci e Psiup (scissione di sinistra del Psi al momento in cui questo entra al governo con Moro) presentano alla Camera due proposte parallele e il 4 gennaio 1969 il ministro Brodolini annuncia un disegno di legge. Gino Giugni presiederà una Commissione con l’incarico di elaborare in tempi brevi la proposta da sottoporre alle organizzazioni sindacali. Poi l’ex sindacalista della Cgil Brodolini, poco prima di morire, lascerà il posto di ministro all’ex sindacalista della Cisl, il dc Carlo Donat-Cattin: la legge andrà avanti.

Nel frattempo c’è stata “l’irruzione delle masse”, è scoppiato il ’68, si prepara l’autunno caldo e la fase di grande rivolgimento della storia italiana. Sarà il segretario della Cgil, Luciano Lama, nel corso del 1970 a ricordarlo: “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori”.

Lo ricordano i deputati del Pci in aula, durante l’approvazione del testo: saranno le lotte sindacali del “biennio rosso” a convincere che una regolamentazione della vita sindacale in fabbrica è necessaria. E che, in realtà, conviene anche ai “padroni”, come il Pci chiamava allora gli imprenditori.

In ogni caso, la Costituzione entra materialmente nelle fabbriche, si sanciscono diritti essenziali come quello di opinione, di libertà di riunione, di non essere spiati o vigilati impropriamente, di non essere licenziati arbitrariamente. Si ribadisce il diritto alla salute in fabbrica o quello di mantenere la mansione acquisita. All’articolo 9 si introduce il diritto della salute e della sicurezza in fabbrica, con l’articolo 19 si ufficializzano le Rappresentanze sindacali e si garantiscono vari diritti come quello di assemblea, di referendum, i permessi retribuiti, il diritto di affissione, alle trattenute sindacali, all’utilizzo di locali per l’attività sindacale. L’articolo 28 rende giuridicamente nulli gli atti, come i licenziamenti o altro, “diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.

Che sia stata la Costituzione a entrare in fabbrica è confermato dalla serie di ricorsi giudiziari vittoriosi contro le varie manomissioni legislative battute invocando la Carta costituzionale. Che una sinistra pseudo-moderna abbia voluto invocare la cancellazione di quella straordinaria riforma si spiega con la cecità tracotante oppure con la connivenza. Resta che quella stagione, e quella riforma, hanno costituito un’anima di ferro del progressismo italiano. Un utile esempio per chi, in tempi di grande ricostruzione come quelli attuali, volesse dotarsi di visioni e orizzonti più robusti.

Viareggio: il sogno (breve) della Repubblica anarchica

Sovversivo fu il football. E rivoluzionario fu il popolo di Viareggio, che amava seguire le partite della squadra di calcio locale. Cominciò tutto il 2 maggio del 1920, dopo la fine della gara fra il club della Versilia e l’odiata Lucchese (sulla vicenda è recente il bel lavoro di Andrea Genovali, La Repubblica di Viareggio. Storia di una quasi rivoluzione, L’Ancora editrice). Scrive Mario Tobino (1910–1991) nel romanzo Il clandestino che Viareggio “fu l’unica città in Italia che per tre giorni abolì ogni potere trasformandosi in anarchica repubblica”.

La sommossa, rievoca Enrico Lorenzetti, nipote dello scrittore Enrico Pea, nella rivista Studi Versiliesi, “si accese d’improvviso a seguito dell’uccisione di un dirigente sportivo di Viareggio da parte di un carabiniere che era accorso con una diecina di altri, al termine della partita di ritorno, al campo di football della Villa Rigutti, tra la squadra di Viareggio e la rivale di Lucca, in un tentativo infelice di quelle forze dell’ordine di contenere e separare la tifoseria viareggina, incattivita per certi errori arbitrali a loro danno, dalla tifoseria degli ospiti lucchesi che, più scarsa, era qui venuta in trasferta”. Ben presto la protesta e la rabbia per l’uccisione di Augusto Morganti, il dirigente del Viareggio calcio, divampa nella voglia di fare come nella Russia dei Soviet. Sono i giorni, tra il 1919 e il 1920, quelli del “biennio rosso”, del resto, in cui in tutta Italia esplodono rivolte popolari. Per 3 giorni, dal 2 al 4 maggio, scrive Paolo Fornaciari sul sito del Comune di Viareggio, “estromessa ogni forma di autorità”, la città “fu isolata dal resto del territorio, e mentre sul palazzo del Municipio sventolava il nero vessillo dell’anarchia, improvvisate ‘guardie rosse’ si opponevano dietro precarie barricate allo Stato che, mobilitati esercito e marina, cingeva in assedio la città facendo sfoggio di forza, ma anche dimostrando incertezze decisionali”.

Racconta Leone Sbrana in Viareggio. Momenti di storia e cronaca che “tutti i servizi cittadini si svolgono regolarmente. Il Comitato rivoluzionario manifesta innegabili capacità di direzione della cosa pubblica. Tutto ciò è facilitato dall’autocontrollo e dall’autodisciplina dei cittadini. I contrasti del comitato col commissario regio sono costanti. Oltre le sentinelle, che fanno cordone intorno alla città, picchetti armati sciamano sulle sue vie fra le case basse ricolorate dal sole di maggio”. Il deputato socialista Luigi Salvatori, “oltre a partecipare alle riunioni del comitato, tiene un comizio nei pressi di piazza del Mercato a ridosso di un albergo fra i più vetusti della città”. Anche l’anarchico Lorenzo Viani, il grande pittore, “tiene un accaldato comizio in piazza del Mercato” . Aggiunge Fornaciari che la “cronaca di quei giorni di fuoco, mette in evidenza il carattere spontaneo della ‘rivoluzione’ viareggina. Senza capi, che divampò spontanea, priva di regia e di finalità eversive: come la forte risposta di un popolo dallo spirito fiero e libertario di fronte alla violenza ingiustificata e ai soprusi, e che si esaurì senza un epilogo drammatico solo grazie al ruolo responsabile e all’opera di mediazione che svolsero le associazioni politiche e sindacali viareggine”.

Nel pomeriggio del 4 maggio fu celebrato il funerale di Morganti, “con la partecipazione di quasi tutta la popolazione viareggina”. Poi, dice Fornaciari, “dopo le esequie funebri, in un comizio tenuto davanti al Municipio fu comunicata la cessazione di ogni agitazione e la decisione della regolare ripresa del lavoro in tutti i cantieri e le fabbriche. Durante la notte i numerosi anarchici che erano confluiti a Viareggio abbandonarono la città che fu occupata dalle prime ore dell’alba da un ingente quantitativo di truppe”.

Nel suo racconto Le tre giornate, pubblicato in Sulla spiaggia e di là dal molo, Tobino narra la fine della Repubblica Anarchica: “La notte l’esercito invase Viareggio. Le strade risuonarono del battito secco delle carrette, dell’acuto gracidio dei motori, delle voci giovanili dei soldati. Le barricate, divenute un solitario ingombro, volarono via”. E la “mattina le botteghe disserrarono i battenti, i cantieri riaprirono i cancelli, i carabinieri la porta della caserma. In Municipio sedette di nuovo, sulla poltrona del sindaco, il commissario prefettizio”. Eppure, “nonostante lo sciame dei soldati, la città ancora in silenzio, nei visi l’ombra dell’umiliazione. Viareggio era stata vinta. Adesso, anche quei cittadini che erano restii o contrari alla sommossa, appena l’ordine ristabilito, riparteciparono all’orgoglio paesano. Era stato bello buttare in aria ogni legge, alzare le barricate, sparare su chi si presenta col berretto del comando. Bello essere stati ribelli, liberi, anarchici”.

La scuola online non basta più. L’esame in presenza, un rischio

“La leva in massa degli eserciti è stata fatta da secoli, la leva dell’intelligenza mai. Ed importa all’Italia che questi milioni d’Italiani entrino nel circolo della vita nazionale. Chi darà i mezzi per questa leva dell’intelligenza? Si troveranno (…) nel concorde tributo di tutti i cittadini che sentiranno nella scuola il presidio della Nazione”. Le parole pronunciate da Concetto Marchesi in Assemblea Costituente indicavano la via maestra: la scuola, e non più l’esercito, come presidio della Nazione. Bene, volendo rimanere nella metafora, la Nazione è rimasta senza presidio. Come da lunga tradizione, l’Italia si è rivelata “nave senza nocchiero in gran tempesta / non donna di provincie ma bordello”. Sette secoli dopo questi versi di Dante, ‘bordello’ è infatti l’immagine giusta per definire la confusione che ha inghiottito insegnanti, famiglie e soprattutto studenti. Ad ogni intervista della loquace, quanto inconcludente, ministra Azzolina i dirigenti si sono trovati a rispondere alle centinaia di mail degli studenti degli ultimi anni delle superiori, che chiedevano conferma delle prospettive, di volta in volta diverse, trapelate sulle modalità degli esami finali. E non hanno potuto che rispondere che si trattava solo di esternazioni del vertice politico, rimanendo tutta la scuola italiana in attesa di atti ufficiali. Infine, a un mese dall’inizio fissato per gli esami di Stato (17 giugno, data che peraltro confligge con la durata degli scrutini fatti online), la ministra si è degnata di comunicare che la maturità si farà in presenza.

Prontissima, e assai bene argomentata, la levata di scudi di dirigenti e insegnanti: come si pensa di garantire per il 17 giugno quella sicurezza che oggi non è nemmeno pensabile, tanto che come è noto le lezioni non riprenderanno? Insomma, insicuri per la didattica e sicuri per gli esami? Come affrontare i viaggi dei professori (soprattutto da sud a nord), la ricerca dei presidenti, come garantire (parola chiave) le persone fragili e a rischio presenti sia tra i commissari che tra i candidati? Sia chiaro, il problema è enorme, e nessuno invidia la responsabilità piovuta in capo ad Azzolina: ciò che è imperdonabile è essere arrivati fino a questa data senza dare agli studenti e ai professori nessuna certezza. Difficile non vedere come questa disfatta sia figlia dello scarsissimo interesse che la politica nutre da sempre per la scuola: in questo, il governo Conte non è certo peggiore dei predecessori. Ma neanche migliore: regna sempre la stessa, sovrana, indifferenza per il “presidio della Nazione”.

Dal 18 maggio ripartiranno le messe. Mentre “centri sportivi e palestre riapriranno il 25 maggio”, ha assicurato il ministro Spadafora: le scuole invece no, anzi sì, ma solo per l’esame finale. Ora, questa curiosa discrasia (si possono affollare le palestre, o le chiese, ma non le aule?) dirà pur qualcosa sulla gerarchia dei poteri, e dunque sulle priorità, di un Paese che appare assai poco interessato al suo futuro.

Ma, si obietterà, il presidente del Consiglio ha annunciato (dopo due mesi di omiletiche conferenze stampa in cui la scuola era desaparecida) un miliardo e 450 milioni in due anni: ottima notizia. Ma se si rapporta questa cifra ai 55 miliardi impegnati, siamo ben sotto quell’8% che è circa quanto spetta alla scuola nel bilancio dello Stato. Una quota peraltro già insufficiente. La morale è che anche in questa emergenza la scuola riceve molto meno di quanto dovrebbe avere. Ma la cosa più grave è che quei soldi non serviranno comunque a riportare in classe la comunità educante, a settembre: perché non c’è il tempo per spenderli, ci si è mossi troppo tardi. Tanto è vero che, mentre Conte parlava, gli uffici scolastici comunicavano ulteriori pesanti tagli alle classi per settembre (in Toscana, per esempio, ci saranno 118 posti di insegnante in meno): che significa dover sopprimere classi, affollando ancora più gli studenti in quelle che anche la ministra chiama “classi-pollaio”. Una scelta che significa una cosa sola: al Miur si dà per scontato che la didattica sarà online anche l’anno prossimo. Peccato mortale, perché nonostante i miracoli fatti da insegnanti, ragazzi e famiglie, in questi due mesi è apparso chiaro ciò che già era ovvio: quella a distanza non è scuola, ma un insulso surrogato che è solo (e neanche sempre) meglio di niente.

Cosa si sarebbe dovuto fare, invece? Dalla chiusura di marzo, ci si sarebbe dovuti gettare a capofitto a cambiare tutto: a partire dall’abrogazione della scellerata legge che fa scattare chiusure e accorpamenti di scuole quando gli iscritti calano, per la stessa mentalità aziendalistica che ha cancellato la medicina di prossimità e i piccoli ospedali.

Ebbene, bisognava puntare sull’assumere tutti gli insegnanti necessari, e sul riattivare subito una rete di “scuole di prossimità” (secondo la bella formula che dà il nome alla proposta lanciata qualche giorno fa dall’ex ministro Lorenzo Fioramonti), puntando su tutti gli spazi pubblici disponibili: circoli, associazioni, edifici statali in disuso. E, con ben altro incremento di senso, musei e altri luoghi della cultura. Questa doveva essere la sfida, portare ovunque la scuola, per farla ripartire in presenza e in sicurezza a settembre. E invece siamo alla schizofrenia di una difficilissima e pericolosa maturità in presenza ora, e di una probabile scuola virtuale a settembre. Più che al presidio della Nazione, siamo all’8 settembre dell’istruzione.

“Andrà forte la montagna”: la distanza (sembra) facile

“Vado in montagna per fuggire dai ritmi frenetici della vita moderna”, si diceva una volta. In tempi di Covid-19 lo si farà per fuggire dagli assembramenti, dal plexiglass tra un tavolo all’altro al ristorante e da una sanificazione in spiaggia. Le mascherine resteranno obbligatorie anche in alta quota, ma nelle ultime settimane nel nostro Paese una delle frasi più ricorrenti quando si tocca il tema “vacanze” è: “Quest’anno andrà forte la montagna”. I grandi spazi, i piccoli gruppi quasi obbligati e le arrampicate in solitudine sono certamente più consigliati di ombrelloni e tintarelle in compagnia. “Le montagne hanno bisogno di noi e noi di loro”, è il mantra che viene ripetuto da settimane da Vincenzo Torti, presidente nazionale del Clup Alpino Italiano (Cai) che nei giorni scorsi ha invitato gli italiani a tornare nelle località montuose ma con cautela e rispettando le regole del caso.

Prima i numeri. Secondo gli ultimi dati Istat, il 24,6% degli italiani (uno su quattro) preferisce una vacanza in montagna rispetto a quella marittima e il turismo alpino solo d’inverno rappresenta l’11% del comparto nazionale che vale 60 miliardi, dando lavoro a 400 mila persone. Ma il 2020 sarà un anno difficile anche per la montagna, visti i mancati incassi di marzo, aprile, maggio e forse anche di giugno. La speranza degli operatori è di compensare almeno il 30% delle perdite con il turismo autoctono ma non sarà facile visto che molti “montanari”, circa 3,5 milioni secondo l’ultimo rapporto dell’Ente Nazionale del Turismo (Enit), sono stranieri. E quest’anno sarà difficile recuperarne anche solo una parte nella stagione invernale.

“I prossimi mesi saranno i migliori per venire in montagna ma chi sfrutterà i prati, le valli e le nostre cime?”. Reinhold Messner, 75 anni e il primo alpinista al mondo ad aver scalato le quattordici cime sopra gli 8000 metri, quando è scoppiata la pandemia era da poco tornato dalla sua ultima impresa: il Ras Dascian, la più alta montagna dell’Etiopia (4.600 metri). “Una cosa facile”, dice scherzando al Fatto Quotidiano dalla sua casa nel Sud Tirolo, prima di rabbuiarsi per la crisi che anche i monti e l’economia che ci gira intorno dovrà subire quest’anno a causa del Coronavirus: “Gli spazi sono grandi e se si cammina in due o tre persone il virus non lo prende nessuno – continua Reinhold Messner – ma chi verrà se sono chiusi i confini con Germania e Austria e se i rifugi non riusciranno ad aprire? Invito gli italiani a venire e a godersi la montagna”.

Se è vero che lungo i sentieri e sulle pareti c’è spazio per tutti e la probabilità di essere contagiati si riduce molto, scegliere le Dolomiti, le Alpi e gli Appennini non sarà equivalente a un “libera tutti”: “Ora serve prudenza e responsabilità”, ha detto nei giorni scorsi il Cai pubblicando un vademecum per rispettare le regole anche in montagna.

L’obbligo delle mascherine rimarrà per camminate e scalate mentre sugli impianti di risalita, in particolare le funivie, le entrate saranno contingentate e sanificate come sugli altri mezzi pubblici. Ma l’incognita più grande resta quella dei rifugi ad alta quota dove non si potranno garantire le distanze di sicurezza: da sempre questi sono luoghi storici, dove si mangia, si dorme e si vive insieme. Il Cai gestisce circa 326 rifugi in tutta Italia con 18 mila posti letto e chiuderli significherebbe mettere sul lastrico 5 mila persone che vi lavorano. In Veneto, in Piemonte (con 2.000 euro per ogni struttura) e in Trentino sono già stati individuati piani anti-Covid per far riaprire il Falier ai piedi della Marmolada, la Capanna Regina Margherita (il rifugio più alto d’Europa sul monte Rosa) o il Payer ai piedi dell’Ortles sopra la val di Solda e nei giorni scorsi il Cai ha chiesto comunque al governo regole chiare per provare a riaprire in sicurezza da metà giugno. Per sanificare gli ambienti, saranno usati gli ozonizzatori – purificatori d’aria spesso usati in alberghi – e gli spazi saranno ampliati per evitare l’effetto camerata. Poi all’ingresso saranno consegnati guanti, gel e termometri digitali mentre a tornare di moda saranno i bivacchi in tenda nei pressi dei rifugi: chi sale in quota porta con sé il sacco a pelo e al resto, gli alimenti e l’igiene personale, ci penseranno i gestori.

I rifugi in montagna svolgono ancora un ruolo essenziale: “Si può abbandonare qualcuno che non può scendere per rispettare le regole anti-Covid?”, è il dilemma etico che si stanno ponendo gli alpinisti nelle ultime settimane. Ma Messner in realtà è ottimista: “Non è più la montagna di una volta – dice – oggi i giovani alpinisti dormono in parete. Il rifugio è importante per chi cammina e per le famiglie che vogliono pranzare, ma questo si potrà fare in sicurezza”.

Il vademecum del Cai è piuttosto chiaro: rispettare le distanze, differenziare gli itinerari per evitare gli assembramenti e camminare lungo i sentieri. E secondo molti, frequentare la montagna in tempi di Coronavirus farà tornare alcune vecchie abitudini scomparse con il “turismo di massa” che ha contagiato anche le Alpi e le Dolomiti. Tornerà di moda il buon caro vecchio pic-nic nei prati, i pranzi all’aria aperta anche nei rifugi e la moltiplicazione dei sentieri per ridurre la possibilità di assembramenti. In Alta Badia (Trentino Alto Adige), per esempio, sono già partiti i primi progetti di “pic nic in quota” mentre a Cortina (Veneto) l’idea è quella di organizzare le attività e il ristoro all’aria aperta. “Sarà difficile ripartire – conclude Messner – ma la montagna servirà a ognuno di noi per riconciliarsi con se stesso e con gli altri”.

Palamara&C con Cafiero De Raho contro Di Matteo nel “pool stragi”

Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha rimosso Antonino Di Matteo dal pool stragi nel maggio del 2019. La ragione ufficiale offerta allora dal capo della DNA era l’intervista rilasciata dal pm palermitano alla trasmissione Atlantide condotta da Andrea Purgatori su La 7 il 18 maggio 2018. Un provvedimento severo visto che Di Matteo non svelava alcun segreto ma faceva solo dei ragionamenti su fatti noti. Al Fatto fonti vicine al procuratore dissero: “Quei fatti erano sì noti ma il procuratore Cafiero De Raho non ha gradito che su di essi raccontasse in tv la sua personale valutazione”. Il punto, secondo Cafiero De Raho, era che quelle valutazioni di Di Matteo erano oggetto allora di discussione tra Di Matteo stesso e i colleghi del pool stragi della Direzione Nazionale Antimafia di cui il pm palermitano faceva parte.

Ora dalle chat del magistrato Luca Palamara depositate nell’indagine perugina che ha sconvolto il Csm nel maggio del 2019 emerge un fatto inedito.

Il 26 maggio 2019, quando La Repubblica esce con lo scoop di Salvo Palazzolo che annuncia: “Direzione nazionale antimafia, Di Matteo rimosso dal pool stragi per un’intervista (…) Dopo la puntata di Atlantide andata in onda sabato 18, il procuratore capo Federico Cafiero de Raho ha deciso la rimozione del magistrato dal neonato pool stragi”. Il magistrato della Dna Cesare Sirignano, appartenente alla stessa corrente della magistratura Unicost, invia un file alle 8 e 39 di mattina all’amico Palamara. Pronto il leader di Unicost la commenta così alle 8 e 42: “Grande Federico”. Dove Federico è evidentemente Federico Cafiero de Raho, autore del provvedimento contro Di Matteo.

Pochi secondi dopo Sirignano replica con uno stringato “Noi siamo seri”.

Cesare Sirignano fa sapere al Fatto che “Non c’era alcun ragionamento precedente al provvedimento del Procuratore Cafiero De Raho tra me e Palamara. Lo dimostra il fatto che io invio un file che lei mi dice potrebbe essere l’articolo. Quindi Palamara non ha saputo nulla da me prima e il provvedimento era stato fatto alcuni giorni prima. Io lo seppi a cose fatte comunque perché ero a Vienna e il Procuratore non me ne parlò. Quel ‘Siamo seri’ è una frase breve di una chat che doveva restare privata e non ha nessun altro riferimento se non forse alla serietà di atteggiamento in generale”.

Che Palamara non fosse proprio un sostenitore di Antonino Di Matteo lo si capisce anche da un’altra conversazione intercettata stavolta dal trojan nascosto nel cellulare del magistrato romano nel maggio del 2019. Quando con un collega della Procura di Roma, Stefano Fava, discuteva dei rapporti difficili con la corrente Autonomia e Indipendenza, di cui insieme a Piercamillo Davigo fa parte anche Sebastiano Ardita, e che ha sostenuto Di Matteo per l’elezione al Csm nell’ottobre 2019. In quel giorno di maggio 2019 mentre era intercettato insieme a Fava, Palamara temeva di essere antipatico ad Ardita e ricordava di quando lui era al Csm nella consiliatura precedente e si era schierato contro l’approdo di Di Matteo alla Direzione Nazionale Antimafia.

Inoltre sempre dalle sue chat si scopre che Palamara non gradiva proprio l’esistenza del pool stragi.

La sera del 6 maggio 2019 infatti il leader di Unicost scrive a Sirignano: “Questo gruppo per indagare sulle stragi tutti ne parlano. Ma c’era bisogno?”

Sirignano risponde: “Sì ma non è per indagare sulle stragi, è per verificare eventuali collegamenti tra le indagini che potrebbero essere sfuggiti o non acquisti (acquisiti, ndr) Luca domani vediamoci nel tardo pomeriggio”. Palamara insiste: “Ti dico che non è grande mossa”. E Sirignano: “Luca ma tu non hai capito che Federico (Cafiero de Raho, anche lui Unicost, ndr) rappresenta la nostra forza”.

Palamara replica: “Lo so. Ma non deve sbagliare mosse”. Palamara non ha alcun ruolo nella strategia della Direzione Nazionale Antimafia. In teoria. Certamente quando Giovanni Falcone aveva ideato questo ufficio non immaginava che lo stra-dominio delle correnti della magistratura (che lui aveva sperimentato sulla sua pelle quando lo avevano fatto fuori dalla corsa a procuratore di Palermo) potesse rivelarsi così pervasivo a distanza di 30 anni.

Il potere di Palamara derivava dalla capacità di controllare, mediante i suoi uomini dentro Unicost, i voti necessari per far progredire le carriere dei magistrati nelle votazioni al Csm. Quando il 27 luglio 2017 Federico Cafiero De Raho era stato battuto nella corsa per la Procura di Napoli, Palamara scriveva al Procuratore: “Ho lottato insieme a te fino all’ultimo. Persa una battaglia non la guerra” e Cafiero de Raho: “Carissimo Luca sono convinto che ancora dobbiamo lottare insieme. Grazie, comunque, per avermi assecondato nella scelta, che non condividevi, di andare avanti (…) Un forte abbraccio”. Il 23 ottobre 2017 Federico Cafiero de Raho scrive a Palamara scherzosamente: “Grande capitano”, però in quel caso il riferimento è al ruolo nella Nazionale magistrati di calcio.

L’11 maggio 2018 Palamara invia a De Raho un articolo dell’Ansa che riporta le sue dichiarazioni non molto favorevoli a Di Matteo. Il titolo del lancio era “Stato-mafia: De Raho, pm che lavora non si aspetti sostegni”. E il procuratore nazionale diceva su Di Matteo: “È evidente che sulla trattativa ciascuno abbia il suo punto di vista, ma associarsi o sostenere un pubblico ministero vorrebbe dire già avere una tesi (…) chi svolge un ruolo di garanzia per il cittadino non può sentirsi minacciato o condizionato. Chi ha un ruolo come il nostro non può mai essere influenzato da una minaccia, noi abbiamo il compito di rappresentare lo Stato”.

Palamara commentava: “Bravissimo!!!!!!” con sei punti esclamativi. Senza risposta.

“È tempo di riunire una Buona Destra”

Una destra diversa da quella di Salvini e Meloni esiste. E deve uscire dal ricatto politico degli estremisti”: parola di Filippo Rossi, giornalista, ideatore del Caffeina Festival di Viterbo e in passato tra i protagonisti del think tank liberale FareFuturo. In questi giorni ha lanciato un nuovo movimento: si chiama “Buona destra” in contrapposizione con quello che – di cattivo – a destra c’è già. “Perché non è possibile che se esulti per il rientro a casa di una ragazza rapita ti diano del comunista”.

Filippo Rossi, lo spazio a destra è occupato quasi solo da Lega e Fratelli d’Italia.

Siamo rimasti a tempi di Montanelli: non esiste una destra che non sia quella del manganello. Ma è evidente che ci sia uno spazio da riempire, figlio di un senso di distanza da quei partiti.

Il tentativo non è certo nuovo.

Non voglio entrare nel dibattito storiografico sulla destra. L’avvento di Berlusconi doveva portare a un grande partito liberale, invece ha portato al primo partito populista. È nato un equivoco per cui la destra ha dovuto stare insieme a prescindere: un ammasso con dentro neofascisti e liberali. Queste catene vanno tagliate, altrimenti saremo succubi della propaganda dell’odio di cui abbiamo avuto esempi recenti.

A cosa si riferisce?

Alla dialettica del cercare un nemico. Basta rallegrarsi per il ritorno a casa di Silvia Romano e si passa per comunisti. O se si spera in un salvataggio in mare. È folle, è un ricatto psicologico e politico dell’estrema destra.

E si torna a Salvini e Meloni. Lei non andrebbe in piazza con loro il 2 giugno?

In un momento come questo è pericoloso scommettere sulle tensioni sociali. Protestare contro il governo è legittimo, ma la loro opposizione in questi mesi è stata sguaiata e sciatta. Persino Berlusconi si è distinto rispetto a Lega e FdI. Tra l’altro, scegliere il 2 giugno è una bestemmia, è anti-patriottico.

Il suo movimento sosterrebbe Conte?

No, sarei all’opposizione ma cercherei di proporre contenuti e responsabilità. Per esempio, ritengo un errore cedere alla propaganda del M5S e rinunciare al Mes. Riconosco però a Conte di essersi dimostrato un leader anti-populista di fronte agli eventi della storia, nonostante fosse espressione di una forza politica che considero populista.

Berlusconi è stato ingombrante per la nascita di una destra diversa? Neanche Mara Carfagna è riuscita a mettersi in proprio.

Nonostante il ridimensionamento di Forza Italia, Berlusconi ha ancora una forte influenza. Ma la competizione elettorale a cui penso è quella tra tre anni e c’è tutto il tempo di organizzarsi. La Carfagna sarebbe senz’altro protagonista di quest’area. Ma esiste una buona destra dentro a Lega e FdI, soltanto che è in secondo piano: penso a Guido Crosetto.

Sembra più vicino a Renzi che a Salvini.

Renzi in queste settimane ha sbagliato tutto tatticamente, però in una potenziale alleanza sceglierei lui piuttosto che gli estremisti. Così come preferisco Carlo Calenda a Giorgia Meloni.

“Abbiamo riparato le armi dei libici”. E violato l’embargo

“Sono tutte robe in nero come anche che abbiamo fatto la riparazione alle armi dei libici che c’è l’embargo… questa cosa se esce, è un casino… quindi siamo andati a fare i supporti delle armi alle navi”. Parole inquietanti quelle pronunciate da Marco Corbisiero, ufficiale della Marina militare finito in carcere lo scorso 11 maggio con l’accusa di aver organizzato il contrabbando di quasi 7 quintali di sigarette tra la Libia e l’Italia a bordo di “Nave Caprera”. È il 12 dicembre 2018 e Corbisiero è a bordo della sua auto con un collega che lui ha scelto come difensore nel procedimento militare contro di lui dopo il primo sequestro di sigarette libiche avvenuto il 15 luglio 2018 nel porto di Brindisi. A quel militare, Corbisiero sta raccontando il rapporto con le società libiche che acquistavano i pezzi di ricambio per le motovedette che l’Italia ha ceduto alla Guardia costiera nordafricana affinché controlli e limiti il flusso migratorie dalle sue coste verso l’Italia. Ignaro di essere ascoltato dai finanzieri che da quel giorno di luglio 2018 stanno indagando su di lui, si lascia andare a confidenze che appaiono esplosive. “Questa cosa se esce, è un casino” tiene a precisare. Già perché l’embargo di armi alla Libia è stato emesso dall’Onu e vieta non solo la vendita di armi, ma anche l’assistenza o il supporto in tema di armamenti.

Il compito dei marinai italiani in Libia con la missione “Nauras”, infatti, era quello di garantire l’efficienza delle motovedette cedute alla guardia costiera libica. Con l’accordo firmato il 2 febbraio 2017 dal Governo guidato allora da Paolo Gentiloni con Fayez Mustafa al-Sarraj l’Italia si impegna a fornire “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”: alla Guardia costiera nordafricana arrivano così anche alcune motovedette usate in precedenza dalla Guardia di finanza. La Marina militare, quindi, acquista componenti necessari perché quelle motovedette siano in mare a pattugliare la partenza dei barconi. Qualcosa, però, col passare del tempo sembra andare storto.

I media internazionali e le Ong denunciano come la Guardia costiera libica abbia intrecciato rapporti gelatinosi con i trafficanti di esseri umani. Alla fine del 2017 in Francia, in Germania e in Svizzera si susseguono manifestazioni per chiedere ai governi europei di tagliare i finanziamenti ai militari libici, accusati di intercettare i migranti nel Mediterraneo e di riportarli nei centri di detenzione dove vengono torturati. Non solo. “Sea Watch” accusa i militari libici di sparare sui migranti in mare.

Con uno di quei militari, secondo la procura di Brindisi, l’ufficiale italiano Corbisiero stringe accordi illeciti. Attraverso fatture gonfiate, imbarca sigarette e pillole di Cialis da portare in Italia. Tra gennaio e maggio 2018, nelle casse di una fantomatica società riconducile al maggiore libico Hamza Ben Abulad finiscono 123mila euro. Denaro che ufficialmente è destinato a combattere l’immigrazione, ma che secondo la Guardia di finanza di Brindisi è usato anche per altro. L’ufficiale italiano che sostituì Corbisiero a Tripoli, inoltre, ai pm Giuseppe De Nozza e Alfredo Manca ha spiegato che al suo arrivo le autorità libiche “lamentavano, nonostante i numerosi interventi di riparazione, l’inefficienza di numerose unità navali”: solo una delle 12 navi libiche era pienamente efficiente. Ed è anche per questo che le parole pronunciate quel 12 dicembre da Corbisiero al suo collega assumono un contorno allarmante. Il tenente di Vascello che guidava il team tecnico italiano ammette di aver riparato le “armi dei libici” e sostiene di averlo fatto “in nero” per l’esistenza dell’embargo. Una vicenda che potrebbe avere due spiegazioni. Corbisiero potrebbe aver agito senza informare le autorità italiane per consolidare il rapporto con Hamza e proseguire nei loro affari illeciti. Oppure ha agito su ordine dei suoi superiori. Quel che è certo è che se Corbisiero dice la verità, l’Italia ha violato avrebbe violato l’embargo dell’Onu e aiutato chi ha sparato sui barconi.

Report: il piano pandemico è un copia-incolla fin dal 2006

La storia del piano pandemico italiano continua ad arricchirsi di nuovi capitoli: il primo, raccontato dal Fatto a marzo, riguardava la sua esistenza dal 2003, quando era comparsa l’Aviaria. L’Italia, come gli altri Paesi aderenti all’Oms, se n’era dotato salvo poi apparentemente “dimenticarsene” alla comparsa del Covid-19. I piani, infatti, predispongono il Paese ad affrontare al meglio l’epidemia dal punto di vista precauzionale e organizzativo: dalla verifica delle dotazioni strumentali (ventilatori, Dpi, posti letto) a quelle strutturali e di personale sanitario. E, come poi raccontato da Report la settimana scorsa, il piano non sarebbe neanche stato aggiornato dal 2010. Anzi no: la trasmissione di Sigfrido Ranucci, in onda questa sera su Rai 3, ha scoperto pure che il piano del 2010 è a sua volta un “copia e incollato” di quello che era già sul sito nel 2006.

L’inchiesta di Report nasce dopo che l’ex direttore della prevenzione del ministero della Salute, Ranieri Guerra, oggi direttore aggiunto dell’Oms, è ha smentito le accuse sulla pagina Facebook di Report, postando il link a un aggiornamento del 2016, sotto la sua direzione. Il giornalista Giulio Valesini ha deciso così di verificare. Per farlo, si è rivolto a uno sviluppatore di software e ricercatore affiliato all’Università di Amsterdam, che ha analizzato il file con un software specifico ed è riuscito a risalire a quello che era online nel 2006. Ne ha poi analizzato i metadati: “Scopriamo – spiega – che il file risale al 2006, e che anche nelle versioni precedenti del ministero della Salute c’era sempre un link che riportava allo stesso. E, andando indietro nel tempo, scopriamo che la prima volta che il sistema automatico di archivio lo ha osservato era nel 2006. E il file è sempre lo stesso”. E del piano di oggi? Con lo stesso metodo, Report verifica che la bozza arrivata al viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, è datata 6 maggio, giorno dopo la prima intervista sull’argomento.