Che cosa ti succede quando lo scopri. Noi e il nemico

“Il nemico invisibile”. Quante volte l’abbiamo detto, in questi mesi di angoscia, quante volte abbiamo utilizzato questa espressione per definire l’indefinibile, per raccontare quanto siamo inermi, piccoli, spauriti. “Il nemico invisibile”. Quello da cui ci si difende bendati, agitando le braccia tese, le mani, ruotando il corpo per individuarne la posizione, l’odore, un piccolo spostamento d’aria che ci dica che esiste, che è lì, che possiamo sentirne, almeno, la presenza. Non lo conoscevamo, noi, il nemico invisibile. Ci ha atterriti, perché era un nemico nuovo e i nemici nuovi sono temibili perché bisogna diventare un po’ nuovi anche noi, quando li si combatte. Le vecchie risorse sono inservibili, si deve attingere da quelle sconosciute, tocca reinventarsi, dosare attacco e difesa senza sfiancarsi. E poi, mentre noi prendevamo le misure e avevamo paura, c’era chi il nemico invisibile lo conosceva già.

Chi ha familiarità non solo con quell’espressione, ma con ciò che ne è l’esordio: il disorientamento. Chi ha avuto un tumore, chi ha un tumore, sa di cosa ha avuto paura il mondo, in questi mesi di pandemia, perché ha conosciuto, conosce quella paura. Il “nostro” nemico invisibile ha strisciato nelle case, si è introdotto, impercettibile, dove andavamo a mangiare, dove andavamo a lavorare, si è insinuato nelle nostre vite distratte e nel mondo intero, con l’invisibilità del super eroe e la malvagità del suo antagonista. Il nemico invisibile di chi ha un tumore si è insinuato in un corpo, si è mosso nell’inganno della normalità, si è svelato, come l’altro nemico invisibile, quando aveva già attaccato, si era già preso il suo spazio, aveva scavato la sua trincea.

Le donne che scoprono un tumore al seno lo conoscono bene quel nemico che appare di colpo, come un ladro di notte, in casa propria. Anche loro se lo sono portate dietro per un po’ o a lungo, mentre lavoravano, mentre uscivano con le amiche, mentre facevano l’amore, mentre accompagnavano a scuola i figli, mentre prendevano il sole su una spiaggia, mentre piangevano per una scemenza. Non sapevano.

Poi la scoperta. Lo shock. Non è solo andare avanti, la scoperta di un tumore. Immaginare il futuro, chiedersi come, se, quanto se ne avrà, avere paura. È anche andare indietro. Domandarsi dove fosse quel nemico, come sia stato possibile ignorarlo, detestarlo per il silenzio nel quale si è mosso, per tutte le feste a cui ha partecipato, meschino, nascosto dietro la tenda.

Non lo scoprono, sempre, facendosi la doccia come da narrazione-tipo del tumore al seno, le donne. C’è chi lo scopre durante una mammografia di routine, chi infilandosi un reggiseno, chi mentre allatta, chi quando era una pallina più piccola di una perla e se ne era rimasto lì, chi quando se ne era già andato in giro e allora la guerra diventa riacchiapparlo, scovare le basi, indebolire l’altro. Ed ecco il momento, anche per me, in cui si inizia a utilizzare termini bellici. Che sono efficaci, ma non sono giusti, perché quella con un nemico invisibile non è una guerra. Nelle guerre ci sono due, tre, quattro fronti. Il nemico invisibile non ha un fronte: occupa il tuo. In una donna con un tumore al seno è quello sacro e romantico della femminilità, della maternità, della sensualità. Si insinua sotto le nostre camicette leggere, i nostri reggiseni sportivi, sotto i bikini e il pizzo, le magliettone larghe e i top luccicanti.

E quando si rivela diventa occhi sconosciuti che lo osservano, mani che lo toccano, lo tastano, macchine che lo schiacciano, lo fotografano, lo guardano dentro. Occhi e mani sconosciuti che diventeranno amici, cure, conforto. Che diventeranno una carezza gentile nella paura e nell’incertezza.

Ci sono tante donne che corrono, ogni anno, per ricordare che si sopravvive, che si deve prevenire, che la vera sfida è togliere il dono dell’invisibilità al nemico invisibile. Corrono da 20 anni la “Race for the cure”, la mini-maratona che si svolge in tante città e quest’anno, per la prima volta, dovranno non fermarsi, ma correre in un modo nuovo. Perché, vi ricordate cosa si diceva all’inizio? Con un nemico nuovo, bisogna diventare un po’ nuovi anche noi. E le donne che conoscono bene i nemici invisibili lo sanno. Per questo, si correrà da casa, domenica 17 maggio, con una maratona digital in cui tanti sostenitori si collegheranno con le madrine Maria Grazia Cucinotta e Rosanna Banfi.

Sarà diverso e sarà una sfida, saranno racconti anziché gambe che si inseguono, sarà la fatica e l’adrenalina del ricordo, anziché quella dei muscoli. Sarà una corsa invisibile che restituirà a questo aggettivo – invisibile – un’accezione buona e salvifica.

Sarà un grande abbraccio. Invisibile anche quello, nell’attesa di correre di nuovo, calpestando l’asfalto e sorridendo a ciò che si può toccare: gli amici, quelli visibili.

“Da incinta mi dissero: ‘o tu o il bambino’. Oggi siamo tutti qui”

“È una malattia che non auguri al peggior nemico, ma…”. Già, c’è quel ‘ma’. Ascolti Lorena Scaperrotta che racconta la battaglia con il tumore, ma alla fine raccogliendo gli appunti trovi soprattutto il marito Giuseppe che si era “tagliato i capelli a zero per me quando facevo la chemio”. Trovi il professor Riccardo Masetti “che non ha lottato per noi, ma con noi”. Trovi persone che oltre al ‘brutto male’, come si diceva una volta, hanno combattuto insieme il più grande nemico di ogni malato: la solitudine.

Partiamo da quel giorno, “il 2 gennaio 2017”, perché questa donna con gli occhi vivi e lucidi ricorda ogni data, ogni ora. Lorena, classe 1978, era felice: due figli, un matrimonio, un lavoro come economista nel centro studi di Confindustria a Roma. “Ero sotto la doccia, ho sentito quella pallina vicino al seno”. Il ginecologo capisce che non c’è tempo da perdere: “Facciamo subito gli esami, bisogna aspettare il ciclo, però”. Già, ma non arriva. “Ero incinta”. Un bambino e il tumore. I medici non lasciano alternative: se ti curi, devi rinunciare al figlio. “Fosse stato per me non mi sarei curata. Ma avevo due figli, lo dovevo a loro”. Mancano solo due giorni quando Lorena tenta un’ultima carta: “Ho scritto una mail a Masetti del Gemelli di Roma. E dopo poche ore mi è arrivata una telefonata: venga domani”. Dodici ore prima dell’addio al bambino, ma il professore ci crede: “Possiamo fare la chemio e salvare lei e suo figlio”.

È il 14 febbraio, quello che poteva essere l’epilogo della storia, invece è l’inizio: l’operazione, la chemio, mentre la pancia cresce. Lorena non parla della malattia, ma delle persone che aveva intorno. Di Giuseppe, il marito conosciuto da ragazzi, questo poliziotto che riesce a scherzare anche nei momenti più duri: “Sembri un’araba”, dice quando lei si presenta con un turbante per coprire la testa senza capelli. Giuseppe che mentre la chemio scivola nelle vene gioca con Lorena a fare canestro con le palline di carta. Riescono perfino a dirlo ai figli, ‘la chemio chic’ la chiamano: “Ogni volta mi truccavo e mi mettevo i tacchi, perché senza capelli non ti restano molti modi per farti bella”. E poi c’è il professore che li accompagna: “Nei momenti difficili mi mandava un messaggino, capiva quando ne avevo bisogno”.

Ci siamo quasi, mancano due mesi, ma ci si mettono di mezzo una polmonite, la terapia intensiva, le lastre. Il bambino, però, è lì, resiste. Lorena è dimessa, ma il giorno dopo lui decide di nascere: Riccardo. Non poteva chiamarsi altrimenti, come il professore che aspettava davanti alla sala parto. Oggi mentre parli con Lorena senti sullo sfondo la voce di un bambino di due anni: “Fammi fare lo scivolo”. Se provi a chiederle quale sia stato il segreto, Lorena parla del Dio che l’accompagna dall’infanzia, del marito che le era accanto a ogni seduta. E di quel professore amico al quale dà del tu. Riccardino ce l’ha fatta. Sua mamma oggi si cura con gli ormoni. Le visite di controllo – “un’angoscia ogni volta…” – sono meno frequenti. Le statistiche danno molta speranza. Ma ha già vinto la battaglia più dura: non è mai stata sola.

“Screening fermi: perdiamo 20 anni di prevenzione”

Non c’è solo il distanziamento sociale. C’è anche il “distanziamento” che il virus ha imposto alle cure oncologiche e alle normali strategie di prevenzione. “Quella del tumore al seno è però un’emergenza sanitaria permanente, non va a ondate”, spiega il professor Riccardo Masetti, direttore del Centro di senologia della Fondazione Policlinico-Universitario “Gemelli” di Roma. Due milioni di donne nel mondo si ammaleranno nei prossimi 12 mesi. Non ci sono vaccini né cure miracolose per questo. E seicentomila saranno quelle che, sempre nei prossimi 12 mesi, moriranno: il doppio delle vittime del Coronavirus, a oggi. La pandemia sta monopolizzando tutta la nostra attenzione. Ma qui rischiamo di tornare indietro di vent’anni…”.

A volte ci scordiamo che il cancro inizia e finisce con le persone. I medici curano le malattie, ma curano anche le persone, e questo presupposto della loro vita professionale, a volte, li trascina al tempo stesso verso le une e verso le altre. Quella del prof. Masetti è una chiamata alle armi. Contro “l’onda lunga” del virus: l’impatto che la pandemia avrà sul mondo oncologico, come su quello delle patologie croniche o della salute mentale. “E noi non conosciamo quanto lunga sarà quest’onda, se e quando si fermerà… Sappiamo che tutti gli screening sono fermi. Bloccati i programmi di prevenzione per la mammella per le donne fra i 45 e i 75 anni, le mammografie, i pap-test… E, per questo tipo di tumore, la diagnosi precoce è fondamentale: intercettarlo in tempo aumenta le percentuali di guarigione, e ne riduce la mortalità. Al Gemelli siamo riusciti a proseguire con l’attività chirurgica, ma le visite di controllo e i follow-up son stati ridotti del 50-60%. Tutti i nostri ambulatori sono ancora chiusi, tranne che per casi urgenti”.

È così che il Covid-19 diventa un amplificatore per tutte le angosce, le paure che già accompagnano una donna con un cancro al seno. “C’è una ferita, non solo fisica, che un tumore del genere lascia”, ricorda Masetti. “Chi sviluppa una malattia oncologica in generale, e in particolare al seno, deve fare i conti con le ricadute a livello relazionale, sessuale, lavorativo, sociale. È una malattia a doppio impatto. Una miscela che col virus può diventare esplosiva”.

I pazienti oncologici non sono tutti uguali. Hanno personalità e temperamenti differenti. E possono trovarsi a fronteggiare l’emergenza Covid-19 in diverse fasi della malattia tumorale. “Ma a risentirne sono stati in molti, se non tutti. O perché si sono genericamente accresciute le ansie, o perché si sono confrontati con problematiche di lavoro, o perché durante le cure non hanno potuto contare, causa limitazioni ai contatti e agli spostamenti, sulla ‘squadra di supporto’ di parenti, amici e partner. In un momento così delicato vengono a mancare il calore, la fisicità, il supporto emotivo delle parole, gli abbracci…”. È nata così l’idea di sottoporre, a fine marzo, in pieno lockdown, un questionario a donne che tra il 2019 e il 2020 hanno scoperto di avere un tumore al seno. Le risposte sono alla base di una studio pubblicato da Masetti e la sua équipe su The breast journal. In media, le donne intercettate dal questionario hanno 56 anni (il campione era dai 30 agli 86 anni). Tutte in attesa dell’intervento chirurgico: chi avendo già finito il ciclo di chemioterapie, chi ancora no. Una donna su due confessa di sentire più paura e ansia ora, con la pandemia, di quando si è trovata ad affrontare la diagnosi di cancro. Per il 72%, a dominare è la preoccupazione per il rallentamento che i trattamenti e le cure subiscono. Nel 50% dei casi, Covid-19 ha amplificato la paura che il cancro si porta dietro. E una donna su due afferma di sentirsi più sola nell’affrontare le cure.

È anche per combattere questo generale senso di isolamento, dopo che il mondo ti è crollato addosso, che è nata la Race for the cure, la più grande manifestazione al mondo per la lotta ai tumori del seno. Per il prof. Masetti, un “quarto figlio”. Race che quest’anno – per la prima volta dopo vent’anni – non si correrà, causa Covid. Proprio dopo che nella scorsa edizione, a Roma, si è raggiunto il record di iscritti: 81mila, tra cui quasi 7mila “donne in rosa”, ovvero donne che hanno avuto il cancro al seno e che, indossando una maglietta o un berretto di colore rosa, diventano “ambasciatrici della prevenzione”. “È grazie alla condivisione dell’esperienza della malattia – spiega Masetti – che nella Race le donne si danno forza l’una con l’altra e non hanno paura di mostrarsi. E anche per noi tutti è un momento bellissimo, il culmine di tanti sforzi e progetti”. È difficile vederlo buttarsi giù, “il prof”. È un’entusiasta di natura, un vulcano di idee ed energie. “Ma un po’ triste lo sono. Non poter festeggiare quest’anno assieme, perdersi la parte più bella di quelle giornate per preparare la Race, tutta la gioia delle donne accompagnate ognuna dalla propria squadra di supporto… È vita”.

L’obiettivo più importante resta quello di sostenere le tante che stanno vivendo percorsi terapeutici. E continuare a raccogliere fondi (la Komen Italia è riuscita finora a investire oltre 18 milioni di euro, la gran parte raccolti grazie a 56 Race corse in 7 diverse città, con cui sono state finanziati 850 nuovi progetti di prevenzione e supporto alle donne operate, 250 premi per giovani ricercatori, 276 associazioni). Ecco perché Masetti, con tutto il suo staff medico e coi volontari della Fondazione, ha deciso di organizzare ugualmente la Race for the cure ma virtuale, a distanza: una maratona live che, a partire da oggi alle 15, sui canali social di Komen Italia (e sul nostro sito ilfattoquotidiano.it), vedrà uniti personaggi del mondo delle istituzioni e dell’arte, della cultura e dello sport. Tutti insieme per aiutare a tenere alta la guardia nella lotta ai tumori al seno. “In questo momento, la fragilità economica porterà a distrarsi dalla cura della salute. Lo sappiamo bene noi che portiamo le nostre ‘carovane della salute’, per gli screening gratuiti, nelle periferie, al Sud, nei centri di accoglienza… Questa fascia di persone fragili economicamente e socialmente si sta ingrossando. Ecco perché dobbiamo fare ancora di più, anziché di meno. Perché noi non correremo, ma i tumori del seno sì: non si fermano con la pandemia”.

Capita spesso così. Sembrano per un po’ lasciarti respirare, i tumori. Come il virus. Poi d’improvviso l’apnea può tornare. “Prolungare le vita, non eliminare la morte”, scrive Siddharta Mukherjee nel suo L’imperatore del male: una biografia del cancro. “È solo ridefinendo il concetto di vittoria che possiamo vincere la guerra”. Anche e soprattutto grazie alla prevenzione.

Carlo Verdone: “Occhio, il cancro non fa lockdown”

Verdone ci mette sempre la faccia. Con il suo sorriso sornione, bonario, rassicurante, è in grado di veicolare i messaggi più importanti, anche non semplici: e questa volta è per Race for the cure la maratona (reale) che da 21 anni raccoglie fondi a sostegno della ricerca e della prevenzione dei tumori al seno. Quest’anno, causa Covid, la maratona sarà virtuale, ma non per questo bisogna mollare, perché il cancro non va in lockdown.

Il tumore non dà tregue per la situazione Covid…

Sì, ci siamo un po’ dimenticati di tutti quei malati gravi che soffrono di altre patologie, mentre si parla solo di coronavirus, quando esistono sempre le patologie tumorali che sono di gran lunga peggiori.

Ma…

Il cancro non è contagioso, eppure causa molti più morti. (Ci pensa) In questi mesi non fa notizia, ma l’errore più grande sarebbe quello di sottovalutarlo, e il tumore al seno ha degli indici importanti, da allerta.

Per anni la battaglia è stata sulla prevenzione.

Ecco il guaio: si è fermata. Per fortuna mi hanno segnalato che c’è meno intasamento nei reparti di terapia intensiva, quindi adesso alle donne bisogna tornare a offrire la possibilità di un controllo, rendere l’esistenza più semplice.

Il Covid ha realmente bloccato tutto.

Si è preso tutto e a volte, temo, è diventato pure uno schifoso business; (cala il tono della voce) mi dispiace proprio molto per la Race for the cure, annullata per ovvi motivi di assembramento. Però lancio un appello per continuarla a seguire e sostenere: è un avamposto di prima eccellenza per la diagnosi precoce del tumore al seno.

Un mese fa al “Fatto” ha raccontato di avere il telefonino devastato dalle chiamate per ottenere consigli medici…

(Sorride, ma non scherza) Ho cambiato numero: ora riesco a stare anche due ore senza il solito e perenne squillo. Era proprio un continuo, ma la colpa è pure mia, non riesco mai a dire di no, a rifiutarmi.

Punto di riferimento.

L’altro giorno ho aperto Google alert e mi è preso un colpo: credo di aver rilasciato cento dichiarazioni, ero ovunque, e non vorrei che le persone mi giudicassero un presenzialista o un tuttologo.

Però è un esperto…

Mi cercano e spesso rifiuto. Poi ci sono casi come questo in cui non riesco proprio a divincolarmi.

C’è un però.

Che ne va di mezzo la concentrazione sul lavoro, ma in questo periodo è un problema un po’ di tutti. Spesso mi chiamano i colleghi per sapere se ho qualche notizia, ma in realtà è tutto fermo, senza alcuna certezza.

Quindi?

È necessario aspettare. Tra luglio e agosto il quadro sarà più limpido.

Spesso le danno dell’ipocondriaco.

E questa storia non mi piace per niente: quella che ho per la medicina e per i farmaci è solo una passione che deriva dall’infanzia; (attimo di pausa) lo ricordo sempre rispetto alla medicine: sono irrinunciabili strumenti se usati con proprietà, ma pericolosi se mal utilizzati.

E intanto…

Davvero, non dimentichiamoci di Race for the cure. È fondamentale, perché il tumore non lo abbiamo ancora battuto.

Le dimissioni nate sotto un cavolo

“L’ira di Bonafede per le intercettazioni. Lascia il dirigente del caso Palamara”. E ancora: “Via il capo di gabinetto Baldi: ‘Le mie dimissioni per tutelare il ministro e l’istituzione’”. La notizia di una nuova grana al ministero della Giustizia è importante e il Corriere della Sera dedica al fatto ampio spazio a pagina 22. L’articolo spiega ai lettori l’accaduto: il capo di gabinetto del ministro Bonafede è stato costretto a dimettersi per via delle registrazioni dei suoi colloqui e dialoghi WhatsApp con Luca Palamara in cui si dava da fare per piazzare “i nostri” al ministero. Il Corriere si dimentica di ricordare che Baldi è stato invitato a dimettersi subito dopo la pubblicazione di un articolo su ilfattoquotidiano.it. Dettagli di scarsa importanza, il lettore ha chiaro il quadro della situazione. Meno agevole deve essere stato il compito dei lettori de La Verità, cui viene comunicato a pagina 7 che “Bonafede resta solo al ministero. Si dimette pure il capo di gabinetto”. Motivo? “Telefonate (riportate nell’articolo sotto) che lo coinvolgono nell’indecoroso mercato che governa nomine ministeriali e promozioni dei magistrati”. Leggiamo l’articolo sotto e di nuovo non troviamo citato ilfattoquotidiano.it. Capita. Peccato però che non ci siano nemmeno le intercettazioni Palamara-Baldi. Infortuni del mestiere che capitano.

Mail box

 

Torniamo a occuparci anche della Capitale

In questo periodo si è giustamente parlato/intervistato sull’emergenza virus in Lombardia/Milano, Veneto, Piemonte, Liguria. Poco si è sentito/visto sulla situazione del Lazio/Roma, notoriamente meno emergenziale. Ma come sta Roma, oggi? Sento che molte strade sono state nuovamente asfaltate (non rappezzate in modo raffazzonato), la situazione rifiuti? Il riassetto dei bilanci di Ama, Atac e delle altre società del Comune? Le variazioni di gradimento nei sondaggi che si riferiscono alla Raggi (irrispettosamente apostrofata come “ragazza” come tante altre giovani donne faticosamente giunte a occupare posizioni apicali) e alla sua gestione in generale? Certo anche Zingaretti, simpatico presidente della Regione, le ha dato una gran mano con la gestione delle discariche!

Annamaria Bardzki

 

Il “Fatto” non ha paragoni nella stampa italiana

Sono un piccolo imprenditore friulano con una lunga “carriera” di lettore cartaceo. Ero un fedele lettore prima del Giorno e in seguito di Repubblica quando le due testate si potevano definire giornali nel senso nobile del termine. Poi siete arrivati voi e fin dal primo numero non vi ho più mollati. Il mio rito quotidiano appena esco prevede passaggio in edicola con l’acquisto del Fatto e di un giornale locale, (locale mica tanto visto che è il più diffuso del triveneto) arrivo in Azienda e sfoglio velocemente il locale, tanto per mettermi al corrente della cronaca che definirei spicciola del mio paese, riservandomi il piacere di leggere voi con calma la sera.

Qualche giorno fa il nostro giornale non era arrivato (succede raramente ma qualche volta succede) per cui mi sono dovuto accontentare dell’altro e la sera, non avendo di meglio, ne ho approfondito la lettura. È stato inevitabile fare un paragone: abituato al vostro livello e alla vostra professionalità mi sono chiesto se vale ancora la pena spendere soldi per acquistare della carta per incartare il pesce. Non è mia intenzione offendere nessuno, voglio solo dirvi che ora vi apprezzo ancora di più, se possibile. Continuate così, siete forti.

Vittorio Zanette

 

Che bella lettera! Grazie di cuore.
M. Trav.

 

Niente soldi alle aziende con bilanci poco cristallini

Il dl Rilancio varato dal Governo e che andrà presto in discussione in Parlamento, contiene diverse misure di sostegno alle attività economiche delle imprese. Voglio fortemente sperare che tra queste non vengano contemplati aiuti e finanziamenti ad aziende che hanno “situazioni fiscali non cristalline (tipo la residenza fiscale in Olanda, per dire)”, come giustamente riportato dal vostro Alessandro Robecchi. Se così fosse, la politica dovrà trovare motivazioni più che convincenti per giustificare quanto, almeno in prima istanza, risulta essere un provvedimento a dir poco paradossale.

Diego Merigo

 

Le ricette di Cassese che ignora la povertà

Desidero condividere con voi l’indignazione che ho provato nel leggere l’editoriale sul Corriere di Sabino Cassese, che, come giustamente ha rilevato Travaglio nei giorni scorsi, è da decenni uno dei principali ispiratori dello sfascio delle nostre Istituzioni e in particolare della P. A.

Scriveva l’ineffabile Prof. Cassese che il Decreto rilancio è tutto sbagliato.

Due le ragioni di fondo: anzitutto si sarebbe dovuto riformare la P. A., che è burocratizzata e farraginosa (e lo dice lui che è stato ministro per la Funzione Pubblica e ispiratore di tutte le riforme che ora critica), e quindi rinviare ogni intervento economico a dopo (quando?). Il Governo avrebbe dovuto poi, invece di scegliere la direzione del risarcimento (aiutare chi si trova in grande difficoltà), “prendere la strada dell’accelerazione per moltiplicare i suoi investimenti e sgravare di vincoli gli investimenti privati…”. Se poi milioni di persone fanno la fame per Cassese è secondario, anche perché lui la ignora.

Mia conclusione: Salvini è un pericolo per la nostra democrazia, ma ormai ogni giorno perde credibilità; personaggi come Cassese sono invece pericolosi, anche perché sparano giudizi dall’alto della loro sapienza e alimentano una canea sempre più pericolosa per la democrazia che invece, con buona pace dei Cassese, deve essere anzitutto giustizia.

Corrado Mauceri

 

Grazie, Bosso, per la magia che ci hai lasciato

Sai che Ezio Bosso è morto? Mi chiama venerdì mattina sul cellulare mia sorella con voce tremante per il pianto, io sono in treno, un treno tristemente vuoto; io e lei non eravamo amiche di Ezio Bosso, neanche parenti, ma l’abbiamo amato come tante comuni persone, per la sua gentilezza, bellezza, per la sua musica: aveva solo 48 anni.

Diceva, lui penosamente assediato dal dolore: “Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono… La musica è una fortuna ed è la nostra vera terapia”. Non scordava mai il Noi, di cui eravamo parte, di cui ancora lo siamo, perché ci ha lasciato un tesoro immenso a cui attingere quando vogliamo respirare e andare lontano, vicino a quella magia che riusciva a passare, sorridendo, sempre.

Grazie, seguendo il tuo volo, la traccia che hai lasciato, ascoltando la voce del cuore, le nuvole che farai sempre correre.

Doriana Goracci

La tragedia all’italiana: una risata ci seppellirà

“L’ottimo “bissinìs” di Pivetti, Lele Mora, e il “paisà” Borrelli”.
Daniele Luttazzi, il Fatto Quotidiano

È ritornato Maurizio Crozza con le sue maschere predilette, Vincenzo De Luca, Vittorio Feltri e le new entry, Franco Locatelli (accademico, virtuoso di contagi e arcaismi), e Irene Pivetti (ex presidente della Camera, oggi grossista di mascherine un tanto alla tonnellata). Si ride, eppure c’è come qualcosa che non va. Non l’assenza di pubblico e neppure l’inevitabile spartito pandemico. Sfasatura che forse si comprende meglio davanti allo sdoppiamento di Crozza nei fratelli De Rege, lumbard, Attilio Fontana e Giulio Gallera. Con l’agghiacciante talk sulla strage nelle residenze anziani, riproposto in chiave satirica e i due che non fanno altro che reciprocamente (auto)assolversi: “no, non è colpa tua”, “no, non è colpa tua”, e quindi non è mai colpa loro. Ma ci sono trentaduemila morti: ecco il fondale straziante davanti al quale quelle marionette disarticolate dalla realtà e dal buon senso recitano un copione non più sopportabile. Infatti – nel genere che ha sulla vetta Alberto Sordi e l’epopea misera dell’italiano medio, poi planato nei cinepanettoni – finché il campionario nazionale di mascalzoni, truffatori, imbroglioni, bugiardi, arrampicatori, ricattatori, estorsori, mafiosi, fedifraghi, corruttori e corrotti si limitava a truccare le carte per le solite ragioni di soldi e di corna, si poteva sghignazzare senza rimorso. Ma adesso come si fa? Dopo la commedia all’italiana è dunque giunto il tempo della tragedia all’italiana. Che non muta la natura dell’eroe eponimo, il cialtrone, declinato questa volta attraverso le figure rivedute e corrette dal virus. I politici inetti e scaricabarile con il loro show delle 18 in punto. Colei che un tempo passava per la Giovanna d’Arco leghista e che in un giro maneggione della pubblica salute confida di avere “la faccia come il didietro”. Il presidente di Regione spompato che grazie al Covid e al “facite ‘a faccia feroce” si riguadagna follower e candidatura. Se fosse un film potrebbe intitolarsi: la tragedia degli uomini ridicoli. Se fosse uno slogan: una risata ci seppellirà. Sì, il rischio è che alla fine la risata seppellisca noi e non loro. In un delirio di cinismo, insensatezza e malaffare di fronte al quale anche la satira più estrema (Crozza, Luttazzi) rischia di ritrovarsi spiazzata. Sarebbe troppo perfino per Alberto Sordi.

In Sicilia 40 gradi. Il mondo verso il caldo intollerabile

In Italia – Al Nord il nostro piccolo monsone di maggio anche quest’anno non ha tradito, e nell’ultima settimana, sotto venti umidi meridionali, poco o tanto ha piovuto ogni giorno. Prealpi, Nord-Ovest e alta Toscana sono state le zone più innaffiate, specie lunedì 11, con 110 mm di pioggia a Stresa (Lago Maggiore), e 150-170 mm su Appennino genovese e Prealpi Giulie. Nella notte tra giovedì e venerdì nubifragio di rara intensità su Milano: fino a 151 mm d’acqua in circa 6 ore (simile all’evento del 7 luglio 2009, che scaricò 191 mm a Corsico), allagamenti e la consueta esondazione del Seveso. Continua invece la siccità in Emilia-Romagna: solo 76 mm da inizio anno a Modena, ai minimi in 190 anni di misure se non ci saranno piogge rilevanti entro fine mese. Impetuoso scirocco al Sud, polvere sahariana, incendi e caldo record a Palermo: all’osservatorio astronomico 39,5 °C mercoledì e 39,7 °C giovedì, 16 °C sopra media e record per maggio nella serie dal 1797. Gravi danni al raccolto di ciliege nel Barese per raffiche di vento a 100 km/h. Il Cnr-Isac indica che le temperature di aprile 2020 sono state 1,1 °C più elevate della norma a livello nazionale, e data la persistenza di valori oltre media il primo quadrimestre dell’anno è stato il più caldo dal 1800 (+1,4 °C).

Nel mondo – Dalla Sicilia il caldo eccezionale si è spostato a Est con punte, venerdì, di 34,1 °C a Sofia (Bulgaria) e 39,4 °C ad Adana (Turchia). Calura soffocante anche in Algeria (45 °C). Gelo tardivo invece in Scandinavia dopo un inverno di mitezza record: 5 °C sotto media nell’ultima settimana e nevicate fin sulle coste della Norvegia (Bodø, Trondheim). Tra lunedì 11 e martedì 12 spruzzate di neve fino in pianura, straordinarie in questa stagione, anche in Polonia e Lituania (imbiancate Vilnius e Kaunas). Giovedì mattina minime di -3 °C a Groningen (Olanda) e -6,1 °C a Katesbridge, a un soffio dal primato di freddo per maggio in Irlanda del Nord. Diluvi di ricorrenza centenaria e inondazioni nel Sud-Ovest della Francia (fino a 261 mm tra domenica e lunedì), ma è soprattutto l’Africa orientale a soffrire ancora disastri alluvionali, e in Kenya il bilancio delle vittime da aprile è salito a 237. “Vongfong”, primo tifone del 2020 nel Pacifico occidentale, di categoria 3 con venti a 220 km/h, ha raggiunto le Filippine giovedì 14 e, pur indebolito al contatto con la terraferma, ha provocato alluvioni, frane e almeno un morto. Oltre al Nord Europa, anche Canada e Nord-Est degli Usa stanno vivendo un maggio freddo (minima di -3 °C a Toronto martedì 12), ma più delle anomalie locali contano le tendenze globali: la Noaa segnala che aprile 2020 è stato il secondo più caldo nel mondo (+1,06 °C rispetto alla media del Novecento), e ben otto dei dieci mesi di aprile più caldi dal 1880 si sono registrati dal 2010 in poi! Con le temperature in aumento la neve fonde più rapidamente: secondo uno studio di Claudia Notarnicola dell’Eurac, centro di ricerca di eccellenza di Bolzano, nel 78% delle zone montuose del pianeta l’innevamento è diminuito nel periodo 2000-2018, specie in Sudamerica e anche sopra i 4000 m. L’articolo “The emergence of heat and humidity too severe for human tolerance”, di Colin Raymond del California Institute of Technology, su Science Advances, indica che senza riduzione dei gas serra a fine XXI secolo soprattutto lungo il Golfo Persico e nella Valle dell’Indo verranno comunemente superate soglie di caldo-umido intollerabili per il corpo umano, oggi molto rare, date ad esempio dalla combinazione di 40 °C e 70% di umidità relativa, oppure 45 °C e 50%. Sono condizioni mortali anche a riposo, all’ombra e con abbondante acqua a disposizione, che spingeranno centinaia di milioni di persone alla migrazione forzata.

Non chiediamo a Dio ciò su cui non siamo disposti a impegnarci

In questa quinta domenica dopo Pasqua – chiamata Rogate (Pregate) nell’antica liturgia cristiana – leggiamo il brano dell’insegnamento del Padre nostro da parte di Gesù in cui, però, troviamo una sua parola che potrebbe apparire contraddittoria: “il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate” (Matteo 6,8). Domanda: se Dio sa già tutto di noi perché pregare? E perché pregare con la preghiera che Gesù insegna? Non sarebbe meglio risparmiare tempo e fiato? Effettivamente, molte persone pensano che pregare sia tempo sprecato, tanto, se Dio c’è, vuoi che non sappia le cose di cui abbiamo bisogno? Certo che lo sa, lo dice anche Gesù nel versetto appena citato. Ma noi lo sappiamo? Noi conosciamo le cose di cui abbiamo veramente bisogno e sappiamo come chiederle? Forse no. Perciò, con questa preghiera, Gesù ricorda quello di cui abbiamo veramente bisogno e che possiamo e dobbiamo chiedere al “Padre nostro”, distogliendo la nostra attenzione da ciò che non è veramente essenziale e su cui probabilmente ci affanniamo troppo.

Il Padre nostro è l’unica preghiera comune di tutte le varie confessioni cristiane perché è l’unica preghiera che si fonda su un insegnamento diretto di Gesù. Naturalmente si possono dire anche altre preghiere, in forma fissa o spontanea, ma questa è proprio particolare, e il suo richiamo a ciò che è essenziale merita di essere ripetuto perché ripetutamente noi caschiamo nei nostri errori e ripetutamente abbiamo bisogno di essere rialzati e avviati per la strada giusta, che è quella della ricerca di ciò che dà valore e senso alla vita, alla nostra e a quella degli altri. Il pane per esempio, la giustizia e la misericordia, il perdono e la riconciliazione, la salute della mente e del corpo, la reciprocità e socialità fraterne e solidali. Troviamo tutto questo nelle poche frasi insegnate da Gesù, senza chiacchiere inutili e ripetitive: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo, anche in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori; e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal male” (Matteo 6,9-13).

La preghiera è una pratica religiosa tra le più a rischio ipocrisia. Lo sa bene anche Gesù: “Quando pregate, non siate come gli ipocriti; poiché essi amano pregare (…) per essere visti dagli uomini (…). Nel pregare non usate troppe parole come fanno i pagani, i quali pensano di essere esauditi per il gran numero delle loro parole” (Matteo 6,5-6). Il rischio ipocrisia aumenta enormemente quando si chiede a Dio qualcosa per cui noi non siamo disposti a impegnarci, almeno per quanto umanamente possibile. Uno dei più grandi teologi protestanti del Novecento, Karl Barth, nel corso di una sua conferenza chiese: “Può uno continuare seriamente a pregare senza compiere il lavoro corrispondente? Possiamo noi chiedere a Dio qualcosa che nello stesso momento non siamo determinati e preparati a portare avanti nei limiti delle nostre responsabilità?”. Era il 1938 e Barth si interrogava sulla responsabilità dei cristiani di fronte al crescere del nazionalismo che avrebbe portato alla guerra ma che aveva già schierato tutto il suo arsenale di odio contro gli oppositori politici e contro chi attentava alla “purezza della razza”. Lo stesso interrogativo vale per ogni questione che in preghiera si pone nelle mani di Dio: possiamo chiedere a Dio qualcosa per cui noi non siamo disposti a impegnarci? Evidentemente no.

P.S. Dimenticavo: esiste anche l’anti-preghiera, quella che odia e maledice il diverso da me (oggi è la Giornata mondiale contro l’omofobia!) o chi compie scelte che non condivido e tantomeno capisco. Insomma, la preghiera è cosa da maneggiare con cura e mai va trasformata nel suo opposto.

*Già moderatore della Tavola Valdese

Virus: Non è la fine, non è il principio

Forse la pandemia è finita ma non ci sarà alcun senso di resurrezione. Abbiamo patito molto (più di tutto per il senso di vuoto e la mancanza di guida), siamo rimasti fermi (per necessità ma anche non sapendo dove andare), non abbiamo fatto progetti (come accade persino ai prigionieri, che in detenzione si immaginano continuamente nuovi luoghi e nuove vite) e – tranne che il tentativo a ogni costo di essere esentati, per paura della terapia – non abbiamo neppure espresso desideri come nelle fiabe. Abbiamo solo aspettato, i più di noi con disciplina.

Forse la pandemia non è finita (o resta talmente vicina, talmente in agguato da tenerti sempre con il cuore in gola) e non ti resta che rinforzare l’obbedienza agli ordini: mascherina, guanti, disinfettanti e distanze. Sono pratiche claustrofobiche ma danno un senso o una apparenza di protezione. Non un solo leader e non un solo medico sono in grado o hanno voglia di indurti a propendere per una via d’uscita o per l’altra. Una prova del vuoto in cui siamo sospesi ce la danno coloro che si sono dati il lodevole compito di rasserenarci. Scrivono testi su mondi che saranno migliori, in cui noi saremo i fortunati protagonisti, dopo la prova superata. Nella loro e nella nostra immaginazione manca il percorso. Come si arriva a questo mondo nuovo e pulito dove saremo di muovo felici o, almeno, adatti alla felicità? Se qualcuno lo sa non lo dice per non toglierci il gusto della conquista. Ma è più probabile che tutti tacciano per essere sicuri di non perdere il segnale di ripresa (ricominciare, ripartire, sono le parole) quando verrà. Una cosa è certa, ed è nuova: soffriamo di una malattia che colpisce indifferentemente le persone e le imprese, il pensiero e il lavoro, la poesia e la falegnameria, l’immaginazione e la realtà. Per dirla tutta, sono due malattie. Una rientra nei canoni delle terapie mediche (anche se non esiste una cura). L’altra è una crisi economica che piove sul lavoro come “l’Agente Orange” pioveva sulle foreste del Vietnam, lasciando soltanto rami secchi. Ottimi economisti possono trovare la cura per il male aziendale, e la scienza medica potrà giungere a trovare la risposta clinica. Ma perchè intervengano i medici bisogna fermare i manager. E perchè i manager portino ai risultati necessari bisogna sgomberare i medici e le loro prescrizioni dalla scena. O si salvano tutti e non lavorano. O lavorano tutti e non si salvano. Se allarghiamo la scena vediamo qualcosa di più, anche se non è detto che capiremo qualcosa di più. Esempio. Da che esiste il potere, due classi distinte fronteggiano la guerra: una parte comanda, una parte combatte. Anche questa volta accade così, ma solo per la parte manageriale della malattia: restare in fabbrica, lavorare, produrre, mantenere i livelli previsti e remunerativi, e per la salute speriamo in bene. Per la parte “destino” (non il lavoro, la malattia) il coronavirus decide da solo e, se capita al momento giusto, si porta via il leader britannico del governo che, (si vede anche adesso, nei suoi radi discorsi), ha risentito molto dell’esperienza della malattia, che aveva appena definito una esperienza naturale del “gregge” di cui si illudeva di non essere parte. Dunque c’è dell’altro: c’è la scoperta romantica e un po’ bizzarra di un destino comune. Questo potrebbe spiegare un fatto nuovo: l’umore disorientato, contraddittorio ed esausto che sta diventando tipico di molti leader, fra i più importanti del mondo. Per oltre una settimana, nella rigidissima Corea del Nord, si erano perse le tracce del “caro leader”. Il Trump americano, in piena campagna elettorale, lo abbiamo incontrato senza idee, senza insulti, senza presunzioni e in continua contraddizione (“aprire tutto, chiudere tutto”) con se stesso. Ma non nel suo stile rabbioso o di disprezzo. Piuttosto di vera incertezza.

L’Europa resta priva di progetti ma anche priva della sicurezza di poter dettare le regole. Putin, che pure è una figura dittatoriale, improvvisamente appare modesto, come spaventato, senza che sia possibile dire da che cosa. Il sovranismo si sfoga nella violenza verbale gratuita (si vedano gli insulti a Silvia Romano-Aisha, la ragazza italiana-ostaggio appena liberata) ma non conosce strade né iniziative per districarsi dalla confusione di tutti. Ecco, forse, il dato comune di culture politiche e di regimi diversi e opposti è nella sfinita debolezza che quasi tutti i governi stanno dimostrando in questo strano periodo della storia del mondo. Ma c’entra la pandemia in questa sindrome diffusa della irresponsabilità o negazione o estrema debolezza di chi dovrebbe reggere o sorreggere gli altri (cittadini o prossimo)? Il Papa che gira da solo nelle piazze, nelle strade, nelle cattedrali deserte di Roma ci sta dicendo qualcosa. Forse l’avvertimento fraterno è che, anche in caso di “guarigione”, non stiamo tornando nel prima.