Palamara&C., traffici anche per nominare consigliere di Ermini

Organizziamo il caffè con Ermini e gli parliamo di Spaziani così risolviamo il problema”. È il pomeriggio dell’11 novembre 2018 quando Luca Palamara scrive questo messaggio a Cosimo Ferri. Di lì a poco il giudice Paolo Spaziani sarà nominato consigliere giuridico del vicepresidente del Csm. Il messaggio è tra le migliaia di chat telefoniche, estratte dal telefono di Palamara, che la procura di Perugia, dove è indagato per corruzione, ha inviato al Csm, al Ministero di Giustizia e alla procura generale della Cassazione. Il Fatto ha già rivelato che la nomina di Ermini – in quel momento parlamentare Pd – alla vice presidenza del Csm viene suggellata con la cena del 25 settembre 2018, nell’abitazione romana di Giuseppe Fanfani, anch’egli parlamentare del Pd, in quel momento consigliere del Csm in uscita. Sono presenti Luca Lotti e gli uomini più influenti delle correnti Unicost e Magistratura Indipendente, cioè Palamara e Ferri.

Lotti è il cerimoniere dell’operazione, Palamara e Ferri portano in dote i voti di Unicost, l’affare si chiude due giorni dopo quando Ermini è ufficialmente in sella. Siamo nella fase dell’Ermini/1. Non è un “cuor di leone” si diranno 8 mesi dopo Lotti, Palamara e Ferri, intercettati dal trojan che ha infettato il telefono del pm romano. Ed è proprio per la sua presunta assenza di carattere, spiegano, che in fondo l’hanno scelto come vice presidente del Csm. L’Ermini della fase 1 sembra molto vicino, oltre che a Lotti, a Ferri e Palamara. Al pm di Unicost, per esempio, chiede la copia di un discorso, per un intervento che terrà in quei giorni. Siamo a ottobre 2018: “Mi mandi un paio di punti per la traccia dell’intervento di domani?” chiede Ermini a Palamara. “Era un intervento sulle agromafie da tenere alla Coldiretti” spiega Ermini al Fatto, “non mi sono certo fatto scrivere l’intervento da Palamara. Il punto è che lui, l’anno precedente, era intervenuto sullo stesso argomento dinanzi alla Coldiretti e volevo leggerne il contenuto”. Un mese dopo arriva il turno di una delle poche nomine effettuate da Ermini al Csm, quella del suo consigliere giuridico, che, a giudicare dalla chat, è anch’essa targata Palamara-Ferri: “Organizziamo il caffè con Ermini e gli parliamo di Spaziani così risolviamo il problema”. Siamo sempre nella fase dell’Ermini/1, quella in cui Palamara e Ferri sembrano avere una grande influenza su di lui. Ermini rivendica l’autonomia sulla scelta di Spaziani che, peraltro, ha un curriculum invidiabile, poiché è magistrato dell’Ufficio del Ruolo e del Massimario della Corte Suprema di Cassazione ed è stato vice capo dell’Ufficio Legislativo Finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché esperto giuridico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. A presentargli la sua candidatura, aggiunge, non furono Ferri e Palamara, ma Corrado Cartoni, all’epoca consigliere del Csm in quota Mi (s’è dimesso a maggio scorso, pur non essendo indagato, proprio in seguito alla bufera scaturita dalle sue conversazioni intercettate con Palamara e Ferri, ndr). Che sia stato Cartoni, a proporlo a Ermini, lo dice anche Spaziani: “Non appartengo a nessuna corrente”, spiega Spaziani, “e Cartoni mi disse che Ermini aveva in mente di nominare un consigliere giuridico e voleva che fosse un magistrato. Desiderava qualcuno al di fuori delle correnti, così Cartoni aveva pensato a me. Palamara non lo conosco. Ferri invece sì. E in effetti me parlò anche lui, ma dopo. Fu Cartoni a a farmi questa proposta per primo”. Ferri ricorda di aver “valorizzato” con Ermini “la professinalità di Spaziani”.

Ermini, a sua volta, per rimarcare la sua autonomia nella scelta, fa sapere di aver scartato altre opzioni proposte dagli stessi Palamara e Ferri. Ferri però esclude di avergli fatto altre proposte. L’impressione, a giudicare dalle chat, resta la stessa: almeno fino a ottobre l’influenza degli uomini forti di Mi e Unicost c’è tutta. In fondo il patto stretto con Lotti risale a soli 2 mesi prima. Poi improvvisamente qualcosa si rompe. Forse Ermini sente di doversi emancipare, di doversi liberare da una sorta di “gabbia”. O forse accade qualcos’altro. Di certo c’è che a maggio, quando Lotti e Ferri vengono intercettati con Palamara, proprio mentre combattono la loro guerra per la procura di Roma, dove intendono nominare il magistrato fiorentino Marcello Viola, Ermini risulta ufficialmente un disertore. S’è defilato. Non risponde più neanche più ai messaggi. E la fase dell’Ermini/2. Lotti decide di ricordargli che se è il vicepresidente del Csm, Ermini, lo deve a lui. Che è proprio a Lotti, Ferri e Palamara che deve la sua ascesa. Ma qualcosa s’è irrimediabilmente rotto. Ad appena 8 mesi dalla sua nomina.

Zaia? No, il Veneto lo ha salvato Crisanti, nonostante il boiardo della Sanità Mantoan

Modello Veneto? Luca Zaia valoroso timoniere della nave in tempesta, “astro nascente della Lega” e magari, chissà, premier? Sarebbe meglio andare cauti. All’origine del successo della Regione Veneto nel contenere l’epidemia di Covid rimane pur sempre una delle vicende più imbarazzanti di questi mesi, difficile da dimenticare.

Lo scontro tra il professor Andrea Crisanti, il virologo dell’Università di Padova che ha ispirato al governatore le scelte vincenti, e il supermanager della sanità regionale scelto da Zaia nel 2010 Domenico Mantoan, che dal novembre scorso si è insediato alla presidenza dell’Aifa (sempre su indicazione di Zaia).

La data della disputa dice già molto: il 12 febbraio, prima di Codogno. E anche l’oggetto del contendere: gli asintomatici, chi ha contratto l’infezione ed è in grado di trasmetterla silenziosamente ad altri. Il vero “cigno nero” dell’epidemia soprattutto in quei giorni di febbraio, perché in grado di rendere inefficaci tutte le precauzioni adottate dai governi occidentali: dai termoscanner negli aeroporti alla definizione di “caso sospetto” stabilita dall’Oms e adottata da quasi tutti i paesi inclusa l’Italia, che faceva riferimento a una grave sintomatologia respiratoria.

Lo scambio di lettere è noto: Crisanti propone di estendere i tamponi ai “soggetti asintomatici rientranti dalla Cina”, iniziativa che fa infuriare Mantoan al punto da spingerlo a minacciare conseguenze per quello screening che non rientrava “tra la prestazioni coperte dal fondo del Ssn”, il Servizio sanitario nazionale. In quel momento “il virologo di Vo” arrivato a Padova dall’Imperial College di Londra non era noto al grande pubblico e non sedeva ancora nel comitato tecnico scientifico della Regione Veneto istituito il 4 marzo. Ma su come affrontare l’epidemia aveva già le idee chiare: a metà gennaio, quando ancora il contagio sembrava una lontana “sindrome cinese”, Crisanti convince l’ospedale di Padova ad acquistare reagenti per mezzo milione di tamponi. E a partire dal genoma del nuovo virus elabora un test che offre risposte in tre ore. Queste intuizioni e l’acquisto di un robot Usa in grado di processare 10 mila tamponi al giorno, sono alla base del successo del Veneto.

A gennaio il virologo elabora anche linee-guida avanzatissime (adottate dall’Università di Padova quando ancora non esistevano quelle nazionali) che prevedevano l’isolamento domiciliare per tutti gli esponenti della comunità accademica rientranti dai viaggi nelle aree colpite, “sia in assenza che in presenza di sintomi”, fino al risultato del tampone. L’Oms ammetterà solo ad aprile la minaccia rappresentata dagli asintomatici.

Ma il Veneto, ad eccezione di Crisanti, quanto era pronto ad affrontare l’epidemia? A Zaia si deve senz’altro l’intuizione di aver ordinato lo screening di massa sulla popolazione di Vo’ Euganeo, forse proprio per riparare a quell’imbarazzante scontro sulla ricerca degli asintomatici (che nel paesino del Padovano risulteranno essere più del 50% degli infetti). Per il resto, la sua linea è cambiata in continuazione. Il 27 febbraio chiedeva di “riaprire le scuole”, scagliandosi contro una “pandemia mediatica e digitale”. Salvo poi coinvolgere Crisanti nel comitato di esperti e adottare lo stile di guerra che l’ha contraddistinto nella fase acuta della pandemia, carico di immagini crude del tipo “le tubature degli ospedali sono congelate da quanto ossigeno consumano i malati”. O ancora, a proposito delle distanze di sicurezza: “Inutile che vi stia a dire di cercare il metro di distanza, evitate! Chiunque si avvicina a noi può mandarci in terapia intensiva, vedetevi già col tubo in bocca”. Ciononostante nei giorni scorsi ha preteso che le più prudenti distanze indicate dall’Inail per la riapertura fossero ridotte a un metro. Insomma, il merito di Zaia è uno: aver capito che la battaglia si vinceva domando l’epidemia. Per poter riaprire prima e meglio.

Paura e tasche vuote: metà degli italiani diserterà i ristoranti

Domani è un altro giorno cruciale nel ritorno alla vita come la conoscevamo prima. In gran parte d’Italia riaprono negozi, ristoranti, barbieri, alberghi, spiagge. La normalità però è ancora molto lontana. Non solo perché tanti imprenditori non possono o non vogliono riprendere la loro attività con le regole attuali, ma perché le abitudini delle persone sono cambiate profondamente, le tasche in questi mesi si sono svuotate e la paura è ancora tanta.

Lo mostrano i sondaggi in modo molto chiaro. Il più completo è quello realizzato da Izi insieme a Comin&Partners, pubblicato su Avvenire: meno della metà degli italiani ritornerà alle stesse scelte di consumo precedenti la crisi. Solo il 35,2% andrà al ristorante con la stessa frequenza di prima, il 42,4% nei bar, il 42,5% nei centri commerciali. L’unica categoria che supera il 50% è quella dei negozi (53,6%). Moltissimi ridurranno o addirittura rinunceranno completamente a queste attività: il 55% dichiara che andrà di meno al ristorante e il 7,6% che non ci andrà più; per i bar queste due risposte pesano rispettivamente il 48 e il 7,4%; per i negozi il 41,9 e il 2,2%; per i centri commerciali il 49,4 e il 5,6%. Una minoranza molto esigua degli intervistati invece ha risposto che tornerà a consumare persino più di prima: 2,2% per i bar e per i ristoranti, 2,3% per i negozi e 2,5% per i centri commerciali.

La proiezione sulle abitudini dei consumatori è quasi speculare a quella sulle scelte degli esercenti: secondo l’ultimo sondaggio di Swg domani riaprirà solo il 62% dei negozi che ne hanno possibilità. L’11% è incerto, deciderà in queste ore. Il 27% invece resterà sicuramente chiuso.

Il primo fattore da considerare è la paura. Secondo i dati raccolti dal sondaggista Antonio Noto, il 60% degli italiani è ancora spaventato dal coronavirus e dalla possibilità di essere contagiato (il 32% invece non ha paura, l’8% non risponde).

Il sondaggio di Noto – raccolto una settimana fa – raccontava anche un’opinione pubblica sostanzialmente spaccata sulla decisione del governo di far riaprire le attività commerciali: il 55% era d’accordo con questa scelta, il 35% contrario, gli altri indecisi. La dimensione psicologica del nuovo rapporto tra le persone e i negozi è ben restituita anche da un quesito contenuto nell’ultimo sondaggio di Emg Acqua Group, l’istituto di Fabrizio Masia, per la trasmissione Agorà. Alla domanda “Tornerà a provare i vestiti nei negozi”, gli intervistati si spaccano in tre: solo poco più di un terzo è convinto di sì (39%), il 35% dice di no, il 26 non vuole rispondere.

La normalità è davvero lontana. E a sorpresa, i più prudenti sono i più giovani. Torniamo al sondaggio di Izi citato prima: quelle meno inclini a ritornare alle vecchie abitudini risultano le persone tra i 18 e i 34 anni. In questa fascia d’età, la percentuale di coloro che frequenteranno di meno i ristoranti è del 55,5%, mentre per i bar è del 52%. Addirittura il 10% dei giovani dichiara non andrà più nei bar, mentre per i ristoranti la percentuale scende leggermente al 9 e per i centri commerciali all’8. Numeri che si possono spiegare così: questa fascia d’età è quella socialmente più precaria, che ha subito l’impatto economico più pesante.

“Sotto controllo, ma restano dei focolai: non mollare ora”

In Lombardia rimane la situazione più complicata per una diffusione del virus che, se pur limitata dal lockdown, è ancora sopra il livello di guardia. Poi ci sono osservate speciali, come il Molise e l’Umbria, per impennate anomale della curva del contagio in seguito a nuovi probabili focolai, anche se nel caso dell’Umbria il problema pare circoscritto, sotto controllo e addirittura risolto avendo ieri registrato zero nuovi contagi.

In Italia a più di due mesi dal “restate a casa”, alla vigilia di riaperture sempre più importanti, la lotta al Covid infuria ancora, ma sembra almeno di conoscere un po’ meglio il nemico. È quanto emerge dai dati del report pubblicato dalla cabina di regia di ministero della Salute, Istituto superiore di sanità e Regioni: “Le misure di lockdown hanno permesso – si legge sul documento – un controllo dell’infezione da Covid-19 sul territorio nazionale, pur in un contesto di persistente trasmissione diffusa del virus con incidenza molto diversa nelle 21 regioni e province autonome”. Undici regioni (Basilicata, Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, provincia di Bolzano, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana e Umbria) registrano una bassa probabilità di trasmissione del SarsCov2 mentre in 18 regioni (alle già citate si aggiungono Abruzzo, Emilia-Romagna, Marche, Piemonte, provincia di Trento, Valle d’Aosta e Veneto) è attualmente basso l’impatto negativo di Covid-19 sui servizi socio-assistenziali.

“Rimangono – si legge sul report – segnali di trasmissione con focolai nuovi segnalati che descrivono una situazione epidemiologicamente fluida in molte regioni italiane. Questo richiede il rispetto rigoroso delle misure necessarie a ridurre il rischio di trasmissione quali l’igiene individuale e il distanziamento fisico”. E inoltre, “è necessario un rapido rafforzamento dei servizi territoriali per la prevenzione e la risposta a Covid-19, per fronteggiare eventuali recrudescenze epidemiche durante la fase di transizione”.

In Umbria, la classificazione settimanale è passata da bassa a moderata per un aumento nel numero di casi e un Rt maggiore di 1 (cioè con indice di contagio sopra soglia), ma “in un contesto ancora con una ridotta numerosità di infetti registrati e che, dunque, non desta particolare allerta”. Tanto che ieri, in Umbria, non ci sono stati nuovi contagi. Ma il sindaco di Gualdo Tadino Massimiliano Presciutti ha chiuso le strade di comunicazione tra il suo comune e Gubbio, in seguito agli assembramenti di venerdì pomeriggio nel paese confinante per la tradizionale festa dei ceri: “Incresciosi e intollerabili fatti”.

Diversa la situazione in Lombardia. Qui, spiega il report “rimane elevato il numero di nuovi casi, seppur in diminuzione”. In Campania il governatore Vincenzo De Luca ha istituito fino al 20 maggio la zona rossa a Letino, Caserta, 700 residenti al confine col Molise, per una crescita improvvisa e anomala dei contagi. È allarme contagi anche a Chieti, in Abruzzo: il prefetto ha convocato per domani il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica al fine di esaminare la situazione.

“La situazione – ha affermato il ministro della Salute Roberto Speranza – ci consegna un quadro positivo dopo l’enorme sacrificio fatto dal nostro Paese. La curva epidemiologica si è piegata con il passare delle settimane, anche se i numeri del contagio sono ancora significativi. Dobbiamo riaprire con attenzione, con prudenza e cautela”. E Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, ha aggiunto: “Grazie alle misure di lockdown la circolazione del virus è molto contenuta in gran parte del Paese. Rimangono focolai importanti in alcune zone dove è necessario mantenere alta l’attenzione; ci sono focolai diffusi un po’ in tutto il Paese, ma i segnali mostrano che c’è una capacità di controllarli. È molto importante continuare a rafforzare i servizi di prevenzione territoriali di assistenza, per poter garantire una rapida intercettazione dei focolai”.

Il bollettino delle 18 registra altre 153 vittime che portano il totale, in Italia, a 31.763. Sono 875 i nuovi contagiati, che portano il totale dei casi a 224.760, mentre gli attualmente positivi sono 70.187. Un dato che cala di 1.833 unità. Poco a confronto dei 4.370 in meno di venerdì, ma comunque un segno di speranza. Come i 2.605 nuovi guariti: dall’inizio della pandemia sono ora 122.810 gli italiani che hanno sconfitto il virus. I ricoverati sono 10.400, mentre calano ancora le terapie intensive: sono 775, quindi 33 in meno rispetto a venerdì. Speranza ha annunciato la prossima lotta: “Dobbiamo batterci perché l’accesso al vaccino Covid sia un diritto di tutti e non un privilegio di pochi”.

Il Mef riscrive il dl “Rilancio”: brutte abitudini dure a morire

Mal comune, mezzo gaudio, si dice. L’altro mezzo, però, continua a essere una procedura illegittima di legificare, anche se l’hanno adottata tutti i governi degli ultimi anni. Ci riferiamo al cosiddetto decreto Rilancio, fu aprile, approvato martedì all’esito di un travaglio durato un mese e mezzo. Alla fine ne è venuto fuori un ircocervo di circa 250 articoli in cui si è tentato, a volte con successo, di infilare un po’ di tutto: ci sono i provvedimenti anti-crisi economica e ce ne sono moltissimi ordinamentali di cui non si capisce l’urgenza (corposo il pacchetto del ministero dei Trasporti).

Il punto, però, non è neanche che un mostro del genere, le cui norme entrano subito in vigore, sarà difficilmente analizzabile appieno dal Parlamento nei 60 giorni di rito, quanto che da martedì il testo è ostaggio del ministero dell’Economia dove è sottoposto a un processo di ri-scrittura da parte della Ragioneria generale dello Stato. Questo è il punto, tanto più che, a stare al comunicato ufficiale, questo decreto non risulta nemmeno approvato “salvo intese”, la pudica formula con cui in genere si dice che un testo definitivo non c’è.

Come detto, si tratta di un modo illegittimo di legiferare, specie per i decreti legge, coi quali – per così dire – il governo si sostituisce al Parlamento emanando norme immediatamente operative. La legge che regola l’attività del governo è molto precisa: è il Consiglio dei ministri l’unico organo autorizzato a emettere atti di questo genere e deve farlo consentendo a ogni singolo suo membro di prendere visione di tutte le norme per tempo. Questa abitudine, ancorché inveterata, di approvare decreti, fare conferenze stampa e poi prendersi qualche giorno per scrivere i testi non va bene: chi assicura ai ministri che quel che hanno votato martedì sia quello che uscirà in Gazzetta Ufficiale? Il famo a fidasse, pure tradizionale a Roma, non è categoria giuridica.

“Salvini&Meloni, la piazza è dei miei Gilet”

Assodato che la tragedia si ripeta in farsa, la replica della farsa assume invece contorni inesplorati. Così, sette mesi dopo l’ultima volta, Lega e Fratelli d’Italia tornano a litigare su chi debba mettere il cappello sulla manifestazione di piazza che entrambi hanno indetto per lo stesso giorno, nella stessa città, con le stesse rivendicazioni. Ma senza parlarsi.

Se poi non bastasse il paradosso, si aggiunga che Piazza del Popolo, una delle probabili location romane per la protesta contro il governo, è stata già “prenotata” da un inquilino ingombrante, almeno a livello dialettico. Trattasi del Generale Antonio Pappalardo, ex militare e sottosegretario di Stato durante il governo Ciampi (1993), oggi leader dei Gilet arancioni, declinazione nostrana degli smanicati rivoltosi francesi. Uno che ieri ha accolto la notizia della manifestazione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni con un’arringa da capo-popolo: “È una vigliaccata tremenda, una cialtronata. Se vogliono venire sono i benvenuti, basta che Salvini e Meloni si dimettano da parlamentari e sposino la nostra causa da normali cittadini. Altrimenti, loro arrivano dopo, protestino altrove”. E, se non fosse chiaro, “il generale Pappalardo è uomo di parola”.

Il messaggio si diffonde presto nel gruppo Facebook della protesta dei Gilet arancioni, che conta oltre 45 mila iscritti. Tutti orripilati dall’eventualità di condividere la piazza con la destra, che per altro aveva già i suoi problemi.

Il balletto intorno alla manifestazione inizia venerdì, quando Meloni e Salvini – forse per replicare alle Sardine, che intanto sono tornate a Piazza Maggiore posizionando 6.000 vasi con altrettante piantine – alternano gli annunci senza mai nominare l’altro. Fratelli d’Italia parla di “una mobilitazione nel giorno della Festa della Repubblica per dar voce a tutti i cittadini italiani”, il leghista incalza su 7Gold: “Se non ci ascolteranno in Parlamento ci troveremo a Roma con mascherina e distanza”. Poi i due annunci ufficiali sui social, ognuno per sé, con Ignazio La Russa che si sfoga: “Mi meraviglia questa rincorsa della Lega per una iniziativa che è stata pensata da tempo da FdI”. Nel frattempo Forza Italia si smarca dagli alleati, restando prudente sulla piazza.

Alla fine una quadra si troverà, anche solo per evitare imbarazzi. Guai però a sottovalutare il “no” del generale Pappalardo. Per informazioni basta chiedere a Osvaldo Napoli, deputato forzista che quattro anni fa ebbe a che fare coi Forconi, movimento di cui faceva parte proprio l’ex militare: pizzicato fuori Montecitorio, l’onorevole venne accerchiato da una decina di manifestanti che pretendevano di arrestarlo forti “di un articolo della Costituzione che permette ai cittadini di arrestare i ladri in flagranza di reato”. La cosa finì dopo qualche strattone e l’intervento della polizia (quella vera).

Conte sta dietro Macron sul Mes: solo se lo usa lui

Il Movimento 5 Stelle, come detto ieri al Fatto dal capo politico Vito Crimi, sul Meccanismo europeo di solidarietà (Mes) non ha cambiato idea: “Noi restiamo sul no”, cioè sul no a ricorrere ai prestiti dell’ex fondo Salva-Stati. E non pare aver cambiato idea neanche Giuseppe Conte, che ha sempre definito quello strumento “inadeguato”: il presidente del Consiglio ha scelto di esplicitare, seppur in un articolo di retroscena, la sua posizione su Repubblica, lo stesso giornale sul quale il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri si era mostrato assai più possibilista (“il Mes costituisce una importante rete di sicurezza”, “un eventuale utilizzo da parte dell’Italia verrà valutato a tempo debito”).

Il “tempo debito” di Conte è sostanzialmente mai: la sua posizione è che l’Italia potrebbe accettare di chiedere l’aiuto della nuova linea di credito sanitaria del Fondo solo se lo facesse prima la Francia, un’eventualità già esclusa dal governo di Emmanuel Macron, che invece – come l’Italia – dovrebbe ricorrere ai prestiti del fondo Sure contro la disoccupazione. Le ragioni di Conte sono due, una oggettiva – per così dire – e l’altra di contingenza politica. Partiamo da quest’ultima, che è anche la più ovvia: se il M5S non cambia idea sul no al “salva-Stati”, chiederne l’intervento vuol dire aprire una crisi di maggioranza e far cadere il governo.

La ragione oggettiva è invece poco considerata dalla pubblicistica nostrana: ricorrere al Mes – ammesso che sia in qualche modo conveniente e nient’affatto concesso che non sia un modo di portarsi la Troika in casa – avrebbe un “effetto stigma” sull’Italia. Tradotto: sarebbe come dire ai mercati che siamo in difficoltà, cioè come sanguinare davanti agli squali. Risultato: la pretesa convenienza del Mes (tutta da verificare su presupposti tecnici reali, visto che i suoi cantori spesso dimenticano le commissioni e il fatto che si tratta di crediti “privilegiati”) sarebbe annullata con una richiesta di maggiori esborsi sul resto del nostro debito mandandoci dritti sotto le cure delle cosiddette Omt della Banca centrale europea, sulla cui natura “greca” – o “condizionata” come dicono quelli bravi – nessuno dubita.

L’effetto stigma, peraltro, sarebbe un dato di fatto, a stare a un modulo per l’assistenza finanziaria del Mes pubblicato sul sito del Parlamento finlandese (il file è del 4 maggio): lo ha pubblicato ieri La Verità rivelando come nel preambolo il Paese che chiede aiuto debba ammettere “un rischio per la stabilità finanziaria”.

Una formula troppo esplicita che, se sono furbi, verrà attenuata, ma che rivela una volta di più la natura politico-ideologica di questo fondo a solida guida tedesca: una banca per Paesi che stanno andando per stracci e che ha l’unico mandato di far rientrare i soldi in cassa con gli interessi.

Il vero ostacolo sulla “via francese” di Conte è il Pd (a non dire di quello stato d’animo detto Italia Viva): a quanto risulta al Fatto, gira fra i maggiorenti del partito un dossier che dovrebbe dimostrare l’estrema convenienza dei prestiti “sanitari” del Mes. L’offensiva mediatica partirà nelle prossime settimane. Certo, se tutti gli altri Paesi Ue si ostinano a non volerne sapere sarà dura anche per gente ottimista come i democratici. D’altra parte, la trattativa sul Recovery Fund non pare andare nel verso desiderato da Roma.

“Tocca alle Regioni: se i contagi salgono devono richiudere”

A settembre, durante la spartizione dei ministeri, non gli era toccato proprio un posto di primo piano e invece il Covid-19 ha trasformato gli Affari Regionali in uno dei dicasteri centrali durante un momento storico. Francesco Boccia, dopo tre mesi di emergenza, parla col Fatto alla vigilia del vero passaggio alla fase 2, quella in cui spera di non dover litigare coi governatori un giorno sì e l’altro pure: “Inizia questa ‘nuova normalità’ in cui dovremo convivere col virus. Ora ci sarà maggiore autonomia e più responsabilità per le Regioni: più i contagi vanno giù più possono aprire, più vanno su e più dovranno chiudere. Sarà tutto trasparente e anche le responsabilità saranno chiare”.

Tutto chiaro, ma questa settimana molte Regioni hanno inviato con ritardo al ministero della Salute i dati sul contagio.

Quando invito tutti a essere precisi e puntuali sui dati non lo faccio per fare il primo della classe, ma perché la situazione da lunedì è molto delicata. Non stiamo discutendo sul locale da prenotare stasera per la pizza, ma della sicurezza del Paese.

Insomma, se i ritardi continuano li costringerete a chiudere?

Allora, adesso si riapre e si controllano i dati ogni giorno: se superiamo i livelli di guardia i presidenti saranno obbligati a chiudere e, se non lo fanno, dovremo farlo noi. Se invece, come speriamo, la situazione migliora, allora si apre ulteriormente. Non inviare dati secondo il decreto ministeriale è come superare i livelli di guardia…

Cosa guarderete per intervenire?

Ad esempio se i posti in terapia intensiva calano, se c’è assistenza territoriale, il tracciamento dei contatti, eccetera. Il monitoraggio ogni settimana sarà il termometro che ogni cittadino avrà per misurare il contagio nel suo territorio: potrà giudicare se è stato giusto aprire un parco o, esagero, consentire la movida. Io, però, batto molto sulla terapia intensiva: già oggi i posti in Italia sono passati dal picco di 9.500 a 8.100. Sono scesi perché la sanità privata sta tornando a fare il suo mestiere, ma le Regioni, rispetto a febbraio, devono raddoppiare i letti “pubblici” in modo permanente.

Intanto i governatori vi hanno imposto le linee guida sulla riapertura di bar, ristoranti e spiagge.

Ma nient’affatto. Abbiamo lavorato confrontandoci e mediando con le Regioni e rivendico il metodo. L’alternativa era l’esercizio muscolare che non porta da nessuna parte. Certo, lo Stato potrebbe esercitare i poteri sostitutivi previsti dalla Carta, ma 21 organizzazioni territoriali e sanitarie diverse non le governi con la frusta.

Non è che il clima sia sempre stato così collaborativo…

Quando sento che in Italia c’è stata una rivolta delle Regioni vorrei invitare tutti a vedere cos’è successo in altri Paesi. Vogliamo parlare del rifiuto dei sindaci dell’area di Parigi di riaprire le scuole? O di ciò che han fatto i Laender tedeschi?

Avete appena approvato, con molto ritardo, il secondo decreto economico. Troppo poco, troppo tardi?

Erano due manovre messe insieme. Ammetto che avremmo potuto farlo prima, ma è un pacchetto talmente difficile da integrare che ha richiesto tempo. Noi non abbiamo le possibilità di far debito della Germania. Questo sia chiaro. Ora dobbiamo consentire alle imprese di recuperare il tempo perduto, ma da parte nostra serve una visione del futuro del Paese.

Pare che la visione sia il “modello Genova”: deroga a tutte le leggi per tutti i cantieri.

No, è una visione più ampia di semplificazione della macchina pubblica e delle procedure perché lo Stato ne ha bisogno. È evidente che non si può né si deve approfittare della pandemia per cancellare procedure che sono garanzie per l’utilizzo trasparente dei soldi pubblici, ma tra dieci e zero c’è il 5… Comunque semplificare non vuol dire derogare ma adeguare: molte procedure possono essere snellite.

Finora però i vostri interventi sono parsi “malati” di burocrazia: sulla Cig in deroga, ad esempio, avete dovuto fare marcia indietro.

La cassa ordinaria è stata già pagata a sei milioni di italiani, per la Cig in deroga prima dell’epidemia servivano 3-5 mesi. Ora abbiamo cambiato le procedure d’accordo con le Regioni: avremmo dovuto farlo tre mesi fa, di questo sono tutti consapevoli. Ma dobbiamo prenderci in giro? Pensavamo che le banche avrebbero accelerato. Non è stato così.

A non voler parlare di soldi, le semplificazioni pare il classico vasto programma.

È una sfida che hanno perso molti governi prima di noi. Io, quanto a me, lancio una sfida alle Regioni: dovremmo continuare il lavoro congiunto e aprire un tavolo sulla semplificazione delle procedure autorizzative tra Stato e Regioni: azzeriamole, è inammissibile che le imprese perdano tempo nel nostro ping pong. Questa epidemia ci ha insegnato che se il burocrate non si trasforma in semplificatore arriva troppo tardi: quattro mesi fa la burocrazia ministeriale non ci avrebbe mai concesso di mandare in corsia ottomila medici pensionati.

Conte: “Il rischio è calcolato, ma i lombardi stiano attenti”

Dice Giuseppe Conte che il rischio è “calcolato” e che il governo ha “la consapevolezza” che la curva epidemiologica potrà tornare a salire. Ma aspettare il vaccino è impossibile, i “danni” al tessuto economico sarebbero insostenibili. Perciò dobbiamo “declinare diversamente” il sacrosanto valore della tutela della vita: “accettare il rischio” perché “altrimenti non potremo mai ripartire”. Così da lunedì si riapre tutto e, all’interno della propria regione, “si potrà andare dove si vuole”: sono gli enti locali, adesso, a doversi assumere le loro responsabilità inviando in maniera “puntuale e specifica” i dati sul monitoraggio dell’epidemia. Come il Fatto vi ha raccontato, è questo il tasto dolente di tutta la partita: la prima sperimentazione ha visto ben cinque regioni – praticamente una su quattro – disattendere l’obbligo di inviare a Roma tutti i dati necessari a comprovare che la situazione è sotto controllo. Giuseppe Conte però è fiducioso. E per dimostrarlo ha convocato la prima conferenza stampa “in presenza” della fase 2: giornalisti disposti a distanza nel cortile di palazzo Chigi e non più dietro lo schermo da remoto.

È a loro che spiega come gli sforzi per avere presto la app Immuni siano vicino al traguardo (ma non si impegna con le scadenze), che 150 mila test sono pronti e altri ne arriveranno e che anche la Lombardia, dove il rischio è ancora “moderato”, non ha motivo di restare chiusa. Certo, raccomanda il premier, ai cittadini che vivono a Milano, a Bergamo, a Brescia e nel resto delle province lombarde è “consigliato” di stare “particolarmente attenti” e di affidarsi all’istinto di “autoprotezione”. Ma è anche certo, Conte, che se la curva dovesse risalire sarà il presidente Attilio Fontana ad applicare “misure restrittive mirate”, come quelle previste dal decreto. E se non dovesse farlo “ci metteremo la faccia – dice il premier – come abbiamo fatto finora”. Il suo avvertimento alle Regioni è piuttosto chiaro, anche se lui ricorda di aver chiarito ai governatori che questo provvedimento “non è uno scarico di responsabilità”. Ma molto, quasi tutto a dire il vero, dipenderà dai singoli e dalla “cautela”, che resta la parola d’ordine anche della fase 2.

Perché non esistono più le autocertificazioni e all’interno della propria regione ci si potrà spostare liberamente, fermo restando il divieto di assembramento nei luoghi pubblici. Ma è chiaro che il governo – per arrivare all’intesa con le regioni – ha dovuto ammorbidire le linee guida scritte dall’Inail, che avrebbero messo a rischio la tenuta economica di molte attività. Insiste Conte: “Portate sempre con voi la mascherina”, che però resta obbligatoria solo al chiuso. Annuncia che dal 3 giugno ci si potrà spostare anche fra regioni (ma si riserva di valutare l’evoluzione della curva), che dal 25 riaprono palestre e piscine mentre solo dal 15 del mese prossimo si potrà tornare nei cinema e teatri. Sparisce l’obbligo di quarantena per chi arriva da altri paesi europei: speriamo nei turisti, insomma, anche perché – lo ammette lo stesso Conte – non saranno le riaperture né il decreto Rilancio a risolvere tutti i problemi causati da questi tre mesi di stop.

 

Ristoranti, bar e Negozi
Distanza di un metro, guanti e mascherine. E addio buffet

I ristoranti riaprono quasi ovunque: non a Torino, dove la sindaca Chiara Appendino ha annunciato che per la ripresa delle attività di ristorazione bisognerà aspettare ancora una settimana (il 25 maggio). Le regole sono state ammorbidite nell’ultimo incontro tra governo e Regioni: il distanziamento tra i clienti è stato ridotto a un metro (rispetto ai quattro previsti inizialmente). Altre prescrizioni per i ristoratori: mascherine, guanti e frequente lavaggio delle mani per il personale, prodotti igienizzanti a disposizione di tutti, possibilità di prendere la temperatura corporea ai clienti (impedendo l’accesso se è superiore ai 37,5 gradi), obbligo di mantenere i nomi di chi prenota (in modo da poter ricostruire i contatti di eventuali contagi). La consumazione al banco è consentita solo se è possibile far mantenere la distanza di un metro, quella a buffet invece è esclusa. Le stesse regole di distanziamento e prevenzione valgono anche per i bar e per i negozi di commercio al dettaglio (ai quali si aggiunge la possibilità – ma non l’obbligo – di disporre barriere fisiche tra proprietari e clienti, come uno schermo sulla postazione della cassa).

 

Acconciatori e centri estetici
La prenotazione è obbligatoria. Per gli estetisti anche la visiera

Anche parrucchieri, barbieri e centri estetici dovranno riorganizzare gli spazi dei propri negozi in modo da garantire in ogni caso la distanza di almeno un metro sia tra le postazioni di lavoro, sia tra i clienti. Dovranno inoltre disporre – come si legge nel testo delle linee guida – barriere fisiche adeguate a prevenire il contagio. Sia l’operatore che il cliente sono obbligati a indossare la mascherina durante il tempo necessario a compiere il servizio. Per i centri estetici, nello specifico, è stabilito l’obbligo di indossare una visiera protettiva e una mascherina FFP2 senza valvola. Non può essere tralasciata, ovviamente, né la pulizia delle mani dei lavoratori né la sanificazione degli ambienti. La permanenza dei clienti nel negozio deve essere limitata al tempo necessario al trattamento. La prenotazione del servizio è obbligatoria. Anche in questo caso – come per i ristoranti – l’elenco dei clienti deve essere mantenuto per almeno due settimane. E anche per acconciatori e centri estetici c’è la possibilità di prendere la temperatura ed escludere le persone cui dovesse risultare superiore ai 37 gradi e mezzo.

 

Spiagge, alberghi e musei
Dieci metri per ogni ombrellone. Vietati gli sport, ingressi limitati

Sia negli stabilimenti balneari sia nelle spiagge libere si dovrà tenere la distanza di un metro dagli altri bagnanti (esclusi ovviamente quelli con cui si convive). Ogni ombrellone dovrà avere 10 metri quadri di spazio autonomo, mentre lettini, sdraio e sedie dovranno essere distanti almeno 1 metro e mezzo dalle attrezzature dell’ombrellone adiacente. Vietate attività e sport di gruppo, consigliata la prenotazione e i gestori dovranno, nel caso, conservare per 14 giorni la lista dei clienti.
Negli alberghi saranno invece obbligatorie le mascherine per gli ospiti. Nelle aree comuni si dovrà garantire il distanziamento di 1 metro, oltre a favorire percorsi differenziati di entrata e uscita. Alla reception “possibile” l’installazione di barriere. Ogni struttura dovrà poi verificare lo stato gli impianti di ventilazione.
Quanto ai musei, si dovranno prevedere ingressi in base alla capienza della struttura, per evitare assembramenti. Mascherine obbligatorie per i visitatori e per il personale (quando non può essere garantito 1 metro di distanza). Ok alle audioguide, purché disinfettate ad ogni utilizzo.

 

Piscine e palestre
In acqua si va “a numero chiuso”. Attrezzi disinfettati di continuo

Le regole per piscine e palestre saranno valide dal 25 maggio, giorno di riapertura. I gestori delle piscine dovranno calcolare il numero di ingressi consentiti in base alla dimensione della vasca e degli spazi comuni, tenendo conto che sia in acqua che nelle aree solarium ogni cliente dovrà avere a disposizione 7 metri quadrati. In ogni caso è raccomandata la prenotazione e i gestori dovranno conservare il registro dei clienti per 14 giorni. Vietato il pubblico sulle eventuali tribune. Negli spogliatoi dovrà essere evitato l’uso promiscuo degli armadietti, mentre in acqua bisognerà fare ancora più attenzione al rispetto delle consuete norme di buon igiene: uso della cuffia, doccia prima di immergersi, nessuno sputo.
In palestra, per chi fa attività fisica la distanza interpersonale dovrà salire ad almeno 2 metri. Gli ingressi, in ogni caso, dovranno essere calcolati per garantire almeno 1 metro a cliente nelle zone comuni (comprese docce e spogliatoi). Ogni attrezzo della palestra dovrà essere disinfettato prima di essere riutilizzato da un’altra persona.

Bertolaso astronauta

I barbieri riaprono domani, ma Guido Bertolaso ha riaperto ieri. Con un’intervista al Foglio. Così si è riformato il duo fra lui, noto nell’ambiente cabarettistico come Bertolesso, e il suo ultimo capocomico, Attilio Fontana in arte Umarell, che purtroppo non aveva mai chiuso. Resta invece in lockdown la lingua del terzo caratterista del trio: il popolare Giulio Gallera, noto anche come Compro-una-Consonante, silenziato ormai da un mese da chi gli vuol bene per risparmiargli guai peggiori. Ma andiamo con ordine. Triste, solitario y finàl, Bertolesso si è concesso al ragionieri Cerasa in un imperdibile colloquio su “La protezione che manca all’Italia”: quella civile, che non s’è ancora riavuta dopo il suo passaggio. Dice dunque il salvatore della patria, richiamato d’urgenza due mesi orsono dal Sudafrica (con gran sollievo delle popolazioni indigene) per fare il “consulente personale del governatore della Lombardia”, che se ce la faremo dovremo “ringraziare un po’ meno il popolo e un po’ meno chi lo rappresenta”. Resta da capire chi dovremo ringraziare un po’ di più, ma la risposta è implicita: Lui.

Le apparenze non ingannino: è vero che, appena arrivato per creare nuovi posti letto, ne occupò subito uno perché incontrava questo e quello senza distanziamento né mascherina, stringeva mani senza mettere i guanti e si avvicinava pericolosamente a chi gli parlava per via di un calo d’udito, ragion per cui si contagiò e spedì in quarantena plotoni di collaboratori in Lombardia e pure nelle Marche. Però, anche se nessuno se n’è accorto, ne ha fatte di cose. “Ho costruito un’astronave”, cioè il leggendario ospedale Covid alla Fiera di Milano, ma poi “se gli astronauti chiamati a pilotarla non sono stati capaci, credo che la colpa sia di chi li ha scelti”. Cioè di chi ha scelto lui: l’Umarell. Il fatto che l’“astronave” sia costata 50 milioni e sia arrivata a ospitare 14 malati nelle ore di punta e 4 negli ultimi giorni, roba da 3,5-12,5 milioni per letto, e sia diventata lo zimbello della comunità scientifica mondiale, non lo tange. Lui l’astronave l’ha fatta, tant’è che è richiestissimo dalla Nasa. Ma non solo: “Nei giorni in cui ho collaborato con la Regione Lombardia un piano lo avevo proposto”. Ecco, pure il piano. E che diceva? “Fare tamponi a tappeto e screening sierologici a 4 milioni di persone entro la prima settimana di maggio”, insomma “le tre t (tamponi, tracciamento, terapia)”, che però si scontrarono con le “tre d” di Fontana “distanza, dispositivi, digitalizzazione”, peraltro mai viste). Ma, osserva amaro il nostro eroe, “ancora non ho capito perché non mi è stato permesso di farlo”.

E domandarlo all’Umarell e all’Avanzo di Gallera pareva brutto. Vabbè, dài, è andata così. Spiace per gli incolpevoli sudafricani, che ora se lo riciucciano. Invece Fontana resta. E, se non fosse per il record mondiale di morti (15.450 grazie alla sua “sanità modello”), sarebbe uno spasso. L’altroieri, stufo del doppio gioco dei sedicenti governatori del Nord, pompieri al chiuso e incendiari all’aperto, Conte li ha responsabilizzati sulle nuove riaperture. Ed è accaduto ciò che accadde nella striscia di Gaza quando Israele la lasciò ai palestinesi, che iniziarono a scannarsi fra loro. Il vertice dei 20 presidenti era meglio del circo Togni: Fontana, tremante all’idea di metter la faccia su misure restrittive e impopolari, tentava di ripassare il cerino al governo (“Deve darci linee guida uguali per tutti”) e Zaia lo zittiva (“Non se ne parla neanche”).

A quel punto, siccome è più facile assumere un Bertolaso che una responsabilità, ha sganciato un’arma di distrazione di massa. E, non potendo invadere le Falkland, ha iniziato a strillare al terrorismo per una scritta e un falcemartello contro di lui su un muro di Milano. “Virus comunista”, ha titolato il fu Giornale, intervistando il povero Umarell che sbraitava lì e su La Stampa: “C’è un piano politico contro di me”, “un clima antilombardo”, “critiche non sul merito ma perché io sono della Lega” e “questo clima si riversa contro la Lombardia”, noto paradiso terrestre: “la sanità in Lombardia ha funzionato bene e si è dimostrata efficiente”, grazie anche al Bertolaso Hospital (“un’opera di programmazione, fatta anche nelle Marche, in Emilia, a Berlino”: infatti sta per chiudere). Insomma, “io credo che i numeri si debbano anche interpretare. Se guardiamo il tasso di infezione, scopriamo che da noi è fra i migliori in Italia” (nessuno si infetta come in Lombardia: sono soddisfazioni). Ergo “siamo riusciti a contenere il virus”, che peraltro “si è diffuso perché c’è una grande densità, mobilità”: invece le altre regioni sono desertiche e i pochissimi aborigeni non hanno ancora inventato la ruota. Sallusti e altre pregiate firme del Giornale elencano i mandanti del vile attacco terroristico a mezzo spray: la Sciarelli, Currò del M5S, Gad Lerner e il sottoscritto, rei di aver criticato il miracolo sanitario lombardo. Mancano, alla lista dei mandanti delle Vernici Rosse, gli Ordini dei medici di tutta la Lombardia, autori di un referto definitivo sui disastri sanitari regionali. I famosi Camici Rossi che Fontana&Gallera accusarono di “fare politica al servizio del Pd”. Appena riaprono pure i cabaret, questi ci ammazzano dal ridere.