Ciao Maestro Bosso: il talento scomodo che credeva nei sogni

“Avrei due idee”. Il messaggio è datato 2 maggio. Ezio Bosso scrive a Max Bugani, capostaff della sindaca Raggi. Sono amici dai tempi, burrascosi, in cui il Maestro era stato direttore del Comunale di Bologna, e l’altro sedeva nel Consiglio cittadino tra i pentastellati. “Ma se le registrazioni le facessimo dai siti museali?”, prosegue il whatsapp di Bosso, due settimane fa. Un pensiero, concreto, per esaltare la Grande Bellezza di Roma.

“E se unissimo il 2 giugno e facessimo un concerto vuoto in diretta sulle scale dell’Altare della Patria?”, insiste Ezio. La seconda proposta, rivela Bugani, “era in fase di realizzazione. Celebrare la festa della Repubblica con una musica, la sua, davvero in grado di riunire il Paese. Non ha fatto in tempo, ma potremmo comunque studiare una maniera per omaggiare quest’uomo che avevo ribattezzato Grande Anima”. E ce n’era una terza, di idea, alla quale Bosso teneva particolarmente. “Era destinata ai bambini del reparto oncologico del Gemelli. Avrebbero visto suonare Ezio dal vivo, ma per via virtuale, sui tablet. Simultaneamente, un grande schermo nel teatro gremito avrebbe mostrato la gioia dei piccoli ricoverati. ‘Mettiamo insieme arte e dolore in un’esplosione d’amore’, diceva lui. Chissà, forse la soluzione è evocare lo spirito e la creatività di Bosso: è ciò che resterà di un genio che ha combattuto da leone contro gli agguati del suo stesso corpo. E contro i calunniatori”, sospira ancora Bugani.

“Ezio soffrì moltissimo, a Bologna, per le dicerie che lo riguardavano: insinuavano che la sua fama e i suoi ruoli fossero legati alla disabilità. Sminuendone l’immenso talento. La verità”, insiste Bugani, “è che Bosso era scomodo. Lavorava a titolo gratuito, ma scavava a fondo nella realtà paludosa delle filarmoniche, i doppi incarichi, le spese disinvolte. Voleva fare pulizia. Un giorno, nella bacheca sindacale del Comunale, fu affissa una lettera firmata da 51 dei 90 professori d’orchestra, che si lamentavano per ‘incontri privati sulla gestione e la programmazione’ di Bosso con ‘alcuni dipendenti della Fondazione’. I musicisti precisavano di parlare ‘a titolo personale’, ma la miccia era accesa. Il sindaco Merola e il sovrintendente Sani riconfermarono la solidità del rapporto con il Direttore Bosso, anche in vista di un grande concerto in Piazza Maggiore nel giugno 2017. L’evento era pensato per il G7 sull’Ambiente, e si risolse in un grande successo. Ma qualcuno sottolineò altri screzi tra Ezio e degli orchestrali. Dopo giorni di conflitto strisciante, Bosso levò le tende con ironia: ‘Sono costretto a lasciare l’incarico perché parte il tour. Il mio fisico non sopporta troppo stress’. Simili contrasti si riprodussero in altri teatri. Oggi tutti lo piangono, ma in vita fu contrastato perfidamente. Proprio lui, che diffondeva vita e amore”, nota Bugani.

La sera in cui l’Italia l’aveva scoperto, ospite a Sanremo 2016, perfino il cicaleccio dei tweet si era spento durante la sua incantata esibizione in tv. In milioni a bocca aperta ad ascoltare questo prodigio che nessuno conosceva. “Era famoso all’estero”, ricorda con noi Carlo Conti, direttore artistico di quel Festival. “Non c’era stato il tempo di vederci alle prove. Ma in diretta fu come se ci fossimo solo noi due, alle prese con quella chiacchierata così vera e senza filtri, al punto che me ne fregai della scaletta. Io e Ezio eravamo avvolti in una bolla fuori dal tempo, come in quei film in cui tu sei a colori e il resto del mondo in bianco e nero. Fu tutto così spontaneo e illuminante, uno dei grandi incontri della mia vita. Bosso si emozionò parlando della portinaia che gli aveva profetizzato che un giorno sarebbe andato a Sanremo, pur senza cantare. E poi quelle parole commosse dopo la standing ovation, ‘ricordate che la musica, come la vita, si fa tutti insieme’. Quanto suona necessaria quella frase, oggi”, conclude Conti.

Quella notte il Maestro venne a parlarci a lungo, con il sorriso di un bambino che testimoniava di un incantesimo. Ci raccontò del disco The 12th room, in cui giocava con Chopin e Bach. Di quel brano, Following a bird, nato osservando il volo di un uccello, “perché per seguire qualcuno devi prima perderti”. E di quell’antica teoria delle dodici “stanze” nella vita di ogni uomo. “Nella prima ti trovi quando nasci, ma non vedi nulla. Nell’ultima vedrai ogni cosa”. Chissà ieri, quando l’ha attraversata.

“Ripartiamo dalla Terra”: l’alleanza per l’Italia tra chef e contadini

La ristorazione italiana prova a far fronte alla grave crisi economica causata dalla pandemia ripartendo da un cambio di paradigma. Il motore della rinascita sta nel rinsaldare il rapporto tra produttori, distributori e ristoratori. Occorre fare rete e promuovere un’agricoltura meno intensiva, nel rispetto dell’ambiente. È quanto chiesto al governo da 540 cuochi dell’“Alleanza”, uno dei più importanti progetti dell’associazione internazionale no profit Slow Food, che gestiscono osterie e ristoranti in tutta Italia.

All’appello “Ripartiamo dalla Terra”, inviato alla presidenza del Consiglio e ai ministeri dell’Economia, dello Sviluppo economico, delle Politiche agricole alimentari, dei Beni culturali e del Turismo, oltre che agli enti territoriali, hanno aderito al momento in 6.200, tra cuochi, contadini, allevatori, artigiani e cittadini. “Questo è un impegno che noi tutti assumiamo per non essere consumatori solo, ma diventare coproduttori”, ha dichiarato Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, presente in 150 Paesi per promuovere un modello gastronomico attento alla biodiversità e all’agricoltura equa e giusta.

La rete di comunità solidali chiede sostegno con iniziative concrete per far rinascere la migliore agricoltura d’Italia e la ristorazione di qualità. “Il 30 per cento delle attività commerciali di vendita al dettaglio e somministrazione – avverte Slow Food – a giugno non avrà le condizioni economiche per ripartire e non riaprirà”. Piuttosto che continuare ad assecondare il mercato, rincorrendo il prezzo più basso, favorendo la distribuzione su larga scala e un sistema produttivo schiacciato dalle monocolture e dall’asservimento a sostanze chimiche, la ristorazione italiana chiede di fare di questa pandemia una grande occasione per cambiare prospettiva e favorire le piccole e medie aziende agricole locali e il turismo rurale.

“Grazie alla nostra cucina abbiamo diffuso conoscenza, bellezza, piacere. Oggi siamo in crisi – si legge nell’appello – e con noi lo sono i nostri produttori, una parte dei quali faticava già prima a reggere la concorrenza dell’agroindustria e le logiche del mercato e della distribuzione”. Occorre ripartire da un sistema di produzione fatto di cura e rispetto per la terra. Per farlo Slow Food chiede di estendere il credito di imposta “agli acquisti di prodotti agricoli e di artigianato alimentare di piccola scala legato a filiere locali, in una misura pari almeno al 20 per cento, da aumentare al 30 per cento nel caso in cui tali aziende pratichino un’agricoltura biologica, biodinamica, o siano localizzate in aree marginali, disagiate e di particolare valore ambientale”.

La chiave di volta, quindi, è sostenere il chilometro zero ricorrendo a “risorse a fondo perduto per le imprese in base alle perdite di fatturato, moratoria sugli affitti, cancellazione di imposte anche locali, sospensione del pagamento delle utenze, prolungamento degli ammortizzatori sociali fino alla fine della pandemia e sgravi contributivi per chi manterrà i livelli occupazionali”.

I veri nemici restano la perdita di biodiversità, l’erosione del territorio, l’inquinamento, l’abbandono delle aree rurali, lo sfruttamento del lavoro e lo spreco alimentare. Per combatterli e ripartire serve una visione: “Quella di un Paese che sa proteggere e fare tesoro dei suoi saperi e della sua storia”. Del resto è il cibo che tiene tutti assieme i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Ed è il cibo, come da tradizione, l’essenza del nostro Paese.

Riordinare le librerie è ricordare i vecchi flirt

Ristretto nello spazio mentale della casa, l’essere umano al tempo del Coronavirus si riappropria della biblioteca, mettendo mano anche alle zone d’oblio. Se il frigo è gastroscopia e il bagno colonscopia, la biblioteca è autobiografia. È lo scorcio domestico che ti mette a nudo negli aspetti meno grevi e si presta come fondale per un collegamento video, dalla apparizione televisiva alla lezione data o ricevuta, e non solo per il riflesso culturale che retroillumina lo schermo (in controtendenza Alessandro Sallusti si fa vedere con alle spalle un vaso di finocchi e Brera avrebbe apprezzato).

Solo un Berlusconi giovane e spregiudicato – non ancora pregiudicato – si mostrava davanti al vuoto violento di una libreria senza libri, come testimonia una eloquente fotografia che l’avvocato Augusto Bianchi, tenutario di un salotto culturale, aveva in bella mostra nel bagno del suo vasto appartamento a Milano. Per Roberto Calasso mostrare la propria biblioteca equivale a “raccontare i propri flirt”, come ha spiegato in un’intervista del 2015, annunciando la pubblicazione di un libro che parla di come “usare i libri”. Si tratta di Come ordinare una biblioteca: uscito in edizione fuori commercio per happy few, il titolo arriverà in libreria il 28 maggio. Non poteva esserci momento migliore.

Il tempo si è fermato e hai possibilità di ricapitolare, mettendo ordine tra i volumi, dividendoli per autore o argomento o tutt’e due, spolverandoli e incollandoli. Un po’ Borges e un po’ Il magico potere del riordino di Marie Kondo. Feconde connessioni surreali si rivelano nel dialogo tra questi oggetti logorroici e muti. Mettere sullo stesso scaffale “varesino” Piero Chiara e Guido Morselli non è un affronto viste le cattiverie che il primo ha scritto dell’altro? “Come ordinare la propria biblioteca è un tema altamente metafisico. Mi ha sempre meravigliato che Kant non gli abbia dedicato un trattatello”, scrive Calasso nel breve saggio in uscita.

È una metafisica che l’ebook non permette. Non solo non può contenere reperti d’erbario, cartoline, caccole e altri frammenti disidratati della vita del lettore, ma neanche provocare quell’effetto di serendipity citato da Eco secondo il quale le biblioteche domestiche hanno un ordine che serve non solo a trovare i libri che cerchi ma anche quelli che non cerchi. L’icona dell’applicazione Amazon Kindle presenta un ragazzino che legge sotto le stelle ma soprattutto sotto un albero. Come dire: salvami, leggi digitale? Doppiamente colpevole allora ti fanno sentire le librerie perché contengono libri di carta e sono fatte di legno. Per non parlare di quelle “ad albero”, che hanno una struttura simile a una pianta, con piedistallo-radice, tronco centrale e ripiani-rami. Ci sono anche quelle a colonna in metallo. Se accostate, fanno torri gemelle o skyline di libri. Tutte librerie di effetto estetico, non adatte a risolvere i problemi di ingovernabilità descritti da Ambrogio Borsani in L’arte di governare la carta. Follia e disciplina delle biblioteche di casa (2017), il primo a dare alla materia dimensione letteraria. Consentono però di isolare libri che hai usato per scrivere libri, categoria ordinistica che appartiene a parte della vasta biblioteca di Calasso: cinquantamila volumi al 2015, tra la casa editrice e la casa.

L’attività di scrittore, ha detto Houellebecq, richiede l’alternanza di lavoro e attività fisica, possibilmente passeggiata, e il virus non aiuta. Tra le mura domestiche si può surrogare il moto con la movimentazione di libri e il bricolage bibliofilo. Si possono ordinare e montare librerie, aggiungere ripiani facendo tagliare assi di legno in un Brico o Leroy Merlin, verniciare e sverniciare entrando in contatto con sostanze esoteriche come l’impregnante o il mordente. Scoprirai allora di essere sempre stato senza mordente. Desidererai evolvere verso la specie dell’uomo (o donna) alfabeta, dove la mente e la mano si alleano, handy-man/woman e book-worm allo stesso tempo, trapanatore e tarma da libri, topo e topa da biblioteca. I colorifici, forse ancora più dei supermercati, ci hanno salvato dalla follia consentendo lo sfogo fisico nei lavori di manutenzione domestica. E senza il senso di colpa da cibo ingerito, anzi migliorando la digestione e consentendoti di mangiare con abbondanza. Il rischio è farsi prendere la mano finendo col preferire il carteggio a Il carteggio Aspern. La musica non costringe all’alternanza: si può pulire la fuga tra le piastrelle ascoltando una fuga di Bach. La casalinga di Voghera c’est moi, avrebbe detto Arbasino.

Le navi ferme nei porti coi motori accesi

Ferme in porto. Con i motori accesi a consumare ogni giorno tonnellate di carburante e a inquinare. Il virus ha fermato le navi da crociera. Dopo le tragiche disavventure delle prime settimane di epidemia, con il contagio che si diffondeva tra i passeggeri, i colossi del mare sono ormeggiati ai moli. Ma i problemi non sono finiti: “Le grandi navi sputano fumi altamente inquinanti nell’aria delle nostre città”, denuncia Antonella Fabbri, portavoce del Comitato per l’elettrificazione del porto di Savona. “Purtroppo – racconta – le navi da crociera devono restare con i motori accesi, giorno e notte. Spesso sono ormeggiate in pieno centro storico”. Un’emergenza che riguarda almeno 7 città italiane: Genova (3 navi), Civitavecchia (2), Ancona, La Spezia, Piombino, Savona, Brindisi e Taranto. Le principali compagnie, Msc e Costa, hanno 11 navi nei porti italiani o in rada. Senza contare i traghetti, anche se continuano in parte a navigare.

Il punto è che questi colossi di 300 metri devono tenere i motori accesi. Non è una scelta: “La nave deve essere sempre pronta in caso di maltempo ad allontanarsi dalla banchina per andare in rada. Come dire che se mia nonna fosse diabetica, io dovrei tenere l’auto accesa tutto il giorno, per partire immediatamente in caso di malore… Assurdo”, spiega Fabbri. Ci sono poi ragioni tecniche: “Un colosso da crociera – spiega una fonte interna a Msc – non sopporta i blackout, si rischiano grossi danni”. Ma quanto consuma una nave? Il comitato ligure ha provato a calcolarlo: “Il motore produce 3,9 MW, cioè l’80% della potenza prodotta a pieno carico”. Il consumo giornaliero può andare da 15 fino a 40 tonnellate di gasolio ‘pesante’ navale (fino a 100 volte più ricco in zolfo del gasolio da autotrazione). Ora le navi rischiano di restare in mezzo alle case per mesi. A Savona, la Costa Luminosa è arrivata il 20 marzo. Secondo le autorità, doveva restare “quarantotto ore”. Dopo due mesi è ancora lì. Intanto l’Arpal (l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) ha compiuto analisi: nelle zone di Villetta e Valloria risultano concentrazioni attorno a 100 microgrammi per metro cubo”. Alla fine è intervenuto anche il difensore civico della Regione, Francesco Lalla: “Si chiede di conoscere se” l’autorità portuale “ha avviato un piano d’azione per i controlli della qualità dell’aria nel porto di Savona”.

Anche a Genova i dati dell’aria suscitano allarme: “Nonostante il lockdown – denuncia il Comitato Tutela Ambientale – in diversi giorni la centralina del quartiere sopra il porto ha rilevato valori di biossido di azoto paragonabili a quelli delle strade più trafficate nei periodi di punta”. Il problema delle emissioni provocate dalle navi da crociera è noto. Frequenti sono le contravvenzioni alle imbarcazioni che usano combustibile ad alto contenuto di zolfo invece di quello prescritto. Ma sono briciole. E non risulta sia mai stata applicata la sanzione prevista in caso di recidiva: il divieto di attracco.

In Italia ogni anno attraccano quasi 5mila navi da crociera con 11 milioni di passeggeri. “Secondo i rilevamenti dall’associazione ambientalista tedesca Nabu, a Venezia – tra le mete preferite delle navi da crociera – la situazione del pm 2,5 in alcuni giorni è paragonabile a quella di Pechino” riferisce Anna Gerometta, presidente della Onlus Cittadini per l’Aria. Adesso, però, i colossi del mare non sono in alto mare, ma nel cuore delle città.

A fuoco un’azienda chimica “Troppe denunce ignorate”

Le strutture in ferro delle palazzine e dei magazzini di ciò che rimane della 3V Sigma, si innalzano come scheletri vuoti nel grande piazzale allagato a Porto Marghera. Dopo quattro ore di lotta contro le fiamme, una novantina di vigili del fuoco sono riusciti a circoscrivere l’incendio di un’azienda chimica che produce solventi e additivi tossici e nocivi. Prima l’esplosione, quindi un’altissima colonna di fumo che ha fatto temere il disastro ambientale, in tre province del Veneto, Venezia, Padova e Treviso. Due operai asiatici di una ditta di elettrosaldature di Rieti, gravemente feriti, sono ricoverati nei reparti grandi ustionati di Padova e Verona. Quattro loro colleghi, intossicati, sono stati portati nell’ospedale di Mestre. Intanto è scattato l’allarme, con chiusura delle strade, blocco della circolazione ferroviaria e invito dei sindaci a restare in casa e tenere chiuse le finestre. Per sapere cosa si è disperso nell’aria o nell’acqua della laguna, occorre attendere le analisi dell’Arpav, che per alcune sostanze come la diossina richiedono anche 48 ore di tempo. Ma di sicuro c’era l’acetone.

“Ho sentito lo spostamento d’aria, ho capito, mi sono gettato giù dalle scale e così mi sono salvato. Ma dentro è tutto distrutto”, racconta uno dei lavoratori. Il rischio era che esplodessero un’altra quindicina di serbatoi. L’epicentro dovrebbe essere un contenitore di metatoluidina, ma secondo l’assessore comunale alla protezione civile, Simone Venturini, erano in corso lavori di manutenzione. Il procuratore Bruno Cherchi ha fatto sequestrare l’area e aperto un fascicolo per disastro e lesioni colpose gravissime. Ma è solo il primo passo, si indagherà anche sul rispetto delle norme di sicurezza. E c’è pure il danneggiamento di uno stabile, vicino alla fabbrica, con infissi e pavimenti divelti come da una tromba d’aria.

Prima di accedere al cuore dell’incendio bisogna attendere lo spegnimento di tutti i focolai. Solo allora i periti potranno cominciare a capire cosa è accaduto. Chi non ha bisogno di risultanze tecniche sono i sindacati. Da due anni combattono una battaglia contro “un muro di gomma”. Giuseppe Callegaro, segretario dei chimici Femca-Cisl, racconta: “Abbiamo sempre denunciato quanto avveniva alla 3V Sigma e siamo stati denunciati noi per diffamazione”. Primo gesto clamoroso, lo sciopero di 8 ore nel luglio 2019. “Chiedevamo di intervenire su alcuni punti molto carenti: sala quadri, impianto di illuminazione mancante, dispositivi di protezione individuale totalmente centellinati, stoccaggio del prodotto, corsi di addestramento antincendio…”. Risultato? “Non è cambiato niente, salvo l’annuncio di una querela contro di noi”. Due mesi fa un incontro con il prefetto di Venezia. “Abbiamo denunciato la presenza di tank con 10 mila litri di prodotto nel cortile, vicino alle palazzine. Non possono restare lì, è troppo pericoloso. L’azienda (i proprietari sono bergamaschi) si era impegnata a spostarli, poi non ha fatto niente”. Quel giorno i dirigenti avevano anche sventolato alcuni verbali Spisal. “Risultava che qualcosa non era regolare, ma anche che per gli ispettori regionali non c’era niente di scandaloso! Mi domando come sia possibile”, commenta amaramente Callegaro. L’ultimo atto risale, beffardamente, a lunedì scorso, quattro giorni prima dell’incidente. “Avevamo chiesto all’azienda un incontro urgente. Non hanno neppure risposto”.

Chi non si stupisce è Gianfranco Bettin, presidente della Municipalità di Marghera, ex esponente dei Verdi e assessore comunale. Il suo è uno sguardo d’assieme sulla storia di Porto Marghera. “È una tragedia annunciata, purtroppo, vista la carenza di investimenti sulla sicurezza e sull’adeguamento degli impianti. È il simbolo dell’andamento caotico che sta subendo l’industrializzazione a Marghera. Se non si investe e si pensa solo a lucrare su una fase economica favorevole, poi accadono questi disastri. Sono processi di transizione già avvenuti, che nascono solo dalla voglia di sfruttamento. Ma con gravi rischi per le persone e per l’ambiente”.

Mr. Vaccino accusa Trump: “Spingeva l’idrossiclorochina”

Anthony Fauci, il “virologo in capo”, è la voce anti-pandemia più ascoltata, dall’opinione pubblica negli Stati Uniti: la sua parola, sul coronavirus, conta più di quella del presidente. Ma Rick Bright, un capo della Sanità “silurato”, ha trovato la formula più efficace, per fare gelare il sangue nelle vene agli americani: a causa del contagio, il prossimo sarà “l’inverno più buio dei tempi moderni”. Trump minimizza: “È solo un dipendente scontento”. Ma l’impatto mediatico resta forte.

Ascoltato in settimana, come vari altri scienziati e specialisti, dalla Commissione Sanità del Senato, fra cui Fauci e i responsabili del Centro per il controllo delle malattie e dell’Agenzia per il farmaco, Bright, già capo dell’area vaccini del Dipartimento della Salute, ha detto: “Senza un piano chiaro e senza l’attuazione delle misure che io e altri esperti abbiamo indicato, il 2020 sarà l’inverno più buio della storia moderna”. Rimosso per le riserve sulla idrossiclorochina, un farmaco anti-malarico propagandata da Trump come cura contro il Covid-19, e formalmente reinsediato da un organo giudicante indipendente, Bright ha avvertito che “la finestra di opportunità” per affrontare il coronavirus “si sta chiudendo” e ha aggiunto: “La pandemia peggiorerà e sarà più lunga senza una risposta basata sulla scienza”.

Costantemente in lotta contro consiglieri scientifici che contestano la sua linea, al punto da definire “inaccettabile” la testimonianza di Fauci, secondo cui l’accelerazione nella riapertura, incoraggiata dalla Casa Bianca, costerà agli americani “sofferenze e lutti non necessari”, Trump s’è visto dare, nei giorni scorsi, uno schiaffo, quando l’Office of Special Counsel, un’agenzia investigativa e giudiziaria federale indipendente, ha chiesto di fare tornare al suo posto Bright. L’agenzia, che continua a indagare sul caso, ritiene di avere “ragionevoli elementi per credere” che l’Amministrazione Trump abbia rimosso l’alto funzionario per le sue riserve sulla idrossiclorochina, un prodotto su cui c’è il sospetto che il presidente sia in conflitto d’interessi. Nel suo ricorso, Bright, che è medico, ha denunciato che dirigenti di nomina politica del Ministero avevano tentato di promuovere l’idrossiclorochina come una “panacea” e volevano che New York e il New Jersey fossero inondati del farmaco. Inoltre, il dirigente medico ha riferito che l’Amministrazione Trump respinse i suoi allarmi sull’imminente pandemia, quando, dopo gli allarmi dell’Oms a gennaio, lui consigliò di agire con urgenza.

Tesi ribadita alla Commissione Sanità del Senato: “Vite umane sono state perdute” per “l’inazione” dell’Amministrazione all’inizio dell’epidemia. Fin da gennaio, Bright aveva posto il problema dell’insufficienza di materiali e attrezzature ai vertici del Dipartimento, “senza ottenere risposte”.

La testimonianza di Bright cattura l’attenzione dell’opinione pubblica mentre le cifre dell’epidemia restano angoscianti: secondo i dati della Johns Hopkins University, i contagiati nell’Unione erano oltre un milione 425 mila, quasi un terzo del totale mondiale, e le vittime ben oltre 86 mila, oltre un quarto del totale mondiale. L’impatto del coronavirus sull’economia è molto pesante: le domande di sussidi di disoccupazione da marzo sono state oltre 33 milioni e quasi un lavoratore americano su quattro ha perso il posto. Se su Trump pesano sospetti di conflitto d’interessi sulla idrossiclorochina, Richard Burr, presidente della Commissione Intelligence del Senato, repubblicano, ha dovuto dimettersi dopo che contro di lui è stata avviata un’inchiesta per insider trading su questioni legate all’epidemia.

Al Shabaab, non solo bombe: il segreto è la sua macchina della propaganda

L’Harakat al-Shabaab al-Mujahiddeen, il movimento dei giovani combattenti in Somalia per il jihad, la guerra santa contro gli infedeli, autore del sequestro di Silvia Romano, ha curato con grande dovizia fin dalla sua nascita nel 2005 la comunicazione locale e globale, come appreso del resto dalla casa madre: al Qaeda, di cui rimane un fedele alleato. L’organizzazione islamica terrorista, che conta oggi circa 13 mila miliziani più un nutrito vertice formato anche da stranieri – un cittadino di San Diego, Jehad Serwan Mostafa è ricercato dagli Usa che hanno recentemente messo anche una taglia sulla sua cattura per il ruolo apicale presso il dipartimento “esplosivi” – ha 12 dipartimenti, una sorta di governo ombra, tra cui spicca quello della propaganda, chiamato delle comunicazioni. “Usano strumentazioni sofisticate per fare venire bene in immagine i leader, hanno un sito web ufficiale, canali di messaggistica via social, indirizzi Instagram, web radio e sono abili nell’usare senza scrupoli tutto ciò che il mondo informatico offre, come immagini rubate e poi truccate degli ostaggi per dimostrare il passaggio dall’oscenità degli abiti occidentali a quelli corretti degli islamici, come è avvenuto anche nel caso di Silvia Romano”, spiega al Fatto Harun Maruf, scrittore e giornalista somalo coautore del saggio più completo sul movimento terrorista islamico somalo Inside al-Shabaab.

Lo scopo principale del “dipartimento comunicazioni” è diffondere video e messaggi per fare il lavaggio del cervello ai giovani e indurli a sostenere ed entrare nel movimento per guadagnarsi il pane e il paradiso. In realtà al-Shabaab tenta in questo modo di far credere ai somali, specialmente i contadini e pastori del povero entroterra, che le continue e capillari estorsioni perpetrate dai suoi guerriglieri sul campo servono per finanziare la jihad contro l’empio governo somalo e i suoi alleati sul campo, su cui svettano il Kenya e soprattutto la Turchia. “Mai al-Shabaab ha ammesso con una dichiarazione ufficiale di compiere estorsioni, rapimenti per chiedere riscatti in denaro. Del resto è improbabile che un ladro ammetta di propria sponte di esserlo. Al-Shabaab non ha mai ammesso nemmeno di aver fatto strage di civili, per esempio nel mostruoso attentato del 2017 a Mogadiscio quando un camion bomba diretto alla base militare turca fu fatto esplodere dal guidatore prima di raggiungerla perchè era stato circondato dalla polizia . La prassi di al-Shabaab è che se non si può raggiungere il target ci si deve far esplodere dove ci si trova. In quel caso in mezzo a centinaia di uomini, donne e bambini, provocando più di 500 vittime”, sottolinea Maruf. I terroristi islamici finora hanno solo rivendicato attentati contro obiettivi militari e soldati. Nemmeno loro vogliono sembrare assassini di semplici musulmani, tra i quali molti bambini. Certo non per un moto di pentimento, ma per non perdere l’allure di cui hanno da sempre provato ad ammantarsi: unici musulmani a essere in grado di imporre la sharia (legge islamica).

Dal 2011, quando perse il controllo di Mogadiscio, al-Shabaab è retrocesso nelle zone rurali a ridosso della costa, per poi uscire di poco oltre il confine e fondare una grande succursale in Kenya, a Garissa. Da allora è diventato un vero e proprio movimento di guerriglia che opera sul terreno attraverso gruppi di una decina di persone al massimo, così da poter compiere imboscate e sfuggire più facilmente alle ricerche dei militari, ai droni armati americani e turchi, dati in dotazione all’esercito somalo, da anni addestrato da ufficiali turchi, che dall’alto cercano di colpirli.

Londra, mascherine custodite nel magazzino con l’amianto

L’epidemia di Covid-19 non costa al Regno Unito solo vite umane e lo spettro della recessione: rivela anche il fallimento della privatizzazione delle risorse pubbliche. Uno dei casi più emblematici tocca il nervo scoperto di questa crisi: la carenza, tuttora, di Dpi – i sistemi di protezione – per il personale in prima fila nella lotta al virus: medici, infermieri, paramedici, operatori delle case di cura. Ieri il Guardian ha pubblicato il seguito della sua inchiesta sulla Movianto, la filiale britannica di una multinazionale americana a cui il governo ha appaltato la distribuzione delle sue scorte di camici, mascherine, visori, guanti togliendola a Dhl, nell’estate del 2018. Secondo l’inchiesta, l’appalto da 55 milioni di sterline riguardava lo stoccaggio e distribuzione di 52 mila pallet di materiale, principalmente Dpi e prodotti per l’igiene sanitaria, per un valore di 500 milioni di sterline, stoccate in tre diversi magazzini. Gli accordi prevedevano che Movianto fosse in grado di fornire “consegne urgenti di materiale medico ovunque nel Regno Unito con preavviso breve o nullo”.

Un appalto subito segnato da mille problemi. Prima la battaglia legale con il proprietario di due dei magazzini, che accusa Movianto di non pagare l’elettricità necessaria a mantenere lo stock alla giusta temperatura; poi la vendita della società ad una multinazionale francese. Nel mezzo, una gestione caotica e inadeguata: uno dei generatori elettrici del magazzino rilascia fumo nero e durante le ispezioni si scopre che l’edificio è contaminato da amianto. Poi emergono problemi di stoccaggio, con materiale irraggiungibile. Errori che, secondo gli autisti intervistati dal Guardian, diventano caos totale quando scoppia l’emergenza. “Il lavoro era gestito malissimo. Aspettavamo il carico per ore, per scoprire una volta a destinazione di aver consegnato il materiale sbagliato”. Scenario identico a quello descritto pochi giorni fa su Facebook da un manager di cui abbiamo verificato l’esperienza trentennale nell’industria delle consegne. Lo chiameremo solo con le sue iniziali, Mh, perché ha immediatamente cancellato il suo lungo post e non ha risposto alla nostra richiesta di intervista. Descrive un altro disastro, quello dello smistamento di Dpi importato nel Regno Unito per far fronte all’emergenza: “Un fottuto casino. Riceviamo richieste ogni 20 minuti, ma quando i camion arrivano al magazzino non trovano il carico. L’altro giorno dovevamo fare una consegna di 8.000 maschere per un’ospedale a Edimburgo e ce n’erano solo 3.000. Dove sono le altre 5.000?”

Descrive anche lo smistamento dei kit di test: “Gestiamo la distribuzione dei tamponi per le case di cura. Ogni pomeriggio Deloitte ci manda un file con centinaia di indirizzi di ospizi a cui consegnarli. Ma abbiamo pochi autisti, 150-200 per turni continui 7 giorni su 7, senza protezione sindacale: 3 sono morti di Covid, molti altri sono ammalati. La direttrice di una casa di cura mi ha chiamato perché i 10 test che aspettava non erano arrivati. Era così disperata che le ho dato la priorità. Quando l’ho chiamata per dirle che sarebbero arrivati il mattino dopo ha detto di mandarne solo 6, perché 4 ospiti erano morti quella notte”.

E ancora: “Il giorno dopo dobbiamo recuperare quelli che sono stati somministrati, nessuno è impacchettato nel modo corretto. Poi li recapitiamo all’unico laboratorio del Regno Unito che ha la tecnologia per analizzarne così tanti. Solo uno in tutto il Regno Unito. A Belfast!”

A gestire questa massa di ordini sarebbero solo 16 impiegati, che lavorano da casa, gli altri sarebbero in cassa integrazione. Cita anche la società di consulenza Deloitte. Una delle tante assoldate senza gara di appalto: un miliardo di sterline a beneficio di una rosa di aziende private fra cui, appunto società di consulenza, (Kpmg, Pwc) ma anche multinazionali straniere o imprese, come la Randox che produce i test e di cui è consulente il parlamentare conservatore Owen Paterson. Intanto i morti sono 33.998, con il fattore di contagio R risalito da 0.5-0.9 dei giorni scorsi allo 0.7-1 di ieri. E le notizie sono fosche anche su un altro fronte, quello quasi dimenticato della Brexit. L’ultimo round di negoziati, ieri, ha portato a “progressi molto limitati”, ha dichiarato il capo negoziatore Uk, David Frost. Molto deluso si è detto anche il capo negoziatore dell’Unione europea, Michel Barnier.

Ong e riscatti Chi paga perde

Mentre qui da noi si muore di paura da Covid-19, in Afghanistan si muore sul serio, di morte violenta. Il 12 aprile ci sono stati due gravi attentati in zone diverse del Paese: a Jalalabad durante un funerale un kamikaze si è fatto saltare in aria uccidendo 20 persone e ferendone 40, a Kabul un commando armato ha preso d’assalto l’ospedale di Medici Senza Frontiere facendo 24 vittime.

I Talebani hanno negato qualsiasi responsabilità in questi attentati, che infatti poco dopo sono stati rivendicati dall’Isis. Non c’era nemmeno bisogno né della negazione talebana né della rivendicazione Isis, durante tutta la lunga storia della loro resistenza i Talebani hanno sempre avuto di mira solo obiettivi militari e politici, e infatti due giorni dopo gli attacchi Isis, i Talebani hanno preso d’assalto un’importante base militare a Gardez. E questa azione l’hanno rivendicata. I Talebani, come abbiamo già scritto più volte, non hanno alcun interesse a colpire la popolazione civile grazie al cui sostegno hanno potuto portare avanti vittoriosamente la loro guerra d’indipendenza. I guerriglieri dell’Isis non hanno di queste preoccupazioni. La loro è una guerra totale, religiosa, ideologica sia contro l’Occidente che contro gli odiati ‘cugini’ sciiti (il Mullah Omar, quando era al governo, pur essendo pashtun e sunnita, come la maggioranza dei suoi, non perseguitò mai la consistente minoranza sciita in Afghanistan. Gli sciiti avevano gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri cittadini dell’Emirato Islamico d’Afghanistan). Lo scopo degli attacchi Isis in Afghanistan è di dimostrare che i Talebani non sono in grado di mantenere l’ordine nel momento delicato in cui, in virtù del patto talebano-statunitense concluso a Doha alla fine di febbraio, gli americani stanno lasciando il Paese. Di queste recenti vicende, vitali non solo per il futuro dell’Afghanistan, ma anche per la sconfitta o meno del terrorismo internazionale, non trovo traccia sui giornali italiani.

Se l’Afghanistan è normalmente ignorato, quando però per un qualche caso se ne parla si raccontano un mucchio di frottole. In margine alla vicenda della cooperante Silvia Romano si è tirato in ballo l’Afghanistan, l’Afghanistan talebano, come fucina dei sequestri al fine di estorsione. Ebbene in tutta la storia del movimento talebano non c’è un solo sequestro di questo tipo. Quando fu catturato il giornalista di Repubblica Mastrogiacomo, i Talebani chiesero uno scambio di prigionieri: cinque dei loro uomini in cambio del giornalista. E così fu fatto. Per i Talebani tutti gli stranieri presenti in Afghanistan, fossero militari o civili, che avevano la stessa nazionalità di uno dei 48 Paesi occupanti, erano considerati dei nemici e se catturati trattati come “prigionieri di guerra”. Quando nell’aprile del 2007 furono presi prigionieri tre cooperanti francesi della Ong Terre d’enfance, due uomini e una donna, Céline Cordelier, la richiesta talebana per liberarli fu la stessa: scambio di prigionieri. La Cordelier però fu liberata spontaneamente dopo 25 giorni di prigionia senza alcuna trattativa e la donna dirà: “Non dimenticherò mai che mi hanno nutrita e trattata con rispetto”. Questa del rispetto dei prigionieri stranieri è una costante del comportamento dei Talebani, costante che risponde alle regole dettate dal Mullah Omar ai suoi comandanti sul campo in quel famoso libretto azzurro tanto irriso in Occidente. Il libretto conteneva sette regole, di cui riassumo qui, in finiano non in dari in cui fu scritto, quelle che riguardano i sequestri: 3) Militari stranieri prigionieri. Vanno trattati come prigionieri di guerra. 4) Bando ai sequestri di persona e alla richiesta di riscatti. Quando un soldato americano, Bowe Bergdhal, fu catturato, venne trattato secondo le direttive: da “prigioniero di guerra”. Gli americani non restituirono mai queste cortesie, non rispettarono mai, a differenza dei Talebani, le leggi internazionali che tutelano i prigionieri di guerra, ma considerando i guerriglieri talebani dei “terroristi”, li deportarono a centinaia a Guantanamo dove furono torturati e umiliati in ogni maniera.

Poiché siamo in tema di sequestri, parliamo di quello di Silvia Romano. Dico subito che in linea di principio io sono contrario alle Ong, a meno che non si tratti di organizzazioni mediche e consolidate come Emergency e Medici Senza Frontiere perché hanno l’arrogante pretesa di “aiutare” i Paesi in cui operano, l’Africa nel caso della Romano. L’Africa, come ci dimostra tutta la sua storia, stava molto meglio quando si aiutava da sola. Precisato questo, la gravità della vicenda Romano non sta nell’entità del riscatto, ma nel riscatto stesso, perché mette a rischio tutti gli altri italiani presenti nelle zone pericolose, non solo africane. Infatti se si sa che l’Italia paga, i suoi cittadini diventeranno degli obiettivi privilegiati non solo di gruppi strutturati come al-Shabaab, ma anche di bande di semplici predoni. Come “danno collaterale” forniamo ai terroristi, perché gli al-Shabaab oltre a condurre una guerra di indipendenza, come i Talebani, sono anche legati, a differenza dei Talebani che lo combattono, al Califfato che fu di Al Baghdadi. Insomma l’Italia diventa un bancomat buono per tutti gli usi. In un’intervista al Corriere rilasciata a Luigi Ferrarella, il pm milanese Alberto Nobili, uno specialista in tema di sequestri di persona, ha ricordato: “La regola del blocco dei beni (dei familiari, ndr) e cioè il messaggio dello Stato che il sequestro non avrebbe più fruttato una lira, ebbe efficacia”.

Il sequestro della Romano come quello di ogni altro cooperante o cittadino italiano che operi in zone pericolose ricorda, sia pur in termini molto diversi perché molto diversi sono i contesti, il dilemma che si pose all’epoca del sequestro Moro. La Democrazia Cristiana, che noi avevamo sempre accusato di non avere il senso dello Stato, in questo caso lo ebbe, aiutata dal Pci che il senso dello Stato ce l’ha incorporato perché i comunisti, quando sono al potere, si identificano con esso, si rifiutò di trattare con i terroristi. E fece bene. Perché se avesse accettato il giorno dopo quelli delle Brigate Rosse avrebbero sequestrato un cittadino qualsiasi e a questo punto si sarebbe dovuto trattare ancora, in una spirale vertiginosa che avrebbe portato alla dissoluzione dello Stato, oppure non si sarebbe trattato e sarebbe diventato palese che l’Italia è un Paese dove, come nella Fattoria degli animali di Orwell, “tutti gli animali sono uguali, ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri”. Disse all’epoca il vicesegretario del Partito liberale, Alfredo Biondi: “Non c’è da dividersi e dividere in falchi e colombe: non c’è da mistificare come caldo umanitarismo lo spirito di rinuncia e di sottomissione e come gelida statolatria l’elementare esigenza di non transigere su diritti e doveri indisponibili come quello di rendere giustizia e di assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”.

Ceccardi, sciacallo Retroattivo

Susanna Ceccardi è una delle pupille di Matteo Salvini. È sulla cresta dell’onda leghista, accumula serialmente cariche e poltroncine: ex sindaco di Cascina (Pisa), ex consigliera di Salvini a Palazzo Chigi (65 mila euro l’anno), attuale eurodeputata del Carroccio, responsabile del partito in Toscana e candidata del centrodestra alla presidenza della Regione. Perché Salvini la stima tanto? Perché gli somiglia tantissimo. Ieri Ceccardi ne ha dato prova un’altra volta. Cos’ha fatto la geniale leghista toscana? Ha preso una vecchia notizia su un attacco dei jihadisti somali di Al-Shabaab, l’ha spacciata come nuova sui social network e l’ha ovviamente collegata al riscatto pagato per la liberazione di Silvia Romano. L’ordigno fatto esplodere contro dei militari italiani a Mogadiscio risale al settembre 2019, Ceccardi però non se n’è accorta. E ha provato a seminare la solita fake news: “Solidarietà ai nostri militari, fortunatamente rimasti illesi. Vedo che i 4 milioni di euro pagati per il riscatto di Silvia Romano sono stati subito messi a frutto!”. Ceccardi sbaglia completamente i tempi: il primo caso di sciacallo “retroattivo”. Dopo pochi minuti qualcuno deve averla avvertita dello svarione, visto che il post è sparito dai suoi social. Insieme al senso del ridicolo della leghista.