“Io ero libero come l’aria perché non avevo genitori e non appartenevo alla categoria dei servi né a quella dei padroni”
(da “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino – Einaudi Editore, 1952)
Quella di domenica scorsa, 10 maggio 2020, è stata una giornata fatidica per “Stampubblica”, l’ircocervo editoriale partorito dalla maxi-fusione tra il giornale fondato da Eugenio Scalfari e il quotidiano della famiglia Agnelli. Una data per così dire di ri-fondazione, un nuovo inizio, una svolta a suo modo storica. L’editoriale domenicale di Barbapapà, come lo chiamavamo affettuosamente quando lavoravamo con lui, è stato inopinatamente “dimezzato” e abbinato a un fondo del neo-direttore Maurizio Molinari. Non era mai accaduto prima: né nel ventennio di Ezio Mauro, né nel successivo passaggio di Mario Calabresi e in quello fulmineo di Carlo Verdelli.
A quanto pare, la decisione sarebbe stata concordata con lo stesso Scalfari, arrivato alla veneranda età di 96 anni e dimezzato come il visconte Medardo di Terralba, del quale il suo compagno di liceo Italo Calvino narra le avventure nella prima parte della trilogia pubblicata nel ’52. Ma non è questo che più conta. Con il consenso o meno del Fondatore, il raddoppio dell’editoriale domenicale corrisponde in realtà a uno sdoppiamento d’identità del suo giornale. Una sorta di concelebrazione in cui il patriarca di Repubblica viene affiancato da un diacono che l’assiste nella funzione, come nella Chiesta episcopale anglicana un ministro del terzo ordine dopo il sacerdote e il prete.
Il prestigio e l’autorevolezza di Scalfari non ne saranno certamente scalfite. Ma fa bene il Comitato di redazione a preoccuparsene, nel giustificato timore che agli occhi del pubblico questa scelta possa risultare sgradita e riduttiva. Tanto più che, come si legge in un comunicato interno, implicherebbe anche “l’impiego di collaboratori piuttosto distanti per sensibilità culturale e politica dall’identità della comunità dei giornalisti e dei lettori del nostro quotidiano”.
Forte del suo doppio ruolo di direttore editoriale del gruppo Gedi, il direttore responsabile ha replicato che “l’impegno da lui assunto con la proprietà è quello di allargare la platea dei lettori, unendo tradizione e attualità”. Quasi che il mandato di un qualsiasi direttore di giornale potesse prevedere il contrario. E forse per indorare la pillola, ha annunciato l’istituzione di un premio settimanale – pari a 600 euro – da assegnare al lavoro di un singolo giornalista, come si usa o si usava per gratificare gli operai alla catena di montaggio.
Non è da oggi che, avendo avuto il privilegio di partecipare alla fondazione di Repubblica nel ’76 e avendo militato in quel gruppo nell’arco di quarant’anni, chi scrive ha segnalato i rischi e le incognite insiti in questa infausta maxi-fusione. Colpisce, tuttavia, la brutalità padronale con cui la nuova gestione sta procedendo a quella che ormai appare a tutti gli effetti una “normalizzazione” del giornale. E ciò non può che amareggiare quanti vi hanno lavorato o tuttora vi lavorano, insieme a quella comunità di lettori che s’identificavano in un progetto politico e culturale concepito all’insegna dell’indipendenza e della libertà d’informazione.
La Repubblica non è stata solo tradita, dunque, ma anche offesa e vilipesa. Oggi non rappresenta più una “struttura d’opinione” formata dai progressisti e dai riformisti italiani. Ed è destinata a diventare, purtroppo, il portavoce di un gruppo di potere che ha interrotto una storia e spezzato una tradizione.