Scalfari dimezzato in questa svolta di “Stampubblica”

“Io ero libero come l’aria perché non avevo genitori e non appartenevo alla categoria dei servi né a quella dei padroni”

(da “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino – Einaudi Editore, 1952)

Quella di domenica scorsa, 10 maggio 2020, è stata una giornata fatidica per “Stampubblica”, l’ircocervo editoriale partorito dalla maxi-fusione tra il giornale fondato da Eugenio Scalfari e il quotidiano della famiglia Agnelli. Una data per così dire di ri-fondazione, un nuovo inizio, una svolta a suo modo storica. L’editoriale domenicale di Barbapapà, come lo chiamavamo affettuosamente quando lavoravamo con lui, è stato inopinatamente “dimezzato” e abbinato a un fondo del neo-direttore Maurizio Molinari. Non era mai accaduto prima: né nel ventennio di Ezio Mauro, né nel successivo passaggio di Mario Calabresi e in quello fulmineo di Carlo Verdelli.

A quanto pare, la decisione sarebbe stata concordata con lo stesso Scalfari, arrivato alla veneranda età di 96 anni e dimezzato come il visconte Medardo di Terralba, del quale il suo compagno di liceo Italo Calvino narra le avventure nella prima parte della trilogia pubblicata nel ’52. Ma non è questo che più conta. Con il consenso o meno del Fondatore, il raddoppio dell’editoriale domenicale corrisponde in realtà a uno sdoppiamento d’identità del suo giornale. Una sorta di concelebrazione in cui il patriarca di Repubblica viene affiancato da un diacono che l’assiste nella funzione, come nella Chiesta episcopale anglicana un ministro del terzo ordine dopo il sacerdote e il prete.

Il prestigio e l’autorevolezza di Scalfari non ne saranno certamente scalfite. Ma fa bene il Comitato di redazione a preoccuparsene, nel giustificato timore che agli occhi del pubblico questa scelta possa risultare sgradita e riduttiva. Tanto più che, come si legge in un comunicato interno, implicherebbe anche “l’impiego di collaboratori piuttosto distanti per sensibilità culturale e politica dall’identità della comunità dei giornalisti e dei lettori del nostro quotidiano”.

Forte del suo doppio ruolo di direttore editoriale del gruppo Gedi, il direttore responsabile ha replicato che “l’impegno da lui assunto con la proprietà è quello di allargare la platea dei lettori, unendo tradizione e attualità”. Quasi che il mandato di un qualsiasi direttore di giornale potesse prevedere il contrario. E forse per indorare la pillola, ha annunciato l’istituzione di un premio settimanale – pari a 600 euro – da assegnare al lavoro di un singolo giornalista, come si usa o si usava per gratificare gli operai alla catena di montaggio.

Non è da oggi che, avendo avuto il privilegio di partecipare alla fondazione di Repubblica nel ’76 e avendo militato in quel gruppo nell’arco di quarant’anni, chi scrive ha segnalato i rischi e le incognite insiti in questa infausta maxi-fusione. Colpisce, tuttavia, la brutalità padronale con cui la nuova gestione sta procedendo a quella che ormai appare a tutti gli effetti una “normalizzazione” del giornale. E ciò non può che amareggiare quanti vi hanno lavorato o tuttora vi lavorano, insieme a quella comunità di lettori che s’identificavano in un progetto politico e culturale concepito all’insegna dell’indipendenza e della libertà d’informazione.

La Repubblica non è stata solo tradita, dunque, ma anche offesa e vilipesa. Oggi non rappresenta più una “struttura d’opinione” formata dai progressisti e dai riformisti italiani. Ed è destinata a diventare, purtroppo, il portavoce di un gruppo di potere che ha interrotto una storia e spezzato una tradizione.

È l’anniversario di Capaci, occhio alla rimozione

Nell’era dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19, sia pur in fase di progressiva attenuazione, si avvicina il 28º anniversario della cosiddetta strage di Capaci (in realtà commessa nella vicina Isola delle Femmine), in cui perirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Se è comprensibile nei cittadini e nei rappresentanti delle Istituzioni il desiderio di recuperare la normalità perduta e la spinta a costruire un futuro di cose buone e positive, con un rilancio delle attività economiche, lasciando alle spalle stragi e lutti, anche quelli che hanno condizionato la democrazia e l’hanno messa in pericolo.

È importante, però, impedire il rischio della rimozione e della disattenzione, perché il silenzio costituisce l’ossigeno vitale in virtù del quale i sistemi criminali mafiosi si riorganizzano e si rafforzano, con conseguente rischio di divenire sempre meno liberi, e fa dimenticare il grave pericolo per la democrazia che può derivarne e indurre a optare per soluzioni legislative e interpretazioni giurisprudenziali che, pur essendo ispirate a legittime pulsioni umanitarie e garantiste provenienti anche da realtà sovranazionali, oggettivamente vanno incontro alle aspettative dei mafiosi. Durante la requisitoria del processo d’appello per la strage di Capaci, il 28 gennaio 2000, evidenziai alcuni dati di fatto che credo sia utile tenere a mente. La situazione del 16 marzo 1978, che seguì il rapimento del presidente della Dc Aldo Moro, “aveva spianato la strada alla fiducia al quarto governo Andreotti, la strage di Capaci, per converso, estrometteva quest’ultimo dalla poltrona di presidente della Repubblica, superando, per dirla con Brusca, i ‘giochini’ intrapresi a seguito delle dimissioni del 25 aprile dell’On. Francesco Cossiga” e aveva favorito la nomina di Oscar Luigi Scalfaro. Dinanzi all’escalation stragista, nel 1993, il premier Carlo Azeglio Ciampi affermò “di aver temuto un colpo di Stato”.

Sentenze passate in giudicato (Corte d’assise d’appello di Caltanissetta del 23 giugno 2001 e Corte d’assise di Firenze del 6 giugno 1998) hanno riconosciuto che i boss mafiosi in quegli anni mirarono a suon di bombe a condizionare le scelte di politica legislativa del Paese per ottenere benefici in tema di revisione di processi, di sequestri di beni, di collaboratori di giustizia, di carcerario in modo da ottenere la cancellazione dell’ergastolo, revoche del regime del 41-bis O.P. per continuare a comandare dal carcere, fruire di arresti domiciliari e ospedalieri in luogo della detenzione negli istituti di pena. A differenza del terrorismo di matrice ideologica di sinistra e di destra, le realtà mafiose nel nostro Paese continuano a esistere e a perpetuare il loro potere, nonostante il tenace contrasto e gli importanti risultati ottenuti.

Mi rendo conto che non si può stare per decenni con la spada alzata, soprattutto per chi quegli anni non li ha vissuti o non era nemmeno nato, ma la coscienza collettiva del Paese esige massima attenzione, capacità di reazione e interventi appropriati perché potremmo essere destinati a pagare i silenzi, le disattenzioni e i mancati interventi più duramente domani. Mi chiedo perché, a titolo esemplificativo, non si pensi a una politica di investimenti per costruire istituti penitenziari dedicati, distribuiti sul territorio nazionale, funzionali a ospitare i mafiosi e coloro che contribuiscono ad alimentare il loro potere sul modello dei carceri di Pianosa e dell’Asinara chiusi da molti anni. Una scelta che avrebbe il pregio di decongestionare l’affollamento delle carceri per i detenuti comuni, che potrebbero in tal modo espiare la loro pena in condizioni dignitose.

Magistrati e politica, non c’è solo emiliano

Come è noto, lo scorso anno la sezione disciplinare del Csm inflisse la sanzione dell’ammonimento a Michele Emiliano, magistrato in aspettativa, per essersi iscritto a un partito e per aver svolto attività politica in forma sistematica e continuativa quale sindaco di Bari, segretario del Pd pugliese, presidente della Regione Puglia e in quanto candidato alle primarie di quel partito.

Giovedì scorso le sezioni unite civili hanno confermato la decisione del Csm stabilendo i seguenti principi:

a) l’iscrizione a un partito costituisce di per ciò stesso illecito disciplinare; b) per la partecipazione all’attività dei partiti politici non sussiste “automatismo sanzionatorio”, ma è necessario che ricorrano i requisiti della “sistematicità” e della “continuatività”, e il Csm dovrà valutare “di volta in volta” il caso in esame; c) tali principi “valgono per tutti i magistrati sia che svolgono funzioni giudiziarie sia che siano in aspettativa o collocati fuori ruolo per qualsiasi motivo ivi compreso lo svolgimento di un mandato elettorale o amministrativo”; d) è lecito iscriversi ai “gruppi parlamentari” che hanno, a differenza dei partiti, “una natura istituzionale e non privata”.

Quest’ultimo principio desta perplessità poiché i gruppi parlamentari altro non sono se non la diretta e immediata proiezione nel Parlamento dei partiti e l’iscrizione al gruppo da parte del magistrato eletto presuppone la scelta, la presentazione e il sostegno elettorale (decisivo) del partito al quale il magistrato è spesso legato da preesistenti rapporti (in alcuni casi viene adoperato lo schermo di presentare il magistrato come “indipendente” nella lista del partito).

Ciò premesso, deve osservarsi che quella valutazione, che la Corte di Cassazione richiede al Csm, per essere corretta ed esaustiva, dovrà tener conto che se un magistrato decide di scendere nell’agone politico, è chiaro che condivide l’ideologia e le scelte politiche del partito che lo inserisce nelle liste elettorali, lo fa votare ed eleggere. Correlativamente, il magistrato svolge la sua attività politica nell’interesse di quel partito che lo proporrà a far parte, anche con funzioni di Presidente, di commissioni parlamentari e, se del caso, con possibilità anche di inserirlo nella rosa dei ministri o dei sottosegretari che il presidente del Consiglio sottoporrà al capo dello Stato. In tal modo, il magistrato diventa “uomo” di quel partito e a nulla rileva che abbia evitato quell’adempimento formale di prendere “la tessera” del partito o che non si sia candidato a una segreteria.

Questo comportamento non cambia la sostanza delle cose che vede il magistrato oramai entrato a far parte di quel gruppo politico per conto del quale esercita le sue funzioni in ordine alle quali è prevista la disciplina di gruppo o di partito.

Ora, vari sono stati i casi di magistrati che sono stati per anni in politica e alcuni lo sono tuttora; così il caso della magistrata Donatella Ferranti – promossa nel 2018, dopo aspre polemiche, alla Suprema Corte – la quale è stata, per dieci anni, deputata del Pd (2008-2018) la cui caratterizzazione politica potrebbe desumersi dall’essere stata presentata come “capolista” a Roma nel collegio “Lazio 2” nelle elezioni del 2013. Vi è stato, ancora, il caso della magistrata Doris Lo Moro – dal 2018 in servizio al ministero di Giustizia – caratterizzata da un grande impegno politico e partitico fin dal 1993: sindaco di Lamezia, consigliere e assessore regionale nella lista Ds, deputata nella lista Pd, nel 2013, dopo aver partecipato, più volte, alle “primarie” di quel partito per la scelta dei candidati da presentare alle elezioni e dopo essere stata eletta presidente dell’assemblea costituente del Pd.

Vi è, infine, il caso del magistrato Cosimo Ferri, dal 2013 al 2018 sottosegretario alla Giustizia (prima in quota Pdl), poi eletto nel 2018 deputato come “indipendente” nelle liste del Pd (collegio blindato), per poi, lasciare tale partito nel settembre 2019 e aderire alla nuova formazione di “Italia viva” di Matteo Renzi.

E allora, il diritto dei cittadini all’informazione impone una domanda: vi è materiale sufficiente per quegli accertamenti richiesti dalla Cassazione – e che, in primo luogo, spettano al titolare dell’azione disciplinare – per acclarare se vi sia stata “partecipazione continuativa a partiti politici”?

Al procuratore generale la risposta.

 

L’ottimo “bissinìs” di Pivetti, Lele Mora e il “paisà” Borrelli

Milano. Irene Pivetti vede un turista, il capo della Protezione civile Borrelli, che sta fotografando il Duomo; e passa all’azione.

PIVETTI: (prendendo a scapaccioni un ragazzino che gironzola attorno a un carretto da ambulante). Cosa fai? Lascia stare la roba che non è tua! (a Borrelli). Ma lo sa che ci perdo migliaia di euro l’anno con questi ragazzini?

BORRELLI: Perché, la roba che è su quel carretto è tua, paisà?

P: Si capisce! Permette? Pivetti, ex-presidente della Camera.

B: Complimenti! Borrelli. Di’ un po’, paisà: è un buon bissinìs?

P: Ottimo! Le mascherine di questi tempi vanno a ruba. Farmacie, ospedali: ne ordinano un milione al giorno. A 50 centesimi la mascherina, fatti un po’ i conti…

B: Sono circa 50 milioni al giorno! Proprio un bel bissinìs! Okkei. E ci vogliono molti impiegati per mandare avanti questo bissinìs?

P: No, basto io: faccio l’ordine in Cina, arrivano per posta, vendo agli ospedali, prendo i soldi, e questo è tutto.

B: Senti, io ho lasciato l’America definitivamente e mi voglio trasferire in Italia. Ma vado in cerca di un buon bissinìs…

P: E perché non ti compri le mascherine mie?

B: E tu me le vendi tutte?

P: Eh sì. Un giorno o l’altro mi devo ritirare, capisci? L’asma allergica, qui a Milano…

B: Allora, te le compro io. Dimmi un po’: quanto costa tutto il carretto?

P: Con 23 milioni te la cavi.

B: Sono regalate. Domani ti faccio trovare il contratto pronto! Okkei?

P: E non mi dai una caparra?

B: Quale caparra?

P: E bravo fesso! Se nel frattempo viene qualcuno che se le vuol comprare, io che faccio, aspetto a te?

B: Giusto. E quant’è?

P: 80 mila euro.

B: No, sono troppi. Te ne do 10 mila.

P: Ma che, sei pazzo? 10 mila euro per dieci milioni di mascherine? Ma è così che in America fate gli affari? Tsè!

Arriva Lele Mora: Mi scusi. È mica lei l’ex-presidente della Camera Pivetti, la famosa proprietaria dei famosi 10 milioni di mascherine?

P: Per l’appunto.

M: Io sono incaricato da un grande policlinico, di cui non posso fare il nome per ovvie ragioni, di comprare tutte le sue mascherine. Ho il mandato in borsa. Che ne dice?

P: Mi dispiace, ma io sono già in trattative col signor Dorelli, qua.

B: Borrelli. Difatti, c’ero prima io. Le stavo dando la caparra! 10 mila euro!

M: Ah sì? Ma non gliel’hai data. Oh bella: io le do il doppio della tu’ caparra. 20 mila!

B: Ah sì? Allora io gliene do 30 mila!

M: Ah sì? E allora io sai che faccio? Le do 40 mila euro, e l’affare è concluso.

B: Ah sì? E io gliene do 50 mila, e l’affare è concluso. Tieni (le porge il malloppo di banconote).

M: (alla Pivetti) E che tu dici te?

P: E che dico? Che ho la faccia come il didietro, e le accetto. L’affare è fatto. Arrivederci.

M: Me ne vo ingrullito (se ne va).

P: A domani, paisà.

B: Uè, a domani, eh? Puntuale.

P: Sì (s’allontana rapidamente).

Mail box

 

Grazie al “Fatto Quotidiano”: una magnifica squadra

Vorrei essere un grande scrittore per esprimere tutta la mia ammirazione per quello che rappresenta Il Fatto per me e, credo, per milioni di italiani. Avendo difficoltà a trovare le parole adeguate, mi limito a dire che Indro Montanelli sarebbe molto fiero e orgoglioso di Marco Tavaglio, Antonio Padellaro, Andrea Scanzi, Selvaggia Lucarelli e di tutta la magnifica squadra di giornalisti e collaboratori che avete saputo costruire.

Giancarlo Faraglia

 

Caro Giancarlo, grazie di cuore. Speriamo di meritarci sempre la sua fiducia. Ma Montanelli, mi creda, era di un altro pianeta.

M. Trav.

 

Caso Romano, le vite umane vanno sempre salvate

Caro Direttore, martedì nel suo articolo I senzavergogna sono rimasto perplesso nel leggere a un certo punto che “le ragioni umanitarie non confliggono con gli interessi nazionali” e che è stato “doveroso” pagare il riscatto per Silvia Romano. Ho inteso che uno dei motivi è che i terroristi con il denaro del riscatto potranno sì comprare armi, ma per uccidere solo africani lontani da noi. Mi sembra un discorso molto cinico. O lei distingue un terrorismo di serie A (minaccia da evitare agli italiani) e uno di serie B (chissenefrega degli africani)? Il dolore per le violenze, gli stupri e gli omicidi è sempre lo stesso per qualunque persona, sia italiana o straniera. O no?

Rodolfo Comelli

 

Caro Rodolfo, mai detto né pensato una cosa del genere. Ho solo detto che fare di tutto per salvare una vita umana è doveroso. Ma può diventare paradossale (e non è il caso di Silvia Romano) che si facciano “guerre ai terroristi” in Afghanistan e in Iraq e poi si finanzino i terroristi contro cui si dice di combattere con il nostro esercito (come fecero i governi Berlusconi e Prodi dopo il 2001-2003).

M. Trav.

 

Troppa confusione su Bonafede e il Dap

La signora Felici, nella sua lettera al Fatto di sabato scorso, ha posto una domanda: “Non capisco perché il Ministro Bonafede abbia offerto a Di Matteo una scelta, concedendogli 48 ore di tempo per accettare, per poi inspiegabilmente, ripensarci”. Questa è la domanda a cui il ministro “deve”, a mio parere dare una risposta chiara. A quanto pare comunque, non per il Fatto, che, a parte la lettera della signora (e in un articolo interno di domenica), non ha ritenuto, per ora, di porre chiaramente la fatidica domanda, e certamente non nella persona del signor Marco Travaglio, che anche negli articoli di prima pagina affronta molti argomenti, ma “questo”, mi sembra, lo evita accuratamente.

Francesco Gimorri

 

Caro Francesco, le cose non stanno proprio così. Di Matteo ha accettato in prima battuta l’incarico agli Affari penali, allora Bonafede ha affidato il Dap a Basentini, ma poche ore dopo Di Matteo ha cambiato idea. Cosa legittima, che però gli ha impedito di andare al Dap, già occupato.

M. Trav.

 

I giudizi tranchant sulla giovane Silvia

La più che sgradevole affermazione in aula sulla Romano d’un deputato della Lega è stata, giustamente, più o meno stigmatizzata da tutti. Ma, avendo chiesto a più persone del mio entourage un parere sulla giovane, mi sono sentito rispondere invariabilmente: “Una cretina”. Si tratta di persone moderate ed educate che in pubblico negherebbero d’aver pronunciato un giudizio così tranchant. Personalmente la ritengo una sciocca esaltata. Proprio il soggetto di cui si avvalgono le menti del terrorismo per i loro misfatti.

Giampiero Bonazzi

 

Gentile Bonazzi, vorrei vedere lei a 20 anni, dopo 18 mesi nella foresta e nelle grinfie di quegli aguzzini.

M. Trav.

 

Mattarella salì al Colle nel 2015. E Amato “pianse”

Gentilissimo Direttore, devo correggerti quando parli della elezione di Mattarella al Colle. Essa è avvenuta nel gennaio del 2015 e non del 2016 come hai scritto ed è vero che non venne concordata con B. che desiderava ardentemente Giuliano Amato (ma gli aveva promesso qualcosa?). Amato poi dopo la sconfitta andò a versare un po’ di lacrime dalla Gruber.

Marco Olla

 

Caro Marco, chiedo venia: la data giusta è il 2015, non il 2016.

M. Trav.

 

L’Anm non ha mai censurato il pm antimafia Di Matteo

La stampa ha diffuso la notizia che l’Anm avrebbe inoltrato un comunicato di censura nei confronti del Dottor Di Matteo per il suo intervento a Non è l’Arena. Senza voler entrare nel merito della vicenda e ritenendo indiscutibili gli obblighi di rigore, misura ed equilibrio che devono essere osservati dai magistrati, si ritiene corretto puntualizzare che il comunicato in questione è stato deliberato dalla Giunta esecutiva centrale (Gec) dell’Anm, organo validamente costituito con la presenza di 5 membri. In base allo statuto, tuttavia, la Gec non ha, tra le sue attribuzioni, quella di approvare o disapprovare l’operato dei magistrati. L’organo supremo deliberante dell’Anm è l’Assemblea generale e lo stesso Comitato direttivo agisce nell’ambito delle direttive dell’Assemblea. Nel caso di specie, non risulta che i predetti organi abbiano dato mandato alla Gec di procedere al comunicato, né sono stati consultati gli iscritti. Non risulta attivato neppure un procedimento disciplinare. L’Anm non può emettere provvedimenti, neppure di mero richiamo, senza che sia istruito un apposito procedimento da parte del Collegio dei probiviri e garantito il diritto di difesa dell’incolpato. Ogni definitiva competenza disciplinare spetta poi al Comitato direttivo. Al di fuori da tali casi, l’Anm non ha competenza a formulare giudizi sui magistrati, come si desume dai suoi scopi sociali e come appare opportuno, al fine di evitare possibili ancorché involontarie interferenze nei riguardi delle istituzioni chiamate a tali valutazioni. Appare corretto evidenziare che il comunicato, in quanto emesso da organo non propriamente legittimato, non è attribuibile all’Anm.

Mario Fiorentino

Caos Covid Test, tamponi, statistiche, cure… L’unica a poter dare giudizi univoci è l’Oms

 

Gentile dottoressa Gismondo, leggo sempre con interesse i suoi articoli, che reputo molto esaustivi, e condivido spesso le sue vedute di buon senso, tuttavia riguardo all’Oms, sebbene nel contesto da lei indicato si ha una visione positiva di questa organizzazione, giudico pessima la gestione dell’emergenza Covid-19: quando in Cina si iniziarono a segnalare i primi malati, l’Oms si è basata troppo “opportunamente” sui dati fomiti dalle loro autorità, arrivando a proclamare la pericolosità – epidemia e pandemia – solo dopo che questa era purtroppo evidente e inarrestabile. Viceversa, una opportuna e tempestiva chiusura dei confini avrebbe potuto limitare i danni, ma questa è solo una mia supposizione. Alla luce di quanto affermato dall’Oms, la percentuale molto bassa degli anticorpi nella popolazione mondiale è da ascriversi al fatto che solo questa minoranza è entrata in contatto con il Covid-19, oppure gli anticorpi non sono longevi nel nostro organismo e tendono a scomparire? Inoltre, mi è sembrato di capire che, tra tutti i test, solo il tampone sia in grado di stabilire se si è infetti, sempre che venga fatto nell’arco temporale giusto; gli altri test, invece, oltre a rilevare la presenza o meno degli anticorpi nel nostro organismo, non possono individuare l’eventuale infezione. Per quanto riguarda le cure, infine, l’unica speranza – che si spera venga confermata – è la plasmaterapia; per il resto si naviga a vista e al suono di campana perché la coltre di nebbia impedisce di vedere oltre e per il vaccino attendiamo miracoli. Insomma, un quadro abbastanza esaltante per un futuro tutto da inventare.

Antonino Cabras

 

Gentile signor Cabras, sull’Oms non mi sono spinta a dare un giudizio (che non mi compete), ma solo a dire che è l’unica organizzazione internazionale che possa darci suggerimenti in modo univoco. La Cina ha ammesso i suoi ritardi, ma non sappiamo se l’Oms fosse già informata. Il tampone è l’unico mezzo diagnostico diretto. Gli anticorpi, che non sappiamo per quanto tempo rimangano nel paziente guarito, sono solo indicativi di un momento epidemiologico. Infine, tra le terapie, il siero iperimmune sta dando più risultati positivi, ma non è l’unica.

Maria Rita Gismondo

L’accento svedese di Vittorio Feltri

Quando si tratta di titolare dritto alle pance più gorgoglianti e di scandalizzare per il gusto del rutto più accattivante, si sa, Vittorio Feltri è un maestro. L’ultimo titolo di Libero a destare consueto scalpore è stato “Abbiamo liberato un’islamica”, riferito a Silvia Romano, in cui non si faceva mistero di un certo disprezzo. Disprezzo che non è piaciuto all’Ordine dei giornalisti e che Feltri, nell’editoriale di ieri su Libero, ha tentato a modo suo di negare. Ma c’è qualcosa che ci allarma ancor più del contenuto di quel titolo: siamo preoccupati per il collega Pietro Senaldi. Scrive infatti Feltri che quel titolo non l’ha “vergato” lui e che l’Ordine confonde il suo ruolo di “direttore editoriale” con quello del “direttore responsabile” Senaldi. Insomma, se alla prima pagina di Libero scappa un singulto feltriano, la colpa è sempre di Senaldi. Già immaginiamo Vittorione nostro sghignazzare a tarda sera mentre da casa o dal ristorante entra nel sistema editoriale e cambia certi titoli troppo compassati. Per quell’”Abbiamo liberato un’islamica” Feltri sarà “processato” dalla commissione disciplinare dell’Ordine dei giornalisti. Ma la linea difensiva è già svelata: non è colpa mia, è colpa di Senaldi, dirà Vittorio Feltri. Facendo l’accento svedese, come Fantozzi.

Breviario contro i virus Molesti

La Quarantena sta finendo e io non so cosa mettermi, nel senso che dopo il lungo isolamento dal Covid-19 l’autore di questa rubrichina vorrebbe lasciare ai lettori (e a se stesso) un breviario per difendersi da altri virus, meno pericolosi ma non meno molesti.

Virus del paravento. Si annida preferibilmente nella montagna di protocolli a cui dovremo attenerci anche soltanto per respirare. Migliaia di codicilli studiati soprattutto per tutelare le terga di Autorità e Pubblici Uffici, alle prese con ogni tipo di contenzioso (In allegato il giochino: cerca il responsabile). Il virus tende a indebolirsi con l’avanzare della Fase fai come ti pare. Virus del rimpallo. Diffuso per l’appunto nel mondo del pallone, prevede una ripresa del Campionato a condizioni impossibili (squadre in clausura blindata, un solo contagiato e tutti a casa). In modo che: a) i giocatori si rifiutino di giocare; b) le società si rifiutino di pagarli; c) le pay-tv si rifiutino di versare quanto dovuto alle società; d) che a pagare restino gli abbonati a stadi e tv che hanno già versato il dovuto per non vedere nulla (vedi virus del cerino acceso). Virus governo ladro. Si manifesta con gli stessi impressionanti sintomi dell’itterizia, aggravati da frequenti scoppi di rabbia indotti dalla lettura di titoli come: “Conte ha mentito agli italiani”, oppure: “Prima gli stranieri. Piangi e fotti”. Si può curare dando fuoco a Palazzo Chigi, oppure annullandosi nella lettura delle 111 pagine del decreto Rilancio. Virus del litigismo. Studiato sul FQ

dal professor Luigi Zoja si diffonde soprattutto in ambienti infetti e non sanificati, come certi talk show, e può essere originato dal salto di specie (spillover

) tra un pipistrello e un conduttore. Si manifesta con urla belluine, espressioni stravolte, rigonfiamento delle vene del collo (Vedi virus sgarbus). L’unica cura conosciuta è un’informazione basata su fatti accertati (purtroppo quasi introvabile come le mascherine).

Un po’ di chiarezza sull’uso dei guanti: spesso sono inutili, le mani vanno lavate

Spesso sentiamo consigliare l’uso delle mascherine, ma anche dei guanti monouso. Si è fatto cenno al loro utilizzo, creando però una certa confusione. Premettendo che nelle pratiche sanitarie o quando si assiste anche a domicilio un malato i guanti sono indispensabili, deve esser chiaro che indossarli al di fuori di questi ambiti è più uno svantaggio che un vantaggio.

Non mi riferisco solo alla ridotta sensibilità nel maneggiare alcuni oggetti, ma parlo dal punto di vista igienico. Se si vogliono usare i guanti per prevenire le infezioni, il loro utilizzo oltre che essere inutile può essere addirittura dannoso.

Debbono essere cambiati tutte le volte che si sporcano, non impediscono la trasmissione di microbi da un oggetto all’altro, il loro utilizzo è uguale alle mani e non ne sostituisce l’igiene. L’Istituto superiore di sanità, sul suo sito, dà alcuni avvertimenti in merito ai guanti:

1) non sostituiscano la corretta igiene delle mani che deve avvenire attraverso un lavaggio accurato per almeno 60 secondi;

2) siano ricambiati ogni volta che si sporcano ed eliminati correttamente nei rifiuti indifferenziati;

3) come le mani, non vengano a contatto con bocca, naso e occhi;

4) siano eliminati al termine dell’uso, per esempio, al supermercato;

5) non siano riutilizzati.

Dove sono necessari allora i guanti? In alcuni contesti lavorativi come per esempio personale addetto alla pulizia, alla ristorazione o al commercio di alimenti. E sono indispensabili nel caso di assistenza ospedaliera o domiciliare a malati.

L’ American Society of Microbiology

a giugno 2016 ha pubblicato la ricerca Contaminated Gloves Increase Risks of Cross-Transmission of Pathogens

(I guanti contaminati incrementano il rischio di cross-trasmissione dei patogeni) che spiega dettagliatamente quanto i guanti, non opportunamente utilizzati, siano un reale rischio infettivo.

Perciò, a esclusione dei casi descritti prima, usiamo le mani, ma laviamole spesso.

 

Nessun nuovo rischio penale per le imprese

Il mondo dell’impresa, messo a dura prova dal lockdown e dalle regole di contenimento sociale, non ha bisogno di subire ulteriori stress legati alla disinformazione e alla demagogia, né tantomeno sul contenuto delle regole penali.

Invece monta da giorni una polemica sul contenuto delle norme varate dal governo per la tutela dei lavoratori dal rischio di contagio da Covid-19. In particolare, sul problema della responsabilità datoriale per Covid-19 si è fatta via via strada – pretendendo di divenire verità – la tesi secondo cui la normativa anti-contagio, fin qui emanata dal governo, ha finito per aggravare sul piano penale e civile la condizione dei datori di lavoro in caso di eventi lesivi della salute dei lavoratori. Tanto che gli imprenditori continuano a chiedere modifiche legislative e a invocare scudi protettivi. E c’è persino chi minaccia la serrata.

Il detto secondo cui una bugia ripetuta fino alla noia finisce per diventare una mezza verità non può però valere sul terreno giuridico. La verità è che il legislatore non ha emesso alcuna norma non solo per stabilire, ma nemmeno per aggravare, la responsabilità penale dei datori di lavoro in caso di infezione da coronavirus sul lavoro. Nessuna.

In materia di prevenzione il governo si è limitato a rendere obbligatoria l’osservanza di regole precauzionali individuate nei protocolli condivisi con l’intesa delle stesse parti sociali. Regole che sarebbero state ugualmente obbligatorie per ogni imprenditore ai sensi dell’art. 2087 c.c. che, fin dal 1942, prevede l’obbligo del datore di lavoro di adeguare la tutela del lavoratore a qualsiasi rischio alla salute, anche nuovo e sopravvenuto.

L’art. 42 del decreto Cura Italia riconosce poi – ma anche qui in conformità alle regole pregresse e alla giurisprudenza consolidata – che nell’ipotesi di contrazione del virus in “occasione di lavoro” il lavoratore ha diritto a una protezione indennitaria ampia, quella prevista per “infortunio sul lavoro”. Dalla norma sorge dunque l’obbligo, ma solo per l’Inail e senza nessuna conseguenza per il datore di lavoro, di erogare un indennizzo di natura sociale per il danno alla salute nonché per la protezione economica della famiglia nell’ipotesi di decesso. Ma sempre se si dimostra il collegamento del contagio con l’attività di lavoro, cosa tutt’altro che agevole come invece si profetizza. Lo stesso art. 42 del Cura Italia stabilisce poi che nessun onere sarà in ogni caso posto a carico delle imprese, nemmeno in termini di aumento di premi assicurativi. L’unica vera norma (dotata di efficacia innovativa), contenuta in quel decreto, ha pertanto un contenuto di favore per le imprese, perché le solleva dagli oneri economici cui, secondo le norme generali, avrebbe dato invece vita il riconoscimento di casi di infezione in ambito lavorativo.

Inoltre il decreto Rilancio ha stanziato 403 milioni a fondo perduto alle imprese per la prevenzione e la sanificazione negli ambienti di lavoro. Ed ancora, e per di più, il governo non solo non ha emesso alcuna norma penale nei confronti del datore di lavoro, ma ha pure depenalizzato le infrazioni commesse alla normativa anti-Covid rendendo amministrative trasgressioni che prima sarebbero state penali.

Insomma gli alti lai sollevati in questi giorni su presunte “norme gravissime” e “anti-impresa” distorcono la realtà: queste norme non esistono. L’eventuale responsabilità penale e civile datoriale per un’infezione da coronavirus – se mai potrà essere accertata – discenderà dalle norme generali, già vigenti, risalenti all’epoca fascista (codice penale Rocco e codice civile Grandi). È da queste norme generali che le imprese chiedono, quindi, di essere protette con uno scudo che sarebbe, esso sì, incostituzionale per la violazione della protezione costituzionale di salute, lavoro e del principio di eguaglianza.