Agiornali e commentatori unificati è partita la guerra all’Inail, l’istituto pubblico che assicura i lavoratori. Non solo le “linee guida” per le riaperture, che poi sono raccomandazioni e studi che spetta alla politica declinare, ma anche e soprattutto per il riconoscimento del Covid-19, se del caso, come infortunio sul lavoro: le associazioni delle imprese chiedono uno “scudo penale” per i contagi, ma si tratta nel migliore dei casi di un equivoco, nel peggiore dell’ennesimo mezzo improprio di pressione sulla politica in quel suk che è la vita dello Stato secondo i “capitalisti” italiani.
Andiamo con ordine. Intanto i numeri: le denunce all’Inail per aver contratto il coronavirus sul luogo di lavoro erano circa 38mila dall’inizio dell’epidemia al 4 maggio e, da allora, procedono al ritmo spannometrico di 300 al giorno, una decina delle quali mortali.Insomma, siamo oltre 40mila e la gran parte, quasi tre quarti, arrivano dal settore sanitario. E qui c’è una prima distinzione importante da fare: solo a questo ultimo settore l’Inail ha riconosciuto la “presunzione semplice” ai fini assicurativi. Significa che l’istituto pubblico concede subito la copertura a chi si è ammalato e lavora nel settore sanitario: si presume, insomma, che il virus sia stato contratto proprio sul luogo di lavoro. In tutti gli altri casi questo va dimostrato con la solita trafila d’indagine.
Ma il Covid-19 è un infortunio sul lavoro? “Un’aberrazione logica”, l’ha definita Fabio Ravanelli, ad del gruppo Mirato, sul Sole 24 Ore di ieri. Un parere variamente declinato da manager e imprenditori in questi giorni e invece è la normalità per le epidemie “da un centinaio d’anni almeno”, ha ricordato il direttore generale dell’Inail Giuseppe Lucibello: funziona così almeno dalla malaria in poi e quindi “la copertura infortunistica da contagio non costituisce una novità normativa”. Il punto vero, in questa incredibile polemica, è che la copertura assicurativa eventualmente concessa ai contagiati poco ha a che fare coi risvolti in sede penale e civile della faccenda: proprio per la natura dell’epidemia dimostrare in un aula di tribunale che ci si è contagiati al lavoro e, stabilito quello, la colpa o il dolo dell’imprenditore è quasi impossibile.
La cosa è talmente nota che è stata messa nero su bianco in Parlamento dallo stesso governo in risposta a un’interrogazione: “La molteplicità delle modalità e delle occasioni di contagio e la circostanza che la normativa di sicurezza è oggetto di continuo aggiornamento rendono particolarmente problematica la configurabilità di una responsabilità civile e penale del datore di lavoro che operi nel rispetto delle regole”, responsabilità “ipotizzabile solo in via residuale, nei casi di inosservanza delle disposizioni a tutela della salute dei lavoratori”.
Qui va riconosciuta una difficoltà oggettiva. Le linee guida di governo e Regioni devono essere il più possibile aderenti ai protocolli di sicurezza concordati dalle parti sociali così da evitare, se non altro, difficoltà interpretative a imprenditori e lavoratori.
Resta un caso a parte il mondo sanitario, che ha subito l’arrivo del virus letteralmente “a mani nude”, cioè in molti casi senza i necessari – e obbligatori – Dpi (mascherine, guanti, etc.): in questo senso è chiaro che tutti i datori di lavoro – pubblici e privati – del settore rischiano assai a livello penale. Per questo in Parlamento già da tempo si prova a inserire uno scudo penale ad hoc.