Covid, “infortunio” o no? Guerra insensata all’Inail

Agiornali e commentatori unificati è partita la guerra all’Inail, l’istituto pubblico che assicura i lavoratori. Non solo le “linee guida” per le riaperture, che poi sono raccomandazioni e studi che spetta alla politica declinare, ma anche e soprattutto per il riconoscimento del Covid-19, se del caso, come infortunio sul lavoro: le associazioni delle imprese chiedono uno “scudo penale” per i contagi, ma si tratta nel migliore dei casi di un equivoco, nel peggiore dell’ennesimo mezzo improprio di pressione sulla politica in quel suk che è la vita dello Stato secondo i “capitalisti” italiani.

Andiamo con ordine. Intanto i numeri: le denunce all’Inail per aver contratto il coronavirus sul luogo di lavoro erano circa 38mila dall’inizio dell’epidemia al 4 maggio e, da allora, procedono al ritmo spannometrico di 300 al giorno, una decina delle quali mortali.Insomma, siamo oltre 40mila e la gran parte, quasi tre quarti, arrivano dal settore sanitario. E qui c’è una prima distinzione importante da fare: solo a questo ultimo settore l’Inail ha riconosciuto la “presunzione semplice” ai fini assicurativi. Significa che l’istituto pubblico concede subito la copertura a chi si è ammalato e lavora nel settore sanitario: si presume, insomma, che il virus sia stato contratto proprio sul luogo di lavoro. In tutti gli altri casi questo va dimostrato con la solita trafila d’indagine.

Ma il Covid-19 è un infortunio sul lavoro? “Un’aberrazione logica”, l’ha definita Fabio Ravanelli, ad del gruppo Mirato, sul Sole 24 Ore di ieri. Un parere variamente declinato da manager e imprenditori in questi giorni e invece è la normalità per le epidemie “da un centinaio d’anni almeno”, ha ricordato il direttore generale dell’Inail Giuseppe Lucibello: funziona così almeno dalla malaria in poi e quindi “la copertura infortunistica da contagio non costituisce una novità normativa”. Il punto vero, in questa incredibile polemica, è che la copertura assicurativa eventualmente concessa ai contagiati poco ha a che fare coi risvolti in sede penale e civile della faccenda: proprio per la natura dell’epidemia dimostrare in un aula di tribunale che ci si è contagiati al lavoro e, stabilito quello, la colpa o il dolo dell’imprenditore è quasi impossibile.

La cosa è talmente nota che è stata messa nero su bianco in Parlamento dallo stesso governo in risposta a un’interrogazione: “La molteplicità delle modalità e delle occasioni di contagio e la circostanza che la normativa di sicurezza è oggetto di continuo aggiornamento rendono particolarmente problematica la configurabilità di una responsabilità civile e penale del datore di lavoro che operi nel rispetto delle regole”, responsabilità “ipotizzabile solo in via residuale, nei casi di inosservanza delle disposizioni a tutela della salute dei lavoratori”.

Qui va riconosciuta una difficoltà oggettiva. Le linee guida di governo e Regioni devono essere il più possibile aderenti ai protocolli di sicurezza concordati dalle parti sociali così da evitare, se non altro, difficoltà interpretative a imprenditori e lavoratori.

Resta un caso a parte il mondo sanitario, che ha subito l’arrivo del virus letteralmente “a mani nude”, cioè in molti casi senza i necessari – e obbligatori – Dpi (mascherine, guanti, etc.): in questo senso è chiaro che tutti i datori di lavoro – pubblici e privati – del settore rischiano assai a livello penale. Per questo in Parlamento già da tempo si prova a inserire uno scudo penale ad hoc.

Renzi & C., il grand bluff del “modello Genova”

Passato il decreto Rilancio (non ancora in Gazzetta ufficiale, per la verità), è il turno dell’ennesimo “sblocca cantieri”. Il nome tecnico è “decreto Semplificazione” e il premier lo ha annunciato da settimane. Un testo vero ancora non c’è, ma l’assalto alla diligenza è già partito.

Le idee, al momento, sono confuse, ma lo scontro in corso nella maggioranza si concentra sul cosiddetto “modello Genova”. Lo strumento è già previsto dal decreto sblocca-cantieri dell’aprile 2019 firmato da Danilo Toninelli: “I commissari straordinari possono essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazione appaltante e operano in deroga alle disposizioni di legge in materia di contratti pubblici”. Un potere discrezionale grazie al quale il commissario può affidare gli appalti senza gara, come si è fatto per il ponte Morandi. Che però era un caso assai specifico: l’urgenza, l’importo (solo 200 milioni), la spesa a carico di Autostrade per l’Italia etc..

Da allora, però, è diventato un mantra. Il viceministro delle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri (M5S) sogna di sbloccare così opere per 109 miliardi contenute nei piani di Anas e Fs. L’idea non dispiace a parte del Movimento. Non dispiace neanche ai renziani di Italia Viva. Matteo Renzi, forte, pare, dei consigli di Pietro Salini, il patron della Salini-Impregilo – sia detto en passant, in contenzioso con Palazzo Chigi per lo stop al Ponte sullo Stretto di Messina – e ora confluita nel colosso Webuild con l’apporto della Cassa depositi e prestiti da mesi fantastica di uno “sblocca cantieri” da 120 miliardi.

A frenare, al momento, oltre al buon senso, è il ministero delle Infrastrutture guidato da Paola De Micheli, contraria all’uso genereralizzato del modello usato per il Ponte Morandi. Al dicastero non considerano la proposta Cancelleri non percorribile e abbastanza confusa mentre quella di Italia Viva è trattata alla stregua di una richiesta lobbistica. Estendere il modello Genova a metà del mercato degli appalti pubblici italiano è impossibile, ma questo non vuol dire che non sarà usato. De Micheli, per dire, da tempo spinge per nominare almeno una dozzina di commissari per un totale di 25 opere (valore vicino ai 20 miliardi). Lo sblocca cantieri di Toninelli prevede che avvenga con decreto del premier (Dpcm). La bozza esiste da mesi, ma è sempre rimasta tale per i dubbi dei tecnici. Al Tesoro, per dire, non hanno mai digerito la pratica e, per questo, è stato quasi estromesso dalla partita.

Vista l’impasse, Conte ha deciso di accentrare tutto, dando mandato al fedele Roberto Chieppa, consigliere di Stato che ha chiamato a segretario di Palazzo Chigi, di mettere su un gruppo di lavoro formato da grand commis (ovviamente consiglieri di Stato), esperti vari. Stando alle indiscrezioni, riprese ieri dal Foglio, l’idea è di eliminare l’obbligo di gara per gli appalti fino fino a 5 milioni di euro, dopo che lo sblocca cantieri di Toninelli lo ha tolto per quelli fino a 1 milione, scelta già bocciata a suo tempo dall’Autorità anticorruzione (come i commissari modello Genova). Tra le ipotesi anche quella di eliminare la fattispecie di colpa grave nel danno erariale in caso di controllo preventivo della Corte dei conti.

L’idea complessiva, però, è di usare i commissari straordinari per alcune grandi opere strategiche (l’allegato Infrastrutture del Def conterà opere per 200 miliardi in 15 anni). L’obiettivo è di estendere più possibile per i grandi appalti di rilievo le procedure negoziate, senza gara (significa eliminare il mercato). “Se qualcuno pensa di fare del modello Genova la regola liberalizzando anche il subappalto sarebbe gravissimo e si beccheranno lo sciopero degli edili Cgil”, avvisa il segretario della Fille Cgil, Alessandro Genovesi.

Blindata la Torino-Milano: ecco il super regalo a Gavio

Non c’è coronavirus che tenga: anche in mezzo alla tempesta quando si parla di autostrade i concessionari devono sempre stravincere. Fino al crollo del ponte di Genova i campioni erano i Benetton, ora sul podio salgono i Gavio, signori delle autostrade del Nordovest. Attraverso il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), il governo ha consegnato loro la palma dei trionfatori con una decisione che riguarda un’autostrada periferica, la Asti-Cuneo (un centinaio di chilometri di cui appena una decina già costruiti), ma che beneficia tutto il sistema Gavio, imperniato sulla ricchissima Torino-Milano.

Con la decisione del Cipe i Gavio ci guadagnano una sorta di blindatura perenne della concessione Torino-Milano con annesso pure un gentile regaluccio di circa 300 milioni di euro. Vediamo perché.

La Asti-Cuneo è una delle incompiute minori italiane, di utilità dubbia ma al cui completamento tengono molto da quelle parti. Tre governi si sono scervellati per escogitare il modo per finire l’opera omaggiando i Gavio che la costruiscono. Quando al ministero dei Trasporti come ministro c’era Graziano Delrio (Pd, governo di Matteo Renzi) volevano allungare la florida concessione della Torino-Milano di 4 anni, dal 2026 al 2030, e ridurre contemporaneamente dal 2045 al 2031 quella miserella della Asti-Cuneo, concedendo al contempo ai Gavio un valore di oltre 500 milioni di euro per il subentro. Soldi che avrebbero incassato nel caso in cui qualche altro soggetto a fine concessione avesse voluto prendere il loro posto.

Fallito questo tentativo, il nuovo ministro Danilo Toninelli (5 Stelle) cambiò le carte in tavola: propose, in sostanza, di non allungare la durata della concessione Torino-Milano, di tenere ferme le tariffe e di accollare ai Gavio 300 milioni di euro di investimenti già fatti per il primo pezzetto della Asti-Cuneo più altri 350 necessari per il completamento dell’opera.

In cambio concedeva agli stessi Gavio un valore di subentro per la Torino-Milano di 890 milioni, una somma così elevata da blindare di fatto per l’eternità la concessione in mano ai Gavio. Il piano di Toninelli cadde ad agosto di un anno fa, insieme al governo Lega-M5S: Ma ora viene ripreso pari pari dalla ministra Pd Paola De Micheli e taglia il traguardo con il voto del Cipe.

Ci sono però due ostacoli. Il primo è l’Europa che aveva detto sì al piano Delrio, perché aveva considerato il valore di subentro della Torino-Milano (500 milioni) non così eccessivo da scoraggiare eventuali gare future. “Di fronte a un valore di subentro quasi doppio a cui vanno aggiunti circa 350 milioni al 2031 per la Asti-Cuneo, l’Europa potrebbe però ripensarci ravvisando nella faccenda un aiuto di Stato.

C’è poi un altro aspetto, ancora più serio: i 650 milioni di investimenti dei Gavio per la Asti-Cuneo vengono remunerati a un tasso record (Wacc) del 9,23 per cento, oltre 2 punti superiore al 7,09 riconosciuto agli stessi Gavio per alcuni lavori di secondaria importanza sulla Torino-Milano. Due punti percentuali su quegli importi fanno la differenza facendo aumentare il valore di subentro di circa 300 milioni di euro, in totale 1 miliardo e 200 milioni (890 per la Torino-Milano più 350 Asti-Cuneo). Il Nars, il Servizio della presidenza del Consiglio per la regolazione dei servizi di pubblica utilità con un proprio parere ha segnalato al Cipe l’anomalia del tasso del 9,23 riconosciuto dal ministero delle Infrastrutture sottolineando la necessità di aggiornarlo al 7,30 ai sensi di una delibera Cipe del 2017. Al Cipe hanno fatto finta di niente.

Pressing sul governo per riaprire la Serie A Il calcio punta tutto sul “modello tedesco”

La Serie A non vuole la quarantena, perché con 14 giorni di clausura per tutta la squadra al primo caso positivo salterebbe qualsiasi calendario. Ma non vuole nemmeno i ritiri. Praticamente, non accetta le condizioni (quasi impossibili, va detto) che il governo per tramite del Comitato tecnico-scientifico ha posto al pallone per ricominciare il campionato.

Da lunedì 18 maggio via libera per gli allenamenti di gruppo. Qualcuno in realtà avrebbe già cominciato: il Corriere della Sera ha mostrato le “partitelle” della Lazio di Lotito, il portiere della Roma Pau Lopez si è già infortunato a un polso (difficile con una corsetta). Tanta fretta e non è detto che quando sarà consentito, le sedute riprenderanno: la Federcalcio non ci ha pensato due volte ad accettare i paletti e riscrivere il protocollo, ma ora fa i conti con la rivolta dei club.

Mezza Serie A a queste condizioni non gioca, non si allena nemmeno. Che la quarantena di due settimane per tutta la squadra fosse un ostacolo si sapeva, che i medici sociali si sarebbero impuntati sulla responsabilità (che ricade su di loro) pure. Ci si aspettava persino che i ritiri diventassero un problema: il Napoli di De Laurentiis ad esempio ha trovato chiuso l’hotel e ora vorrebbe fare la quarantena a casa (dove però i calciatori non sono soli…). Ma è un problema generale, se il presidente Gravina ammette che “c’è una difficoltà a reperire strutture recettive, serve una piccola variazione al protocollo”.

Piccola o grande, lascia di stucco il governo. Al ninistero ricordano bene come solo un mese fa Gravina, il numero uno della Serie A Dal Pino, il medico federale Zeppilli &C. illustravano soddisfatti la bozza di protocollo, chiedendo loro di chiudere le squadre nelle “bolle” a contagio zero. “La proposta non l’ho fatta io, ora scopriamo che non va più bene…”, sibila Spadafora. Ma il ripensamento nasconde la solita frattura in Lega fra chi smania per tornare in campo e chi non ne vuole sapere (così non paga gli stipendi).

Adesso toccherà risedersi al tavolo: il pallone chiederà di ridiscutere il protocollo, il ministero ribadirà le sue obiezioni. Il tema è sempre la quarantena obbligatoria per tutta la squadra se un calciatore risulta un positivo: la Figc punta al modello tedesco (isolamento singolo dell’infetto), si parla di una riduzione da una a due settimane, ma dipenderà dalla curva del contagio. Quindi si vedrà non prima di una settimana. Il calcio continua ad evocare un incontro risolutivo col premier Conte ma per ora non c’è nulla di fissato nemmeno col ministro Spadafora. Per cui Gravina rispolvera il suo progetto di playoff, modo più rapido per giocare (nel Dl Rilancio è stata inserita una norma che lo consente). Intanto una buona notizia per gli appassionati in crisi d’astinenza arriva dalla Germania: oggi alle 15.30 torna la Bundesliga, che non prevede quarantene. Riparte un campionato, non il nostro.

Parenti, mattone e prebende: l’Assocalciatori tiene famiglia

L’Assocalciatori è il sindacato del pallone. A volte è un paradosso, quando si batte perché Cristiano Ronaldo non rinunci a un paio di mensilità mentre tutto il calcio, anzi il Paese, si è fermato per l’emergenza Coronavirus. Non sempre, perché difende anche tanti calciatori che non sono Cr7. Ma è comunque un mestiere, almeno per chi lo dirige: come già rivelato dal Fatto Quotidiano, il numero 1 Damiano Tommasi e gli altri responsabili ufficialmente non sono retribuiti, ma percepiscono uno stipendio attraverso Aic Service, la società di servizi dell’associazione. Per la precisione, 180 mila euro lordi annui al presidente e 30 mila ai consiglieri della Srl, più rimborso spese.

Peccato veniale, o venale, se non ci fosse molto altro: una conduzione quasi familistica dell’associazione di tutti i calciatori. L’aggettivo non è casuale: per l’Aic lavorano diversi “congiunti”, termine così di moda di questi tempi, dei principali vertici. Nell’ufficio legale c’è Alessandro Calcagno, fratello del vicepresidente Umberto, da cui passano le pratiche più importanti. Anche il direttore generale Gianni Grazioli è circondato dagli affetti: c’è suo cognato, altri due collaboratori provengono dall’attività personale (uno studio di ufficio stampa e public relations, ormai in liquidazione) della moglie, che ha partecipato all’organizzazione di almeno un evento dell’associazione. Nel 2018 Aic e Aic service insieme hanno speso complessivamente circa un milione e mezzo di euro soltanto per il personale.

L’Assocalciatori, dunque, è una grande famiglia. Però è anche un’azienda. Dove se ne vanno oltre 600 mila euro l’anno in consulenze, 250 mila in viaggi e trasferte. E i capi hanno benefit da manager: al presidente Tommasi e al suo vice Calcagno il consiglio di Aic Service (ovvero Tommasi e Calcagno) ha assegnato l’utilizzo anche personale di un’auto aziendale. E sempre ad entrambi, sempre il consiglio (cioè sempre loro) ha voluto riconoscere un’indennità di fine rapporto: quando lasceranno, riceveranno pure il Tfr. Alle porte ci sono le elezioni, dove Tommasi non si ricandiderà e il suo braccio destro ed erede designato Calcagno sarà sfidato da Marco Tardelli: se anche le cose dovessero andar male (ma il vicepresidente uscente parte favorito), è già pronto il paracadute.

Per certi versi, invece, l’Assocalciatori assomiglia quasi ad una banca. Conta su un patrimonio netto di oltre 9 milioni, di cui circa 8 sono costituiti dal cosiddetto “fondo di mutuo soccorso”, che dovrebbe servire ad aiutare i più bisognosi della categoria. Qualcuno ha chiesto se potessero essere utilizzati per fronteggiare l’emergenza Coronavirus e aiutare i tesserati delle categorie minori, che non possono permettersi di perdere due o più mensilità come i paperoni della Serie A (ma nemmeno i club possono pagarli senza giocare): il direttivo, oltre ad autocomplimentarsi definendo quella riserva un “motivo di vanto”, ha detto che metterà a disposizione un milione.

I soldi l’Aic non li accumula soltanto. Li investe anche, più o meno bene. Il patrimonio complessivo, come rivendicano i vertici per difendersi dalle accuse, negli ultimi dieci anni è cresciuto dell’80%. Merito anche di attività non proprio sindacali: in pancia ci sono 4,6 milioni di investimenti finanziari e immobiliari. E poi c’è il fondo di accantonamento delle indennità di fine carriera, il grande salvadanaio in cui calciatori e allenatori versano una percentuale dello stipendio (circa il 7%) per ricevere un assegno al momento del ritiro. Il Tfr del pallone, decine di milioni di euro. Parte dei risparmi dei tesserati sono stati investiti nel mattone, acquistando degli immobili e mettendoli a rendita. Sono intestati alla Sport Invest 2000, una società con sede a Roma, che dovrebbe così contribuire al futuro dei calciatori e dei tecnici. Se non fosse che la società invece di incassare, perde, intaccando così il suo patrimonio (e indirettamente il fondo che ne detiene la proprietà).

In compenso, ha in organico 4 dipendenti, ed elargisce 200 mila euro l’anno di compensi, più o meno la cifra del rosso in bilancio. Gli amministratori sono i soliti noti: dentro, ci sono i grandi capi del pallone italiano, c’era anche l’attuale presidente della Figc, Gabriele Gravina, quando era alla guida della Serie C. Nel Cda della società (che è diverso da quello del Fondo, dove è presente Tommasi, altre cariche ancora…) tra gli altri siedono lo storico ex capo dei calciatori Sergio Campana (che a quasi 10 anni dall’addio resiste ancora in due consigli ), Calcagno, il n°1 degli allenatori Renzo Ulivieri, Francesco Ghirelli per la Serie C. Per tutti i consiglieri sono altri 25 mila euro l’anno. L’Aic è ancora un sindacato? Forse è solo il più privilegiato che ci sia.

Silvia Romano, carabinieri nella sede della Onlus: i pm a caccia degli ultimi contatti

Gli uomini del Ros dei carabinieri ieri hanno bussato alle porte di Africa Milele, la onlus con la quale Silvia Romano era partita come volontaria per il Kenya. Proprio qui la 25enne è stata rapita per poi essere rilasciata dopo 18 mesi di prigionia. Ora è tornata a casa, ma il caso non è chiuso. La Procura di Roma, che indaga sul sequestro, infatti vuole fare chiarezza su tutti gli aspetti di questa vicenda, compresi i protocolli di sicurezza che sono stati applicati. Per questo ieri gli uomini del Ros hanno effettuato una perquisizione a Fano, nella sede di Africa Milele.

L’obiettivo è verificare i protocolli di sicurezza adottati per la permanenza di Silvia Romano in Kenya. Alcuni dei responsabili della onlus nei mesi scorsi sono stati sentiti dagli investigatori. Come Lilian Sora la quale avrebbe spiegato che la ragazza non è mai rimasta sola nel villaggio. A proteggerla c’erano due “masai armati di machete”, ma la sera del rapimento uno dei due era al fiume. Ieri sono stati acquisiti documenti relativi alle attività della associazione e materiale informatico: i carabinieri avrebbero copiato alcuni hard disk e il contenuto dei telefoni. I pm romani vogliono ricostruire anche tutti i contatti della giovane nei giorni prima del rapimento.

Sulla onlus, nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio ha sottolineato che “non rientra tra le organizzazioni destinatarie di alcun sostegno della cooperazione italiana” e ha “operato in totale autonomia senza informare la Farnesina”.

Intanto proseguono anche le indagini della Procura di Milano, che ha aperto un fascicolo per minacce in merito alle intimidazioni che la Romano sta ricevendo in questi giorni soprattutto per via della sua conversione all’Islam. L’attenzione è puntata soprattutto sulle minacce di morte, molte pronunciate attraverso profili fake, ossia senza identità reali, ma gli investigatori stanno lavorando per risalire a chi si nasconde dietro immagini spesso legate all’estrema destra.

Lo smacco a Regeni e Zaki “2019, più armi all’Egitto”

L’Egitto del generale Abdel Fattah al Sisi è il primo cliente dell’industria bellica italiana: licenze autorizzate per 871,7 milioni di euro di commesse, si tratta in gran parte di una fornitura di elicotteri della Leonardo. E nel computo, riferito al 2019, manca la coppia di fregate Fremm – l’accordo non è ancora firmato – da oltre un miliardo di euro di Fincantieri. “È un’offesa alla memoria di Giulio Regeni”, denuncia la Rete per il disarmo. L’organizzazione pacifista ha scovato e anticipato la relazione annuale del governo che analizza le esportazioni di armamenti, un documento di oltre mille pagine che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio – stavolta è toccato al pentastellato Riccardo Fraccaro – deve inoltrare a Camera e Senato. La Rete per il disarmo segnala un sensibile aumento dei contratti con il Cairo, mentre il giro d’affari delle armi flette di un punto e mezzo percentuale sul 2018: 5,174 miliardi di euro di vendite previste, di cui 2,9 miliardi consegnate, il 66,2% verso stati non europei e neppure Nato.

Però l’Egitto genera le contestazioni più imbarazzanti per il governo di Giuseppe Conte: non collabora con le autorità giudiziarie per l’inchiesta sulla brutale uccisione di Regeni, non rilascia lo studente Patrick Zaki che fu arrestato dopo il rientro a casa da Bologna. E per altre ragioni il Cairo è un avversario geopolitico di Roma: foraggia l’esercito di Khalifa Haftar che da Bengasi, in Cirenaica, si muove contro il governo libico di Fayez al Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale. Al Sisi ha ripreso a comprare sistemi di difesa perché avverte la minaccia dei nemici turchi, sbarcati in massa in Africa e schierati sul campo a fianco di Serraj. Recep Tayyip Erdogan ha brame di conquiste – o almeno di influenza – in territorio libico e nel ricco mare di fronte alle coste egiziane. La giustificazione del governo italiano, semmai servisse, è valida da sempre. Suona più o meno così: abbiamo un’industria bellica che contribuisce al prodotto interno lordo, dà lavoro a decine di migliaia di cittadini e va supportata in trasparenza; se interrompiamo i contatti con gli egiziani favoriamo i nostri amici/rivali europei e non aiutiamo l’indagine su Regeni.

La Rete per il Disarmo segnala anche l’inedito rapporto con il Turkmenistan, che piomba in classifica e segue l’Egitto. Entrambi non brillano per il rispetto dei diritti umani. Al terzo posto c’è la Gran Bretagna. Grossi acquisti per l’Algeria e la Corea del Sud. Dopo la freddezza diplomatica dell’intero occidente per la tremenda esecuzione dello scrittore dissidente Jamal Ahmad Kashoggi, avvenuta nel consolato a Istanbul, l’Arabia Saudita è assente dalla lista dei principali acquirenti di strumenti militari italiani. Palazzo Chigi, nel testo di introduzione inviato in Parlamento, si fregia della “stringente attività ispettiva” tra le aziende del settore: 20 società coinvolte su 347. I pacifisti non tollerano la diffusione di armi di chiunque e ovunque, però l’Egitto è un caso di studio per tutti. Da un lato va isolato, dall’altro va ammaliato. Nell’incertezza italiana si spediscono armi e navi. Con enorme dispiacere di francesi e inglesi.

“Piazzavamo i nostri, ma il fine era solo pluralismo culturale”

Fulvio Baldi, 52 anni, capo di gabinetto del ministro Bonafede, si è dimesso giovedì sera dopo l’uscita del nostro pezzo sul sito del Fatto e dopo questa telefonata nella quale abbiamo letto a Baldi le conversazioni del 2019 tra lui e Luca Palamara. Nulla di penalmente rilevante, ma qualcosa di politicamente imbarazzante per la sua rivendicazione delle logiche correntizie.

Dottor Baldi, le volevamo chiedere delle sue conversazioni intercettate durante l’indagine sul Csm. Lei non era indagato, ma parlava con Palamara…

Sì, le abbiamo già viste anche con il ministro e sono di una limpidezza incredibile. Anzi, scusi, io ho visto solo le chat di Whatsapp. Cosa c’è in queste intercettazioni? Quale sarebbe l’interesse pubblico?

Che c’era una pm di Modena che voleva venire a lavorare lì al ministero e…

Sì, questa cosa l’abbiamo vista con il ministro. Palamara mi segnala questa dottoressa, la incontro a novembre del 2018, ma non la prendo. Poi l’ho proposta al dottor Mauro Vitiello per l’ufficio legislativo e anche lui non l’ha presa. Attenzione però: Palamara cade in disgrazia solo a maggio del 2019. Il 5 novembre del 2018 era in auge, quando mi ha chiesto il piacere e io non glielo ho fatto. Gli ho solo detto ‘faccio il possibile’.

Leggo la trascrizione dell’intercettazione di aprile 2019. Vitiello non aveva scelto la “segnalata” e lei dice a Palamara: “Sono uomini di malafede, i soliti di Magistratura Democratica”…

Ma Vitiello non è di Md, forse allora lo pensavo, ma non lo è.

Comunque lei in quella telefonata poi illustra le possibili alternative: “Abbiamo varie strade: l’Ispettorato, il Dap” (dove c’era allora un altro magistrato di area Unicost, Basentini) poi aggiunge: “La strada più praticabile è il DAG perché dal 6 maggio la Casola (Maria Casola, area Unicost, ndr) prende possesso e dal 7 maggio mattina lei può far partire la richiesta (…) la Casola è nostra ragazzi, gliela indichiamo noi e che cazzo! E allora e che cazzo li piazziamo a fare i nostri! (…) poi glielo voglio dire che ci sei pure tu. Vai rispettato pure tu. Questa è gente che deve capire che la ruota gira”. Le pare bello?

Sono cose amicali che si dicono. Cose tipo: ‘Diamoci una mano’. Fatto sta che io questa dottoressa non la ho mai presa al gabinetto nonostante abbia fatto tante chiamate, dopo. Anche Vitiello non l’ha presa. Alla Casola non l’ho segnalata e nemmeno all’Ispettorato. Può chiedere.

Perché lei dice a Palamara: “Prima o poi te la porto qua per la considerazione e l’affetto che ho per te. Te lo meriti”?

Poi non gliel’ho portata e sono cose che si dicono per non deludere un amico con cose poco piacevoli.

Il 17 maggio 2019 Palamara le segnala un’altra magistrata e lei dice che al ministero degli Affari Esteri (Mae) ha “carta bianca”…

Questa giudice è venuta al mio ministero, ma non l’ho mai segnalata al Mae. Nella mia segreteria ci stanno 80 persone. Faccio appuntamenti con le persone segnalate e poi decido. Ho fatto 200 colloqui, ma saranno venute una trentina di persone.

Lei dice a Palamara che Maria Casola chiamerà la Marino perché “che cazzo li piazziamo a fare i nostri?”. Noi ingenuamente pensavamo che al ministero andassero i migliori non i “nostri”. Ci sbagliavamo?

I nostri non ha un’accezione mafiosa. I ‘nostri’ sta a significare ‘appartenenti alla nostra corrente’ ma ora, dopo 28 anni, sono uscito da Unicost a settembre 2019 perché ritengo che il capo Dipartimento debba essere equidistante dalle correnti.

Francesco Basentini è stato scelto – invece di Di Matteo – il 18 giugno da Bonafede. Lei era stato scelto, secondo Il Foglio, prima dell’8 giugno. Il ministro le ha chiesto un consiglio per il Dap?

No. I capi dipartimento li ha scelti il ministro che ha fatto 50 colloqui tra cui il mio. Basentini l’ho conosciuto al ministero. Anche io sono stato scelto in quei giorni, si vede dalle chat che il mio nome circola tra i magistrati intorno al 16 giugno, non prima.

Queste chat dell’inchiesta perché sono sul suo tavolo?

Perché l’Ispettorato esercita l’azione disciplinare ed è un ufficio di diretta collaborazione del ministro, quindi coordinato dal Gabinetto.

Cioè l’ispettorato sta valutando le sue conversazioni?

Ma che c’entra? Lei sta confondendo i piani. Quale sarebbe il problema?

Per un dirigente dire che un posto deve essere riservato ai ‘nostri’, di una corrente, è un profilo disciplinare?

Io non ci vedo nulla di disciplinare. Io penso che il pluralismo culturale in un’istituzione sia fondamentale.

Anche noi lo pensiamo. Culturale, però, dottor Baldi, culturale. Buona serata.

Lascia il capo di gabinetto Altro fuoco su Bonafede

Non c’è tregua per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Dopo aver convinto alle dimissioni il capo del Dap Francesco Basentini gli è toccato, due settimane dopo, far dimettere il suo capo di Gabinetto, Fulvio Baldi. Scelta obbligata per i messaggi istituzionalmente imbarazzanti, pubblicati da ilfattoquotidiano.it tra Luca Palamara, l’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm indagato a Perugia per corruzione e lo stesso Baldi, non indagato. A dicembre si era dovuto dimettere il capo degli ispettori ministeriali Andrea Nocera, accusato a Napoli di corruzione, il suo posto ancora oggi è vacante. Baldi, già sostituto pg in Cassazione, arriva in Via Arenula, si dice, su suggerimento del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, di Unicost come Baldi e come Palamara. Baldi, però, non ha mai avuto un gran peso al ministero, a differenza del vice Leonardo Pucci, amico storico di Bonafede. E Baldi non era in buoni rapporti né con Pucci e neppure con un amico di Pucci, Basentini. Come reggente, Bonafede ha scelto il capo dell’ufficio legislativo Mauro Vitiello, ex giudice a Milano, che potrebbe succedere a Baldi ufficialmente. Al posto di Vitiello, come capo del legislativo potrebbe essere nominata l’attuale vice, Concetta Lo Curto. Sia Vitiello che Lo Curto sono di Area (progressisti).

Le dimissioni di Baldi seguono la pubblicazione di sue conversazioni con Palamara, che gli chiede di piazzare una pm di Modena, Katia Marino al ministero. Baldi risponde che si rivolgerà a un altro membro di Unicost al ministero, Maria Casola, esperta giurista, capa del Dag, dipartimento affari di giustizia e chiosa: “Allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?”. Ma la manovra va a vuoto, Baldi si era pure lamentato di Vitiello, che non aveva voluto la collega.

Di fronte alla logica “correntocentrica”, un ministro della Giustizia che anche da deputato si è sempre dichiarato contro le nomine dei vertici degli uffici giudiziari secondo la logica “uno a te, uno a me” non poteva che chiedere le dimissioni. Bonafede, al suo primo intervento al plenum del Csm (governo giallo-verde) annunciò pure di voler modificare la legge elettorale per il Consiglio, introducendo un sorteggio. Progetto fallito per gli scudi di magistratura e Pd.

Le dimissioni di Baldi arrivano a pochi giorni dal voto in Senato, il 20, sulla mozione di sfiducia personale contro Bonafede, presentata dal centrodestra sull’onda delle scarcerazioni e del caso della mancata nomina di Di Matteo al Dap. “L’unico che deve togliere il disturbo è il ministro”, rilancia l’opposizione. Il comunicato del ministero su Baldi parla di dimissioni per “motivi personali”. Nessun riferimento al caso Palamara, che l’estate scorsa portò alle dimissioni di 5 togati del Csm e del Pg della Cassazione Riccardo Fuzio, accusato a Perugia di rivelazione di segreto.

Chiesto l’arresto di Cesaro e Pantangelo (FI)

Profuma della camorra di Raffaele Cutolo degli Anni 80 questa piccola Tangentopoli della Provincia di Napoli che potrebbe costare gli arresti domiciliari a due fedelissimi di Silvio Berlusconi, il senatore Luigi ‘a Purpetta’ Cesaro e il deputato Antonio Pentangelo. La loro libertà è appesa al voto delle Camere, il teatro della presunta corruzione è Castellammare di Stabia (Napoli). Riguarda una riqualificazione in 330 appartamenti dell’ex area industriale Cirio, mai iniziata. Ma ci fu il permesso a costruire, oliato – secondo le accuse della Procura di Torre Annunziata guidata da Pierpaolo Filippelli – tra una mazzetta di 10.000 euro a Cesaro e un Rolex con gli auguri di buon compleanno per Pentangelo. Il senatore, il deputato (che si dice esterrefatto dalla ricostruzione inquirente) e altri personaggi minori avrebbero beneficiato di un sistema corruttivo messo in piedi dall’imprenditore Adolfo Greco, in regime di custodia cautelare dal dicembre 2018 con accuse di camorra, da poche settimane ai domiciliari per problemi di salute in emergenza Covid-19. Greco fu condannato come prestanome di Cutolo insieme al “boss delle cerimonie” dell’Hotel La Sonrisa, don Antonio Polese, (deceduto qualche anno fa) per l’acquisto del Castello Mediceo di Ottaviano, e poi, in nome di Cutolo e di un senatore, Ciccio Patriarca, fu un mediatore della trattativa Dc-camorra-Br per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo.

“Cesaro? Un uomo in mezzo alla via”, lo definisce Greco in una intercettazione, ricordandone i trascorsi di “coimputato”. Sì, perché negli Anni 80 Cesaro, con Greco e Polese, fu destinatario di uno delle centinaia di ordini di cattura che sterminarono la camorra. Ed è tuttora inseguito dall’illazione – mai provata – di essere stato autista di Cutolo. Dai maxi processi Cesaro fu assolto in appello.

Ed ora rieccoli nelle stesse carte, Greco, Polese e Cesaro. Fotografati dal 2013 in poi come tre distinti signori che tornano a gravitare intorno a un interesse comune: la ex Cirio. Greco e Polese sono i titolari della Polgre srl, che per 12 miliardi di lire nel 1999 ha comprato l’area. Cesaro è il presidente della Provincia di Napoli – il vice è Pentangelo – che pilota la nomina di Maurizio Biondi (arrestato), collega di studio di uno dei figli, come “commissario ad acta” del permesso a costruire. C’era una matassa di vincoli paesaggistici da sbrogliare in consiglio regionale e per farlo alla sua maniera Greco aveva provato a rivolgersi al dem Mario Casillo (indagato). Un appuntamento salta perché Casillo deve andare alla Leopolda di Renzi, poi l’interessamento del Pd si rivelerà inconsistente e allora Greco approccia Forza Italia. Il suo ingegnere di fiducia Antonio Elefante (arrestato) scrive un testo che viene incorporato in un emendamento dell’azzurro Fulvio Martusciello, governatore Stefano Caldoro. Ed è per questo che quando lo cercano le persone di De Luca, Greco dice di no “ho dato la sede di Forza Italia a Napoli … eppoi sono amico di Andrea Cozzolino (dem rivale di De Luca, ndr)”. Infatti grazie a una intercessione di Greco, gli azzurri avevano avuto lo sconto sul fitto: 3.000 euro contro i 5.000 richiesti.