Messina si rimangia la parola 6 miliardi “garantiti” alla Fiat

È un grande classico del capitalismo italiano: fare la morale con i soldi degli altri, di norma quelli pubblici. Per questo aveva stupito tutti l’appello lanciato nelle scorse settimane da Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo, per chiedere ai ricchi italiani di cacciare i soldi ed evitare di ricorrere agli aiuti pubblici per il Covid se non ne avevano davvero bisogno. Peccato, però, che il banchiere, contraddicendo i suoi enunciati morali, si apprestava a finanziare un’impresa, Fiat Chrysler Automobiles, grazie alla garanzia pubblica sui debiti.

Commentando l’ok al decreto Liquidità dell’8 aprile, che concede la garanzia pubblica sui crediti bancari, Messina aveva spiegato che i capitalisti nostrani, “spesso con notevole ricchezza accumulata in Italia o all’estero, dovrebbero lasciare le garanzie di Stato ai settori deboli e rispondere a un altro imperativo morale. È l’ora di far tornare i loro soldi nelle aziende”. Nel piano del banchiere per ridurre il debito pubblico uno dei punti salienti è quello di “incentivare il ritorno in Italia delle aziende che hanno trasferito la sede all’estero per ottenere vantaggi fiscali”. “È l’occasione per affermare l’orgoglio di essere italiani”, ha spiegato al Sole 24 Ore.

Messina è uomo di parola, non ne dubitiamo. Intesa Sanpaolo, però, è la stessa banca che negozia da settimane un maxi-prestito a Fca coperto dalla garanzia pubblica della Sace – controllata dalla Cassa depositi e prestiti – proprio come previsto dal decreto Liquidità. Infatti, come rivelato dal Fatto il 5 maggio, il colosso automobilistico (sede legale in Olanda e fiscale nel Regno Unito) controllato dalla Exor, la cassaforte degli Agnelli (sede in Olanda), chiederà a Sace la garanzia pubblica su un prestito da circa 6 miliardi. Ci sarebbe da supporre che Messina abbia chiesto a John Elkann di far rientrare Fca ed Exor in Italia prima di usare la garanzia pubblica. I prestiti garantiti andranno a finanziare le attività italiane di Fca che pagano le tasse al fisco italiano. Eppure riavere in Italia la sede significherebbe poter tassare i dividendi staccati ai soci esteri, tra cui Exor. Solo quello straordinario previsto dalla fusione con Peugeot vale per la holding degli Agnelli 1,5 miliardi. Chi usa i prestiti garantiti non dovrà staccare dividendi per un anno, e infatti Fca ha già rinviato il dividendo ordinario (1,1 miliardi). Il gruppo parlamentare di LeU alla Camera ha già depositato due emendamenti al decreto Liquidità per vietare dividendi e distribuzione di bonus e stock option ai manager per tutta la durata dei prestiti garantiti (6 anni). Il Tesoro, però, darà parere negativo. Tuttavia, Messina, che è uomo di parola, potrà gentilmente chiedere a Elkann di adeguarsi lo stesso.

Le regioni in ritardo sui dati. Ricciardi: “Un caso Lombardia”

Non tutte le Regioni hanno fatto il loro dovere e hanno inviato in tempo al ministero della Salute i dati necessari per completare il monitoraggio dell’epidemia in vista della riapertura di lunedì. Ma i dati della Protezione civile confermano alcune certezze: “Abbiamo un caso Lombardia. E probabilmente anche un caso Piemonte”. Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute per l’emergenza Covid-19, non usa giri di parole o formule edulcorate. Lunedì l’Italia torna a respirare dopo il lockdown, ma le curve epidemiche delle singole regioni continuano a scendere a velocità differenti. Il principale spartiacque è quello che divide il Settentrione dal resto del Paese: in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna la flessione rimane più lenta che altrove. E all’interno di questa enclave epidemica è la prima che continua ad alimentare i principali timori.

Il consueto bollettino delle 18 ha fatto sapere che in Italia i casi totali di coronavirus sono223.885. In 24 ore l’aumento è stato di 789 unità (+0,35%, al di sotto di una media settimanale che è stata dello 0,43%), scovate tra i 68.176 tamponi comunicati ieri (un buon risultato se si tiene conto che negli ultimi cinque giorni la media è stata di 61.900 test contro i 58.800 dell’intera settimana precedente): di questi 299 arrivano dalla Lombardia e 137 dal Piemonte. Che da soli contano, quindi, oltre la metà del totale nazionale. Numeri che fanno dire al rappresentante italiano presso il board dell’Organizzazione mondiale della sanità che nella regione focolaio (84.119 casi totali) “l’epidemia non è mai finita. E anche in Piemonte: stiamo parlando ancora di numeri a tre cifre”, ha sottolineato Ricciardi. In altri Paesi con questi numeri “sarebbero tornati al lockdown”.

Sull’altro fronte, quello di chi è si è già ammalato, la situazione continua a migliorare. Lo si evince dall’analisi dei contagi totali, che comprendono gli attualmente positivi, i morti e le persone dimesse dagli ospedali o considerate guarite. I primi ammontano a 72.070: -4.370 casi rispetto a giovedì. Di questi, 808 sono in cura in terapia intensiva (-47 pazienti) e 10.792 persone sono ricoverate con sintomi: -661 casi in 24 ore. Se gli ospedali continuano a svuotarsi, il numero delle vittime rimane alto: 242 quelle comunicate ieri, per la seconda volta di fila sopra i 200, dopo i 262 di giovedì ma anche dopo cinque giorni consecutivi in cui il dato era rimasto sotto quota.

Poiché il periodo di incubazione della malattia può arrivare a 14 giorni, per conoscere gli effetti che la parziale fine del lockdown del 4 maggio ha avuto sulla curva dei contagi bisognerà aspettare i dati che arriveranno a partire del 18 maggio, giorno a partire dal quale torneranno ad alzare le saracinesche anche bar e ristoranti, parrucchieri e centri estetici. La riapertura pressochè definitiva del Paese, differenziata in base alle Regioni, sarà tuttavia sottoposta al sistema di controllo in tre punti (articolati in 21 indicatori) messo a punto dal ministero della Salute per valutare l’andamento dei contagi. Ieri il premier Giuseppe Conte ha ribadito il concetto: “Se salgono i contagi il governo interverrà”. Prima conseguenza: le aree in cui si dovessero accendere nuovi focolai tornerebbero sotto chiave.

Ma i risultati del monitoraggio, che dovevano essere presentati ieri, tardano ad arrivare, perché alcune Regioni in serata non avevano ancora inviato a Lungotevere Ripa tutti i dati richiesti. Motivo per cui l’Istituto superiore di sanità e il Comitato tecnico-scientifico non hanno potuto completare l’elaborazione dei risultati della prima settimana di osservazione dopo la riapertura del 4 maggio e il lavoro di stima dello stato di rischio per i vari territori. “I dati che mancano – spiegavano ieri sera fonti del ministero – arriveranno entro sabato mattina. Poi gli esperti di Iss e Cts completeranno la valutazione”.

“Telemonitoraggi: gara ad hoc per privati”

La Regione Lombardia e i medici di famiglia sono di nuovo ai ferri corti. Questa volta c’è di mezzo la piattaforma per la gestione del telemonitoraggio domiciliare dei pazienti Covid, assegnata a un raggruppamento temporaneo di imprese private, con un bando di gara realizzato attraverso l’agenzia regionale Aria Spa. Questo nonostante in Lombardia esistano già sette cooperative di medici di base che da anni si sono dotate di analoghe piattaforme.

“Francamente non condividiamo che un servizio così importante per la salute pubblica venga affidato a soggetti privati con finalità di lucro e crediamo che le realtà costruite sul territorio debbano essere preliminarmente consultate e valorizzate”, attaccano i segretari provinciali di Milano dei tre sindacati dei medici di famiglia Fimmg, Snami e Smi. Rilevando come, “ancora una volta, iniziative importanti per la gestione del malato sul territorio sono state prese senza alcun coinvolgimento dei diretti interessati, ovvero i medici di medicina generale, che poi, in teoria, dovrebbero essere i primi gestori del complesso sistema ipotizzato”. Il bando di gara, al quale la Regione ha dato il via libera in marzo, è stato vinto da una Rti (rete temporanea d’impresa) costituito da Gpi Spa, Accura Srl, Pgmd Consulting. Fin qui nulla da eccepire. Se non fosse, spiega Paola Pedrini, segretaria regionale della Fimmg, “che stato è fatto senza coinvolgere la medicina del territorio, come spesso avviene”, e che il bando di gara era strutturato in modo tale da ostacolare di fatto alle cooperative dei medici di famiglia di partecipare. “Abbiamo provato a presentare una manifestazione di interesse – spiega Anna Pozzi (Fimmg Milano) –, ma la quantità di documenti da inoltrare era tale da impedirci di farlo”.

Una protesta di fronte alla quale l’assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera, si dice stupito: “La nuova piattaforma è stata predisposta come supporto utile per implementare il lavoro dei medici di medicina generale e per gestire in modo tempestivo e preventivo i pazienti Covid sul territorio”. È stato lo stesso decreto liquidità dell’8 aprile scorso (articolo 38) a prevedere che i medici di base e i pediatri di libera scelta si dotino, con oneri a proprio carico, di sistemi di piattaforme digitali che consentano il contatto con i pazienti.

La normativa prescrive anche la collaborazione con le Regioni, “in via straordinaria ove fosse richiesto”, per la sorveglianza dei pazienti in quarantena, in isolamento o in via di guarigione dimessi dagli ospedali. Collaborazione che in questo caso, dicono i sindacati dei medici di base, non c’è stata.

Fontana cauto a fasi alterne e arranca sul tracciamento

Ancora una volta la Lombardia ha il più alto numero di nuovi contagi in Italia. Ieri ne ha contati 299 in più su un totale a livello nazionale di 789 casi: vale a dire quasi il 38% dei nuovi infettati è qui. E anche se aumentano sensibilmente i guariti (3.808 in più) e continua a diminuire la pressione sulle terapie intensive (meno 21 pazienti) i numeri sono ancora tali da invitare alla cautela, con 115 nuovi decessi.

Proprio la stessa massima cautela che secondo il comitato tecnico scientifico che affianca l’unità di crisi regionale dovrebbe ancora guidare le scelte dei vertici della Regione. Gli esperti lo hanno detto al governatore Attilio Fontana ieri mattina. “Serve ancora prudenza”, gli hanno ripetuto. Anche perché i dati sui contagi di oggi sono ancora da ricondurre agli effetti dei due mesi di lockdown. E visto che il periodo di incubazione del virus varia tra i sette e i quattordici giorni quanto possano aver pesato le prime riaperture disposte dal 4 maggio, su una eventuale maggiore diffusione dell’epidemia, lo si potrà misurare realmente solo tra una settimana o due.

Un invito all’attenzione che Fontana al comitato ha detto di condividere pienamente. Salvo poi dichiarare a Rainews 24: “Crediamo sia giunto il momento di riaprire i servizi alla persona come parrucchieri ed estetiste, oltre a bar e ristoranti, sia pure nel rispetto delle regole dettate dall’Inail”. Le riaperture del 18 maggio sono dietro l’angolo e Fontana, pressato anche dalle categorie economiche, spinge “per cercare il giusto equilibrio per riaprire al massimo le attività rispettando al contempo quelle misure che non consentano di mettere in discussione la sicurezza sanitaria. Tutti mi chiedono di riaprire il più possibile”.

Piroette che secondo Samuele Astuti, consigliere regionale del Pd, non si spiegano: “Il sistema regionale fa ancora molta fatica a prendere in carico i nuovi pazienti – dice Astuti –, e ci sono ancora molti ritardi nell’analisi dei tamponi: c’è chi aspetta anche per quindici giorni. E non sappiamo ancora quanti ne vengono eseguiti nelle singole province, mentre molti, per il processamento, vengono mandati in laboratori fuori regione”. Ma come si stanno muovendo i macro indicatori (vale a dire i dati sui contagi, sul contact tracing e sulla pressione sugli ospedali) che fanno la differenza?

Il numero dei contagi classifica ancora la Lombardia, secondo i tecnici del ministero della Salute, a rischio moderato, a differenza di tutte le altre regioni (a rischio basso), tranne il Molise, dove si registra un focolaio. E per avere un quadro reale della situazione, come ha sottolineato anche ieri il comitato tecnico scientifico nell’incontro con Fontana, bisogna ancora aspettare.

Quanto al cosiddetto contact tracing, il tracciamento dei contatti, secondo i medici la Lombardia ha appena fatto lo scatto al nastro di partenza. Si sa, i tamponi eseguiti sono ancora pochi, una media di poco più di 7.500 al giorno. “Ancora troppo pochi rispetto al fabbisogno – dice Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo –. E anche se sono aumentati i laboratori per il processamento molto si giocherà sull’efficienza delle singole Ats, le aziende sanitarie, e sulla dotazione di apparecchiature più avanzate che per ora sono state annunciate ma non installate”.

Il punto però è un altro. Marinoni dopo aver stilato la lista dei principali errori commessi dalla Regione nella gestione dell’epidemia, insieme al presidente della federazione regionale degli ordini dei medici, Gianluigi Spata, ha spinto, d’accordo con il collega, affinché venisse approvata la delibera sulla vigilanza che pone in capo ai medici di famiglia il compito, in caso di paziente sospetto, di disporre immediatamente l’isolamento domiciliare anche per tutte le persone che hanno avuto con lui contatti stretti, segnalandoli contemporaneamente all’Ats di competenza, che deve intervenire rapidamente per eseguire i tamponi.

“In realtà – dice Marinoni –, il contract tracing sta partendo solo adesso, proprio grazie a quella delibera, che è stata finalmente approvata. Ma ha ottenuto il via libera solo la scorsa settimana ed è ancora troppo presto per vederne le conseguenze”.

“Sul Mes non c’è alcun vincolo di maggioranza”

Vito Crimi non vede alternative o aggiustamenti possibili: “Non esiste un governo diverso da questo, e di rimpasto si parla dal giugno 2018. Ma in due anni si è solo dimesso un ministro: cambi della squadra non sono pensabili”. Fa muro, il capo politico reggente del M5S. E punge: “Forse qualcuno parla di rimpasto per mettere in difficoltà il suo stesso partito…”.

Di problemi ne avete avuti anche voi 5Stelle, per esempio sulle norme sui migranti. Anche Palazzo Chigi ha scritto che avevate rimesso in discussione l’accordo chiuso domenica.

Le spiego come è andata. Io e i miei colleghi che si occupano di agricoltura avevamo molte perplessità su quelle norme, e domenica le ho ribadite nella riunione di governo. Quella sera abbiamo ipotizzato delle soluzioni, e così ci siamo lasciati. L’indomani abbiamo letto il testo, con le modifiche apportate, ma non poteva andare, perché conteneva ancora una sanatoria per i datori di lavoro condannati per reati come caporalato o sfruttamento.

Avrà pesato anche l’intervento di Luigi Di Maio, no?

In quei giorni Di Maio non ha detto nulla sul tema, neppure nelle chat.

Avrà fatto parlare altri.

Non penso proprio. La verità è che poi siamo riusciti a cancellare la sanatoria lavorando a un’intesa con il ministro del Sud, Giuseppe Provenzano. Dopodiché resto convinto che con queste norme non si riuscirà a regolarizzare un solo bracciante in più.

Su La Stampa il segretario dem Nicola Zingaretti ha detto: “I 5Stelle pensavano di dettare l’agenda e di svuotare il Pd, ma è accaduto il contrario”.

Sono rimasto sorpreso e dispiaciuto. Penso che il M5S stia molto bene, e che forse Zingaretti abbia detto quelle cose per distogliere l’attenzione dalle difficoltà del Pd, con tutte le sue anime diverse.

Lo ha sentito?

Ci siamo sentiti e chiariti. Mi ha assicurato che non c’era ostilità, e che lavora per rendere ancora più solido il rapporto con noi, per il Paese.

Sul Mes sembrate ancora su posizioni opposte. O no?

Il nuovo testo sul fondo parla di un sistema di allerta che scatterebbe per i Paesi che non dovessero restituire il prestito. E se c’è un sistema di allarme ci sono anche conseguenze, quindi condizionalità. Ci dovranno spiegare quali, ma noi restiamo sul no al Mes.

Arriverà un voto in Parlamento sul fondo: e vi spaccherete.

Su un tema che può impegnare il Paese per i prossimi dieci anni devono decidere i Parlamenti. Sul Mes non può esserci un vincolo di maggioranza.

Matteo Renzi resta vago sulla mozione di sfiducia per il Guardasigilli Bonafede: “Decideremo come votare dopo averlo ascoltato in Aula”.

Con Italia Viva le distanze c’erano e ci sono. Ma in una fase come questa dobbiamo lavorare tutti assieme.

Bonafede lascerà il ruolo di capodelegazione del M5S?

Assolutamente no.

Si parla di nuovo dello sblocca cantieri, da ricalcare sul dl varato per il ponte di Genova. Siete in grado di estendere quel modello?

Quel modello può essere applicato a opere necessarie e condivise, di cui sia evidente l’utilità. Però serve un’opera complessiva di semplificazione, partendo dalla pubblica amministrazione.

I sindaci reclamano: “Chiedevamo 5 miliardi e il governo ce ne ha dati 3”.

Ne abbiamo stanziati 3,5, cioè il 70 per cento: non è poco. E abbiamo istituito un tavolo per monitorare tutto. Se dovremo aumentare i fondi, sapremo dove indirizzarli, senza dover varare un nuovo provvedimento.

Parlando di sindaci: Virginia Raggi e Chiara Appendino rischiano di essere penalizzate dal vincolo dei due mandati?

Penso che si debba discutere della permanenza del vincolo per chi amministra. Abbiamo sindaci al secondo mandato a Roma, Torino, Marino e Vimercate. Chi amministra dovrebbe poter lavorare in un’ottica pluriennale, quindi una riflessione va fatta. Il mondo cambia, e dobbiamo tenerne conto.

“Ue, è venuto il tempo della lotta ai tecnocrati”

“Democrazia partecipata dei cittadini contro le tecnocrazie”. È il messaggio che il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, vuole inviare a caldo dopo il voto sul Recovery Fund e su cui invita i governi a non tirarsi indietro.

Perché il voto sul Recovery fund è stato importante?

Perché in una situazione di emergenza la maggioranza parlamentare ha detto che serve più politica e meno tecnocrazia. Servono risorse per affrontare questa sfida epocale e il ruolo del Parlamento deve essere centrale, perché rappresenta i cittadini e avrà l’ultima parola.

Cosa chiede il Parlamento?

Scelte coraggiose che valgano per il piano di ricostruzione e per il bilancio pluriennale. E risorse vere e adeguate. Per averle è necessario anche emettere i recovery bond.

Quale dovrebbe essere l’ampiezza di un simile intervento?

Deve rappresentare un “bazooka” impegnativo senza intaccare i programmi previsti dal bilancio e quindi con risorse fresche aggiuntive. La presidente Ursula von der Leyen ha parlato di un impegno europeo complessivo di 2mila miliardi. La prendiamo in parola.

Su questo però c’è ancora battaglia, non tutto è definito.

Capiremo la proposta della Commissione il 27 maggio quando verrà in Parlamento a presentarla. Intanto è importante che la maggioranza del Parlamento a favore del Recovery Fund si sia allargata, il fronte nazionalista abbia perso pezzi e i sovranisti italiani non abbiano avuto il coraggio di votare contro. Tutto questo è di buon auspicio anche per la stabilità dell’Italia. È stato molto importante che la delegazione del M5S abbia sostenuto la risoluzione. Spero che questo l’aiuti a uscire dall’isolamento nel Parlamento, trovando una famiglia politica di riferimento. Sarebbe molto utile perché in Europa c’è bisogno anche di loro.

C’è bisogno di loro per cosa?

Per affrontare la ricostruzione dal basso, dalla parte dei cittadini contro la tecnocrazia. Siamo in un cambio di fase che vede uno scontro politico decisivo fra chi pensa che la nuova fase che si è aperta possa essere guidata dall’alto e coloro che invece indicano la strada di una democrazia partecipata.

Chi sono le tecnocrazie?

Tutti coloro che vorrebbero che in questo momento l’Europa non esprimesse la sua autonomia e la sua indipendenza. Una prova è la critica a Papa Francesco e al suo richiamo a una forte partecipazione sociale ai destini comuni.

Tra le tecnocrazie c’è la Corte costituzionale tedesca?

Sulla Corte tedesca, le istituzioni sono state molto chiare, rivendicando il primato del diritto europeo come interpretato dalla Corte di Giustizia e l’autonomia della Bce. Ho apprezzato le parole chiare della presidente della Commissione, che ha fatto riferimento anche all’ipotesi di una procedura di infrazione.

E la Bce?

In questo momento è il nostro vero punto di forza per il massiccio impiego di risorse in favore della stabilità della moneta unica, e di conseguenza della stabilità degli Stati, specie i più deboli. Minarne la capacità sarebbe un colpo a tutta l’Europa.

Anche lei pensa che servirebbe il ricorso al Mes?

Al presidente Conte ho detto che servono progetti e in Europa ci sono le risorse per finanziarli. Si facciano i progetti. Il Mes può essere una buona occasione per avere ambulatori nelle università, nei distretti industriali, sul territorio e anche per trovare un vaccino e distribuirlo.

L’Economist parla di crisi costituzionale europea. Non è venuto il momento di una riforma della Ue a partire dai trattati?

Questa legislatura è nata con l’ambizione di far partire una Conferenza sul futuro dell’Europa. Con l’emergenza Covid-19 abbiamo visto che tutto questo è davvero indispensabile perché il funzionamento della democrazia sia un punto di forza per gli europei. La democrazia è utile se risponde con tempestività alle domande. Per esempio, una drastica riduzione del diritto di veto è necessaria e indispensabile.

Il governo italiano si è mosso bene?

Ha gestito la più grave crisi dal Dopoguerra, ha fatto scuola anche nei confronti degli altri Paesi, ha stanziato una manovra di sostegno alle persone e alle imprese e oggi è chiamato, insieme all’Ue, a indicare la via della ricostruzione. E devo dire che il presidente Conte dai vertici europei è sempre uscito a testa alta.

Come valuta le scelte dell’Italia in relazione agli altri Paesi?

L’Italia è stata un esempio sulle misure di lockdown. Ma in Europa ci sono buone pratiche, adottate nell’emergenza, che possono essere utili a tutti. Il Portogallo ha varato una legge per dare domicilio legale ai senza tetto e ai migranti, la Danimarca una legge per impedire di destinare risorse a società che pagano dividendi, acquistano azioni proprie e sono registrate in paradisi fiscali. Dobbiamo crescere insieme.

E sulle scelte economiche e il ricorso al debito? Come dovrà essere impiegato?

Servono scelte a carattere sociale e ambientale. Tutti stanno prendendo a prestito decine di miliardi dalle generazioni future con lo scopo di difendere le aziende dal fallimento. Ma stiamo prendendo risorse a debito sui nostri figli. Servono allora scelte socialmente sostenibili i cui benefici siano a vantaggio della “generazione Greta”. Questo può farlo solo l’iniziativa pubblica che deve indicare la strada della ricostruzione e le priorità su cui impegnare un’iniziativa privata maggiormente responsabile nei confronti della comunità. Oggi è questa la grande partita.

La Sanofi minaccia di vendere il vaccino, se trovato, a chi le pare. L’Europa può svolgere un ruolo?

Deve. E serve un cambio di passo. Ricordo che dalla crisi della mucca pazza siamo usciti con una politica veterinaria europea. Sarebbe assurdo uscire dal Covid-19 senza una politica europea per la salute delle persone. La questione del vaccino è un punto di partenza e spero che i governi non si mettano di traverso.

Mattarella archivia i Dpcm: “Mettete tutto nel decreto”

La fase 1 dell’emergenza Coronavirus è davvero finita, anche dal punto di vista formale: il decreto legge del 23 febbraio, approvato dal Parlamento, aveva aperto la lunga fase dei Dpcm, i decreti del presidenti del Consiglio con cui è stata gestita la stagione del “tutti a casa” e dei mille divieti, quello approvato ieri notte dal governo riporta la gestione dell’epidemia da coronavirus nelle normali corsie legislative, ridando un ruolo centrale al Parlamento (i Dpcm non vanno alle Camere e nemmeno in Consiglio dei ministri in realtà). Una scelta che, a quanto risulta al Fatto Quotidiano da almeno tre fonti diverse, è stata imposta nel corso del pomeriggio dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Andiamo con ordine. Il Consiglio dei ministri si era riunito ieri mattina poco prima dell’una per approvare due testi differenti: un decreto legge che assegnava alle Regioni la potestà su come e quando riaprire i vari settori non solo produttivi e un Dpcm che disciplinava nel dettaglio come riaprire alcuni settori e quali attività sarebbero comunque state ancora vietate ((i particolari sono nella pagina accanto). Niente di sorprendente, per carità, tutte cose di cui si è ampiamente parlato sui giornali e in tv, ma che hanno bisogno – per essere “vere” – di precise norme: restano ancora vietati gli assembramenti e dunque attività come gli spettacoli dal vivo (o gli stadi aperti per una partita di calcio); restano chiuse le sale bingo e, absit iniuria verbis, le scuole; possono riaprire rispettando alcune norme di distanziamento i negozi ancora chiusi, i bar e i ristoranti, i parchi pubblici, le chiese per la messa eccetera.

Mentre si discuteva di tutto questo e di altro ancora (ad esempio la possibilità, e quando, di uscire dalla propria Regione di residenza) con gran cancellature e riscritture di interi pezzi delle bozze di decreto e di Dpcm il Consiglio dei ministri è stato sospeso. Ufficialmente perché Giuseppe Conte doveva firmare i protocolli con le confessioni religiose per far ripartire in sicurezza le varie cerimonie sacre. In realtà, spiegano fonti di Palazzo Chigi confermate dal Colle più alto, il capo dello Stato aveva appena ribadito all’esecutivo che il decreto era troppo stringato e il Dpcm troppo vasto: sulle questioni che riguardano le libertà costituzionali, in primo luogo quella di movimento, da adesso in poi bisognava passare dai decreti leggi e dal confronto con le Camere. Questo il messaggio che Sergio Mattarella ha fatto arrivare al governo.

La sospensione – dalle 17 alle 23, ore durante le quali Conte ha visto anche le Regioni e gli enti locali – è servita soprattutto a riscrivere il decreto inglobando moltissime previsioni inizialmente infilate nel Dpcm. Basti dire che l’ultima bozza entrata nel Consiglio alla ripresa serale (attesa a minuti mentre andiamo in stampa) inizia così: “A decorrere dal 18 maggio 2020, cessano di avere effetto tutte le misure limitative della libertà di circolazione all’interno del territorio regionale” previste finora.

Nel testo trovano spazio la chiusura delle scuole, le modalità generali di riapertura delle attività produttive, il divieto di assembramento e di spettacoli dal vivo, la quarantena obbligatoria per i positivi al Covid-19 e quella precauzionale per i contatti stretti di chi è stato contagiato. Tutte pesanti limitazioni delle libertà costituzionali se si riesce a pensarci con la testa di dicembre scorso che tornano a essere regolate – a fini di tutela della salute, come la Costituzione prevede – da una legge.

La fase 1 è di certo finita perché la palla passa alle Regioni, ma lo è anche perché Mattarella ha suonato la campanella di fine della ricreazione politica, per così dire: si torna alla normalità, anche legislativa. Non è, ci tengono a spiegare dal Quirinale, uno sgarbo a Conte, che anzi si è subito e di buon grado adeguato alle “linee guida” del presidente, ma è così che sembrerà.

Coperti dimezzati: metà dei ristoranti protestano

“Non si può stare con il metro in mano”. Ergo: non si apre. Il 18 maggio, per molti ristoratori di tutta Italia, non sarà il giorno della ripartenza, ma del prolungamento di un limbo che dura da settimane. Il governo, demandando alle Regioni le decisioni, permetterebbe anche le riaperture da lunedì ma il problema, per molti ristoratori, sono le regole: secondo i ricercatori di Inail e Istituto superiore di sanità, all’interno dei locali la distanza tra un cliente e l’altro deve essere di quattro metri quadrati (due per due) e di due metri tra i tavoli.

Troppo spazio, pochi clienti: le prime stime parlano di un dimezzamento dei coperti. Per questo in molti, dal Veneto alla Liguria passando per Campania, Toscana e Sicilia, hanno deciso di non riaprire.

A Venezia non c’è solo l’Harry’s Bar di Arrigo Cipriani che con queste regole passerebbe da 150 coperti a dieci, ma sono molti ad aver deciso di rimandare l’apertura sperando che il governatore Luca Zaia disobbedisca con norme più flessibili: secondo un sondaggio della Fipe veneta, qui il 43,5% dei ristoranti (tremila) non riaprirà da lunedì. Quasi uno su due. E a risentirne sono soprattutto le piccole osterie che non possono far rispettare il distanziamento: a Venezia non riaprirà il Ristorante da Ivo in piazza San Marco e nemmeno “La Muda” a Cison di Valmarino (Treviso), la locanda più antica del Veneto aperta dal 1470.

Nel nord, situazioni simili si verificheranno in Piemonte, dove la categoria ha fatto sapere al governatore Alberto Cirio che “a queste condizioni è meglio non riaprire”, mentre in Liguria giovedì decine di ristoratori e baristi hanno protestato esponendo un drappo nero in segno di lutto contro le prescrizioni nazionali: “Questa è la fine delle nostre attività – dice Gisella Sartore, titolare del ristorante Vela d’Oro a pochi passi dall’Ariston a Sanremo – Con le norme che ci sono imposte avremo una capienza di 5 o 6 persone”.

Il Presidente della Lombardia Attilio Fontana ieri ha incolpato il governo definendo “inapplicabili” le norme e per questo la riapertura di bar e ristoranti potrebbe slittare: intanto ieri il consiglio comunale di Milano ha approvato un atto che velocizza le procedure per consentire ai locali di occupare suolo pubblico all’aperto. Anche in Emilia-Romagna, nonostante Stefano Bonaccini ipotizzi una riduzione delle distanze a un metro, in molti non riapriranno questo lunedì. “Aspetteremo un’altra settimana – ha spiegato a Forlì Today Michele Liverani della pizzeria “Passaparola” –. Noi vogliamo fare i ristoratori, mica i controllori”. Situazione simile nelle Marche, dove le regole non sono ancora chiare: ad Ancona il titolare della trattoria Clarice, Giordano Andreatini, posticipa l’apertura ai prossimi giorni quando “verrà fatta chiarezza anche sulle responsabilità penali del titolare”. Tutto rinviato invece in Toscana (almeno al 25) e in Campania, dove Vincenzo De Luca ha deciso di posticipare le riaperture a giovedì prossimo in seguito alle proteste dei ristoratori dei giorni scorsi: solo a Napoli la metà dei 20 mila ristoranti non avrebbe riaperto il 18. I titolari sperano in regole meno stringenti così da ripartire già da giovedì.

La cautela sarà di casa anche in Sicilia dove, nonostante i permessi, molti ristoratori e baristi potrebbero decidere di ripartire direttamente a giugno. Alzate le serrande però resta il rebus dei clienti: secondo un sondaggio di The Fork e TripAdvisor di ieri, il 57% degli italiani andrà molto meno nei ristoranti o non ci tornerà per niente.

Spiagge e locali Sì alla linea “light” dei governatori

Spostamenti liberi all’interno delle Regioni e via libera alle attività produttive purché rispettino le linee guida anti-contagio. Per i trasferimenti da una Regione all’altra, invece, si dovrà aspettare il 3 giugno.

La lunga giornata di trattative serve al presidente del Consiglio Giuseppe Conte per delineare i contorni del decreto sulle riaperture, che nella serata di ieri accoglie le richieste delle Regioni (“collaborazione portentosa tra le istituzioni”, l’ha definita il premier) sulle attività produttive e arriva in Consiglio dei ministri per l’approvazione. Lo schema previsto dall’esecutivo consentirà ai governatori di avere larga autonomia: se la curva del contagio sarà sotto controllo, le Regioni potranno decidere ulteriori aperture, se invece i dati saranno preoccupanti allora il governo potrà intervenire per disporre nuove chiusure in determinate aree. Sempre dai territori, su richiesta di Conte, è arrivato anche un documento condiviso per armonizzare le regole per le attività che riaprono, dopo che i presidenti di Regione si erano lamentati di indicazioni troppo stringenti da parte dell’Inail (l’unico ente a fornire suggerimenti in merito in queste settimane).

Spostamenti. All’interno della Regione saranno consentiti tutti gli spostamenti, che dunque non richiederanno più l’autocertificazione. Di conseguenza, cadono i vincoli sull’assoluta necessità o la visita al congiunto: si potranno incontrare gli amici, purché non si creino assembramenti. Resta invece obbligatoria la quarantena per chi è positivo al virus.

Seconde case. Ok allo spostamento nelle seconde case se si trovano all’interno della stessa Regione in cui ci si trova attualmente. Finora soltanto alcuni governatori avevano consentito questo tipo di trasferimento.

Tra Regioni. Fino al 2 giugno saranno ancora vietati gli spostamenti in un’altra Regione. Restano le eccezioni in vigore: esigenze lavorative, situazioni di necessità o urgenza. Rimane anche la possibilità di ritorno, anche se fuori Regione, verso il proprio domicilio, abitazione o residenza. In tutti gli altri casi bisognerà aspettare fino al 3 giugno. Libera la circolazione tra San Marino ed Emilia-Romagna e Marche, così come tra il Lazio e il Vaticano.

Dall’estero. Dal 3 giugno si potrà entrare in Italia dai Paesi dell’Unione europea, dell’Area Shenghen compresi Svizzera e Monaco, senza più obbligo di quarantena per 14 giorni. Ancora chiuso almeno fino al 15 giugno il traffico con i Paesi extra-europei.

Aree pubbliche. Saranno i sindaci a poter disporre “la chiusura temporanea di specifiche aree pubbliche o aperte al pubblico” in cui sia “impossibile” garantire il rispetto della distanza di sicurezza anticontagio. I Comuni potranno perciò valutare la chiusura di parchi, spiagge e giardini.

Cosa riapre. Al via “le attività economiche e produttive” a condizione che “rispettino i contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio”. Da lunedì riaprono quindi il commercio al dettaglio, parrucchieri, estetisti, bar e ristoranti. Ma ogni Regione può far da sé, imponendo tempi diversi per alcune categorie. In Campania, per esempio, Vincenzo De Luca ha rimandato a giovedì 21 la ripartenza dei ristoranti e delle spiagge.

Come riaprire. È stato il punto più controverso della giornata, perché le Regioni chiedevano di alleggerire le indicazioni dell’Inail, le quali per altro erano soltanto raccomandazioni. Ad ogni modo, alla fine passa il documento condiviso dai governatori.

Spiagge. La distanza tra le persone dovrà essere di almeno un metro, con ogni ombrellone che dovrà avere una superficie di 10 metri quadri. Tra lettini e sedie di ombrelloni adiacenti deve essere comunque garantito 1 metro e mezzo di distanza.

Ristoranti. I clienti dovranno essere lontani almeno un metro, a meno di non prevedere barriere in plexiglass. Mascherine obbligatorie quando non si è seduti al tavolo e buffet vietati, con consumazione al banco consentita solo a un metro di distanza dagli altri clienti. I ristoratori, come i gestori delle spiagge, dovranno conservare l’elenco delle prenotazioni per 14 giorni.

Parrucchieri e estetisti. L’accesso ai locali è consentito solo su prenotazione e tra le singole postazioni di lavoro deve essere mantenuto un metro di distanza. Obbligo di indossare mascherine e guanti.

Le altre attività. Il commercio al dettaglio riapre con ingressi contingentati, guanti monouso per i clienti dei negozi d’abbigliamento

e mascherine obbligatorie. In palestra vietato utilizzare gli attrezzi che non possono essere disinfettati e la distanza tra chi fa attività fisica deve essere di due metri. Ancora chiusi idromassaggi e saune.

Chi può e chi non può

Siamo tutti distratti da problemi di sopravvivenza (anche se ormai ci siamo mitridatizzati a ingoiare 250 morti al giorno). Dunque certe notizie cadono nel vuoto. Perciò questa merita di essere sottolineata: l’altroieri i nostri Marco Lillo e Antonio Massari, che stanno leggendo le intercettazioni dell’inchiesta sul pm Luca Palamara, hanno fatto due scoop. Il primo sono gli imbarazzanti colloqui di un anno fa tra il pm indagato e il suo collega Fulvio Baldi, capo di gabinetto di Alfonso Bonafede al ministero della Giustizia, su come sistemare lì due magistrate vicine a Palamara, potente capocorrente di Unicost (che però restarono dov’erano). Nulla di illegale o di inusuale: ma imbarazzante sì, almeno per il braccio destro del ministro che voleva scardinare le correnti togate col sorteggio alle elezioni del Csm.

Il secondo riguarda la cena segreta organizzata il 25 settembre 2018 nella propria casa romana da Giuseppe Fanfani, avvocato aretino, allora consigliere uscente del Csm in quota Pd, molto legato a Renzi&Boschi, col solito Palamara e tre parlamentari turborenziani Pd: Luca Lotti (indagato per Consip), Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa, già potente capocorrente di MI) e David Ermini (allora candidato alla vicepresidenza del Csm). Due giorni dopo l’allegro convivio, il deputato uscente Ermini viene eletto a sorpresa alla carica elettiva più alta dell’autogoverno dei magistrati (sopra di lui c’è solo il presidente di diritto Mattarella), grazie ai 13 voti delle correnti conservatrici MI (quella di Ferri) e Unicost (quella di Palamara), a quelli dei due capi della Cassazione, al suo e all’astensione di FI. Il tutto in barba alle raccomandazioni del capo dello Stato sull’indipendenza richiesta per quella carica, che avrebbero consigliato di eleggere l’altro candidato: il prof. Alberto M. Benedetti, giurista apolitico e apartitico indicato come laico dal M5S e sostenuto anche dai togati di Area, dai davighiani di AeI e dai leghisti (11 voti). Lo stesso giorno il Fatto rivela che la Procura di Perugia indaga su Palamara (ancora non iscritto), il quale si consola esultando su Whatsapp con Fanfani per aver piazzato Ermini con un sobrio “Godo!!!!!!! Insieme a te!!!!” (11 punti esclamativi).

Risultato dei due scoop. Ermini è sempre vicepresidente del Csm. Lotti è sempre deputato (ex?) renziano del Pd. Ferri è sempre magistrato in aspettativa e senatore renziano di Italia Viva. Baldi non è più capo di gabinetto di Bonafede, che l’ha dimissionato ieri. Dunque il 20 maggio i renziani minacciano di votare in Parlamento una mozione del centrodestra. Contro Lotti? Contro Ferri? Contro Ermini? No, contro Bonafede.