Roma e New York: i muri raccontano la quarantena dei molti artisti

L’arte non dorme: è questo il grido di Lazzaro_art doesn’t sleep, una mostra collettiva di artisti che hanno vissuto la quarantena a Roma e a New York, che non troveremo in un museo ma proiettata in simultanea sui muri dei palazzi delle due città la sera di domenica 17 maggio alle 22:30, in una sorta di performer collettiva alla quale sono chiamati a partecipare tutti i romani e i newyorchesi. Ideata dalla ricercatrice Claudia Pecoraro e l’artista Laura Mega, accomuna artisti internazionali con base nelle due metropoli ai quali sono state chieste due opere realizzate proprio durante il periodo di lockdown in casa, lontani dai loro atelier. Tra gli altri, l’ingegnere e artista visuale ambientalista italiano Andreco, il pittore iraniano Navid Azimi Sajadi, lo street artist romano Diamond; e ancora l’italo-belga Sibomana noto per i suoi poster sull’immigrazione e la multiculturalità, l’illustratore e pittore Alessandro Ferraro, il tagger milanese ecologista iena cruz, l’artista plastica Yvette Molina da sempre impegnata a rappresentare il corpo delle donne. Dunque collage, disegni, illustrazioni, graffiti, produzioni digitali.

Il progetto desidera rimodulare la creazione artistica da atto solitario a momento comunitario: per questo l’invito delle due curatrici – una chiamata alle armi vera e propria – è rivolto a chiunque possieda un proiettore di aderire al fine di diffondere le opere degli artisti e far riverberare sui muri delle due città l’arma pacifica dell’arte, di questi tempi tra le poche cure per non far involgarire il cuore. Chiunque voglia partecipare può scrivere a lazzaro.artdoesntsleep@gmail.com per ricevere il regolamento. Tuttavia, questa che vuole protagoniste le città di Roma e New York è solo la prima tappa, un banco di prova per passare in futuro ad altre città.

 

Camilleri insegna: la mafia si insinua nelle piccolezze

Comune di Vigàta, Sicilia, un comune da noi conosciuto molto bene grazie alle tante storie ambientate in questo posto dallo scrittore Andrea Camilleri, dove lo scrittore comincia la narrazione del romanzo La concessione del telefono, pubblicato nel 1998 e ristampato 2020 che fa parlare le decine di lettere e carte bollate che trascinano il protagonista, il venditore di legnami Pippo Genuardi, in situazioni molti più tragiche che comiche. Nel 1891 Genuardi chiede l’installazione di una linea telefonica. Non ricevendo risposte decide di scrivere decine di lettere a diverse autorità fino ad arrivare al prefetto commettendo diversi errori e sbagliando anche il nome del prefetto che si sente dunque insultato. Visto i numerosi tentativi andati a vuoto, chiede aiuto a un mafioso e il romanzo mostra bene come la mafia entri nelle case dei cittadini. A causa delle lettere, Genuardi viene visto male dalle autorità che lo considerano un sovversivo: viene dunque proiettato in disperazione, affari con la criminalità e problemi con la famiglia. Il romanzo non potrebbe essere più attuale. Oggi come nel 1891, una burocrazia inefficiente introduce l’illegalità nelle case degli italiani che spesso si rivolgono a malavitosi per risolvere i problemi di tutti i giorni. Camilleri mostra bene come la vita di un uomo onesto venga messa a repentaglio a causa di una mancata risposta. Un avvertimento molto attuale in questi tempi di Coronavirus.

 

La concessione del telefono

Andrea Camilleri

Pagine: 320

Prezzo: 13

Editore: Sellerio

Donne che uccidono gli uomini: vendette feroci per stupri, violenze e incesti

Un banale posto di blocco su una strada della Drôme, dipartimento della Francia sud-orientale. Il tenente Benoit, alquanto annoiato, ferma una vecchia Peugeot 205 che procede a zig-zag. Il gendarme la ferma. A bordo ci sono una donna, al volante, e una bambina. Quest’ultima, di nome Léa, dice che la donna non è la mamma. È insistente e Benoit s’insospettisce. Ma quando poi dà l’ordine di scendere, l’auto riparte e scappa. Fino al disastro finale, in curva. La Peugeot sbanda e precipita. La donna muore, la bambina no. Léa viene portata in ospedale. È in coma. Poco dopo viene ritrovato il cadavere di un uomo latitante da tempo. Gli hanno cavato gli occhi e ha un numero inciso sulla fronte: III. Tre.

A questo punto, nella Drôme, arrivano gli “Esperti” nazionali. Benoit li affianca. Il benvenuto è esplosivo. La piccola Léa, otto anni, viene rapita dall’ospedale. Una delle sequestratrici, dopo averla consegnata alle sue complici, si fa esplodere come una kamikaze. Chi è Léa? E qual è il filo che lega la sua scomparsa al ritrovamento dell’uomo ucciso? Il monastero di Crest è il secondo thriller di Sandrine Destombes, nuova autrice francese che ha esordito due anni fa con il brillantissimo e superpremiato I gemelli di Piolenc. Il livello resta alto anche in questa opera seconda, basata su una storia di donne che hanno subìto ogni sorta di violenza e si uniscono per vendicarsi ferocemente degli uomini. Laddove il confine tra legge e giustizia diventa un abisso fatto di incesti, percosse e stupri. Tutto ruota, appunto, attorno al mistero della piccola Léa. E Benoit trova l’occasione della vita, lavorando insieme con gli “Esperti” nazionali.

 

Nel monastero di Crest

Sandrine Destombes

Pagine: 315

Prezzo: 19

Editore: Rizzoli

Mai il veleno fu così sentimentale

Giorgio Manganelli parlò di “gelo letale” per definire lo stile di Ivy Compton-Burnett. Il capofamiglia – romanzo in uscita per Fazi e finora inedito in Italia – è un’altra dose di veleno iniettata nelle vene del lettore. La scrittrice inglese resta fedele al suo marchio di fabbrica: ti invita con garbo nella sua creatura di carta, ti offre ogni riga come uno zuccherino da sciogliere in bocca e pian piano ti rimescola il sangue a colpi di efferatezze. Ogni volta sembra di accomodarsi in un feuilleton, con tutto il suo repertorio di peripezie sentimentali, e ogni volta tocca scoprire che il feuilleton è solo una mano di vernice per coprire voragini. Del resto, la biografia stessa della “grande Signorina” (copyright Alberto Arbasino) è un concentrato di ombre, di solitudine, di morte: due sorelle suicide, un fratello soldato caduto in giovane età. Lei stessa scampata alla morte per miracolo ai tempi dell’influenza spagnola, una relazione omosessuale tenuta nascosta con una compagna scomparsa prematuramente. Il capofamiglia, che prende le mosse il giorno di Natale del 1885 nella campagna inglese, procede con un timbro che civetta con il teatro. Non solo per la fittissima rete di dialoghi fatui e cinici che si dipanano per più di 300 pagine ma per un certo formalismo, tipico dell’epoca vittoriana, che contraddistingue la loquela dei personaggi. Il tono artificiale – proprio perché determina un cortocircuito di senso tra ciò che si dice e come lo si dice – rende ancora più agghiaccianti gli sviluppi dell’intreccio.

Il lettore resta tramortito perché lutti, nascite, matrimoni, tradimenti, sono “parole” che emergono con distratta ferocia in mezzo alle conversazioni. Tutto avviene in un preciso ecosistema chiuso e asfittico, quello familiare, e non esiste destino possibile fuori dai suoi confini. Abbiamo, come in tutte le opere dell’autrice, psicologie ridotte quasi a caricature perché funzionali alla messa in scena. Duncan Edgeworth è un padre tirannico. Attorno a lui la moglie Ellen, le figlie Nance e Sybil, il nipote Grant. Il capofamiglia è una girandola di amori e disamori che nulla ha da invidiare al canovaccio della soap Beautiful. Un lutto improvviso rompe subito gli equilibri a inizio romanzo. Muore la moglie Ellen e Duncan si risposa con la giovane Alison. Dalla nuova unione nasce un bambino, Richard, ma quando si viene a scoprire che in realtà è figlio del nipote Grant, Alison viene allontanata. Duncan si risposa con Cassie, amica di famiglia. Un altro lutto improvviso funesta la famiglia: il piccolo Richard viene trovato morto. È la cospirazione di Sybil, figlia del patriarca Duncan, la quale in seguito sposa il cugino Grant e resta incinta ma presto la coppia va in frantumi. Fermiamoci qui, non prima di rivelare che si annuncia anche la gravidanza di Cassie, la terza moglie di Duncan. Sono tutte vicissitudini che lungo un arco temporale di due tre generazioni alterano il “corpo” della famiglia come una malattia, lasciando cicatrici ovunque. Eppure il flusso ininterrotto delle chiacchiere non conosce mai uno scarto che elabori le sterzate via via sopraggiunte. Un disincanto crudelissimo che la “grande Signorina” sputa in faccia al lettore per reiterare una verità che la ossessiona: la natura profonda dei sentimenti è sempre strumentale e sopravvive nel tempo proprio perché immutabile.

Bernhard inedito e i soliti “brandelli di disperazione”

Parlare di inediti, con Thomas Bernhard, è una bestemmia: lo scrittore austriaco (1931-1989) ha cucito sempre e solo “brandelli di disperazione”, che si tratti di opere di narrativa, prosa teatrale, lirica. Midland a Stilfs, l’ultima raccolta pubblicata in Italia con i tipi di Adelphi, vanta ben due racconti “inediti” su tre, ma le ossessioni che li sostanziano sono le stesse dell’intera produzione, ricorsive primitive, allegrissime: la morte, perlopiù per suicidio; la malattia, perlopiù mortale; la famiglia, perlopiù malata; la follia, perlopiù familiare; il pensiero, perlopiù folle.

È tutto un déjà lu, ma è un tornare a casa: rincuorante, se non fosse altresì nevrotico. Proprio come i figurini delle tre novelle edite da Suhrkamp nel 1971: Midland a Stilfs, che dà il titolo alla minuta antologia; Il mantello di Loden (uscito in Italia, con Theoria, nel 1998); Sull’Ortles. Notizie da Gomagoi. “Naturalmente noi siamo tutti pazzi”, dicono di sé i protagonisti della prima storia: due fratelli e una sorella paralizzata che vivono isolati nella fattoria di famiglia a Stilfs insieme con un giovane garzone, matto come gli altri, ma conclamato. A trovarli, in montagna, va solo l’inglese Midland, matto come gli altri, ma non diagnosticato. “L’unica coerenza ancora possibile per noi, oggi, è quella di suicidarsi… ma proprio questa è la cosa più insensata del mondo, la più ripugnante: che ci tormentiamo e ci nutriamo e abbiamo paura, ma non ci suicidiamo, ne parliamo, facciamo del pensiero del suicidio il nostro unico pensiero, ma il suicidio non lo commettiamo”.

In Bernhard è sempre “tutto e il contrario di tutto”: la vita è morte, l’amore odio, la realtà finzione, la salvezza disperazione; “temiamo, anzi odiamo i visitatori, e nello stesso tempo ci aggrappiamo a loro con la disperazione di chi è totalmente tagliato fuori dal mondo esterno… Il nostro destino si chiama Stilfs, perpetua solitudine. La nostra esistenza è un’esistenza micidiale. Stilfs è la fine della vita… Noi in nessun caso ci permettiamo più il buon umore”.

La “spietatezza è l’unica via d’uscita”, insomma, ma anche buttarsi nel fiume non è male, com’ha fatto lo zio dell’avvocato del Mantello di Loden, che si imbatte nel proprietario di un negozio di articoli funebri, “uno di quei pazzi che a migliaia vanno in giro con la loro pazzia per le valli e le gole del Tirolo e che non trovano una via d’uscita dalla loro pazzia (dal Tirolo)”. Stessa psicopatologia affligge i due fratelli – uno artista, l’altro scienziato – sull’Ortles, che decidono di rinchiudersi in una malga in altura. Bello: “Quanto paesaggio! Quanta malattia mentale!”. Uno dei due è malato, verosimilmente di nervi, verosimilmente per via ereditaria, ma la spietatezza dei genitori non ha risparmiato entrambi: “La nostra vita, per punizione. La nostra infanzia, per punizione. Tutto per punizione”. L’atmosfera ricorda Amras (1964), il romanzo breve più caro a Bernhard, seppur qui a Gomagoi i fratelli camminino, mentre là siano fermi e chiusi in una torre. Il finale è ugualmente tragico, o tragicomico: con l’austriaco non si sa mai se ridere o piangere. “Ci siamo sempre trovati in pericolo mortale… È la massima perfezione che mi ha ucciso, è il pensiero più concentrato che ti ha ucciso”. Fine: “Gli scritti in fondo esistono solo per essere distrutti”. Come gli esseri umani.

 

Midland a Stilfs

Thomas Bernhard

Pagine: 121

Prezzo: 12

Editore Adelphi

Riaprono le Chiese e i teatranti romani rilanciano con la loro Messa (in scena)

Riaprono i parrucchieri, i ristoranti e le chiese ma non i teatri. E allora che Messa (in scena) sia. Il collettivo romano Spin Off lancia per il 18 maggio una provocazione artistica: di fronte alla Basilica di San Giovanni in Laterano a Roma, rispettando il protocollo di sicurezza per le celebrazioni liturgiche, scenderanno in piazza artisti, tecnici, musicisti. Ognuno lascerà a terra il proprio oggetto di “culto”: una maschera, un paio di scarpe da ballerina, un copione o un cavo elettrico.

“Non c’è alcuna differenza tra uno spettacolo svolto dal vivo, davanti a un pubblico, e una celebrazione liturgica. Leggendo il protocollo, non appare incongruo sostituire luoghi di culto con luoghi per lo spettacolo dal vivo o sostituire fedeli con spettatori”. Tra gli aderenti alla “manifestazione”, Andrea Cosentino, premio speciale Ubu, il doppiatore Ugo Maria Morosi, noto ai più come voce di Morgan Freeman, e Raiz, ex frontman degli Almamegretta.

Nessun intento di blasfemia, assicurano dallo Spin Labs: l’anno scorso il cardinale elemosiniere del Papa, Konrad Krajewsky, andò nel loro stabile occupato per riaccendere la luce, staccata per morosità. “Se una Messa è stata considerata un’attività necessaria all’individuo, anche l’arte deve essere ugualmente vista come necessaria, in un momento in cui le persone fronteggiano paura e solitudine”, sottolinea Roberto Andolfi, una delle voci del collettivo.

In Italia sono almeno 100 mila i lavoratori del comparto lasciati senza aiuti e senza prospettive. A spaventare la bozza sulla ripartenza formulata dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: spettatori e artisti con la mascherina, spettacoli e concerti anche al chiuso ma solo per 200 persone. lavoratori inclusi. Una “liturgia” difficile da rispettare. “Esigiamo che, entro il 18 maggio, si chiarisca la volontà del governo di collaborare con artisti e organizzazioni del settore all’ideazione della ripresa. Qualora non ricevessimo risposte, celebreremo”. Amen.

La ragazza col velo (ma senza filtri)

Si fa, non si fa, si fa. La quarta stagione di Skam Italia arriva dopo un tira e molla che aveva portato alla cancellazione della serie e poi al suo rinnovo grazie all’accordo fra i produttori, Cross Productions e Timvision, e Netflix (la serie è disponibile da oggi su entrambe le piattaforme). Per fortuna, è proprio il caso di dire: perché Skam Italia, uno dei teen drama più veri e credibili in assoluto, occupa un posto particolare sia nel panorama della serialità italiana sia in quello delle serie tv che negli ultimi anni hanno raccontato il mondo degli adolescenti.

Cos’è Skam? Nel 2015 la rete norvegese NRK lanciò una webserie ambientata fra gli studenti di un liceo di Oslo. Si scelse di non promuoverla: l’idea era che partisse dal basso e che per farla circolare bastassero il passaparola dei ragazzi e le clip che ogni giorno venivano pubblicate sul web e sui social. I risultati andarono ben oltre le aspettative. Skam diventò un caso, prima in Scandinavia e poi in tutto il mondo, e nel 2018 arrivarono anche gli adattamenti internazionali. La versione italiana è ambientata a Roma, la trama e i protagonisti ricalcano quelli della serie originale ma ci sono anche nuovi personaggi e differenze che la rendono un prodotto a tutti gli effetti autonomo: “Più che di un adattamento, si tratta di una riscrittura” conferma Ludovico Bessegato, showrunner e regista, durante la presentazione in streaming della quarta stagione.

Ogni capitolo racconta un personaggio e un tema in particolare. Al centro della prima stagione ci sono Eva, le sue insicurezze e il rapporto di alti e bassi col fidanzato Giovanni; la seconda si concentra sulle difficoltà di Martino nell’accettare e vivere la sua omosessualità; la terza su Eleonora, apparentemente matura e sicura di sé, ma cresciuta con genitori del tutto assenti. La protagonista della nuova stagione (“Senza dubbio la più difficile, quella che ha richiesto più studio e più lavoro” spiega Bessegato) è Sana: una 18enne italiana e musulmana, divisa fra la fede e il desiderio di divertirsi e avere una vita sentimentale come le sue amiche.

Alla sceneggiatura ha collaborato la sociologa e scrittrice Sumaya Abdel Qader: “Skam 4 è la narrazione della vita normalissima di una giovane musulmana. Una rappresentazione reale e lontana dagli stereotipi” dice. Per Beatrice Bruschi, l’attrice che interpreta la ragazza nella serie, “Sana si sente sola, incompresa dalle amiche per un verso e dalla famiglia per un altro. Come tanti adolescenti ha paura e tende a chiudersi, isolarsi, comportarsi in maniera irrazionale. Una cosa molto importante per lei è che gli altri capiscano che indossare il velo è una sua scelta e non un’imposizione”.

Già nei primi episodi si entra nella casa e nella vita di Sana, che sta per fare la maturità e studia per il test di Medicina: la vediamo discutere con la madre per le vacanze in Grecia, pregare durante una festa, ingelosirsi perché Eva parla e ride con un amico di suo fratello. Skam Italia non è il primo teen drama che tratta di diversità e seconde generazioni. Fra i protagonisti della serie spagnola Elite ci sono Nadia e Omar, due ragazzi musulmani, mentre Non ho mai… racconta la quotidianità di Devi, un’adolescente americana di origini indiane. Skam 4 lo fa però in maniera diretta, mettendo una ragazza musulmana al centro della scena e senza prendere nessuna scorciatoia.

“La diversità è una delle caratteristiche fondanti di Skam Italia. Una delle nostre missioni è permettere al pubblico di entrare in contatto con personaggi con cui non è abituato a empatizzare, conoscere il loro mondo e vedere le cose dal loro punto di vista” conferma Bessegato. Nei giorni degli insulti social contro Silvia Romano, una serie su una ragazza italiana con il velo non rischia di gettare benzina sul fuoco? Per lo showrunner di Skam Italia “i giovani sono attirati da ciò che è diverso: il problema nasce da un certo tipo di narrazione degli adulti. E se poi questa stagione indispettirà qualcuno, ancora meglio… Noi di certo non ci siamo inventati nulla”.

 

Skam 4

Da oggi su Netflix e Timvision

Il cielo rovesciato sopra Mario Balsamo

In tempi di sospensione e inevitabile “sconfinamento” fra realtà e finzione diventa opportuno quanto piacevole riflettere su un raffinato cineasta italiano che – di tale ibridazione – ha costruito (e continua a farlo) la propria cifra poetica e stilistica. Per questo, ma non solo, Mario Balsamo è stato definito “tra gli imprescindibili punti di riferimento del documentario italiano” da Vito Zagarrio che, non casualmente, ha voluto inserire nella collana Zootropio da lui curata per Bulzoni Editore il recentissimo libro dedicato al filmmaker nato a Latina nel 1962, Il cielo rovesciato. Rifrazioni tra reale e immaginario nel cinema di Mario Balsamo. Scritto da Fabrizio Croce e Sabina Curti, il volume evidenzia non soltanto l’estrema versatilità audiovisiva proposta da questo regista, studioso e docente (formati, supporti, tematiche, stili..) ma anche quell’originalità che ha permesso al suo sguardo di farsi contemporaneamente prassi e teoria del cinema. Originalità assoluta che, benché “ossessivamente cercata e poi chiusa a chiave nel cassetto dello psicanalista” (a detta dello stesso cineasta), riesce a esplodere di unicità, al punto che sembra definibile un modo “alla Balsamo” di cine-documentare. Opere personali ma universali come Noi non siamo come James Bond (2012) e Mia madre fa l’attrice (2015) sono lì a testimoniarlo, così come il libro di Croce-Curti a celebrare un autore che di certo meriterebbe maggiore notorietà.

 

Il cielo rovesciato

Fabrizio Croce e Sabina Curti

Pagine: 136

Prezzo: 13

Editore: Bulzoni

L’isola impossibile della rieducazione per figli di papà

Se interrotta, la voglia incalza, aumenta. Dell’oggi non gode, ha interessi a ritroso: sale chiuse, archivi spalancati, e le occasioni cinefile non mancano. Ci sono film non per tutti, ma che più di qualcuno dovrebbe vedere: trascurati, addirittura perduti, nel trantran festivaliero, che però non invecchiano, solo migliorano. Prima il lockdown, ora questa strana sospensione a cui siamo costretti, c’è tempo e modo per rinvenire chicche eluse, cult misconosciuti, visioni negate: Les garçons sauvages di Bertrand Mandico merita il recupero.

Presentato in prima mondiale alla Settimana della Critica di Venezia nel 2017, complice il fiuto ardito del delegato generale Giona A. Nazzaro, non ha trovato distribuzione nel nostro Paese, ma recensioni lusinghiere, certificati di eccellenza, nomea di imperdibile: a non essere bacchettoni, potrà dire molto, dal rifiuto del binarismo di genere alla critica del patriarcato, dall’affrancamento dal corredo cromosomico alla gogna della mascolinità tossica.

Il regista, francese, è del 1971, viene dall’arte, ha diretto due grandi corti passati per Cannes e Mostra, Boro in the Box e La résurrection des natures mortes, e all’esordio nel lungo rincara la dose: The Wild Boys è tanto colto e memore quanto fesso e irriguardoso.

Assembla natura panica e protesi genitali, seni singoli e peni caduci, suzioni erotiche e metamorfosi impudiche, violenza e estasi senza guardare in faccia nessuno, eccetto la storia di cinema, letteratura, moda: troverete Il signore delle mosche e Arancia meccanica, la saga di Emmanuelle e William Burroughs (libro omonimo, 1971), Il portiere di notte, Verne e Robert Stevenson, passando per Genet e Fassbinder, lo stilista Alexander McQueen e il regista polacco Walerian Borowczyk, già omaggiato nello short Boro.

Facilità e felicità, scivola tutto senza indugio, all’inizio del XX secolo, sull’isola de La Réunion: cinque figli di papà – nessuno spoiler, ma va detto che Vimala Pons incanta – stuprano brutalmente la loro insegnante, si salvano dalla prigione, non dalla rieducazione delle famiglie, che li affidano all’Olandese (Sam Louwyck), efferato capitano di vascello. La meta è un’altra isola, lussureggiante, sconvolgente, dove tutto è possibile, anche l’impossibile.

Mandico non teme il camp né le stucchevolezze del gender bender, e in uno stupendo Super16 fa del prevalente bianco e nero e del colore saturo – a mo’ di ironico salvaschermo – la possibilità di un’isola: screanzata e vitalista nelle acque chete dell’audiovisivo oggi. Ripeto, non è per tutti, ma perché dovrebbe? Non di solo mainstream e Netflix vive l’homo pandemicus, e per chi ne ha pieni gli occhi ecco SPAMFLIX, il servizio on demand con il meglio di genere dai festival di tutto il mondo. Disponibile un pacchetto cinephile da 20 film a 20 euro, ce n’è per molti gusti: da questo Les garçons sauvages ad Alex Cox, dal nostro Davide Manuli (La leggenda di Kaspar Hauser) a Sion Sono.

 

Il vero cinema siamo noi

Un’idea attualissima, visto che #siamorimastiacasa per due mesi e in questo largo lasso di tempo abbiamo imparato a guardarci dentro. E indietro. A cominciare dalle nostre più piccole patrie familiari, sociali, affettive. Rispolverando, tra una ricetta, una catena social e una performance in balcone, certi album fotografici ingialliti che si credeva dimenticati per sempre. E non solo quelli. Lunga vita alle immagini in movimento spontanee, non artistiche, amatoriali. Autobiografia collettiva di una nazione. Trentamila pellicole originali e inedite, in formato ridotto tra Super8, 8mm, 16mm e 9,5mm, girate tra gli anni Venti e gli Ottanta del Novecento: sono i numeri, colossali, del patrimonio di Home Movies, il primo archivio consacrato ai filmini fatti in casa dagli italiani.

Il cinema privato costituisce una sorta di unico e sinfonico racconto visuale alternativo, straordinario perché ordinario, per riscoprire, in campo lungo, le vicende dei singoli e delle nostre comunità. E adesso questo tesoro, tutto digitalizzato, viene proposto al pubblico attraverso una piattaforma dedicata, Memoryscapes (accessibile al link https://homemovies.it/memoryscapes/). Percorsi tematici e geografici dove esplorare paesaggi, volti, strade, gesti, oggetti e icone religiose e laiche della nostra memoria. Un viaggio spazio-temporale in un’Italia perduta e ritrovata. Le prime due serie messe in Rete al momento sono alimentate da oltre mille clip. La prima si intitola “Lungo la via Emilia” ed è ambientata, va da sé, in Emilia-Romagna; la seconda si chiama “Cartoline Italiane” ed è una cornucopia. Una galassia di sguardi, laterali e irripetibili, sulla storia con la S maiuscola. Dalla corsa delle Mille Miglia al Giro d’Italia; dagli esordi del traffico cittadino negli anni 50 alle strade vuote per l’Austerity dei primi ’70; dai canti di gioia per la Liberazione e la fine della guerra alle proteste studentesche del Sessantotto. Passando, soprattutto, per la nebulosa di fatti della quotidianità: le candeline soffiate su una torta, i pranzi della domenica, i sorrisi dei matrimoni, i picnic primaverili. Le vie di Pompei affollate negli anni 20, le donne in spiaggia nel decennio successivo, le scampagnate a dispetto delle bombe all’alba dei ’40, le Alpi e gli sciatori nei ’50. Il boom economico urbano e gli antichi borghi incontaminati, l’agricoltura e il nuovo landscape industriale. Basta un pc o uno smartphone per entrare in questo mondo riflettente parallelo, molto utile, in prospettiva, a studiosi, registi e artisti. “Memoryscapes è una sfida. Per noi è un traguardo fondamentale: dopo vent’anni in cui abbiamo raccolto, digitalizzato, catalogato pellicole provenienti da tutto il paese, siamo felici di riuscire a renderle, progressivamente, visibili a tutti – spiega Paolo Simoni, direttore dell’archivio e responsabile del progetto –. Nella nostra lunga esperienza di archiviazione, ma anche di valorizzazione di un patrimonio al contempo fragile e potente, abbiamo capito che il primo approccio nei confronti di queste immagini è di tipo emozionale: il ricordo, il riconoscimento, la nostalgia di un tempo passato che ha attraversato la nostra infanzia, o quella dei nostri genitori, dei nostri nonni, fino alle generazioni più lontane a cui siamo legati come parte di una narrazione comune”.

Ma è proprio da questi input sentimentali che possono prendere forma e sedimentarsi le analisi di taglio storico, sociologico, culturale. “Dalla moda al design, dai gesti di mestieri ormai scomparsi alle più grandi trasformazioni urbane. Ma anche gli eventi straordinari, quando la Grande Storia incrocia e stravolge le vite di tutte e di tutti. Il cinema privato è il controcanto, spesso invisibile, della storia. Una mappa del passato per orientarci meglio nel nostro presente”. Memoryscapes può contare su un comitato scientifico di profilo internazionale, a iniziare da Rick Prelinger, docente di cinema e digital media all’University of California Santa Cruz, fondatore dei Prelinger Archives e membro del direttivo dell’Internet Archive (archive.org). Il progetto è realizzato grazie al contributo della Regione Emilia-Romagna e del Mibact, in collaborazione con l’istituto storico Parri, Kinè e Bradypus. Il cinema siamo noi: come eravamo, come siamo cambiati e come vogliamo tornare a essere quando tutto questo sarà finito.