Medici e infermieri eroi, ma solo a parole. Lo stipendio resta fermo a 500 euro al mese

Il presidente Putin ad aprile aveva promesso un bonus “per gli specialisti che lavorano direttamente con i pazienti affetti da Covid-19 e rischiano la salute ogni minuto”. In uno dei suoi cinque appelli alla nazione, quando si è rivolto direttamente ai camici bianchi, ha usato parole di guerra e d’amore, messaggi di incoraggiamento che di solito usa per i suoi soldati in terra straniera: “Siete in prima linea per la difesa del Paese, vi ringrazio di cuore per il duro lavoro”. Dopo l’omaggio, Putin aveva garantito agli uomini nelle trincee mediche un aumento di stipendio: 80mila rubli in più per i dottori, 50mila rubli per gli infermieri, 25mila per paramedici e autisti delle ambulanze. Un’iniezione di liquidità che però è fantasma nei conti correnti: i sanitari che tentano di arginare la pandemia hanno visto più vuote le buste paga e sempre più piene le corsie degli ospedali con oltre 250mila pazienti infetti.

“Nessuno ha visto quei soldi, ed è una vergogna” conferma al telefono Ksenia da Mosca che preferisce non rivelare il cognome della sua famiglia, perché i suoi parenti indossano in questi giorni gli scafandri nelle corsie. Il sindacalista Andrei Konoval ha calcolato che ad almeno 90mila operatori spettavano sussidi, ottenibili però per legge solo se i malati che hanno curato avevano lo status di “infetti”. Alcuni dottori russi hanno ricevuto in più solo una manciata di rubli, altri un sonoro zero. Altri riceveranno l’indennità solo se l’ospedale riuscirà ad accertare che durante il loro turno di lavoro i dottori hanno trattato dei pazienti affetti da Covid-19, ovvero ufficialmente risultati positivi a test ritenuti poco affidabili per l’altro numero di “falsi negativi” riscontrati.

Altri medici non hanno ricevuto l’indennità perché hanno curato solo delle “polmoniti”, alcuni hanno visto il loro compenso decurtato perché risultano, per errori del Rospotrebnadzor, servizio sorveglianza consumatori, assenti ingiustificati sul lavoro mentre erano invece in quarantena domiciliare obbligatoria. Svetlana Munirova, dell’ospedale Pokrovsky di Pietroburgo, ha 20 anni di esperienza sulle spalle e nelle tasche 6.000 rubli in meno del mese precedente, nonostante anche il governatore della sua regione, Aleksandr Beglov, avesse promesso come il presidente “misure per supportare gli operatori sanitari”. Secondo statistiche pubblicate da media indipendenti, sta operando in questi giorni e queste ore, senza strumenti protettivi adeguati, l’83% dei dottori russi per un salario che raramente supera i 400mila rubli, circa 500 euro. Non ci sono più buone notizie in Russia e nemmeno il mastodonte della propaganda riesce più a scovarle. “Più niente da aggiungere”: né commenti, né soldi. Questo gioco di parole è il titolo della Novaya Gazeta che ha raccolto le testimonianze di medici ed infermieri da un lato all’altro del Paese, le cui lamentele fanno eco nelle casse vuote dei fondi stanziati. Nonostante la Russia svetti al secondo posto nella classifica di Paesi più colpiti dal Corona, il numero ufficiale dei decessi non supera i 2500 morti, cifra che suscita stupore e rabbia non solo nell’opposizione, ma anche tra i medici stessi.

Il numero dei contagi aumenta in modo vorticoso, con una media di 12.000 nuovi casi al giorno; di pari passo sale la disoccupazione, raddoppiata dall’inizio del lockdown. Ai suoi uomini più fidati, risultati positivi al virus – dal premier Michail Mishustin al portavoce Dimitry Peskov –, Putin continua a parlare dai monitor, gli stessi schermi che utilizza per rivolgersi ai suoi cittadini: “Il virus si batte con i dottori, con disciplina, con responsabilità”. Putin ha ribadito poi che “è nell’interesse di tutti che l’economia torni presto alla normalità”, ma molti russi si sono chiesti quale sia.

Israele, King Bibi inciampa sulla nomina dei ministri

Il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato costretto a rinviare il giuramento del nuovo governo, quasi travolto dal malcontento del suo stesso partito, il Likud. Dopo aver parlato con il leader di Kahol Lavan Benny Gantz – l’ex rivale e ora alleato – ha chiesto un rinvio di un paio di giorni per completare la distribuzione dei portafogli di ministro nel suo partito. Nonostante questo sia il governo con il maggior numero di ministri della storia di Israele – sono 36 con 16 viceministri – Netanyahu non ha ancora definito una nuova posizione per sette dei suoi stretti sostenitori del Likud, la maggior parte dei quali erano ministri nel suo ultimo gabinetto.

La capacità di persuasione del Bibi nazionale ha adesso tutto il week end per trovare una soluzione. Tra gli importanti incarichi ministeriali sicuri nel nuovo governo ci sono Gabi Ashkenazi (Kahol Lavan), che diventerà ministro degli Esteri, Israel Katz (Likud) che sarà alle Finanze, Avi Nissenkorn (K.L.) che assumerà il portafoglio della Giustizia e Yuli Edelstein (Likud), che sostituirà Yaakov Litzman come ministro della Sanità. Si prevede che Yariv Levin (Likud) sarà il prossimo presidente della Knesset dopo che Gantz si è dimesso dalla carica mercoledì pomeriggio. Amir Peretz e Itzik Shmuli, (Labour), dovrebbero diventare rispettivamente ministri dell’Economia e del Welfare. I restanti incarichi sono nelle mani di Bibi. Il nuovo governo del primo ministro Netanyahu chiude un anno di stallo politico in Israele, con tre elezioni consecutive.

Già mercoledì sera Netanyahu aveva informato formalmente il presidente Reuven Rivlin e il presidente della Knesset Benny Gantz che era riuscito a formare una squadra.

Le difficoltà di Netanyahu non riguardano gli accordi con Kahol Lavan di Benny Gantz – il protocollo di intesa tra i due partiti consta di 14 pagine, comprende la rotazione del premier dopo 18 mesi ed è stato firmato già da una settimana – ma oltre al Likud ci sono anche quelli alleati. Nell’Esecutivo certamente non ci sarà il partito sionista Yamina dopo che i colloqui di mercoledì tra il suo leader Naftali Bennett e Netanyahu non hanno prodotto risultati. Nel Likud, Avi Dichter (ex capo del Mossad) ha annunciato che non voterà a favore del governo dopo aver visto sfumare il suo posto da ministro e con lui la lista dei delusi è piuttosto lunga.

Nonostante ciò la fiducia al governo non appare in discussione con oltre 70 voti sicuri (la maggioranza alla Knesset è 61 seggi). Gli israeliani sperano che Yuri Eldestein – un fedelissimo di Netanyahu – destinato alla Sanità mostri una visione più moderna del suo predecessore Yaakov Litzman, un ministro già controverso molto prima dello scoppio della pandemia, ma il virus lo ha fatto diventare il bersaglio per ogni errore compiuto in Israele in questi tre mesi. Litzman – un religioso ultra-ortodosso – prima ha ignorato il coronavirus, poi ha evocato le preghiere come argine alla pandemia, poi ha violato personalmente le direttive del suo ministero sui comportamenti sociali andando per sinagoghe, meeting religiosi e funerali, infine si è contagiato e ha contagiato mezzo governo.

Ma sarà ancora ministro. Perchè Litzman è il leader di uno dei tre partiti religiosi che da dieci anni sono alleati stabili nei governi guidati da Netanyahu. L’anziano religioso avrà l’Edilizia.

In che modo il primo ministro intende garantire contemporaneamente che Israele sia pronto per la prossima ondata del coronavirus, approvare il piano di annessione della Cisgiordania che rischia di riaccendere il fronte palestinese (i cui primi allarmanti segnali si sono già visti questa settimana) e gestire la sua difesa nel processo al tribunale distrettuale di Gerusalemme?

Solo Netanyahu lo sa. Forse, come indicato dalla campagna orchestrata contro il procuratore generale e il procuratore di Stato, “colpevoli” di aver mandato a processo, spera ancora in un “big bang|” istituzionale che fermerà i suoi processi.

Virus e affari, cura francese già promessa a Washington

L’accesso al vaccino contro il Covid-19 non sarà uguale per tutti, a giudicare dalla polemica sul caso Sanofi scoppiato ieri. Ad accenderlo in Francia sono state le parole dell’amministratore delegato della casa farmaceutica transalpina, Paul Hudson, a Bloomberg: “Se Sanofi troverà il vaccino, il governo americano avrà diritto al pre-ordine più importante dal momento che ha investito di più”. Gli altri, Europa e Francia compresa, dovranno aspettare. Già da febbraio Washington ha stretto un accordo con Sanofi per finanziare la ricerca sul vaccino contro il Covid-19 che ha già ucciso nel mondo circa 300 mila persone e più di 80 mila negli Stati Uniti. Stando ai media americani gli Usa avrebbero già investito 30 milioni di dollari nel programma, una cifra cospicua che garantisce a Donald Trump, di beneficiare di una corsia preferenziale una volta che il vaccino sarà stato scoperto.

Nel progetto, Sanofi non è sola, collabora con la britannica GlaxoSmithKline. In un comunicato comune del 14 aprile, si leggeva che il vaccino sarebbe stato sviluppato unendo la proteina S, antigene di Sanofi contro Covid-19, e la tecnologia pandemica di GSK, con l’obiettivo di dare il via ai test clinici nella seconda metà del 2020. Il 24 aprile, sentito da L’Usine Nouvelle, Hudson diceva: “Ci siamo solo noi e GSK per farlo in Europa”. Ma non è dall’Ue che è arrivato il sostegno finanziario. I due giganti della farmaceutica si sono messi a lavorare con la Barda, l’authority per la ricerca in campo biomedico che fa capo al ministero della Salute americano. Ed è un ex manager di GSK, Moncef Slaoui, affiancato dal generale Gustave Perna, che Trump ha messo a capo della “Operation Warp Speed”, il piano per accelerare lo sviluppo del vaccino. A dispetto dello scetticismo degli scienziati, Trump ritiene che 300 milioni di dosi potranno essere distribuite agli americani entro fine anno. Nella battaglia contro il Covid, Trump vuole arrivare primo e da solo. Del resto gli Stati Uniti (come la Cina) non hanno partecipato al summit mondiale del 4 maggio che ha permesso di raccogliere più di 8 miliardi di dollari per la ricerca. “Il governo americano ha girato le spalle alla coalizione mondiale che lotta contro la malattia”, scriveva The Guardian. Anche se il vaccino ancora non c’è e non è detto che sia l’azienda francese a trovarlo, il caso Sanofi è uno scandalo per la Francia.

Il gruppo farmaceutico, fondato nel 1973, ha sede a Parigi e il suo principale azionista è francese, L’Oréal (al 9,4%). Esponenti del PS hanno ricordato che Sanofi fruisce del dispositivo di credito d’imposta per la ricerca, di sgravi fiscali cioè in funzione del capitale investito nell’innovazione, che per Sanofi rappresentano circa 150 milioni di euro all’anno. “Un vaccino deve essere sottratto alla legge del mercato ed essere disponibile per tutti il più rapidamente possibile”, ha commentato il presidente Macron. Privilegiare gli americani sarebbe “inaccettabile”, ha detto Agnès Pannier-Runacher, segretario di Stato per l’economia. Imbarazzato, Olivier Bogillot, presidente di Sanofi France, ha tentato di calmare le acque: “L’obiettivo è che il vaccino sia disponibile allo stesso modo negli Stati Uniti, in Francia e in Europa”. Ma Bogillot, sentito da BFM Tv, ha anche aggiunto: “Se gli europei saranno altrettanto efficaci” degli americani.

Parole che non rassicurano nessuno e di fatto fanno pressione sull’Ue che non sembra pronta a raccogliere la sfida della ricerca contro la malattia. Intanto un incontro all’Eliseo con i vertici di Sanofi è stato annunciato per l’inizio della prossima settimana. Ieri il quotidiano bollettino sanitario ha registrato 351 morti di Covid-19 in più nelle ultime 24 ore in Francia, portando il bilancio totale a 27.425 vittime. Nel giorno della polemica sul vaccino, il premier Edouard Philippe ha voluto dare almeno una buona notizia, pur restando prudente: i francesi potranno partire in vacanza, ma solo in Francia, a luglio e agosto. Philippe ha annunciato un “piano Marshall” che mette sul tavolo fino a 18 miliardi di euro per rilanciare il turismo, con un piano di investimenti da 1,3 miliardi di euro e l’esonero dei contributi sociali per le aziende del settore. Un settore messo in ginocchio dall’epidemia che rappresenta circa l’8% dell’economia nazionale e che nel 2019 ha accolto circa 90 milioni di turisti.

Mail Box

 

Un “semplice grazie” a tutta la redazione

Sono un consulente finanziario di 32 anni. Nella mia sin qui giovane carriera ho attinto informazioni da svariati giornali e quotidiani. Be’, posso affermare che Il Fatto (che ammetto candidamente di aver scoperto da poco) è uno dei migliori che abbia mai sfogliato. Ormai posso considerami vostro fan e continuerò a leggervi sicuramente da qui in avanti per il modo in cui mixate alla perfezione chiarezza, verità, leggerezza e onestà intellettuale. Non posso che dedicarvi un semplice grazie!

Andrea Mascia

 

Caro Andrea, grazie delle belle parole. È bello avere lettori come te. Benvenuto in famiglia!

M. Trav.

 

I piagnistei delle aziende e i lavoratori penalizzati

Sui media, vecchi e nuovi, si assiste da settimane alla stucchevole liturgia del “non va bene”. Al centro Conte, il suo governo, le sue scelte, certo perfettibili. Inps ingorgata, bonus che tardano, congiunti da meglio definire, Cig che non arriva. Tutto giusto. Ma vivaddio in nessun talk e da nessun editorialista, e nemmeno dal presidente degli industriali, l’ottimo Bonomi, ho sentito parole indignate verso il fenomeno che vede tanti lavoratori, spesso laddove il sindacato è più debole, richiamati al lavoro di nascosto dai datori che ne hanno chiesto la cassa integrazione. E che poi magari si lamentano per i ritardi della Cig. Un malcostume sottotraccia, ma una vergogna palese che meriterebbe lo spazio di una denuncia molto più grande di questa mia lettera. E la mano pesante da parte dello Stato.

Giandomenico Crapis

 

Un’estate al mare… ma chi ama la montagna che fa?

E la montagna dove la mettiamo? Tutti parlano, scrivono, si preoccupano di spiagge, lidi, ombrelloni, stabilimenti balneari, ma (quasi) nessuno di montagne, rifugi, bivacchi… È vero che siamo un popolo di marinai, ma anche di montanari e alpinisti (nel senso di amanti e appassionati)! I quali – stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone – amerebbero sapere che cosa li aspetta nel futuro prossimo.

Cesare Sartori

 

Il disastro dei tamponi nella mia Liguria

Mia moglie è medico e lavora in un’associazione senza scopo di lucro che, in questo periodo di Coronavirus, ha continuato a operare per evitare che la Sanità pubblica venisse ulteriormente sovraccaricata. Alcune settimane fa una sua collega è venuta a contatto con una paziente risultata poi positiva. I medici dell’associazione si sono quindi attivati perché il personale presente quel giorno venisse sottoposto a tampone: scoprono però che la Asl non effettua tamponi in assenza di sintomi manifesti, anche se si tratta di medici territoriali necessari. La collega di mia moglie però riesce a ottenere il tampone: il risultato è positivo. La cosa interessante è che la risposta ufficiale l’ha ottenuta dalla Asl dopo 15 giorni, ossia al termine del periodo di quarantena: in soldoni, se non fai il tampone devi stare in quarantena, se invece lo fai… pure! In Liguria il tampone riesci a ottenerlo solo se sei un medico potenzialmente infetto, hai patologie gravi in famiglia, un medico di base particolarmente tignoso e amici medici che ti possono dare una mano, ammesso che poi non perdano il tampone. Sarebbe opportuno che chi governa questo Paese e questa Regione ricordasse il famoso detto “prevenire è meglio che curare” e tornasse a occuparsi della Sanità pubblica

Pier Paolo Rossodivita

 

Mantoan è in odore di conflitto d’interessi

È recente la notizia che Domenico Mantoan, direttore generale della Sanità veneta e presidente dell’Aifa è stato nominato dal ministro Speranza anche commissario dell’Agenas, dopo che, lo scorso agosto, era stato nominato commissario dell’Azienda unica della Sardegna: un vero Superman! Mi chiedo: è possibile che la stessa persona rivesta tanti ruoli di potere e controllo nella stessa Regione di cui ha responsabilità? Come mai Speranza non se ne rende conto e continua a nominare un fedelissimo di Zaia, determinando un evidente conflitto di interessi?

Federica Fuiano

 

Marche, il Covid Hospital non era necessario

Concordo con la severità nei confronti del “Fiera Hospital” di Milano, ma non capisco l’accondiscendenza verso quello di Civitanova Marche: sono inutili entrambi. Nelle Marche molte autorevoli voci si sono levate per evitare l’errore: sarebbe stato meglio predisporre terapie intensive nelle strutture esistenti (che sono ovviamente diffuse nel territorio); al momento della decisione era già evidente che la curva epidemiologica avrebbe reso inutile l’impresa; c’era assenza/insufficienza dei supporti diagnostici necessari alla terapia intensiva, nonché immediatamente disponibili (radiologia, laboratorio analisi ed altro ancora); mancavano altri professionisti/competenze necessari in situ per pazienti complessi e con polipatologie, ovvero personale competente/preparato. Viceversa, c’era un bisogno assoluto di intervenire sull’assistenza territoriale, che è mancata o manca di tutto. Mi sarei sinceramente aspettato (sono abbonato dal 2009) che il Fatto intervistasse anche qualcuna delle voci contrarie. Va bene che le Marche sono alla periferia dell’impero…

Roberto Amici, cardiologo, già Direttore di Dipartimento di Emergenza

L’appello. La Sanità pubblica deve tornare più forte: rivediamo i rapporti Stato-Regioni

Se c’è una lezione da imparare dalla pandemia che ha quasi travolto il nostro Paese, e in particolare alcune Regioni, questa è la riscoperta del ruolo dello Stato nella gestione della Sanità.

È alla Sanità pubblica che si deve, innanzitutto ai suoi medici e ai suoi operatori, quanto di positivo e persino di eroico è stato fatto per gestire l’emergenza del Coronavirus; e alle sue debolezze strutturali i problemi drammatici che si sono avuti. Debolezze dovute a decenni di una gestione della Sanità pubblica rivelatasi alla prova dei fatti inadeguata per risorse, per il suo distorto rapporto con la Sanità privata, e per lo stato di confusione del rapporto Stato-Regioni.

Sedotti dal mantra dell’efficienza “economica” per definizione del solo privato – tradotto nel welfare sanitario aziendalizzato come cessione al privato di quote di servizi pubblici – e dell’efficienza altrettanto presunta per definizione dell’autogoverno territoriale, ci siamo ubriacati, per decenni, di “liberismo” istituzionale e di esternalizzazione di determinati servizi pubblici, come la Sanità, che per loro natura necessitano di restare affidati alla mano pubblica. L’epidemia del Coronavirus ha dimostrato quanto questo sia costato in vite umane e in dispersione di risorse, e in difficoltà di gestione, al nevralgico settore della salute pubblica, che sempre più in futuro sarà chiamato a fronteggiare ricorrenze pandemiche.

Urge pertanto che a partire dalla Sanità si ripensi il rapporto Stato-Regioni e si punti a una Sanità pubblica sempre più forte, centrata su un’efficiente medicina territoriale e su ospedali pubblici in grado di rispondere in modo sicuro e differenziato ai bisogni della salute pubblica su tutto il territorio nazionale; facendola finita con il ruolo assunto da alcune Regioni negli anni di concessionari pubblici di servizi sanitari di “qualità”, peraltro spesso affidati al privato, per il resto del Paese.

Abbiamo bisogno di una Sanità che smetta di concorrere alla secessione di fatto tra Nord e Sud, e messa in sicurezza dall’uso politico territoriale a fini di costruzione del consenso politico. Questo per il bene del nostro Paese.

 

Eugenio Mazzarella, Giuseppe Tesauro, Paolo Corsini, Franco Casavola, Mauro Magatti, Roberto Zaccaria, Giuseppe Gristina, Massimo Villone, Franco Monaco, Lorenzo Chieffi, Lucio Romano, Paola De Vivo, Sandro Staiano, Maurizio De Giovanni, Vittoria Fiorelli, Enrica Amaturo, Luigi Iavarone, Rosanna Cioffi, Adriano Giannola, Renato Rotondo, Luigi Labruna, Tino Santangelo, Mario Rusciano, Gianni De Simone, Lida Viganoni, Ernesto Paolozzi, Lucio De Giovanni, Tomaso Montanari, Raimondo Pasquino, Alberto Lucarelli, Riccardo Realfonzo, Pasquale Belfiore, Maurizio Bifulco

L’informazione contagiata dal compiacimento

Un virus alimentato dal compiacimento: il 23 marzo, l’Italia in isolamento ha questo titolo di prima pagina sul New York Times. Da trent’anni non vedevo la televisione italiana. Con la pandemia li ho recuperati in 30 giorni: ora spero di avere smesso. La politica appare debole, i dibattiti forti. Ma in quelli televisivi si nota una inversione. Il moderatore dovrebbe informare il pubblico, però dipende dall’orientamento di questo.

Ci si chiude così in un compiacimento reciproco, che sostituisce la ricerca di informazioni. Di fronte allo sfacelo della Lombardia, certi conduttori discutono la Costituzione invece del virus: Non è stato un errore attribuire la Sanità alle Regioni? Questo non è approfondimento: se vuoi una vera opinione rivolgi domande neutre, non suggerire una risposta. Ma è solo l’inizio. L’11 aprile la Bbc (www.bbc.com/news/health-52234061) titola: Coronavirus: Cosa il Regno Unito può imparare dalla Germania? L’inatteso successo della Germania col virus dipende dal “sistema politico federale, che ha tolto allo Stato gran parte della sanità” assegnandola ai Länder (Regioni). Il 12 aprile anche il consulente del governo inglese Jeremy Farrar ripete alla Bbc l’elogio del modello tedesco. Il 20 aprile lo ribadisce Le Monde, aggiungendo che la Germania è riuscita malgrado due svantaggi: popolazione più anziana e contatti intensi con la Cina, origine del virus. Conclude: la politica ultraliberista è disastrosa, il federalismo tedesco vincente. Il New York Times loda la risposta tedesca con tre pezzi consecutivi: 31.3; 7.4 e 23.4, mentre il 4.5 attribuisce gli errori della Francia al suo centralismo. Insomma: quando la tv suggeriva che la vulnerabilità al virus deriva dalla regionalizzazione, le fonti più rispettate concludevano il contrario. Il problema italiano non è il decentramento, ma l’affidarlo a istituzioni speculative o corrotte, come sembra avvenuto in Lombardia.

La crisi del Covid-19 è sanitaria e politica. Essendo internazionale, mette in gioco l’Unione europea. A questa mancano un ministero per la Sanità e dei veri fondi: ha solo una minima percentuale sull’Iva dei membri. La nostra tv parla spesso di richieste fatte all’Unione: ma poco di questa scarsità dei mezzi, con cui a esse si dovrebbe rispondere. In teoria, molti approverebbero un aumento del bilancio europeo. In pratica, gli europeisti ricevono pochissimi voti. L’Europa è paralizzata nella dinamica sia finanziaria sia politica. C’entra l’immagine che ne danno i media? Guardiamo all’approvazione per la Ue. A lungo, in Italia era massima. Ora è minima. Ma la bassa stima per la Ue che la televisione ci somministra non è solo un punto d’arrivo: spesso è quello di partenza per una svalutazione-show.

Il “ministro degli Esteri” europeo, lo spagnolo Borrell, lamenta la mancanza di una “narrativa” (Die Zeit, 16.4.2020). L’Unione è l’entità che più fa contro le pandemie: aiuta Ong e Paesi che combattono Ebola, Sars ecc. Ma chi lo sa? Già l’aggiornamento sulla politica dell’Italia proviene dalla tv; lo stesso per Bruxelles, terra sconosciuta. I resoconti dicono: Conte chiede aiuto a Bruxelles: ma – in realtà – alla Germania. Cosa che ai telespettatori risulta più comprensibile, perché se i canali informano poco, in compenso sono pieni di film con i tedeschi cattivi. Una narrativa della Germania poco europea, è girata a Hollywood: ma conta identificare chiaramente il male. Nell’ostilità verso Bruxelles e i tedeschi concordano sia i canali statali sia quelli privati, pullulanti di “sovranisti”: definizione che andrà presto riformulata perché, quando il debito supererà il 150%, la sovranità sarà stata ceduta ai creditori. Per correggere questi provincialismi vengono invitati in tv esperti come Carlo Calenda, che conosce Paesi anche più detestabili della Germania. Per l’onorevole “gli olandesi” sono “gli imbecilli” e “uno dei mali dell’Europa”. Non qualcuno, tutti gli olandesi: cioè il male. Conte viene incoraggiato a rivolgersi a Bruxelles da un eccitamento sempre più calcistico: fai vedere che abbiamo orgoglio, che accettiamo solo la nostra proposta. Il “dibattito” si restringe a rito di compiacimento, che svuota il giornalismo.

Per il conduttore di Linea Notte (Rai3) un aiuto “arriverebbe accompagnato dal Mes, che nessuno voleva”. I rappresentanti di istituzioni che vogliono questo Meccanismo – discutibile, ma di una Unione cui apparteniamo – sono qui ripetutamente qualificati “nessuno”. Si descrive una Europa-campo di battaglia tra Paesi “del Nord” e “del Sud”. I due presentatori monelleggiano, definendo quelli del Nord “il plotone dei cattivi”: naturalmente per scherzo, le parole non sono pietre ma piume, e questi avvenimenti facezie. Del resto, per una coincidenza non intenzionale, la trasmissione compare dopo una di Rete 4 ancor più “litigista”, Nord contro Sud, ma in Italia.

Nei dibattiti tv non si contraddice, si sorride. La complacency del New York Times riguarda non solo i politici, ma anche i media che ispirano il clima in cui quelli devono muoversi. Se si sceglie un nemico lontano, Ue o Germania, il gioco è fatto. La “narrativa” dell’Unione auspicata da Borrell deriverà da quanto il 90% degli italiani su esso apprendono: da una tv megafono del populismo, anche quando è di Stato.

L’Italia è stata anticipatrice nel globale scadimento dei media, che sostituiva l’informazione con l’intrattenimento. Già negli anni 90 i quotidiani erano in crisi. Per riacquistare popolarità, cominciarono a introdurre il “litigismo”. “Smettila di sottolineare la collaborazione che quei due politici cercano – si diceva ai giornalisti – devi scrivere che si prendono a pugni”.

L’11 settembre 2001 abitavo a New York e assistetti al rilancio di un vecchio libro: Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntington, che passò dagli specialisti alla massa in cerca di messaggi forti. Sull’onda di un’enfasi “scontrista”, George W. Bush iniziò le guerre in Afghanistan e Iraq, non terminate dopo venti anni.

Sui collegamenti tra mentalità “dello scontro” e quello che stiamo vivendo, sta circolando una Lettera Aperta a Ue e governi, firmata da trecento storici italiani e tedeschi. Ma non interessa le tv, che hanno già scelto lo scontrismo. Che uno Scontro di civiltà mobiliti l’immaginario collettivo è cosa nota ai produttori cinematografici come agli autori dell’Iliade o di Guerra e pace. Includendo i suoi simulacri sportivi, corrisponde ai maggiori fatturati mai esistiti. È tollerabile che divenga centrale negli intrattenimenti. Non che sostituisca l’informazione.

Calenda piange i punti di Giggino

L’ex ministro Carlo Calenda, metà uomo e metà twitter, regala ancora soddisfazioni. È sempre in lotta tra due estremi terribili: i demoni opposti della mitomania e dell’autocommiserazione. Eppure riesce a generare momenti di autentica bellezza sui social network. Ieri ha pubblicato il sondaggio di Agorà-Emg Acqua sul gradimento dei leader politici. E poi si è lamentato con piglio post-adolescenziale: “Uno studia, si laurea, lavora mentre frequenta l’università, cresce 4 figli, accumula esperienza manageriale e governativa… e si ritrova due punti sotto Di Maio nella fiducia degli italiani. Sob”. Sob! Calenda è in effetti in quartultima posizione a quota 19, mentre il ministro degli Esteri (che in curriculum ha lavori non proprio cool, come lo steward allo stadio San Paolo) lo supera a 21. Chissà se Calenda ci mostra davvero quei numeri per lagnarsi del distacco da Di Maio o per comunicarci subdolamente di aver distanziato Renzi (fermo, tristissimo, a quota 15). Nel dubbio, gli proponiamo altri spunti di riflessione: forse dovrebbe preoccuparsi – più che del grillino – di avere lo stesso gradimento del pregiudicato ultra-ottuagenario Silvio Berlusconi. Oppure, magari, di essere surclassato rispettivamente con 17 e 15 punti di distacco da Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Pure loro non è che abbiano studiato a Oxford.

Dalle nomine Rai dipende anche il futuro del Cinema

In queste ore di nomine Rai, infuria la battaglia anche per quanto concerne il futuro del nostro Cinema? Per quanto ne so, siamo l’unico Paese al mondo dove i film vengono finanziati quasi solo grazie alla televisione. Quando ne parlo con dei colleghi americani, mi chiedono come sia possibile, visto che laggiù ritengono la tv il nemico principale della produzione cinematografica. Sono mondi diversi, è vero, ma mentre in America prima vengono gli incassi in sala e poi le vendite alle reti, in Italia è il contrario. Questa anomalia viene da lontano. È iniziata alla fine degli anni Sessanta, quando Roberto Rossellini, non trovando i capitali per girare quel suo splendido film La presa del potere da parte di Luigi XIV, è andato a cercarli in Francia presso la televisione, che pensò bene di distribuirlo prima in sala. Ed è stato un grande successo. Da allora i finanziamenti al cinema specie in Italia hanno cessato di arrivare principalmente dalle sale e si sono rivolti alle reti. Dopo Rossellini è venuto Ermanno Olmi con L’albero degli zoccoli, coprodotto dalla Rai, che poi trionfò a Cannes. Dopodiché altri registi importanti, non trovando capitali presso i produttori, una specie quasi scomparsa, hanno pensato bene di rivolgersi alla televisione. E si sa che la tv è quanto mai famelica di prodotto da mandare in onda da mattino a sera. Basta spulciare i palinsesti quotidiani per vedere che i film la fanno da padrone.

Mi sono sempre domandato se questo rapporto piuttosto incestuoso tra cinema e televisione non sia foriero di un particolare tipo di zavorra, che risponde al triste nome di censura. Mentre il cinema può essere irrispettoso del potere, la televisione non se lo può permettere. Io per esempio non avrei mai potuto girare Forza Italia!, film parecchio irrispettoso dei potenti di allora, se avessi dovuto chiedere il finanziamento alla televisione. Questa condizione produttiva sine qua non implica che il cinema italiano non può essere del tutto libero. Rossellini ha insegnato che una restrizione dei nostri margini di libertà obbliga a essere più intelligenti e scaltri. Meglio rinunciare a qualcosa e realizzare comunque dei film che non farne affatto. Un grande sceneggiatore italiano, Furio Scarpelli, diceva che siamo condannati alla genialità. Questa premessa riporta al quesito iniziale. Le nomine Rai contempleranno anche la dirigenza del Cinema e prima di cambiare o confermare questo o quello sarebbe opportuno chiedersi in base a cosa si sceglierà. Il timore è che si voglia ridurre il peso di questo settore attribuendone la gestione in base a calcoli prettamente politici anziché di competenza. Ma il rischio peggiore è un altro, e cioè che si voglia ridurre la capacità produttiva in favore dell’altro competitor privato, Mediaset, il gruppo che attraverso Medusa, il suo braccio cinematografico, non ha mai amato il cinema italiano, a meno che non sia dichiaratamente commerciale. È vero infatti che se non fosse per Rai Cinema la maggior parte degli autori italiani non lavorerebbe più. Medusa sforna sì e no una decina di titoli all’anno, mentre Rai Cinema ne finanzia un centinaio, tra film e documentari (che Medusa si guarda bene dal produrre, temendo che raccontare la realtà possa generare dispiaceri). Quindi, tirando le somme, la tv privata investe 10 e quella pubblica 100. Ecco perché le nomine Rai sono importanti. Non si tratta di nomi, ma di idee, non di caselle, ma di obiettivi. Ragionando anche in termini di occupazione e di qualità.

Covid, “tempesta perfetta” nata dall’uomo

Noto una rimozione, una vera repulsione – anche tra i più obiettivi commentatori – nel considerare la pandemia da Sars-Cov-2 per quello che è: l’ennesimo sintomo della rottura dei cicli vitali della biosfera. Esattamente come lo sono il surriscaldamento dell’atmosfera, l’acidificazione degli oceani, la perdita di fertilità dei suoli e le varie forme di inquinamento delle matrici ambientali. Eppure non occorre essere scienziati per capire che la Terra non regge la pressione di 7,4 miliardi di individui homo sapiens che allevano e mangiano 1,5 miliardi di bovini, 1,7 miliardi di ovini e caprini, 1 miliardo di suini, 1 miliardo di conigli, 52 miliardi (sì, avete letto giusto) di avicoli, oltre a 80 milioni di tonnellate di pesce d’allevamento. Aggiungiamoci un numero non precisato di cani, gatti e di animali selvatici come pagolini, serpenti, pipistrelli, scimmie e il quadro si completa. Questo “regime alimentare” ha una doppia conseguenza: estendere il terreno agricolo occupato da pascoli e da produzioni di mangimi, riducendo di conseguenze gli habitat naturali utili alla vita delle specie animali selvatiche; creare un serbatoio ideale di coltura di virus pronti al “salto di specie” (spillover). Ci si dimentica in fretta, ma le malattie di origine zoonotica negli ultimi decenni sono sempre più frequenti e virulente. Le ricordo alla rinfusa: Hiv, Ebola, Febbre gialla, Sars, encefalopatia spongiforme bovina (mucca pazza), afta epizootica, influenze suine e aviarie. I microorganismi supportano tutte le forme di vita, ma fattori antropogenici (come il cambiamento d’uso del suolo combinato al cambiamento climatico) alterano gli equilibri ospite-simbiote, modificando le risposte ai patogeni, indebolendo i sistemi immunitari, facilitano invasioni batteriche lungo le catene trofiche che legano ogni forma di vita. Durante questa pandemia è stata data la parola a esperti di tutte le discipline mediche e sociali, a pochi biologi e a nessun ecologo. Hanno scritto tre professori dell’Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), Josef Settele, Sandra Díaz, Eduardo Brondizio, Peter Daszak: “La dilagante deforestazione, l’espansione incontrollata dell’agricoltura, l’agricoltura intensiva, l’estrazione mineraria e lo sviluppo delle infrastrutture, così come lo sfruttamento delle specie selvatiche hanno creato una ‘tempesta perfetta’ per la diffusione di malattie dalla fauna selvatica all’uomo”. Il biologo Robert G. Wallance ha definito “letale” il settore agroalimentare delle Big Farm. Aveva avvertito un gruppo di scienziati di tutto il mondo con un Consensus Statement (Nature Reviews, settembre 2019): “Patogeni virali, batterici e fungini di piante e animali (presenti in colture, bestiame ed esseri umani) si adattano a fattori abiotici e biotici (come temperatura, pesticidi, interazioni tra microrganismi e resistenza dell’ospite) in modi che influenzano la funzione dell’ecosistema, la salute umana e la sicurezza alimentare”.

Domandiamoci perché è così difficile riconoscere le cose semplici che si rivelano nella loro evidente casualità. Ci abbiamo messo quarant’anni per capire che bruciare d’un colpo le riserve di fossili accumulate qualche centinaia di milioni di anni fa nel sottosuolo avrebbe alterato la composizione chimica della atmosfera provocando l’effetto serra e l’inquinamento da polveri sottili inalabili. Quante pandemie dovremmo passare ancora per capire che è necessario restituire ai dinamismi vitali naturali almeno il 50 per cento della superficie terrestre e dei mari, come chiede l’Half-Earth Progject – che è poi uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu? L’alternativa che ci offre il business as usual è: sterminare tutti gli animali selvatici o vivere dentro uno scafandro sterile. C’è una via di uscita alla orrida distopia: trovare un’equilibrata convivenza tra tutte le specie viventi.

L’aumento del debito peserà sui più poveri

Chi paga il prezzo di un ulteriore aumento del debito pubblico italiano? Premesso che gli Stati, diversamente dagli individui, sono astrattamente immortali, un problema di restituzione in sé del debito sovrano non esiste; e quindi questo “peso” viene trasmesso di generazione in generazione senza particolari patemi d’animo.

La vera questione, dunque, è quella della gestione e della sostenibilità di questo fardello.

Se il debito diventasproporzionato, gli investitori cominciano a preoccuparsi che lo Stato non sia in grado di onorare gli impegni presi e, quindi, o smettono di acquistare i suoi titoli, anzi li vendono, oppure pretendono interessi crescenti. È la famosa self-fullfilling-profecy: si comincia a temere che l’Italia faccia default e, a causa dei comportamenti che quel timore determina, il default si materializza davvero.

Insomma, c’è una soglia oltre la quale il debito, da una cosa assolutamente normale, e infatti tutti gli Stati lo hanno, diventa un grosso problema.

Sembra di capire che noi questa soglia l’abbiamo superata da un pezzo e se è vero che le prospettive di crescita del Pil sono agghiaccianti, si comprende agevolmente che stiamo correndo un grosso pericolo.

Ecco, allora, che l’idea di accattonare finanziamenti dalla Ue a me urta parecchio: considero la Ue un parente, o alla peggio un congiunto, dell’Italia e dunque mi aspetterei soluzioni che, pur senza deresponsabilizzarci, allo stesso tempo non ci trasformino in un vero e proprio zombi finanziario. Certo, è vero che gli Stati che in passato hanno fatto ricorso a finanziamenti europei, come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda, dopo una prima fase di lacrime e sangue hanno ripreso fiato. Ma, salvo dimostrare che tali esperienze siano replicabili nel caso Italia, la “ripresa” ha prodotto conseguenze gravissime del loro rispettivo tessuto sociale. In particolare, è aumentata la diseguaglianza: i ricchi sono diventati più ricchi mentre gli altri sono diventati tutti più poveri.

Perché questo? Per tanti motivi, ma il principale è che il debito, quando diventa eccessivo, costringe lo Stato a fare due cose: aumentare le imposte e ridurre i servizi e, guarda caso, entrambe queste cose incidono sulle fasce economicamente più deboli della popolazione.

Quanto all’imposizione, questo è vero in quanto non sono le rendite, in particolare finanziarie, a essere colpite dall’aumento della fiscalità, ma il lavoro. I redditi da lavoro e delle piccole imprese sono gli unici a essere assoggettati alla tassazione progressiva, mentre il resto “gode” di una flat tax di fatto.

Ma è sul versante dei servizi che il fenomeno è più dirompente.

Per capirlo dobbiamo considerare che la “ricchezza” di una persona non si misura solamente dai soldi che ha, ma anche dalla quantità e qualità dei beni e servizi di cui essa ha diritto in quanto cittadino di un certo Stato.

È intuitivo che, a parità di soldi sul conto corrente, uno svedese è più “ricco” di un italiano o di un greco. Ed è altrettanto intuitivo che, a parità di beni e servizi offerti da uno Stato ai propri cittadini, sono quelli più deboli che ne usufruiscono di più: se sono infatti una persona dotata di mezzi economici ingenti, non mi preoccupo se la sanità pubblica è penosa perché posso farmi curare a pagamento, se del caso in Svizzera o negli Usa.

Ecco spiegato come l’aumento eccessivo del debito produca conseguenze negative sulla distribuzione della ricchezza nazionale. Ma quel che è più grave è che l’aumento della diseguaglianza avviene in modo incontrollato e in assenza di un processo democratico che vi sovrintenda. Se gli americani votano un presidente che promette la riduzione della pressione fiscale sui ricchi e della copertura sanitaria dei poveri, direi che se la sono cercata. Ma quando ciò avviene in conseguenza del fatto che la finanza pubblica va fuori controllo perché la nave ha imbarcato troppa acqua, ecco allora che il problema diventa assai più grave e investe la stessa tenuta del sistema di check and balances che ci siamo dati.

Detto questo, io preferirei di gran lunga che la ricchezza nazionale, anziché essere drenata dalle forze incontrollabili del cosiddetto Mercato, fosse gestita in maniera consapevole. L’Italia è, sotto tanti punti di vista, un Paese povero popolato da ricchi. Questo, nel sacrosanto rispetto della Costituzione, deve cambiare: prima di ricorrere al debito eccessivo, e metterci in mano alla speculazione internazionale, dobbiamo far fronte con i mezzi che già abbiamo.