Orgasmi certificati e brani di Pupo: via libera da Conte

Con l’annuncio di Conte sulle linee guida della Fase 2, sono andate deluse le aspettative di chi voleva tornare a scopare all’aperto, fra le tombe al Verano; oppure al chiuso, dentro i loculi vuoti al Famedio, dove l’acustica è imbattibile (mi dicono) (e dev’essere vero, visto che i Rolling Stones ci hanno registrato l’ultimo singolo). Soddisfatti invece gli esibizionisti, che potranno ricominciare ad aprire l’impermeabile davanti alle belle ragazze negli androni, un’attività sociale che mantiene le distanze, grati delle mascherine obbligatorie. “Non è un libera tutti”, ha ammonito Conte. “Non sono consentiti party privati, neppure nei cantieri edili, benché per l’Inail presentino un indice di rischio tra i più bassi”. Per non finire in carcere, ecco l’elenco completo di cosa è permesso nella Fase 2:

– alzarsi a mezzogiorno;

– cantare a squarciagola canzoni di Pupo;

– fare sesso con la propria moglie, se non c’è assembramento;

– riaprire gradualmente la cognata;

– telefonare a Fontana & Gallera e chiedere cosa potete fare per dargli una mano;

– ai figli saputelli che ti sfanculano sempre con “ok, boomer”, proporre questo giochino: prendi un numero intero e positivo; se è pari, dividilo per due; se è dispari, moltiplicalo per tre e aggiungi uno; ripeti la procedura finché non torni a 1. Domanda: si torna sempre a 1? Partendo da qualunque numero? (“Pensi di saperlo? Ok, millie.”)

– andare in camporella, ma da soli, e solo se assolutamente motivati da una situazione di necessità, che dovrà essere autocertificata alle forze dell’ordine durante un controllo eventuale usando l’apposito modulo cartaceo scaricabile in pdf dal sito del ministero della Salute, dove andranno specificati nome, cognome, indirizzo, marca del gel lubrificante e destinazione dell’orgasmo;

– restare in pigiama anche in Galleria;

– urlare a chiunque vi passi troppo vicino (piccioni compresi);

– rispondere alle email di Joel Martin;

– mettere cuoricini e unicorni ai video TikTok di Kendall Jenner e di Jacquemus;

– ricominciare a vantarsi delle dimensioni del proprio cazzo/figa/buco del culo;

– spostarsi all’interno della propria figa, pure con congiunti, ma non più di 15 (a meno che non si aggiungano i Rolling Stones);

– masturbarsi premendo il clitoride contro lo spigolo di una lavatrice in centrifuga (lo fanno tutte);

– infilarsi un’armonica fra le chiappe e fare scoregge musicali (o altri brani trap);

– fare sciarpe con la carta igienica;

– allenarsi a Fortnite, qualunque cosa sia;

– rientrare in Parlamento a sostenere l’esame di maturità;

– funerali, ma solo su Fortnite “Funerale Reale”;

– rilassarsi in una vasca riempita di latte bollente, stare a mollo per un po’, uscire con adosso il poncho della pellicola bianca formatasi in superficie;

– dimagrire come Adele;

– inventare nomi per i prossimi figli di Elon Musk;

– rimpiangere la vecchia Adele;

– lanciare una sottoscrizione su Patreon per quel vostro progetto di un giro del mondo in yacht;

– svegliarsi, uscire dallo scatolone di cartone, vomitare.

Resta vietato il lancio del giavellotto nei parchi: per gli scienziati è ancora troppo rischioso.

Due donne e un fiume di odio tremendo

Soggetto per un film dal titolo: “Due donne”. Una ragazza (che chiameremo Silvia), giunta in Africa per aiutare i bambini più sfortunati e sequestrata da malvagi terroristi islamici, dopo un calvario lungo diciotto mesi, tra sofferenze indicibili e la paura costante di essere uccisa viene liberata e riportata in Italia. Dove può finalmente riabbracciare i familiari, pronta ad assaporare il dolce gusto della libertà. Ma subito viene travolta da una campagna terrificante di odio. Un giornale la paragona a una kapò

che reduce dai lager si ripresenta con la divisa delle SS. Nei talk televisivi le si urla contro di tutto. Il web trabocca di insulti e minacce. In Parlamento c’è chi la definisce “neo terrorista”. Per sfuggire alla gogna si chiude in casa dove però gli odiatori la raggiungono lanciando cocci di vetro contro le finestre. La sua colpa: essersi convertita all’Islam ed essere riapparsa non con i jeans, ma con il velo.

Un giorno, dopo aver letto il titolo: “Torna dai tuoi amici tagliagole” la vediamo ripartire per l’Africa, questa volta per sempre. Ed eccola Silvia che dopo aver attraversato a piedi la giungla e il deserto, stremata dalla sete e dalla fatica si riconsegna ai suoi carcerieri. Ora sa che perfino una raffica di kalashnikov in un lontano villaggio è preferibile ai boia del tuo Paese che ti mangiano il cuore.

Seconda parte: un ministro (che chiameremo Teresa) si commuove durante la conferenza stampa parlando dei braccianti che saranno regolarizzati per sottrarli allo sfruttamento del caporalato. Subito la si accusa di aver promosso una sanatoria di massa degli immigrati che “adesso torneranno a invadere l’Italia”. Memore del trattamento subito dalla sua ex collega Elsa Fornero, anche lei colta dall’emozione e per anni assediata sotto casa dalle brigate Salvini, Teresa decide di ritornare a lavorare nelle campagne da cui proviene.

Il plasma iperimmune

Purtroppo le notizie intorno a Covid-19 non sempre sono chiare, anche nel caso della terapia con plasma iperimmune. Il dottor De Donno, pneumologo poco noto mediaticamente (cura i pazienti!) ma molto nella sua trincea mantovana, in collaborazione con l’infettivologo Casari e altri colleghi di Pavia, ha comunicato di voler condurre una sperimentazione sull’utilizzo di siero iperimmune. Cioè ha proposto di utilizzare il sangue dei malati Covid-19 guariti, in modo da “passare” gli anticorpi dal guarito al malato. Questa terapia non solo è stata già utilizzata durante la pandemia in Cina, ma è una metodologia terapeutica (immunizzazione passiva) impiegata da più di cento anni. Per fare un esempio, è già disponibile per l’epatite B, il botulismo infantile, la rabbia, il tetano, il cytomegalovirus, il vaiolo e il virus varicella-zoster. Con ottimi risultati. È una geniale intuizione applicativa. Ovviamente qualsiasi nuovo utilizzo va sperimentato rigorosamente, ma è ingiustificato scientificamente (tralasciando di ricordare le auspicabili buone maniere tra colleghi) fare dichiarazioni denigratorie contro lo sperimentatore, soprattutto prima di aver visto i risultati definitivi della sperimentazione. L’elegante silenzio di De Donno è stato premiato e oggi non solo i risultati hanno confermato la sua proposta terapeutica, ma c’è una grande mobilitazione a creare banche di sangue dei guariti, dove custodire, dopo adeguati controlli, un vero tesoro. I pazienti che, come evidenzia lo studio, hanno guadagnato la vita (mortalità ridotta dal 16% al 6%), ringraziano. Gli altri tacciano.

La ministra si commuove: molte lacrime per nulla

Teresa Bellanova si riconquista le prime pagine per le lacrime di gioia durante la conferenza stampa del decreto Rilancio. È un pianto antico quello della ministra pugliese che, pensando alla sua storia di bracciante ragazzina, sottolinea con pause commosse l’importanza della sanatoria per i migranti: “Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili. Da oggi possiamo dire che lo Stato è più forte del caporalato”. Del ciglio umido si accorgono Salvini e Meloni, e subito parte la baraonda sui social: prima viene la lacrima italica, poi quella immigrata (vige la prima legge di Carlo M. Cipolla). Se ne accorgono anche i giornalisti che tirano fuori il precedente ministeriale: Elsa Fornero, dicembre 2011. Allora il decreto si chiamava Salva Italia e la ministra piangeva per i pensionati (che poi avrebbero pianto pure loro). Teresa Bellanova però non è un’algida economista, è una sindacalista pasionaria. E piena di dubbi: prima dalemiana (ma alle ultime elezioni si candidò contro D’Alema: persero entrambi); poi bersaniana (ma quando Bersani uscì dal Pd lo apostrofò male: “Come si può mettere in discussione un grande progetto come il Pd per fare un Pci in miniatura?”); enfin renziana (ma, correva l’anno 2012, “l’immagine che ritrae il camper di Renzi che asfalta D’Alema è una vergogna!”).

Resta la primigenia fedeltà al leader di riferimento: Sandro Frisullo, pezzo grosso della filiera post comunista in Salento, finito nei guai e condannato con Gianpi Tarantini (quello delle escort per B). La compagna Teresa fu la prima ad andarlo a trovare in carcere: “Gli credo: provo dolore puro”. Soffre anche per gli italiani. Non forse per quelli licenziati grazie al Jobs act di cui si occupò da sottosegretario al Lavoro: “Si tolgono alibi a chi si è mascherato dietro l’articolo 18 per non assumere”. Una sindacalista di vedute flessibili. Ora ha messo sul tavolo le dimissioni per la sanatoria. Un provvedimento che nasce non da un’idea – ragionevole, umana e giusta – di regolarizzare chi si trova già qui, ma dalla necessità di soddisfare interessi del mercato: “Servono braccia”. Così la Grande distribuzione può continuare ad abbassare i prezzi, schiacciando le aziende agricole e sfruttando gli schiavi. Gli invisibili saranno meno invisibili, per sei mesi e se i padroni faranno i bravi (da loro dipende quasi tutto). Lo Stato è più forte del caporalato, ma a tempo determinato, quello del raccolto. Se quaggiù si lacrima di gioia, lassù un altro bracciante e sindacalista pugliese piange (Peppino Di Vittorio).

Palamara&C. cena a casa Fanfani. Nel menu, Ermini vicepresidente

Quattro versioni per una cena. E che cena. È il 25 settembre 2018. Mancano 48 ore alla nomina di David Ermini a vicepresidente del Csm. Una nomina che non troverà l’appoggio della corrente di Area, ma quello di Magistratura Indipendente e di Unicost. Ed è proprio durante quella cena che viene sancito l’appoggio di MI e Unicost per il candidato laico sostenuto dal Pd. A confermare al Fatto che la sua investitura, a 48 ore dalla nomina, sia stata suggellata a tavola, in quella cena riservata, con 5 o 6 ospiti al massimo, è proprio il vicepresidente del Csm, David Ermini.

Il padrone di casa è Giuseppe Fanfani, laico del Csm ormai uscente, nipote del celebre Amintore, eletto a Palazzo dei Marescialli nel 2014 in quota Pd. A un altro lato del tavolo siede Cosimo Ferri, altro parlamentare del Pd. E soprattutto uomo forte di MI. Accanto a lui, Luca Palamara, leader indiscusso di Unicost e, in quel momento, apparentemente scevro da problemi giudiziari. Apparentemente, perché da qualche settimana la Procura di Roma ha inviato a Perugia un fascicolo che lo riguarda e per il quale, in quel momento, non è stato ancora indagato. Al quartetto si aggiunge infine un altro commensale che appare spesso nell’inchiesta che riguarda Palamara: Luca Lotti. Se quest’ultimo non smentisce la sua presenza, ma preferisce non commentare, è proprio Fanfani a negare l’avvenuto appuntamento: “Lo escludo”. Proviamo a fornirgli dei dettagli. Ovvero il contenuto di alcune chat depositate alla Procura di Perugia ed estratte dal telefono di Palamara e ritenute irrilevanti dalla Procura umbra. Decidiamo di pubblicare perché riguardano personaggi pubblici e fatti di pubblico interesse.

Il 19 settembre, Fanfani scrive a Palamara: “Confermo martedì ore 21 a casa mia cena riservata. Io te Cosimo e David”. Pochi minuti dopo Palamara gli risponde: “Ok un abbraccio”. Una settimana dopo, il 25 settembre, Fanfani ricorda a Palamara il suo indirizzo romano. Anche Ferri conferma di aver partecipato a quella cena – l’unico a non ricordarlo è quindi il solo Fanfani – ma, a differenza di Ermini, esclude che si sia parlato della nomina del vicepresidente del Csm.

Due giorni dopo, Ermini ottiene i voti per il secondo scranno più alto di Palazzo dei marescialli. Fanfani invia a Palamara un’immagine attraverso whatsapp. E il pm romano risponde: “Strepitosi”. Sempre il 27 è invece Palamara a scrivere due messaggi a Ermini: “ Godo!!!!!!!”. E ancora: “Insieme a te!!!!”. In serata Ermini prova a chiamare Palamara su whatsapp ma non ci riesce. Altra cena prevista per il 12 ottobre: “Caro David” scrive Palamara a Ermini “puoi bloccare se non hai altri impegni 22 o 24 ottobre sera volevo organizzare cena ristretta con Cafiero de Raho (procuratore nazionale antimafia, ndr) ? Un abbraccio e quando vuoi caffè”. “Ok” replica Ermini, “per ora sono libero tutte e due le date. Fammi sapere”. I due convengono per il 22 ottobre.

In quelle settimane, a differenza della cena del 25 settembre, che ci fosse un fascicolo su Palamara a Perugia era ormai noto poiché, ad averlo rivelato, era stato proprio un articolo del Fatto Quotidiano pubblicato il 27 settembre, il giorno della nomina di Ermini.

Il 18 ottobre Ermini chiede una mano a Palamara per un suo intervento: “Mi mandi un paio di punti per la traccia dell’intervento di domani?”. “Mi hanno assicurato entro mezz’ora arriva tutto”, conferma Palamara, che in pochi minuti conferma: “Inviata”. “Grazie” risponde Ermini. Navigando in Internet si scopre che il 19 ottobre Ermini partecipa a un seminario di Magistratura Indipendente.

Il 26 ottobre 2018, Palamara si congratula per un’intervista rilasciata da Ermini. “Grande David, ottima intervista, precisa, chiara, puntuale, un abbraccio. Ci vediamo a pranzo martedì con Riccardo”. La notte del 26 ottobre fissano un appuntamento dopo l’incontro (dal tenore del messaggio si presume di Ermini, ndr) con il presidente della Repubblica. “Ciao David ci vediamo dopo Mattarella? Notte un caro saluto”. “Mi aveva detto alle 8.30”. “Non ci eravamo capiti io e Cosimo. Ti crea problemi se facciamo quando finisci tu?” scrive Palamara. “No no per ma va bene. Allora ci vediamo dopo le 12.15. Per me ok”. E Palamara: “Perfetto a domani”. Il giorno dopo commentano un apparizione di Piercamillo Davigo leader della corrente AeI: “Anche stasera Davigo debole…” scrive Palamara. “Va troppo spesso in tv… secondo me così si inflaziona…” risponde Ermini. “Sì, hai ragione si sta bruciando” continua Palamara. “Alla fine non fa più notizia” conclude Ermini.

Il 21 gennaio 2019 altra cena: “Confermato domani sera ore 21 a casa mia ci saranno Cafiero Riccardo e Cosimo un abbraccio” scrive Palamara. “Ok” risponde Ermini. E del futuro procuratore nazionale antimafia Palamara parla anche con l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. È il 26 luglio 2017: “Situazione su Cafiero ancora in evoluzione ma faticosissima spero trovare ultima mediazione a dopo”. “Perfetto. Grazie” risponde Minniti. “Fallito anche ultimo tentativo” scrive Palamara il 27 luglio. E ancora: “Oramai si vota a breve”. “Ok grazie” la risposta. Cafiero non riesce a diventare procuratore di Napoli. Palamara scrive a Minniti i voti: “9 voti cafiero, 14 Melillo, 2 astensioni, Votato ora”. “Perfetto” risponde Minniti “Cerchiamo adesso di salvare il soldato de Raho. Il risultato in qualche modo lo consente”.

E Palamara conferma: “Si il mio intervento in plenum è stato in questo senso”. “Perfetto. Lavoriamoci” conclude Minniti. Il 5 ottobre la commissione incarichi direttivi del Csm propone Cafiero de Raho procuratore nazionale antimafia. Palamara torna a fornire i voti a Minniti: “Votato de raho 5 voti scarpinato 1”. In sostanza, il pg di Palermo Roberto Scarpinato ottiene un solo voto, quello di Piergiorgio Morisini, di Area, mentre Cafiero de Raho ottiene l’incarico. “Eccellente. Grazie” risponde Minniti. Il plenum nomina Cafiero de Raho procuratore nazionale antimafia l’8 novembre. La stima per il nuovo procuratore è ampia: ottiene infatti l’unanimità.

L’altra Silvia, rapita e attaccata: “Anche per le mie sopracciglia”

“Io so cosa succede dopo un rilascio. Avrebbero dovuto proteggerla da tutto questo”. Silvia Melis, stesso nome della cooperante tornata a casa dopo i 18 mesi di prigionia tra Kenya e Somalia, vittima anche lei di un sequestro che durò 9 mesi nel 1997 in Sardegna, conosce il corto circuito feroce in cui dopo la liberazione può finire una donna.

Lo conosce perché all’epoca, qualcosa di molto simile toccò a lei, dopo quella notte in cui fu ritrovata sul ciglio della strada, vicino Nuoro: giudizi sul suo aspetto, sul suo essere donna, la pressione mediatica, il mondo ritrovato che diventa ostile, all’improvviso. “Un sequestro in Italia non è un sequestro all’estero e la Romano è rimasta prigioniera per il doppio del tempo rispetto a me, quindi le nostre vicende non sono paragonabili sotto certi aspetti, ma ci sono dei punti di contatto forti. Il primo è l’esposizione mediatica, che dopo un sequestro è un problema per il sequestrato”.

Cosa accadde nel suo caso?

Il mio fu il primo caso di attenzione con quelle proporzioni. Io dopo la liberazione non mi aspettavo nulla di tutto quello che invece mi attendeva. Non fui capace di gestire nulla, di contenere le reazioni dell’opinione pubblica. Chi ha riportato Silvia a casa però ha un ruolo ed esperienza, doveva proteggerla di più.

In che modo?

Andava evitata l’esposizione mediatica. Io mi ritrovai catapultata in un attimo in una questura con persone che mi dicevano “Ti passo il Tg5, ti passo il presidente della Repubblica”, non capivo niente.

Dici che invece per Silvia c’è stato più tempo.

Nel caso di questa povera ragazza c’è stato un passaggio di ore molto più lungo, un viaggio in aereo, non era necessaria un’esposizione simile.

Forse l’aspetto più grave è che siano uscite le sue dichiarazioni sulla conversione.

Guardi, l’interrogatorio esce sempre. Lo dico per esperienza personale. Io alla fine avevo imposto che per tutelare le indagini fossi sentita solo da alcune persone di cui mi fidavo.

A lei cosa fece più male?

Quello che per Silvia è stato l’abito, per me fu il desiderio di apparire ordinata in pubblico. Volli aggiustarmi, lavarmi, truccarmi nella stanza della questura, visto che ero in una situazione disastrosa, non mi ero lavata per mesi. Lo feci più perché mi sentivo impaurita e insicura all’idea di tutti quelli che mi aspettavano fuori, ma questo mio essere “carina” dopo 9 mesi di sequestro mi attirò critiche ferocissime anche da parte della stampa. Molti dubitarono anche della prigionia.

Scrissero che aveva le sopracciglia troppo curate.

Esatto. Notarono anche quello.

Quanto le stettero addosso i media?

Io non avevo ancora visto mio figlio e continuavano a passarmi giornalisti di ogni tv e giornali. Nel frattempo in questura mi facevano le domande, tra un tè e una telefonata. Un delirio.

Crede che il fatto di essere stata una donna, come nel caso di Silvia, abbia reso il contesto più feroce?

Certo. Ero una donna giovane, spensierata, piena di vita. Volevo tornare alla mia vita, in quei nove mesi di prigionia avevo programmato tutto quello che avrei fatto dopo la liberazione.

E questo è stato un problema?

Sì. Si aspettavano una donna distrutta. E invece no, ero come Silvia Romano che ho visto carina e sorridente. Io che ci sono passata dico che non c’è da stupirsi.

Perché?

Perché dopo quello che hai passato vedi tanta gente che si interessa a te, che si è preoccupata della tua sorte, che ti ha voluto bene, che ha pregato per te e sorridi. Vieni a sapere che ci sono state manifestazioni per te, è la prima luce dopo tanto buio.

Quanto dura questo stato?

Poco. Perché poi torni alla realtà e fai i conti con il resto di cui parlavamo.

Cosa resta dopo le attenzioni morbose e i giudizi?

Una grossa paura nei confronti dei media sicuramente. Io i primi tempi dopo la liberazione mi sono concessa alla tv, ho rilasciato interviste e fatto servizi fotografici, ma poi ho capito che tutto questo non mi stava facendo bene. Dovevo tornare alla mia vita. L’ha addolorata tutto questo odio intorno a Silvia?

Sì. Ho cercato di seguire l’evoluzione della cosa il meno possibile perché per ovvie ragioni tendo a immedesimarmi, ho avuto la mia ora di riflessione in silenzio.

Si poteva fare di più per aiutarla?

Aveva intorno persone capaci, dovevano agire in maniera più riservata e risparmiarle tutto questo.

È normale che non parli male dei sui carcerieri?

Anche io non fui trattata male e non parlai male dei miei carcerieri, ma certo avevo le idee molto chiare: volevo che li arrestassero.

Sulla liberazione della Romano c’è stata inevitabilmente molta strumentalizzazione politica. Accadde anche nel suo caso.

Certo. C’era Grauso che doveva candidarsi alle Regionali e dichiarò anche che il suo obiettivo era la mia liberazione e quella di altri perché voleva vincere le elezioni.

Cosa vuole dire a Silvia Romano?

Di pensare al suo futuro. Di farsi scivolare addosso l’odio, perché tanto si dimenticheranno in fretta di lei come è stato per me. Io mi sono sentita a lungo in colpa per quello che dicevano di me. È bene prendere le distanze dai giudizi fin da subito, tanto arriverà un nuovo caso mediatico di cui occuparsi.

Ma lei si è sentita a lungo in colpa perché si era sistemata i capelli in quel bagno della questura?

Sì, per tutto, ho pensato di essere stata vanitosa, poco riservata, mi immedesimavo nel ruolo dell’eroina. Consiglio a Silvia di evitare l’esposizione di qualsiasi tipo finché non sarà serena davvero. Era arrabbiata con i giornalisti?

I giornalisti sono stati anche quelli che hanno tenuto alta l’attenzione mentre ero prigioniera, non lo dimenticherò mai, ma spesso finiscono per fare indagini e processi paralleli.

Dopo quanto tempo è riuscita a dormire di nuovo?

Io mi ritrovai prima a casa di Grauso, poi lì mi sentivo rinchiusa e ottenni di poter andare a Parigi a EuroDisney con mio figlio. Feci un’ospitata a Esclusivo 5 e finalmente tornai a casa. La mia normalità sa quando l’ho ritrovata?

Quando?

Dopo la mia prima testimonianza al processo. Perché solo in quel momento ho sentito che gli altri finalmente ascoltavano quello che mi era accaduto, senza pregiudizi.

Sulle sopracciglia?

Anche.

La legge su Big Pharma dimenticata da mesi nei cassetti di Speranza

Nei cassetti del ministero della Salute giace da mesi un provvedimento approvato dall’ex ministra Giulia Grillo che potrebbe aiutare a scardinare il sistema, rodato da anni, che permette alle aziende farmaceutiche di imporre ai governi, per i propri prodotti innovativi, prezzi astronomici slegati dalle effettive spese di ricerca e sviluppo. Parliamo di fiale per il trattamento di malattie rare dal costo di 70 mila euro e di cure per il cancro che raggiungono i 100 mila euro l’anno per singolo paziente. Solo che il provvedimento non è stato mai pubblicato in Gazzetta ufficiale, e di conseguenza non è mai entrato in vigore.

Lo ricostruisce una delle inchieste che troverete su FQ MillenniuM, in edicola da domani, dedicato ai conflitti fra salute e profitto ai tempi del Covid-19. Il decreto ministeriale fermo da mesi al ministero retto da Roberto Speranza chiede alle aziende farmaceutiche di fornire all’Aifa, nel momento in cui negozia un farmaco, le informazioni che è normale chiedere prima di un qualunque acquisto importante: quali sono state le spese in ricerca e sviluppo e quali sono i prezzi a cui lo stesso prodotto è venduto in altri Paesi. Il provvedimento per la trasparenza dei negoziati tra Aifa e aziende farmaceutiche è stato sfortunato in quanto la caduta del primo governo Conte – e la successiva sostituzione sia della titolare della Salute che di quello dell’Aifa – lo ha fermato proprio a un passo dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale. E neanche le preoccupazioni per il costo dei futuri farmaci anti Covid-19, sono bastate a sbloccarlo. “È stato chiesto un approfondimento ad Aifa”, ha fatto sapere a MillenniuM il ministero della Salute.

Eppure altrove sono stati approvati provvedimenti ben più incisivi. Israele ha emesso una “licenza obbligatoria” per importare dall’India un farmaco utile nel trattamento delle crisi respiratorie da coronavirus. La Germania ha cambiato la propria legislazione sui brevetti a marzo per poterla utilizzare in caso di necessità. Un appello di Medici Senza Frontiere affinché anche il governo italiano si renda disponibile a utilizzare le licenze obbligatorie è rimasto senza risposta da parte dell’esecutivo. Un piccolo segnale è stato dato solo dalla Camera dei deputati, che mercoledì ha approvato un ordine del giorno dell’ex ministra Grillo che riprende l’appello di Msf nell’invitare il governo a intervenire per il controllo dei prezzi di farmaci e vaccini. L’utilizzo di strumenti per mantenere accessibile il prezzo dei farmaci anti-Covid19 è in queste ore oggetto di serrate trattative a livello globale.

Come quella per la risoluzione che i Paesi membri dell’Unione europea presenteranno all’assemblea generale dell’Oms che si aprirà lunedì, per la prima volta in forma virtuale. L’ultima bozza pubblicata prevede l’impegno a favorire “l’unione volontaria per i brevetti”. “È un meccanismo di negoziazione collettiva delle licenze al fine di garantire prezzi accessibili e aumentare la capacità di produzione – spiega Sara Albiani di Oxfam Italia – se fosse reso obbligatorio su scala globale, potrebbe garantire l’accesso a vaccini, terapie e test Covid-19 anche ai Paesi più poveri”.

Dai documenti trapelati, risulta però che l’Amministrazione Trump stia lavorando per eliminare dalla risoluzione qualsiasi riferimento a questo strumento e alle licenze obbligatorie.

“Sicurezza per il virus, maturità a distanza senza norme chiare”

Che le osservazioni non sarebbero state “pacifiche” era già atteso anche se sono state molto meno terribili di quanto sembrava ieri a leggere i titoli sui siti: il Consiglio Superiore dell’istruzione, organo tecnico-scientifico di supporto al ministero, ha analizzato le ordinanze inviate nei giorni scorsi sugli esami finali e le valutazioni conclusive dell’anno scolastico per esprimere il proprio parere che è obbligatorio ma non vincolante. “Il Cspi, raccogliendo la forte preoccupazione del mondo della scuola per la situazione sanitaria di emergenza in cui versa il Paese e – si legge in relazione all’esame di maturità – ritiene indispensabile l’emanazione urgente di un protocollo di sicurezza nazionale stringente, dettagliato e prescrittivo a garanzia della salute di tutto il personale coinvolto nell’esame di Stato e degli alunni. In assenza di tale protocollo o nell’impossibilità di poterne applicare le prescrizioni ritiene indispensabile prevedere con immediatezza la realizzazione a distanza di tutte le operazioni d’esame”. Si chiede poi una semplificazione delle prove d’esame, sottolinea “la scansione eccessivamente rigida del colloquio” (in un’ora), mette in dubbio la necessità di un elaborato scritto sulle discipline di indirizzo nel momento in cui le prove scritte sono state sostituite dal colloquio e l’esistenza di una griglia di valutazione che lascerebbe poca autonomia ai docenti.

Osservazioni che in parte sono fuori tempo: “Il protocollo di sicurezza per gli esami di Stato del secondo ciclo è praticamente pronto e sarà reso noto a breve” spiegano fonti del ministero dell’Istruzione, forse anche oggi. È stato elaborato con il Comitato tecnico-scientifico del ministero della Salute, lo stesso che aveva dato parere positivo agli esami in presenza. Un pacchetto di misure che “tengono conto anche delle sollecitazioni arrivate dai sindacati incontrati nei giorni scorsi” dicono sempre dal ministero. Il protocollo si baserà sostanzialmente sulla pulizia al termine di ogni sessione, ingressi e uscite scaglionati, distanziamento, uso della mascherina e la possibilità per gli studenti di essere accompagnati da una sola persona.

Il Consiglio osserva, poi, che agli alunni della primaria si potrebbe evitare la valutazione in decimi e sostituirla con un giudizio visto che per loro “l’interazione in presenza con i docenti costituisce un elemento determinante nei processi di apprendimento, in misura maggiore rispetto agli altri gradi di scuola”. Su questo non c’è al momento riscontro dal ministero, ma spiegazioni o novità potrebbero arrivare in queste ore.

“Sono guarito, torno al lavoro: mi batterò ancora di più per questa sanità pubblica”

“Ho affrontato il virus da medico e da paziente. Tornato al lavoro, mi batterò affinché la sanità sia sempre pubblica”. Fabio Biferali, noto cardiologo romano, è fra i medici che hanno contratto il Sars-Cov-2 sul posto di lavoro ai primi di marzo. “Ho affrontato la solitudine, ho vissuto l’ansia della malattia senza sapere cosa aspettava. Poi ho vinto. E ho capito, ancora una volta, quanto sia importante la sanità pubblica e quanti danni abbia fatto il depotenziamento finanziario di questo settore”.

Biferali, la sua è stata un’autodiagnosi, vero?

Sì, ho iniziato a soffrire dei primi sintomi la seconda settimana di marzo. Appena ho capito che qualcosa non andava, mi sono recato al Policlinico Umberto I. Lì mi hanno fatto il test e mi hanno ricoverato. Sono stato fortunato, perché l’ho presa in tempo.

Il suo essere medico l’ha agevolata nell’ottenere il ricovero?

Le mie competenze sono state decisive. Se fossi stato una persona ‘normale’, avrei chiamato il medico di famiglia che mi avrebbe detto di stare a casa e prendere la tachipirina. Nessuno mi avrebbe fatto il tampone.

Le cure sono state dolorose?

Avevo paura di morire. Per fortuna dopo 7 giorni mi hanno dimesso, dopo un’ ampia terapia che prevedeva un cocktail di farmaci non senza effetti collaterali. C’erano antibiotici, antivirali, farmaci per l’Ebola, per l’Hiv”.

Lei ha ribadito in un’intervista a France Press l’importanza della sanità pubblica.

La pandemia ha rilevato criticità dovute al definanziamento delle strutture pubbliche a favore di quelle private. Non si può fare profitto sulla salute. Quei soldi avrebbero potuto consolidare le strutture pubbliche.

È un punto di vista ideologico il suo?

È un ragionamento pratico. Le strutture private accreditate ottengono i rimborsi dalle Regioni in base ai drg (diagnosis-related group). Ogni patologia, ogni intervento, ha il suo rimborso. Va da sé che si tenda a incrementare i reparti con drg più remunerativi. Per questo in tante regioni, in primis la Lombardia, i posti di terapia intensiva nelle strutture private, che avrebbero potuto supportare l’emergenza Covid, sono risultati insufficienti.

Isolamento e povertà, così sono già triplicati i numeri dei suicidi

Antonio Nogara, piccolo imprenditore di 58 anni alla guida di un’ attività di arredi con sei dipendenti alla periferia di Napoli, si è impiccato nella sua azienda, ai primi di maggio. Daniela Trezzi, infermiera, 34 anni, lavorava nel reparto di terapia intensiva del San Gerardo di Monza, si è tolta la vita alla fine di aprile, dopo aver scoperto di essere positiva. A Roma, un uomo di 40 anni si è lanciato dalla sua abitazione. Era assistito per problemi psichiatrici, il dubbio è che negli ultimi tempi le cure fossero state sospese. Sono solo alcune delle storie di queste ultime settimane.

L’emergenza economica, dopo quella sanitaria, è al centro dell’attenzione della politica. Italiana e mondiale. Ma ce ne sono altre, più nascoste, destinate ad aumentare: l’emergenza sociale e quella psicologica. Ieri l’Oms ha lanciato l’allarme, per l’ennesima volta: “L’impatto della pandemia sulla salute mentale è estremamente preoccupante”, ha affermato Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale. “L’isolamento sociale, la paura del contagio e la perdita di familiari sono aggravati dall’angoscia causata dalla perdita di reddito e spesso dall’occupazione”, sottolinea.

Negli Stati Uniti uno studio, redatto dal Well Being Trust e dai ricercatori dell’American Academy of Family Physicians, stima per il prossimo decennio ben 75mila vittime legate alla crisi del coronavirus, classificate come “morti per disperazione”. E sono di un paio di giorni fa i dati italiani resi noti da una ricerca della Link Campus: dall’inizio dell’anno sono già 42 i suicidi, di cui 25 quelli registrati durante le settimane del lockdown forzato; 16 nel solo mese di aprile. Questa “impennata” risulta ancor più preoccupante se confrontiamo il dato 2020 con quello di marzo aprile 2019: il numero delle vittime si attestava infatti a 14.

Inoltre per l’Osservatorio c’è anche un’allerta tentati suicidi: 36 da inizio anno, 21 nelle sole settimane di lockdown.

Spiega Maurizio Pompili, responsabile del Servizio per la prevenzione del suicidio dell’ospedale Sant’Andrea di Roma: “Il timore è che ci possa essere un’impennata di suicidi come successe per la crisi economica del 2008, quando in Italia l’aumento fu del 12% dai 25 ai 69, ovvero i soggetti che stanno sul mercato del lavoro”. E ricorda come nella Sars1 del 2003 ci fu un aumento dei suicidi tra anziani fragili. E poi spiega quali sono le categorie a rischio: “Primo, il personale medico e infermieristico, che ha paura di essersi contagiato o di aver contagiato altri. E vive una sorta di burn out. Secondo, la popolazione normale che teme di aver contagiato la famiglia; terzo, coloro che sono stati toccati dalla crisi economica”. Tra le cause, secondo Pompili, la mancanza di riti religiosi e l’assenza di connessione sociale. Ma anche malattie fisiche che non sono state curate. E l’impatto delle notizie. La prevenzione è possibile? “Sì: ma si deve riuscire ad aumentare l’ascolto, investendo sui presidi”.

Perché poi il lockdown e l’isolamento sociale hanno portato una conseguenza immediata sui Servizi di sanità mentale, che, nella migliore delle ipotesi, hanno lavorato in maniera ridotta: ovvero offrendo psicoterapie online (che non sono però la stessa cosa rispetto a quelle in presenza) e aumentando la somministrazione di farmaci per tamponare le emergenze. Non a caso una circolare del ministero della Salute del 23 aprile stabiliva delle linee guida per garantire l’assistenza psicologica.

Partendo da una premessa: “Le persone con disturbi psichiatrici sono, generalmente, più suscettibili alle infezioni per diversi motivi e nel caso del Covid 19 potrebbero essere più a rischio di contrarre forme gravi”. Per ora, altri interventi strutturali non si vedono. Come scrive Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di salute mentale e dipendenze patologiche a Modena e presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica, membro della task force di Colao: “Occorre consolidare la rete dei servizi. Solo servizi presenti capillarmente nella comunità, aperti tutto il giorno per 7 giorni la settimana, saranno in grado di cogliere i segnali d’allarme”.

Un’altra sfida. Tutta ancora da iniziare.