Il virus resta quello di Codogno. Non esistono altri ceppi in Italia

Ormai ci sono ben pochi dubbi: SarsCov2 è entrato una sola volta in Italia e da quel primo ingresso è poi dilagato portando la devastazione sanitaria in buona parte del Paese e provocando la morte di 31.368 persone in meno di tre mesi. Un dato inedito, seppur non ancora definitivo, individuato dall’équipe di ricercatori guidata dal professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano che a oggi ha analizzato oltre 50 sequenze complete del virus. Tutte riconducono ai primi tre ceppi isolati nei pazienti di Codogno. Si tratta di una fotografia che spiega, a partire proprio da una singola introduzione, quanto sia contagioso SarsCov2 e come in questi mesi di epidemia non abbia in alcun modo perso la sua forza virale, ridotta solamente dalle misure di contenimento e di distanziamento sociale imposte da Stato e Regioni. Per capire quanto furiosa sia stata la corsa del virus basta rileggere l’evoluzione dei contagi in Lombardia nei primi diciassette giorni dal 20 febbraio, data in cui si scopre il paziente 1, all’8 marzo, quando l’intera regione diventa zona rossa. In questo intervallo temporale i contagi arrivano a 4.189. Alla data dell’8 marzo in tutta Italia i casi sono circa 7.000. Non solo. In Lombardia le percentuali di crescita vanno dal 3.200% dei primi giorni al 60% del primo marzo e al 31% dell’8 marzo. La tabella contenuta nei dati riservati della Regione mostra in presa diretta come SarsCov2 abbia corso con un R con zero mai sotto il 2,5.

Un tale quadro è riconducibile al fatto scientificamente provato che la prima e unica porta d’entrata sia stata proprio la zona del Basso Lodigiano. Il precedente ingresso rappresentato dai due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani di Roma il 29 gennaio viene escluso da questa mappa: non hanno prodotto contagi di seconda generazione in Italia. Torniamo allora a Codogno e alle sequenze analizzate dall’equipe del professor Galli e non solo. A oggi, abbiamo detto, quelle complete sono oltre 50. I ceppi in lista provengono da buona parte delle regioni italiane e non solo dalla Lombardia. E tutti mostrano essere figli e figliastri dei primi isolati nel Basso Lodigiano. Il che smentisce nei fatti le tante ipotesi circolate in queste settimane di un virus presente nel Nord Italia già nei primi giorni di gennaio. Ogni sequenza di Rna virale è stata ripercorsa segnando passo dopo passo gli errori di replicazione di SarsCov2. Un viaggio a ritroso che termina attorno al 26 di gennaio, data in cui si nota il primo errore di replicazione. Questa è la giornata fatale in cui il virus arriva in Italia e lo fa, come spiega un primo studio del professor Galli, non dalla Cina ma dalla Germania. In Baviera, infatti, attorno al 22 gennaio vengono individuati i primi casi Covid. Centro di quel piccolo focolaio, subito bloccato, è la Webasto, società tedesca di Stockford. A far da volano è una donna di Shanghai che partecipa a un meeting in Germania. Di rientro in Cina risulterà positiva al Covid. Quel virus “tedesco” arriva a Codogno attorno al 26 gennaio e rientra in un cluster (gruppo) di altri virus in tutto simili per quanto riguarda le sequenze ribonucleiche. Tra questi alcuni ceppi finlandesi e dell’America latina. Quel primo ingresso viene così confermato oggi dall’analisi su altri 50 ceppi, in particolare su quelli isolati nella provincia di Bergamo. Il dubbio era che tra i comuni di Nembro e Alzano, dove i primi casi vengono individuati il 22 febbraio, ci fosse un ceppo differente e più anziano. In realtà anche questi, secondo gli studi del professor Galli, riportano al cluster bavarese, così come anche quelli isolati nel comune veneto di Vo’ Euganeo. Qui, secondo lo studio epidemiologico del professor Andrea Crisanti, alla data del 20 febbraio già il 3% della popolazione era positivo. Indice di come il virus abbia viaggiato sotto traccia per circa un mese trasportato da diversi vettori commerciali, su tutti le fiere del fieno e degli animali.

E che la data del 26 gennaio sia quella più probabile viene dimostrato dai ricoveri. Il paziente 1 mostra i primi sintomi il 9 febbraio quando fa un primo accesso al pronto soccorso di Codogno per poi ritornarvi il 19 febbraio. Data più o meno coincidente per i due anziani ricoverati all’ospedale di Alzano. Non solo. A partire dal 20 febbraio in meno di 72 ore casi Covid emergono in tutta la Lombardia e in buona parte del Nord Italia, mostrando una coincidenza di incubazione di 14 giorni che riporta all’ingresso del 26 gennaio. Se, fa notare il professor Galli, ci fosse stato un’entrata precedente il collasso sanitario si sarebbe dovuto registrare prima. Cosa che non è avvenuta. Di più: le ipotesi di un ingresso agli inizi di gennaio, formulate in uno studio dell’Ats lombarda, si basano su sintomi simil-Covid raccolti in decine di interviste e senza base scientifica. La storia potrebbe cambiare solamente se test sierologici su sangue raccolto tra gennaio e dicembre indicassero la presenza di anticorpi. Dato su cui si sta lavorando, ma che al momento non è stato ancora individuato.

Calabria, 1500 tamponi dimenticati

Per alcuni giorni, dal 4 maggio in poi, la Regione Calabria aveva dispiegato unità mobili – tra stazioni ferroviarie, aeroporto di Lamezia, autostrada A2 – per eseguire tamponi su migliaia di calabresi provenienti dal Nord che rientravano nelle loro case. Peccato che poi quei campioni siano rimasti nei frigoriferi, senza essere processati, dislocati tra l’ospedale “Pugliese Ciaccio” di Catanzaro, l’azienda sanitaria di Reggio Calabria e quella di Cosenza. Almeno 1.500. E tra questi anche quelli scoperti nei giorni scorsi nel Cosentino, da un operatore sanitario, in un magazzino dotato di frigoriferi nella centrale operativa del 118, a circa quindici chilometri dall’ospedale cittadino.

La Regione, tramite il direttore del dipartimento della Salute Antonio Belcastro, promette: “Entro domani saranno processati tutti”. Ma intanto il caos è scoppiato. È arrivata l’interrogazione di un gruppo di 12 parlamentari M5S, guidati dal deputato calabrese Francesco Sapia, membro della commissione Affari sociali e sanità: hanno chiesto al ministro della Salute Roberto Speranza di inviare gli ispettori. Ed è iniziata anche la corsa ai ripari da parte della Regione. Corsa che però ha richiesto la sospensione delle attività di screening rivolte agli anziani nelle Rsa, ai famigliari dei positivi al virus, al personale sanitario. Fatte salve le urgenze, ha disposto Belcastro il 12 maggio, la priorità deve essere data ai tamponi effettuati ai cittadini che sono rientrati da altre regioni.

Ma per quanti giorni esattamente i campioni sono stati dimenticati nei frigoriferi? E in quali condizioni? La Regione ha sempre precisato che tutti i tamponi sono custoditi sulla base della circolare del ministero della Salute del 22 gennaio scorso, che prevede la conservazione fino a cinque giorni a una temperatura di 4 gradi centigradi. Precisazione che però sorvola sulle prescrizioni dell’Istituto superiore della sanità. L’ultimo aggiornamento dell’Iss, datato 17 aprile, stabilisce infatti che i tamponi debbano essere inviati immediatamente in laboratorio o, in alternativa, conservati a una temperatura di 4 gradi centigradi: fino a un massimo di 48 ore, però, soglia oltre la quale deve scattare il congelamento a 80 gradi sotto zero.

Ma come si è arrivati a questo punto? La questione è già al vaglio delle cinque procure calabresi, dove Sapia ha presentato un esposto. Che la situazione sia critica lo dimostra la nota con la quale mercoledì scorso l’azienda sanitaria di Cosenza, nel comunicare la sospensione dello screening, ha rilevato che “gli sforzi organizzativi finora condotti” non hanno comunque reso possibile rispettare il programma settimanale. “Da ultimo – si legge nella comunicazione – si rappresenta che tali difficoltà sono state per tempo e a più riprese notiziate al direttore del dipartimento Salute, alla presidente della Regione e alla task force regionale”.

Per i primi mille tamponi eseguiti sui calabresi rientrati, la soluzione è stata individuata inviandoli all’Istituto zooprofilattico di Portici, in Campania. Dopo si è creato l’ingorgo. E ad oggi i cinque laboratori calabresi effettivamente operativi riescono a processare una media di poco più di 1200 tamponi al giorno.

Lombardia: è notte fonda. E risale il conto dei morti

Novecentoventidue nuovi casi, di cui oltre la metà nella sola Lombardia. A dieci giorni dalla fine del lockdown e a quattro dalla riapertura su scala nazionale degli esercizi commerciali che prevedono una forte presenza contemporanea di clienti (tra cui bar e ristoranti, parrucchieri ed estetisti), la regione più flagellata dal Covid-19 continua a trainare l’aumento dei contagi e dei decessi nel Paese. I dati, fotografa la situazione Luca Richeldi, primario di Pneumologia del Gemelli di Roma e componente del Comitato tecnico-scientifico, “ci dicono che la Lombardia è ancora l’epicentro dell’epidemia”.

I 922 nuovi casi registrati in Italia nelle ultime 24 ore di cui ha dato notizia ieri la Protezione civile (un incremento giornaliero dello 0,45% a fronte di una media che dal 4 maggio è stata dello 0.52%) portano il totale a quota 223.096, dato che comprende i decessi, le persone attualmente positive e quelle dimesse dagli ospedali o considerate guarite. Il trend della prima categoria, quella delle vittime, torna a salire: le 262 di ieri portano il totale a 31.368, con un dato giornaliero che torna a superare quota 200 per la prima volta dal 9 maggio. Calano, invece, i malati (-2.017, 76.440 in tutto) mentre il numero di dimessi e guariti sale a 115.288: + 2.747.

La buona notizia di giornata è il rapporto tra i nuovi casi e i 71.876 tamponi effettuati (2° miglior risultato dopo i 74mila del 1° maggio): “È il più basso dall’inizio dell’emergenza – continua Richeldi – siamo all’1,4%, ovvero ogni 70 tamponi solo uno è positivo. Questo ci dice che la nostra capacità di fare tamponi sale, e sarà sempre più importante, e dall’altra parte ci dice che cerchiamo più casi e ne troviamo di meno. Purtroppo – prosegue il primario – il 50% dei test positivi viene dalla Lombardia e questo indica che lì la circolazione del virus è ancora intensa ed è chiaro che in quell’area ci vorrà più tempo”.

I dati comunicati ieri dall’assessorato al Welfare confermano che la curva scende molto più lentamente che altrove: i nuovi contagi sono 522, oltre la metà (il 52,6%) di quelli registrati in tutto il Paese. Un dato in rialzo rispetto ai 394 di mercoledì. Nella regione martire che ha contato finora 83.820 casi certificati (ma che è stata anche tra quelle che, tra annunci e ripensamenti, con più forza hanno chiesto l’allentamento delle misure) tornano a salire anche i decessi: 111 (contro i 69 di mercoledì e i 62 di martedì) per un totale di 15.296, la metà del dato nazionale. Dà, invece, segni di rallentamento lo svuotamento degli ospedali: diminuiscono sulle 24 ore i guariti (653 contro 1.113) e i posti liberati in rianimazione: 10, quando mercoledì erano state 15 e martedì 19. Un contesto che rimane problematico, quindi, in cui Milano resta osservata speciale: l’area metropolitana fa registrare 169 nuovi casi, per un totale di 21.900, mentre in città salgono a 9.251 con i 69 di ieri.

Gli esperti lo ripetono da settimane: atteso che il periodo di incubazione della malattia può arrivare a 14 giorni, per avere un’idea degli effetti dell’allentamento delle misure di distanziamento iniziato il 4 maggio bisognerà osservare i dati che cominceranno ad arrivare dal 18. Giorno in cui è prevista la nuova ondata di riaperture e sarà possibile tornare al bar per prendere un caffè, tagliarsi i capelli, andare a cena fuori. Il pallino ora passa in mano ai governatori, che saranno “responsabili” delle riaperture e del monitoraggio basato sui 21 indicatori individuati dalla cabina di regia Iss – ministero della Salute. Così la prudenza resta la stella polare: “Come si è visto in altri Paesi la ripartenza regionalizzata è un problema – continua Richeldi –. Da noi questo è acuito dal fatto che una regione da sola ha il 50% dei casi”. Altro grattacapo: “Dobbiamo riflettere e usare cautela per la aprire la mobilità tra le regioni – chiosa –. Non dobbiamo avere fretta: anticipare di un paio di settimane potrebbe mettere a rischio una riapertura più sicura a ridosso dell’estate. L’attenzione va mantenuta alta”.

Il capitolo imprese lievitato a 20 miliardi

Per tradizione, da Confindustria non si mostra mai soddisfazione. “Stiamo ancora studiando le norme…”, fingono dall’entourage del neo presidente Carlo Bonomi. Il silenzio però è già indicativo. Viale dell’Astronomia non conta più nulla eppure il governo ha deciso di concedere tutto il possibile agli industriali dopo gli strali dei giorni scorsi. “Non possiamo non fidarci delle aziende”, ha spiegato ieri il ministro dello Sviluppo, Stefano Patuanelli, vero artefice della trattativa insieme al collega del Tesoro, Roberto Gualtieri.

Il capitolo aiuti alle imprese nel decreto “Rilancio” valeva fino alla scorsa settimana 10 miliardi in termini di maggior disavanzo. In sette giorni è lievitato a 15-16 miliardi. Ci sono poi una miriade di norme minori che incubano altri 2 miliardi per la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro. Sommando tutto si arriva più o meno allo stanziamento per gli ammortizzatori sociali e i sussidi d’emergenza (20 miliardi e dispari). E questo al netto dei 12 miliardi destinati a sbloccare i pagamenti della Pubblica amministrazione.

La parte rilevante la fa il taglio dell’Irap, l’imposta per le attività produttive. Confindustria chiedeva di eliminarla (vale 12 miliardi). In pochi giorni è arrivata la concessione: via saldo 2019 e acconto 2020. Il premier Giuseppe Conte voleva vincolarlo almeno alle aziende che hanno davvero sofferto la crisi del Covid. Niente da fare: il beneficio sarà per tutti ed è passato così da due a quattro miliardi, per un totale di 1,8 milioni di aziende con ricavi fino a 250 milioni.

Il resto degli aiuti è sparso in diversi interventi. Per le aziende sotto i 5 milioni di fatturato, ci sono 6 miliardi a fondo perduto da erogare in proporzione alla perdita di ricavi tra aprile 2020 e 2019 (dev’essere di almeno un terzo): 20% fino a 400 mila euro di fatturato, 15% tra 400 mila e un milione e 10% oltre. Per intenderci, un’impresa che nel 2019 ha fatturato 350 mila euro e ad aprile ha visto calare di 27 mila euro il suo fatturato, prenderà 5.400 euro a fondo perduto (il 20% di 27 mila euro). La domanda va presentata all’Agenzia delle entrate. Per le imprese si andrà da un minimo di duemila a un massimo di 41.600 euro, per le persone fisiche il minimo è 2.200 euro.

Per le aziende tra 5 e 50 milioni di fatturato il meccanismo è assai cervellotico e infatti nessuno nei ministeri sa spiegare davvero quanto vale. Un mix tra credito d’imposta del 20% per gli aumenti di capitale per chi ha perso un terzo del fatturato e la possibilità – per le aziende sopra i 10 milioni di ricavi e fino a 250 dipendenti – che Invitalia sottoscriva obbligazioni fino a un ammontare massimo pari al 12,5% dei ricavi (cioè fino a 6 milioni di euro). Non si potranno distribuire dividendi, ma non sarà necessario “mantenere i livelli occupazionali”, insomma si potrà licenziare (chi non lo fa, però, avrà uno sconto sugli interessi da pagare sulle obbligazioni).

Per le grandi aziende entrerà in campo la Cassa Depositi e Prestiti con un fondo garantito dallo Stato che potrà acquistare obbligazioni convertibili o entrare nel capitale.

Il comparto non si esaurisce qui. Ci sono, come detto, 2 miliardi per la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro (crediti d’imposta e contributi per acquisto delle mascherine, per le sanificazioni etc.). A questo si aggiungono gli aiuti che le Regioni sono autorizzate a erogare, tra garanzia sulla liquidità, calmierazione dei tassi sui prestiti, fondo perduto etc. fino a 800mila euro a impresa. Gli enti locali, per dire, potranno pagare fino all’80% del salario lordo dei dipendenti di aziende in crisi per evitare licenziamenti.

Menzione a parte merita il capitolo “editoria”, tra taglio brutale dell’Iva forfettaria sulle copie vendute, credito d’imposta sulla pubblicità e sugli acquisiti digitali, gli aiuti al settore sommano a qualche centinaio di milioni.

Dopo giorni di lamenti, Confindustria tace. Chissà se si addolciranno anche gli editori, che finora ne hanno fatto da grancassa.

La norma scontenta tutti, anche i padroni per cui è stata scritta

Lo scetticismo con cui è stata accolta la sanatoria dei lavoratori stranieri nel decreto Rilancio è un segnale eloquente: la norma è costruita a uso e consumo delle imprese, gli immigrati restano la parte debole, inclusi coloro che riusciranno a rientrare negli stringenti requisiti per avere un permesso di ricerca lavoro. Il fenomeno del caporalato, insomma, non si esaurisce con le lacrime della ministra Teresa Bellanova. Alla sua commozione fa da contraltare il commento prudente del ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, che ha ammesso di non poter certo esultare. Il meccanismo prevede tre vie e in tutti e tre i casi è decisivo il comportamento delle aziende.

Prima ipotesi. L’impresa ammette di avere lavoratori in nero e chiede di metterlo in regola. Deve pagare 400 euro a lavoratore più un contributo che sarà quantificato in un decreto ministeriale. A quel punto il migrante irregolare avrà un permesso di lavoro, l’imprenditore eviterà procedimenti penali e amministrativi. Secondo il ministero dell’Agricoltura, nel settore potrebbero emergere 150 mila braccianti, 200 mila per la Flai Cgil. Numeri ipotetici e platee potenziali: anche in questo caso saranno le imprese confermare o confutare le stime (ammesso che il “tariffario” proposto per togliersi dai guai le convinca). A quel punto, bisognerà applicare il giusto contratto collettivo.

Seconda ipotesi. È possibile assumere un extracomunitario irregolare presente in Italia che sia stato foto-segnalato prima dell’8 marzo. In questo caso, però, non si tratta di un dipendente in nero, ma di una persona che l’azienda arruola per la prima volta. Potrebbero beneficiarne circa 560 mila persone, in base ovviamente alle scelte delle aziende. Il rischio è che, in assenza di una vigilanza stringente (e sempre più indebolita), nasca un mercato nero delle regolarizzazioni, con migranti costretti ad accollarsi le spese della procedura (vietato dalla legge).

La terza ipotesi.È quella che più di tutte esalta la ministra Bellanova: il migrante può essere regolarizzato su propria iniziativa, senza che ci sia un datore pronto a prenderlo, ma con il solo scopo di cercare un lavoro. I criteri, però, sono in questo caso molto selettivi ed escluderanno tantissime persone. Sarà ammesso solo chi abbia lavorato in agricoltura o nell’assistenza familiare o nella collaborazione domestica prima del 31 ottobre 2019. Tradotto: strada sbarrata a chi ha operato nell’edilizia e nella logistica, settori che occupano molti stranieri. Una volta “attivati” con il permesso temporaneo, dovranno trovare occupazione negli stessi settori di provenienza per avere un permesso per lavoro. Il cortocircuito è che, in questo modo, emergeranno solo lavoratori che abbiano già fatto esperienza e saranno privilegiati i comparti che segnalano carenza di manodopera. Si stima che la platea sia di 180 mila persone. Il sindacalista Aboubakar Soumahoro, ieri ha annunciato un fermo della raccolta della frutta: “Noi braccianti, delusi dalle misure del decreto, non raccoglieremo la frutta e la verdura il #21maggio 2020 – ha scritto su Twitter- : sarà sciopero degli invisibili. Non vanno regolarizzate le braccia, ma gli esseri umani”.

In tutti i casi,chi troverà lavoro, potrà andare nei centri per l’impiego e ricevere un nuovo permesso per ricerca quando dovesse perderlo. Il problema sarà per chi, dopo essersi auto-segnalato per la ricerca di lavoro di sei mesi, non avrà trovato un impiego: tornerà irregolare e nel frattempo avrà fornito informazioni su di sé allo Stato. Il destino è nelle mani dei datori, specialmente agricoli. Che non sembrano aver fretta di cogliere quella che viene presentata come una grande opportunità. Il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, ha parlato di “semplice manovra politica” ed è convinto che la burocrazia renderà disponibili questi lavoratori non prima di fine settembre. Per il presidente Cia, Dino Scanavino, “non è il provvedimento che aspettavamo, è molto depotenziato rispetto all’impianto originale”. Di base, l’obiettivo resta la semplificazione dei contratti e il reperimento di “strumenti di flessibilità consentano di far fronte alle esigenze di manodopera”.

“Anticipo Cig in 15 giorni, ma ripensiamo il welfare”

Pasquale Tridico è l’uomo più oberato d’Italia perché il grosso delle misure economiche sono a carico dell’Inps. Qui spiega nel dettaglio alcune misure e apre una discussione sul welfare del futuro: “Il bonus da 600 euro è stata una vera innovazione”.

Riuscirete ad assolvere il carico enorme che vi è stato affidato?

Quasi la metà delle misure passa per l’Istituto, circa 25 miliardi su 55. È un’enorme responsabilità, che c’impegna a dare il massimo. Ma questo sottolinea anche una certa evoluzione delle prestazioni affidate all’Istituto. Perciò non mi stanco di ripetere che bisogna che non s’interrompano, anzi s’incrementino gli investimenti.

Come funzionerà l’anticipo della Cig in deroga?

Le domande di Cassa integrazione in deroga per periodi successivi alle prime nove settimane già riconosciuti dalle Regioni non saranno più presentate alle Regioni, ma direttamente all’Inps. I datori di lavoro che richiedono il pagamento diretto da parte dell’Istituto fanno domanda entro 15 giorni dall’inizio del periodo di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. Se l’Inps autorizza la domanda paga direttamente, entro 15 giorni, un’anticipazione sulla cassa integrazione pari al 40% delle ore autorizzate nell’intero periodo. Successivamente, il datore di lavoro trasmette i dati completi e l’Inps paga il rimanente, oppure recupera quanto corrisposto in più. L’anticipazione è la vera importante novità per i lavoratori. Questa semplificazione, sia della deroga sia dell’anticipo, si avvierà decorsi 30 giorni dall’entrata in vigore del dl Rilancio.

Perché questo tempo?

L’istituto dovrà mettere in piedi una procedura completamente nuova.

Chi è in attesa da due mesi che farà?

Ormai il lavoro combinato fra Regioni e Inps ha portato ad autorizzare la gran parte delle domande, siamo al 71% per la deroga, e all’87% per la cassa ordinaria, quindi le vecchie domande saranno evase nelle prossime settimane.

Ma perché i ritardi avuti finora?

Le domande di cassa integrazione sono solo prenotazioni di risorse e non effettive domande di fruizione. Si tradurranno in effettive domande solo con invio di un apposito modello, dopo l’autorizzazione da parte dell’Inps, da parte delle aziende nel mese successivo. Le aziende avevano tempo fino a 6 mesi per mandare questo modello, adesso si è anticipato al 20° giorno successivo a quello di sospensione. A oggi, su 921 mila domande, l’Inps ha ricevuto 415 mila domande effettive di aziende e sono stati già pagati circa 779 mila lavoratori.

Chi sono i destinatari del Reddito di emergenza?

Tutti i residenti in Italia con Isee inferiore a 15.000 euro e limiti di patrimonio più generosi di quelli del Reddito di cittadinanza (10.000 euro per una famiglia con una sola persona, incrementati fino a 20.000 euro per famiglie con più componenti e incrementati di 5.000 euro se ci sono soggetti disabili o non autosufficienti). Il valore del reddito familiare deve essere inferiore a 400 euro per le famiglie composte da una sola persona che cresce all’aumentare del numero dei componenti fino a 800 euro. È una misura che si indirizza primariamente a lavoratori instabili, precari, intermittenti. Lavoratori il cui numero è cresciuto molto negli ultimi decenni, frutto di una frammentazione del mercato del lavoro.

Non era meglio estendere il Reddito di cittadinanza rivedendolo?

Ho visto una proposta che andava in tal senso, ma poi alla fine la politica nella sua molteplice diversità, fa le sue scelte e i compromessi necessari.

Non c’è bisogno di rivedere la politica sociale alla fine dell’emergenza? Una misura universale?

Questa crisi ha dimostrato due cose: i Paesi con Welfare consolidati e sistemi sanitari pubblici importanti possono uscirne. Se non avessimo avuto l’Inps, che ho l’onore di presiedere, la coesione sociale del Paese sarebbe stata a rischio concreto.

Ma si evidenzia come non siano più attuali alcuni strumenti pensati quasi 50 anni fa. Al contrario, il bonus 600 euro, distribuito a 3,8 milioni di persone in sole due settimane, è stato uno degli strumenti più innovativi, smart e easy che l’Inps abbia messo in piedi negli ultimi decenni. Passata la fase acuta dell’emergenza sarebbe utile riprendere le analisi sulla distinzione fra previdenza e assistenza, ripensando anche radicalmente gli istituti previdenziali e assistenziali.

L’esamificio della “Link” nelle carte dei magistrati

Guai grossi alla Link Campus University, l’università privata dell’ex ministro dc Vincenzo Scotti. La Procura di Firenze ha chiuso le indagini su 71 persone, accusate di associazione a delinquere e falso. I vertici dell’ateneo, secondo l’ipotesi d’accusa, avevano costruito un sistema per vendere lauree ed esami, in accordo anche con il segretario del sindacato di polizia Siulp, Felice Romano. “Promotori, costitutori e organizzatori dell’associazione” a delinquere sono – per i pm Christine von Borries e Luca Turco – Scotti, il dg della Link Pasquale Russo, il rettore Claudio Roveda, il responsabile dei master Pierluigi Matera.

Indagata anche Veronica Fortuzzi, collaboratrice dell’ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta. Indagati anche docenti, ricercatori, responsabili amministrativi e studenti. Negli anni accademici 2016-17 e 2017-18, i vertici della Link vendevano lauree e convalidavano esami non sostenuti, anticipavano agli studenti domande e temi d’esame, accettavano tesi copiate, permettevano di sostenere esami a Firenze (anche nella stanza di una cooperativa nel mercato ortofrutticolo), anziché nella sede autorizzata di Roma. Il segretario del Siulp aveva stipulato con la Link una convenzione per facilitare gli studi dei poliziotti iscritti al sindacato. Una quarantina di agenti, anch’essi indagati, hanno goduto di esami falsati. Versavano 600 euro d’iscrizione e 3.500 di retta alla Fondazione Sicurezza e libertà su un conto di San Marino e potevano saltare il primo anno d’università, passando direttamente al secondo.

Il Tg3 tra le braccia di Orfeo, a Rai3 “pannolone” Di Mare

Mario Orfeo ce l’ha fatta: è tornato a occupare un ruolo di prestigio. L’ex direttore generale della tv pubblica, confinato dal 2019 nella gabbia dorata ma angusta della presidenza di Rai Way, è finalmente di nuovo in ballo: sarà il prossimo direttore del Tg3.

Gli lascia il timone Giuseppina Paterniti, durata in carica meno di due anni. Non le è bastato un telegiornale in crescita, premiato dai numeri lusinghieri dell’Auditel; un Tg3 garbatamente sensibile agli equilibri governativi, pur senza esserne prono. Ieri la Paterniti si è congedata dalla sua redazione: quello di oggi sarà il suo ultimo giorno. Per lei è pronta la poltrona che fu di Carlo Verdelli, la direzione dell’Offerta informativa. Carica altisonante, ma come dicono a Viale Mazzini, “una scatola vuota”.

Come sempre, più degli ascolti e della qualità in Rai pesa la politica. E la politica aveva deciso da mesi che bisognava cambiare. La Paterniti era “troppo grillina”. Su Orfeo invece ha puntato forte il Pd. Tutto il Pd, dall’area Zingaretti a quella sempre influente legata a Dario Franceschini. Ma l’ex direttore del Mattino e del Messaggero (casa Caltagirone) è uomo che sa surfare sulle mutevoli onde degli equilibri politici nazionali e si fa voler bene trasversalmente. Chi non può fare a meno di adorarlo è Matteo Renzi, che anche ora in questa fase di disgrazia da Orfeo si sente più che garantito.

Anche noi, nel nostro piccolo, per il direttore nutriamo ricordi affettuosi: è soprattutto grazie alle sue gesta che su questo giornale è nata la rubrica “Istituto Luce”. Quando era al timone del Tg1 – negli anni d’oro dell’occupazione leopoldina della Rai – Orfeo è stato un artista assoluto delle notizie filogovernative. Memorabili le interviste senza domande a Renzi nel telegiornale delle 20, il più visto d’Italia. Impressionante lo sforzo – vano – a sostegno della campagna referendaria per il Sì alla Riforma Boschi: nel 2016, nei mesi prima del voto, Matteo da solo aveva il 21,5% del tempo di parola e il 36,5% del tempo di notizia concesso ai politici sul Tg1. Esilaranti alcune omissioni, come lo scandalo Consip sbattuto regolarmente in fondo alla scaletta, o un epico servizio sull’inchiesta del petrolio in Basilicata in cui si parlava di Maria Elena Boschi, sì, eppure il nome della ministra non veniva mai pronunciato nemmeno per sbaglio.

Per contrappasso, il periodo di purgatorio post-renziano di Orfeo è finito proprio grazie agli stessi che hanno combattuto Renzi dentro al Pd. La sua nomina è la tessera principale del domino che ha ridisegnato alcuni ruoli pesanti nella tv pubblica. I Cinque Stelle hanno ceduto sulla Paterniti e accettato Orfeo, in buona sostanza, per “imbullonare” alla poltrona del Tg1 il direttore Giuseppe Carboni.

Ma c’è un’altra nomina che è considerata una parziale contropartita per i grillini: quella di Franco Di Mare, che sarà il nuovo direttore di rete di Rai3 (al posto di Silvia Calandrelli).

Nel grande acquario di Viale Mazzini l’ascesa di Di Mare è legata curiosamente alla sponsorship dei Cinque Stelle. Anche Di Mare è un vecchio navigatore del servizio pubblico, un uomo in grado, evidentemente, di coltivare affetti collaterali. Inviato speciale, conduttore del Tg e soprattutto volto di Unomattina, ora è il momento del salto di qualità da dirigente.

Ma tra gli highlights della sua carriera non si può non raccontare questo momento indimenticabile di giornalismo. Pescara, anno 2008, Di Mare è il mattatore della cinquantesima festa della Fater Spa, l’azienda che produce, tra gli altri, assorbenti e pannolini. A un tratto dal palco Di Mare lancia “un’edizione speciale del Tg1”. È un capolavoro: un finto telegiornale (condotto da un vero telegiornalista, Attilio Romita) che è in realtà una marchetta di 7 minuti per il marchio abruzzese, tra tampax, Pampers e fazzoletti, piena di dichiarazioni – ovviamente fasulle – di politici italiani e stranieri (Prodi, Di Pietro, Veltroni, George W. Bush, Sarkozy). L’apice artistico poi è la comparsa di Benedetto XVI con un finto Angelus che benedice i pannoloni e i loro produttori.

Una meravigliosa pubblicità per gli assorbenti, per Di Mare e per tutto il servizio pubblico che si fa privato.

Oggi è solo un ricordo d’archivio: malgrado gli imbarazzi e qualche timida penitenza, la carriera dell’anchorman non ha subito arretramenti. Anzi, a distanza di tanti anni, Di Mare arriva alla direzione della terza rete nazionale, con il beneplacito del Movimento che avrebbe dovuto ribaltare l’Italia come un calzino.

Di certo non è cambiata la Rai: le nomine seguono sempre logiche esclusivamente politiche. Nel domino avviato dal Pd e avallato dai Cinque Stelle perde il posto, come detto, anche la direttrice di Rai3, Silvia Calandrelli. L’unica figura femminile promossa è Simona Sala, che passa dalla vicedirezione del Tg1 alla direzione del giornale radio. Su otto testate e tre reti le donne in carica prima erano due. Adesso è una sola.

Sblocca-cantieri e decreto per “sminare” Renzi&C.

Il governo sembra la grande stanchezza. Così il timoniere Giuseppe Conte concede e promette di correre. Perché deve calmare alcuni e riaccendere molti, o almeno mostrare di averci provato, per non concedere a nessuno nuovi pretesti.

Il giorno dopo il faticosissimo parto del decreto rilancio, il presidente del Consiglio vede il Pd che punge i 5Stelle ammiccando al rimpasto, il M5S che si preoccupa e fa no con la testa e Matteo Renzi che fa sempre il Matteo Renzi: cioè detta condizioni, pretende, insomma minaccia, facendo leva sulla mozione di sfiducia al Guardasigilli Alfonso Bonafede in Senato, mercoledì prossimo. E allora Conte prova a rassicurare per ripartire, abbinando carezze e promesse. Quindi sulle riaperture niente più dpcm ma largo a un decreto legge, come chiedevano i dem e Italia Viva. Oggi il premier si sarebbe anche presentato alle Camere per riferire sulle nuove norme, assicurano da palazzo Chigi, ma poi gli hanno fatto presente che, senza più il dpcm, fare un’informativa sarebbe stato abbastanza superfluo, “tanto il decreto andrà comunque convertito in legge dal Parlamento”. Così ora il premier lavora al dl per riaprire non tutto ma parecchio, un testo che dovrebbe vedere la luce domani (“difficile finire prima” raccontano). E chissà invece quando arriverà lo sblocca cantieri, una carta che Conte vuole giocarsi presto, “anche perché su questa misura lavoriamo da tempo” assicurano sempre da Chigi. Un altro segnale alla maggioranza tutta ma innanzitutto a Renzi, che in mattinata lo ha ridetto così: “Sbloccare i cantieri è la priorità, nelle prossime ore capiremo dal presidente del Consiglio se, sui punti che abbiamo posto, possiamo camminare insieme”. Poi, il colpo sotto la cintura: “Su Bonafede decideremo dopo averlo ascoltato in Aula”.

Un bluff per alzare la posta, è opinione diffusa. E anche Conte, giurano, non è preoccupato. Ma nel giorno in cui anche il segretario dem Nicola Zingaretti evoca i lavori da velocizzare mettendo mano al codice degli appalti, è evidente che i partiti chiedano un aumento del passo. “Il futuro del governo è nelle mani del governo, cioè nell’impatto delle misure che prende” riassume Federico Fornaro di Leu. Detto più chiaro, “la gente aspetta i soldi”. E le imprese appalti, di corsa.

Poi, certo, c’è la politica che guarda se stessa. Così i dem alzano la temperatura, soffiando senza dirlo dritto la parola rimpasto. Sanno di stuzzicare una ferita fresca per i 5Stelle, perché il mezzo disastro sui migranti, con un accordo chiuso dal M5S domenica notte e poi rinnegato lunedì mattina, ha riacceso i fari sulla squadra di governo dei 5Stelle, fragile in alcune pedine. “La maggioranza ha una forte solidità, non serve nessuna fase 2” dice di buon mattino a RaiNews24 il capo politico reggente dei 5Stelle, Vito Crimi. Prova a sbattere la porta. Ma tanti dal Movimento lo hanno chiamato per chiedergli lumi. “Sentono” gli occhi del Pd, si agitano. “Ma se si apre la giostra, anche noi chiederemo conto del lavoro di alcuni ministri dem” sibilano dai piani alti.

In questo scenario, i 5Stelle hanno deciso che Bonafede farà bene a restare capodelegazione. “Cambiare ora sarebbe un segnale di debolezza e lo esporrebbe, soprattutto adesso che Alfonso è sotto attacco” spiegano. Almeno per le prossime settimane dovrà restare in quel ruolo, centrale, così da scoraggiare assalti che porterebbero dritte alla crisi di governo.

E si torna ancora a Renzi, che dice di non volerne sapere di un rimpasto ma che fuori taccuino ci pensa, eccome. “D’altronde ha problemi nel controllare le sue ministre” buttano lì velenosi dal Movimento. Tanto poi a tamponare c’è Conte, quello che deve rassicurare: tutti.

“Misure uguali per i turisti: la Ue non discrimini”

Di rimpasti, di Renzi e di governo, il capo delegazione del Pd, non vuole parlare. Dice solo che “si sono trovati a gestire una situazione inedita e inesplorata” e che bisognerà lasciar “giudicare gli altri”. Indossa gli abiti del ministro dei Beni Culturali e del Turismo e rivendica di averlo detto fin dal giorno del giuramento: “Mi sento chiamato a guidare il ministero economico più importante del Paese”. Perché, dice Dario Franceschini, se c’è una cosa che il coronavirus ci ha insegnato è che cultura e turismo, all’Italia, servono come il pane.

Dunque con la cultura ci mangiamo?

Nel dramma di questa vicenda si è diffusa una consapevolezza: l’importanza della cultura e del turismo nel nostro Paese non è solo “valoriale” ma è una forza economica enorme, il 20 per cento del Pil. Il fatto che nel dl Rilancio, tra misure peculiari e generali, ci siano circa 5 miliardi di risorse per questo settore dimostra che finalmente il nostro Paese ha capito. È servita un’emergenza, ma almeno questa consapevolezza è passata.

Per arrivarci c’è voluto parecchio: settimane di veti e ritardi.

È la più grande manovra della storia della Repubblica, scritta in una situazione di emergenza, con interi settori in crisi. Qualche giorno in più ci è servito per fare le cose nella maniera più equa possibile.

Ci sono 4,5 miliardi per il turismo. Ma in vacanza potremo andarci?

Dipenderà dall’andamento del dato epidemiologico, per questo servono prudenza e rispetto delle regole. Ma penso si possa dire con tranquillità che le vacanze si faranno, anche se saranno vacanze diverse. Stiamo investendo 20 milioni per il progetto “viaggio in Italia”. Sarà un’occasione straordinaria per scoprire le bellezze minori del nostro Paese. Lo avevamo già previsto nel nostro piano strategico per il turismo: certo, quando lo abbiamo scritto cercavamo un modo per evitare i troppi turisti nelle città d’arte…

Gli ingressi a numero a chiuso a Venezia, il ticket per Fontana di Trevi: un altro mondo.

In quel momento la strategia era quella di moltiplicare gli attrattori turistici. Ma siccome anche adesso gli affollamenti li dovremo evitare, diventa l’occasione per distribuire ricchezza e conoscere l’Italia.

Saremo penalizzati rispetto a Paesi con indici di contagio più bassi? Gli stranieri verranno in Italia?

Il punto è molto semplice: niente corridoi, accordi bilaterali o concorrenza. Non servono a niente. Dobbiamo scrivere protocolli comuni per la valutazione del rischio e garantire il libero spostamento dei turisti nell’area Schengen: se a Rimini arriva un turista da Monaco o da Milano, dev’essere la stessa cosa. E lo stesso per un italiano che va in Germania. Non può esserci una differente valutazione del rischio tra gli Stati. L’Europa l’altro ieri ha dato un segnale in questo senso: io e i ministri Di Maio e Amendola siamo impegnati in questa direzione.

Sarà un’estate senza concerti?

Vanno tradotte in norme le indicazioni del comitato scientifico. Per ora possono riaprire i musei, poi teatri e cinema. I luoghi all’aperto sono un’opportunità, l’Italia è un terreno infinito di piazze: è importante riuscire presto ad animarle.

Gli artisti non hanno gradito che il premier li abbia ringraziati per averci fatto “divertire e appassionare”. Una gaffe?

Sicuramente non era questo il pensiero del presidente del Consiglio. Gli artisti fanno divertire ma anche piangere, riflettere, emozionare: tante cose.

Però sono stati tra i lavoratori più trascurati di questa emergenza.

Siamo finalmente riusciti ad estendere anche al settore dello spettacolo – che ha contratti temporanei e frammentati – gli ammortizzatori sociali di cui aveva bisogno: le prime norme prevedevano un minimo di 30 giorni lavorati per aver accesso agli ammortizzatori, siamo scesi a 7. E stiamo trovando il modo di arrivare anche a chi è rimasto ancora escluso.

Perché si può aprire una chiesa e non un teatro?

Non si tratta di fare gerarchie di valori. Da un puro punto di vista logistico sono due luoghi con gli stessi problemi: al chiuso, con molte persone insieme. E infatti sarà consentita la riapertura di entrambi con prescrizioni simili.