Oggi, si potrebbe dire, inizia addirittura la Fase 3: il processo di governo dell’epidemia da Covid-19 s’inverte e nella riunione con le Regioni Giuseppe Conte certificherà l’inversione a U del governo. La palla delle riaperture e delle loro regole, da lunedì, sarà in mano ai governatori, che avranno però sulla testa la spada di Damocle del sistema di controllo in tre punti (articolati in 21 indicatori) messo a punto dal ministero della Salute per valutare come stanno andando i contagi da Covid-19: chi sfora potrebbe dover richiudere.
Ecco, purtroppo, a questa nuova fase, non tutte le Giunte arrivano con le carte in regola: è di ieri la notizia che cinque Regioni, la scorsa settimana, non avevano inviato dati sufficienti per valutare la loro situazione al ministero della Salute, motivo per cui i tecnici non hanno potuto elaborare in tempo lo stato di rischio per i vari territori e si è dovuto ritardare a oggi l’elaborazione dei risultati della prima settimana di monitoraggio dopo la parziale riapertura del 4 maggio.
Le cinque ritardatarie sono, in ordine alfabetico: Calabria, Campania, Molise, Liguria e Piemonte. La Conferenza Stato-Regioni, nella persona del presidente Stefano Bonaccini, è stata avvisata ieri pomeriggio con una lettera dei ministri della Salute e degli Affari regionali, Roberto Speranza e Francesco Boccia, a quel punto – dicono in serata fonti di governo – i ritardatari hanno magicamente fatto arrivare un po’ di numeri, non si sa se sufficienti, pur di non finire nella lista dei cattivi.
Essere in quella lista, d’altra parte, è una pessima idea: il decreto del ministero della Salute del 30 aprile parifica, per un ovvio principio di precauzione, l’assenza di dati sull’epidemia alla incapacità di gestirla. Nel sistema di classificazioni in vigore – “da rischio basso” a “elevato” passando per il campanello d’allarme “rischio moderato” – l’incapacità di fornire dati di qualità sull’epidemia nel proprio territorio “costituirà di per sé una valutazione di rischio elevata, in quanto descrittiva di una situazione non valutabile e di conseguenza potenzialmente non controllata e non gestibile”. Teoricamente, insomma, il Piemonte e le altre quattro avrebbero potuto essere costrette a non riaprire le attività ancora chiuse essendo a “rischio elevato”.
In ogni caso, a leggere le 21 schede regionali (due sono per le province autonome di Trento e Bolzano) preparate dal ministero la situazione del monitoraggio epidemiologico non pare felicissima: sono molte le amministrazioni a non comunicare dati o a far registrare ritardi negli obiettivi (in particolare, fatto di non poco conto, quanto al personale dedicato a testare la popolazione e a tracciare i contatti dei positivi). Insomma, il sistema delle autonomie locali non pare in grado di governare l’epidemia mentre si torna a una molto parziale normalità e – com’era previsto – aumenta leggermente l’indice nazionale medio di riproduzione teorica del virus (da meno di 0,6 a 0,7: al Nord, però, è fortunatamente più basso).
I tecnici della Salute, al momento, confermano – con una sola eccezione – il quadro di rischio al 4 maggio già rivelato dal Fatto: le Regioni (numeri permettendo), sono tutte classificate “a rischio basso” con l’eccezione già nota della Lombardia, ritenuta a “rischio moderato” per numero dei contagi (la metà di quelli nazionali) e pressione sul sistema ospedaliero, categoria in cui la raggiunge però il piccolo Molise, che sconta la scoperta di un focolaio nella zona di Campobasso nato – a quanto pare – a un recente funerale nella comunità rom locale, che ha dato luogo a decine di contagi in una regione finora rimasta quasi immune dal coronavirus.
Insomma, Attilio Fontana e Donato Toma – entrambi di centrodestra – sono i presidenti che più avranno da pensare in questi giorni (ma non i soli, quello del Piemonte Cirio, dicono, è preoccupatissimo). Da lunedì, come detto, tutto passa in capo a loro. Oggi, oltre al vertice con le Regioni, dovrebbe infatti tenersi un Consiglio dei ministri in cui verrà sancito un doppio cambio di rotta.
Il primo riguarda gli ormai famigerati Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio che hanno scandito la Fase 1: stavolta si userà un decreto legge, facendo tornare finalmente al centro della scena anche il Parlamento.
La seconda novità riguarda, invece, il contenuto delle norme: mentre finora era concesso ai governatori solo di chiudere più settori rispetto a quelli indicati dal governo, da lunedì potranno aprire tutto quel che ritengono sulla base delle linee guida indicate dal Comitato tecnico-scientifico. Anzi, volendo potranno persino modificarle come ha annunciato Luca Zaia per i ristoranti (quattro metri quadrati per cliente, ritiene il presidente veneto, sono troppi).
L’altra faccia della medaglia, però, è che saranno responsabili anche di una eventuale marcia indietro: il sistema di monitoraggio prevede infatti che, qualora gli indicatori di pericolo che arrivano al ministero della Salute andassero troppo in alto, si debba procedere anche a nuove chiusure e persino alla creazione di “zone rosse” locali come furono quelle del Lodigiano e di Vo’ Euganeo in Veneto. Un’esperienza che tutti sperano non tocchi a loro.