Due Regioni sono “a rischio”, cinque in ritardo coi dati

Oggi, si potrebbe dire, inizia addirittura la Fase 3: il processo di governo dell’epidemia da Covid-19 s’inverte e nella riunione con le Regioni Giuseppe Conte certificherà l’inversione a U del governo. La palla delle riaperture e delle loro regole, da lunedì, sarà in mano ai governatori, che avranno però sulla testa la spada di Damocle del sistema di controllo in tre punti (articolati in 21 indicatori) messo a punto dal ministero della Salute per valutare come stanno andando i contagi da Covid-19: chi sfora potrebbe dover richiudere.

Ecco, purtroppo, a questa nuova fase, non tutte le Giunte arrivano con le carte in regola: è di ieri la notizia che cinque Regioni, la scorsa settimana, non avevano inviato dati sufficienti per valutare la loro situazione al ministero della Salute, motivo per cui i tecnici non hanno potuto elaborare in tempo lo stato di rischio per i vari territori e si è dovuto ritardare a oggi l’elaborazione dei risultati della prima settimana di monitoraggio dopo la parziale riapertura del 4 maggio.

Le cinque ritardatarie sono, in ordine alfabetico: Calabria, Campania, Molise, Liguria e Piemonte. La Conferenza Stato-Regioni, nella persona del presidente Stefano Bonaccini, è stata avvisata ieri pomeriggio con una lettera dei ministri della Salute e degli Affari regionali, Roberto Speranza e Francesco Boccia, a quel punto – dicono in serata fonti di governo – i ritardatari hanno magicamente fatto arrivare un po’ di numeri, non si sa se sufficienti, pur di non finire nella lista dei cattivi.

Essere in quella lista, d’altra parte, è una pessima idea: il decreto del ministero della Salute del 30 aprile parifica, per un ovvio principio di precauzione, l’assenza di dati sull’epidemia alla incapacità di gestirla. Nel sistema di classificazioni in vigore – “da rischio basso” a “elevato” passando per il campanello d’allarme “rischio moderato” – l’incapacità di fornire dati di qualità sull’epidemia nel proprio territorio “costituirà di per sé una valutazione di rischio elevata, in quanto descrittiva di una situazione non valutabile e di conseguenza potenzialmente non controllata e non gestibile”. Teoricamente, insomma, il Piemonte e le altre quattro avrebbero potuto essere costrette a non riaprire le attività ancora chiuse essendo a “rischio elevato”.

In ogni caso, a leggere le 21 schede regionali (due sono per le province autonome di Trento e Bolzano) preparate dal ministero la situazione del monitoraggio epidemiologico non pare felicissima: sono molte le amministrazioni a non comunicare dati o a far registrare ritardi negli obiettivi (in particolare, fatto di non poco conto, quanto al personale dedicato a testare la popolazione e a tracciare i contatti dei positivi). Insomma, il sistema delle autonomie locali non pare in grado di governare l’epidemia mentre si torna a una molto parziale normalità e – com’era previsto – aumenta leggermente l’indice nazionale medio di riproduzione teorica del virus (da meno di 0,6 a 0,7: al Nord, però, è fortunatamente più basso).

I tecnici della Salute, al momento, confermano – con una sola eccezione – il quadro di rischio al 4 maggio già rivelato dal Fatto: le Regioni (numeri permettendo), sono tutte classificate “a rischio basso” con l’eccezione già nota della Lombardia, ritenuta a “rischio moderato” per numero dei contagi (la metà di quelli nazionali) e pressione sul sistema ospedaliero, categoria in cui la raggiunge però il piccolo Molise, che sconta la scoperta di un focolaio nella zona di Campobasso nato – a quanto pare – a un recente funerale nella comunità rom locale, che ha dato luogo a decine di contagi in una regione finora rimasta quasi immune dal coronavirus.

Insomma, Attilio Fontana e Donato Toma – entrambi di centrodestra – sono i presidenti che più avranno da pensare in questi giorni (ma non i soli, quello del Piemonte Cirio, dicono, è preoccupatissimo). Da lunedì, come detto, tutto passa in capo a loro. Oggi, oltre al vertice con le Regioni, dovrebbe infatti tenersi un Consiglio dei ministri in cui verrà sancito un doppio cambio di rotta.

Il primo riguarda gli ormai famigerati Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio che hanno scandito la Fase 1: stavolta si userà un decreto legge, facendo tornare finalmente al centro della scena anche il Parlamento.

La seconda novità riguarda, invece, il contenuto delle norme: mentre finora era concesso ai governatori solo di chiudere più settori rispetto a quelli indicati dal governo, da lunedì potranno aprire tutto quel che ritengono sulla base delle linee guida indicate dal Comitato tecnico-scientifico. Anzi, volendo potranno persino modificarle come ha annunciato Luca Zaia per i ristoranti (quattro metri quadrati per cliente, ritiene il presidente veneto, sono troppi).

L’altra faccia della medaglia, però, è che saranno responsabili anche di una eventuale marcia indietro: il sistema di monitoraggio prevede infatti che, qualora gli indicatori di pericolo che arrivano al ministero della Salute andassero troppo in alto, si debba procedere anche a nuove chiusure e persino alla creazione di “zone rosse” locali come furono quelle del Lodigiano e di Vo’ Euganeo in Veneto. Un’esperienza che tutti sperano non tocchi a loro.

È tornato Capannelle

E niente, volevo assegnare il premio “Oggi le comiche” della settimana, ma ho dovuto arrendermi per eccesso di pretendenti, tutti meritevoli. Ex aequo.

Francesco Merlo, sulla nuova Repubblica alla Sambuca, non sapendo più cosa inventarsi contro Conte, spiega che fascisti e odiatori insultano Silvia Romano per colpa del governo che l’ha “esibita sul red carpet degli squilibrati”. Giusto: dovevano carrucolarla direttamente sui tetti di casa sua, onde evitare fotografi e telecamere.

A proposito di Silvia: Toni Capuozzo, inviato di guerra Mediaset con la sindrome di Rambo in tempo di pace, già noto per le equilibrate posizioni sul Covid, si associa su La Verità al frullo del Merlo e dice che “al governo hanno agito da cazzari e fatto pubblicità ai terroristi”, oltre ad aver “pagato il riscatto”. Sono opinioni rispettabili, o meglio lo sarebbero se il Capuozzo le avesse mai esternate quando a pagare i riscatti e a far pubblicità ai terroristi erano Berlusconi e Gianni Letta. Cioè quei cazzari che gli pagano lo stipendio. Ma non risulta.

A proposito di Mediaset: Elisabetta Casellati Alberti Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, interpellata sui vergognosi delirii alla Camera del siculoleghista Alessandro Pagano su Silvia “neo-terrorista”, risponde che “la stigmatizzazione di questo intervento esula dalle mie competenze”, essendo lei (inopinatamente) presidente del Senato. È fatta così: ha l’indignazione selettiva, retrattile e perimetrale. Al metro quadro.

Il Giornale, sul governo che stanzia 55 miliardi (oltre ai 25 dell’altro decreto: cifre mai viste tutte insieme) per le vittime dell’emergenza Covid, titola “Le mancette di Conte”. Urge colletta per Sallusti.

A proposito di mancette e anche di red carpet: la Regione Lombardia ha buttato dalla finestra una cinquantina di milioni di donazioni private (inclusi i 3 raccolti dagli incolpevoli lettori di Libero e Giornale) per il famoso ospedale alla Fiera di Milano, orgoglio e vanto della Nazione e di Bertolesso, che ora ospita 4 malati dopo aver raggiunto la vetta di 12 e ora – parola del capo delle Terapie intensive della Regione stessa – verrà presto chiuso per manifesta inutilità. Alla fine della Fiera.

A proposito di Lombardia: leggiamo su Libero che “Le Regioni sono stufe di aspettare” il governo. Povere stelle. E in prima fila c’è “la Lombardia in pressing sul governo”, cioè la Regione che – in tandem col gemello Piemonte – non ne ha azzeccata una, infatti continua a moltiplicare i morti e i contagi e a costringere tutte le altre a restare ferme. Stufe di aspettare.

A proposito di Vien dal Mare. Per imperscrutabili motivi, Pd e M5S vogliono promuovere direttori di Rai3 e Tg3 due sugheroni quattro-stagioni: Franco Di Mare, che faceva le marchette ai pannolini alle convention della Pampers con la scenografia del Tg1; e Moiro Orfeo, il cui curriculum spazia fra De Benedetti, Caltagirone e la Rai, in quota ora B., ora Monti, ora Renzi, plurimedagliato per aver cacciato la Berlinguer dal Tg3 e la Gabanelli e Giletti dalla Rai, ultimamente segnalato dalle parti del Pd ma anche del M5S. Due tipini di bosco e di riviera. Anzi, Di Mare.

A proposito di sugheroni galleggianti: l’emerito Sabino Cassese è tornato a colpire sul Corriere con uno dei suoi celebri editoriali senza capo né coda. Nel senso che si capisce sempre che ce l’ha con Conte, ma mai perché. Stavolta gli fa schifo il dl Rilancio: “Le ombre sui tempi (e sui modi)”. La data del 13 maggio non va bene, forse per via dell’anniversario della Madonna di Fatima. Peggio ancora i modi di Conte che, direbbe Totò, sono interurbani. Eppoi ’sto decreto ha un “intento risarcitorio” (orrore) e “il mezzo consiste nelle elargizioni” (paura). Lo fanno in tutto il mondo, i tipi studiati lo chiamano helicopter money, ma lui ci è rimasto male. E poi “lo strumento prescelto è il decreto legge, atto al quale si dovrebbe ricorrere ‘in casi straordinari di necessità e urgenza’. Il governo non ha tenuto conto dell’urgenza” perché il dl doveva arrivare a fine aprile e invece siamo a maggio: ergo – seguite la logica – tanto valeva arrivare a dicembre con un bel disegno di legge. Del resto 35 mila morti e qualche milione di contagiati non saranno mica motivi di necessità e urgenza: “Le opposizioni hanno ragione a lamentare che lo Stato di diritto è violato e il Parlamento non è messo nelle condizioni di vagliare questa massa di atti”. Infatti Conte ha lucchettato gli ingressi di Montecitorio e Palazzo Madama. Anche per l’impressionante somiglianza fisica, Scassese ricorda sempre più Capannelle, il malmostoso vecchietto de I soliti ignoti che ha sempre qualcosa da imprecare, ma non sa nemmeno lui il perché (“Che hai da guardare, mi sono vestito spurtivo!”, “Ma quale spurtivo, tu sei vestito da ladro!”. “Ma guarda un po’ dove son capitato: fra i lavoratori!”. “Ehi, dove vai, vedi che quelli ti fanno lavorare davvero!”). Poi però, a fine articolo, i motivi di tanto rosichìo vengono a galla: Incassese butta lì “la storica inadeguatezza degli uffici di staff dei ministri”. Che sono da sempre infestati da allievi suoi, ma ultimamente un po’ meno. Tutti i Capannelle del mondo sempre lì finiscono: nella pignatta della pasta e ceci.

“Per essere artisti bisogna crederci. E poi convincere chi ti sta attorno”

Un uomo chiuso per 24 ore in una stanza e per 24 ore, sempre in piedi, ripete all’infinito, in maniera ipnotica e musicale, la frase “I trusted you”, mi sono fidato di te. Non è un test di resistenza, non è una scommessa, non è una burla, ma un’opera d’arte di Nico Vascellari. Lui è un performer italiano, uno dei pochi conosciuto all’estero, e all’annuncio dell’iniziativa qualche sorriso è scappato, alcune battute, un vago approccio di rifiuto aprioristico, poi però l’arte è riuscita a ribaltare la visuale, a girare l’occhio della telecamera verso noi stessi, a estremizzare il monoscopio della Rai, fisso, immobile, un rumore bianco, eppure con un suo fascino.

Questa performance non si trova su Youtube…

E non sono certo di volerlo, ci sto riflettendo; (ci pensa) quel lavoro è un’opera che funziona pure grazie all’interazione con il pubblico che commentava: senza quella immediatezza si perde l’empatia.

Numero di visitatori?

72 mila visualizzazioni da 30 Paesi nel mondo; in molti si sono collegati più volte per capire come andava.

Per controllare se resisteva.

(Ride) Esatto, e io ero lì, in trance.

In un mondo a parte…

È l’unico modo per affrontare una prova del genere, per resistere e non sentire dolore, noia, o qualunque altra emozione-reazione.

Ha uno stile da frontman di una band.

Per anni ho cantato in un gruppo musicale, ed è esattamente quello il mio approccio, poi ho capito che la mia strada era un’altra; (cambia tono di voce) c’è un momento esatto nel quale comprendi di essere un artista.

Come?

Lo avverti, ma è fondamentale crederci, poi è importante convincere chi ti sta attorno, a partire dalla famiglia, poi gli amici e così via.

La sua performance si ispira al comico statunitense Andrew Kaufman.

È una delle figure che sento maggiormente vicine, in particolare per il suo modo di rapportarsi con il pubblico: stupiva, sorprendeva, creava disagio, lasciava credere che il suo lavoro fosse sbagliato. (Kaufman è morto nel 1984 a soli 35 anni. Nel 1999 Miloš Forman gli ha dedicato il film Man on the Moon).

Il lockdown l’ha ulteriormente motivata?

Sì, ma l’idea è nata prima: l’ho rappresentata ora perché questa situazione apre a molteplici letture.

Insomma, non leggeva i commenti alla diretta…

Davvero, neanche uno, ero in un’altra dimensione; (sorride) comunque in molti mi chiedevano: “Come fai ad andare in bagno?”.

Risposta?

Mai sentito la necessità.

Niente in 24 ore?

Mai mangiato e bevuto, ho assunto solo degli integratori, e nelle 36 ore precedenti non ho ingerito cibo.

Fatica?

Nelle ultime ore ho iniziato ad avvertire dei crampi ai piedi, così ogni tanto mi sono sdraiato, ma volevo evitare una qualunque immagine legata alla sofferenza.

Ha una forte fisicità…

Ci lavoro da sempre.

Il talento è dote innata?

Sì, e con il tempo si può solo affinare.

Lo spazio la interessa molto…

Tempo fa, per tre giorni, mi sono chiuso in un cunicolo totalmente buio, alto al massimo 50 centimetri e lungo 20 metri.

E…

Volevo provare l’effetto-Talpa, tanto da non decidere a priori quanto sarei rimasto sotto, e al momento dell’uscita non sapevo quante ore o giorni fossero passati.

La prossima?

Non ho ancora deciso, però la mia ricerca non è solo legata alle perfomance, ma anche alla scultura. Poi vedremo.

Quelli che amano la radio: 45 anni e sentirli benissimo

Tiziano Ferro rischiò di finire fuori strada. “Avevo il cd di Xdono nell’impianto della macchina, ci misi un po’ a capire che invece quella mia canzone arrivava dall’autoradio. Ricordo il punto esatto della provinciale, fuori Latina”. Elisa stava mangiando, “e quando dall’apparecchio uscì Sleeping in your hand il cibo mi andò di traverso per l’emozione!”. Biagio Antonacci era uno stimato geometra 27enne: “Quel giorno lavoravo in cantiere, qualche radiolina diffondeva un mio pezzo, il cuore mi esplose. Chiamai tutti: elettricisti, operai, mi fecero grandi feste”. Perché la prima volta non si scorda mai, hai voglia a fare dischi se le emittenti non ti consacrano.

Magie di un passato aureo? Esercitazioni sulla nostalgia? Macché. Nella fase più critica della storia recente del Paese la Radio ha riconfermato il suo ruolo centrale come forziere di tesori musicali. E di voci amiche. È il media che, dati alla mano, più di ogni altro si proietta verso il futuro, con una platea dell’88 per cento di appassionati tra i 14 e i 44 anni.

C’è voluta l’insidia del lockdown (con un inevitabile calo fisiologico sul versante automobilistico, e il contemporaneo boom della fruizione casalinga) per sancire il primato della radiofonia come opzione di informazione o intrattenimento. Nei giorni logoranti della quarantena, le emittenti italiane sono state percepite come “amiche” dalla quasi totalità della popolazione: una ricerca Gfk Eurisko ha sottolineato che il tempo dedicato all’ascolto è aumentato del 33,5 per cento. Numeri che confortano gli editori del settore in una congiuntura in cui gli investitori parevano in fuga: ma la duttilità del sistema si è rivelata un’arma decisiva.

Non è più l’era della frequenza disturbata: oggi la radio si può ascoltare su Internet e in Dab+, sugli smart speaker, in radiovisione, sugli smartphone con app capaci di dare un colpo di maglio alla concorrenza delle piattaforme alla Spotify che generano playlist di glaciale freddezza, pagano meno di zero gli artisti a ogni stream, sborsano un’inezia di tasse a fronte di fatturati miliardari, e affossano la filiera discografico-artistica con il miraggio di una diffusione globale.

Le radio tricolore sono passate al contrattacco prima ancora della pandemia: 140 marchi nazionali e locali erano confluiti in una sola agile app, radioplayer.it. Poi il 20 marzo il segnale, inequivoco, della trasmissione alla stessa ora dell’Inno di Mameli. Infine, il passaggio decisivo. Basta con i campanilismi e le strategie isolate, gli editori hanno deciso di fare squadra. Sotto la regia di Lorenzo Suraci, patron del network Rtl 102.5 hanno fumato il calumet della pace e varato un primo progetto collettivo, “I love my radio”.

L’iniziativa è stata annunciata in un incontro condotto da Gerry Scotti (“quel che so fare lo devo alla radio, siamo tutti una grande famiglia”), al quale hanno partecipato, tra gli altri, i generali dei più solidi team dell’etere: Rtl 102.5, Rds, Deejay, Radio Italia, 105, Kiss Kiss, Virgin, Rai Radio 2, Radio 24, R101, Subasio, m2o, Capital, Monte Carlo, Radiofreccia, Norba, Radio Zeta.

L’occasione è l’anniversario dei 45 anni dall’avvento delle radio “libere” accanto a quella pubblica: e anche questa, significativamente, ha aderito all’idea. Che è di far votare a 45 milioni di utenti la canzone che meglio rappresenti lo spirito del mezzo, pescando da una lista di 45 canzoni, una per anno. Si parte da Sabato pomeriggio di Claudio Baglioni, targata 1975, per arrivare a Soldi di Mahmood del 2019. Un ideale refresh della nostra memoria pop, che però non si esaurirà nel contest attivo sul sito ilovemyradio.it dal 18 maggio fino al 31 luglio.

Dieci big della nostra scena sono stati infatti invitati a reinterpretare alcuni dei brani in lizza. Cover incrociate, beninteso. Così Elisa si produrrà in Mare mare di Luca Carboni, Antonacci si cimenterà nella battiatesca Centro di Gravità permanente, e Ferro tornerà su quella Perdere l’amore testata con Massimo Ranieri a Sanremo: “La rifaremo in coppia, non l’abbiamo mai registrata”. Gli altri sette, ancora alle prese con le scelte, sono Eros Ramazzotti, Jovanotti, J-Ax, Negramaro, Giorgia, Marco Mengoni, Gianna Nannini. Una megacompilation d’autore che sfocerà, ha annunciato Linus, in un evento live (verosimilmente da remoto, “non sono ottimista sui concerti a breve”, ha precisato) in ottobre, anche questo da trasmettere a radio unificate. Se la musica italiana si convince davvero a tornare “a casa”, per gli speculatori globali dello stream è in vista uno smacco epocale.

Non tutti i treni vengono per uccidere

Non sottovalutiamo i treni: non sono solo dei mezzi di trasporto, ma una rivoluzione della civiltà. Cosa sarebbe Anna Karenina (1877) di Lev Tolstoj, senza l’iniziale incidente ferroviario che inquieta Anna, senza l’inseguimento in treno dell’innamorato Vrònskij da Mosca a San Pietroburgo e, soprattutto, senza il meraviglioso (tale solo ai fini della drammaturgia, sia chiaro) suicidio finale di Anna? E a cosa si sarebbero ispirati i fratelli Lumière per il primo film del cinema L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1895), per rendere al meglio l’idea di un’immagine in movimento? Basterebbero questi due casi per acclarare come il treno non abbia solo cambiato il paesaggio da rurale a industriale ma sia stato il maggiore demiurgo della modernità.

A spiegare il debito che il pensiero moderno ha nei confronti della ferrovia ci pensa Storia meravigliosa dei viaggi in treno, dello scrittore svedese Per J. Andresson (Traduzione di Valeria Gorla, utet, pp. 350, euro 20), che solo all’apparenza vuol renderci edotti sul rinnovamento socio-economico operato dal treno. Certo, Andresson ci informa che fino alla prima metà dell’Ottocento il mezzo di trasporto su terra di uomini e merci era ancora il carro (tecnologia in uso sotto l’Impero romano) e che ciò rallentava la catena dell’emancipazione capitalistica, ma sottolinea subito che con la ferrovia e la potenza del motore a vapore (illimitata rispetto alla prestazione fisica dell’animale) è soprattutto un altro aspetto a cambiare: lo spazio-tempo. Dietro i dati della realtà, l’autore vuole infatti illuminare il lascito involontario del viaggiare in treno. In Inghilterra, dove appaiono i primi esemplari, l’ora locale che fino a quel momento seguiva l’alba e il tramonto e differiva di città in città viene regolata su scala nazionale: nasce la puntualità. Dal successo, invece, che da subito il treno riscuote nelle altre nazioni poiché permette di superare le barriere naturali (pensare di andare all’estero diventa molto più comune), nasce l’idea di velocità e con essa la percezione che viaggiare da esperienza singola sulla diligenza divenga collettiva. Basti pensare ai racconti delle donne protagoniste di Cuccette per signora (2001) di Anita Nair – tutte passeggere del Kanyakumari Express in India – che avvertono il bisogno di rivelarsi a perfette sconosciute rese amiche dalla convivenza a bordo.

Un ulteriore legato è l’idea di avventura ad alta velocità. Molte scene dei film della serie 007 sono, non a caso, ambientate sui treni, come Dalla Russia con amore (1963). E perché non pensare alle più odierne magie di Harry Potter, che iniziano tute al binario 9 ¾ della King’s Cross Station. Ma come insegna Agatha Christie in quel capolavoro che è Assassinio sull’Orient Express (1934) non c’è racconto senza almeno un morto. Il treno, infatti, diventa la scena di un nuovo tipo di crimine: l’omicidio ferroviario. Non essendoci, fino alla prima metà del ’900 il corridoio interno, si accedeva allo scomparto direttamente dalla banchina: nel gennaio del 1861 un articolo su Le Figaro intitolato “Rischi per i passeggeri dei treni” raccontava di un uomo (non uno qualunque, il presidente della corte imperiale Poinsot) trovato all’arrivo alla stazione di Parigi in una pozza di sangue nel proprio scompartimento. Poteva succedere. Ma la morte, come in ogni spinta verso il nuovo, è un rischio insito alla tecnologia del treno che poteva incorrere (come accade purtroppo anche oggi) ad incidenti. E se oggi sono virali i filmati amatoriali di tali disgrazie, a cavallo tra ’800 e ’900 lo stesso fascino terrificante emanava dalle “Cartoline degli incidenti dei treni”. L’altro elemento che non può mancare in una narrazione è il sesso: già dagli inizi del ’900, il padre della psicanalisi Freud inizia a interrogarsi sulle evidenze e simbologie sessuali del treno a partire dalla sua forma fallica e del suo movimento.

E non fu esente da critiche. Victor Hugo, per esempio, scrive nel 1837: “I fiori a bordo del campo non sono più fiori, sono invece macchie o meglio righe rosse o bianche; i prati somigliano a lunghe trecce verdi; i campi di grano sono grandi capigliature bionde; i campanili e gli alberi turbinano in una danza vorticosa e si mescolano follemente all’orizzonte”. Anche qui, l’involontarietà lega in qualche modo tali parole a certi paesaggi di pittori impressionisti quali Renoir, Boudin, Monet, realizzati soltanto vent’anni dopo.

“Non appoggiamo la rovina del Paese”. La destra non vota le misure di Sánchez

“Ci fermiano qui, non la appoggeremo oltre per rovinare la Spagna”. Il leader dei Popolari, Pablo Casado, non cambia idea neanche dopo l’appello alle Corti del premier Pedro Sánchez, che ieri con un discorso dai toni bellici ha richiamato “all’unità politica per salvare il Paese dalla crisi”, la più dura dell’ultimo secolo. I Popolari hanno votato contro i due decreti del governo, uno con le misure economiche e l’altro con le misure per la ripresa della giustizia post-Covid.

Nessuna sorpresa, visto che lunedì Casado aveva già annunciato la formazione di un governo-ombra pronto a contrattaccare sulle misure adottate dall’esecutivo rosso-viola di Sánchez e Iglesias. Fatto sta che ieri alle Corti – in piena pandemia – è andato in scena l’ennesimo scontro tra i leader dei due più grandi partiti spagnoli, con quello del Pp che nel suo discorso è arrivato a rinfacciare a Sanchez anche i tagli dell’ultima crisi, quella del 2008, a firma José Luis Rodriguez Zapatero.

“Non andremo oltre votando per la terza volta le misure che propone”, ha chiarito il leader del Pp, che solo qualche settimana fa aveva proposto la formazione di una commissione per la ricostruzione con la partecipazione di tutti i partiti.

A infastidire Casado è stata la mossa – a dire il vero, la finta – dei centristi populisti di Ines Arrimada di patteggiare con Sanchez un ingresso nella maggioranza in cambio del voto sul decreto Giustizia che gli arancioni però poi non hanno appoggiato. I negoziati, infatti, all’ultimo momento non sono andati a buon fine, mandando per aria di nuovo quel possibile accordo al centro che tanto spaventa i militanti socialisti. Quelli che durante i festeggiamenti della notte elettorale hanno gridato al loro leader: “Con Rivera no, con Rivera no”, riferendosi a un possibile patto con l’ex capo degli arancioni, dimessosi subito dopo le elezioni per i cattivi risultati ottenuti sotto la sua gestione. Così ieri il governo rosso-viola si è ritrovato con l’appoggio della vecchia maggioranza, quella dell’investitura, con il “rientro” anche dei separatisti catalani di Esquerra Republicana, ad approvare, tra le altre misure, quella dell’estensione dello stato d’emergenza fino all’inizio di giugno, senza chiedere la proroga ogni 15 giorni alle Corti, oltreché un maggiore protagonismo delle comunità nella gestione della “desescalada”, così come richiesto ad esempio dai catalani.

Lo scontro con la destra, anche quella di Vox, cui con la decisione di ieri i Popolari di Casado si riavvicinano, è proprio sull’emergenza, che il partito delle grandi imprese non vorrebbe si estendesse così a lungo. Dalla parte delle decisioni prese finora da Sánchez, restano i dati: la situazione Covid nel Paese è in miglioramento, ma non ancora sotto controllo: ieri i numeri sono tornati ballerini, con un leggero rialzo dei morti, 187 nelle ultime 24 ore, mentre nella metà delle province hanno riaperto anche bar e ristoranti e ci si può riunire per un massimo di 10 persone alla volta. Barcellona, da parte sua, ha fatto sapere che non chiederà di passare alla fase 1, ancora troppi contagi e situazione instabile.

Corte Ue, la sponda di Ursula ad Angela contro i sovranismi

La sentenza della Corte costituzionale tedesca e la proposta di Bruxelles di una procedura di infrazione contro la Germania hanno messo il partito conservatore tedesco davanti a un redde rationem su una questione da sempre spinosa: il senso della Cdu per l’Europa. Quanto devono contare le istituzioni europee? È questo il tema che divide in queste ore i cristiano-democratici, come si è visto nella riunione del gruppo di martedì. Se la Ue è un’istanza sovraordinata a cui gli Stati si sottopongono, allora è giusto che sia la Corte europea di giustizia di Lussemburgo ad avere l’ultima parola, se invece è un’istanza subordinata alla sovranità degli Stati, allora è più che lecito che la Corte tedesca di Karlsruhe esprima il suo parere vincolante. Nei cristiano-democratici ci sono esponenti di spicco che sostengono queste posizioni: dalla parte di una sovranità Ue limitata c’è l’ultimo grande vecchio della Cdu di Helmut Kohl, il presidente del Bundestag ed ex temuto ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble e il suo pupillo e candidato alla cancelleria Friedrich Merz.

Non a caso, proprio da Merz è arrivato un elogio alla sentenza dei giudici costituzionali tedeschi, che ha ammesso il programma di acquisto dei titoli di Stato da parte della Banca centrale europea, ma ne ha contestato la proporzionalità, non lesinando critiche al giudizio della Corte Ue di giustizia del 2018. La sentenza di Karlsruhe riconosce che la Bce ha ecceduto il suo mandato, ha commentato Schäuble, ribadendo una posizione da sempre sostenuta dall’ala economica e più conservatrice della Cdu. Dal lato europeista c’è l’altro candidato Cdu alla cancelleria, Norbert Roettgen, che ha definito “fatale” la sentenza di Karlsruhe, e da ieri pubblicamente anche Angela Merkel. Nel conflitto tra Corte tedesca e Corte europea la cancelliera si è esposta, per la prima volta, a favore di un’interpretazione più europeista nel question time di ieri al Bundestag. A proposito della sentenza di Karlsruhe ha detto: “Il giudizio della Corte va rispettato” ma “il governo tedesco darà il suo contributo per dare una risposta nel senso di un’Europa forte”. Tradotto: non torneremo indietro nel tempo. In questo conflitto tra le due anime della Cdu si inserisce la posizione della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che a tempo di record ha fatto sua la richiesta del capogruppo dei Verdi europei, Sven Giegold, di avviare una procedura di infrazione contro la Germania. In una lettera indirizzata alla presidente della Commissione del 9 maggio scorso, l’eurodeputato tedesco ha motivato la richiesta di infrazione sottolineando che “un conflitto crescente per l’acquisto di obbligazioni tra la Bundesbank e la Bce non contribuirebbe alla stabilità dell’Unione monetaria”. A questa lettera la presidente della Commissione ha risposto in tempi insolitamente brevi dicendo “di prendere la cosa molto seriamente” e ribadendo che “l’ultima parola nel diritto europeo ce l’ha la Corte europea di Lussemburgo”.

Come è noto, Von der Leyen è molto vicina a Merkel e non è un mistero che la cancelliera sia stata il grande sponsor della sua nomina alla presidenza della Commissione meno di un anno fa. È dunque probabile che la procedura di infrazione di Bruxelles sia una sponda non casuale per arginare una faccenda, che in un’atmosfera di rinascita di nazionalismi europei, potrebbe diventare “spinosa”. Senza l’Europa per la Germania non c’è futuro, ha più volte ripetuto Merkel. A parole sono tutti d’accordo nella Cdu ma poi, quando si chiede “dove risiede la sovranità?”, gli europeisti di facciata tornano a mostrare il loro lato destro.

Londra, assalto alla metro. BoJo sbugiardato sui morti

L’immagine iconica di ieri è quella del pm britannico Boris Johnson che, in una Camera dei Comuni semivuota, affronta il neo-leader del Labour Keir Starmer nel tradizionale question time del mercoledì. È il loro secondo duello. Dal primo, la scorsa settimana, Johnson era uscito ammaccato, ma parzialmente giustificato: era appena rientrato al lavoro dopo ricovero da Covid e convalescenza. Senza la claque dei compagni di partito e di fronte all’eloquenza di Sir Starmer, che per anni è stato un brillante avvocato, Johnson è apparso come un imperatore nudo, più generico e mal informato che mai; quando ha negato che il governo abbia a lungo minimizzato la possibilità di contagio nelle case di cura, Starmer lo ha inchiodato alle linea guida ufficiali, che fino al 12 marzo recitavano: “È altamente improbabile che gli ospiti della case di cura vengano infettati”.

E invece è proprio la mortalità nelle case di cura ora a condannare il governo. I dati ufficiali definitivi non sono ancor certi, ma in particolare nelle residenze per anziani, secondo la London School of Economics, i morti sarebbero 22mila, più del doppio del calcolo ufficiale di 8.314.

La conta quotidiana dei morti è salita a 33.186, ma secondo stime autorevoli e concordi sarebbero oltre 55mila. I tamponi somministrati restano stabilmente intorno agli 80mila al giorno, ben lontani dall’obiettivo di 100mila. E, dopo 7 settimane di confronti a favore, ora che il Regno Unito è il secondo paese al mondo per numero di vittime dalla conferenza stampa del governo è sparito il grafico comparativo con gli altri paesi.

Poi c’è il fronte economico. Lo ha chiarito ieri il ministro delle Finanze Rishi Sunak: il Regno Unito si avvia a una “grave recessione”. Commentava i dati sul Pil nel primo trimestre del 2020: una contrazione del 2%, a cui si aggiungono previsioni anche peggiori per il secondo trimestre. Il governo pompa denaro pubblico per tenere in vita l’economia: martedì Sunak ha annunciato la proroga a ottobre della cassa integrazione all’80% per oltre 7 milioni di richiedenti. Alle foschissime prospettive economiche si deve l’allentamento del lockdown, accolto però con molte polemiche.

Va chiarito che le maglie del confinamento, nel Regno Unito, sono sempre state già molto più lasche di quelle italiane o spagnole. Le scuole non hanno mai chiuso completamente, per accogliere i bambini vulnerabili o i figli dei lavoratori essenziali. Non è mai stata necessaria un’autocertificazione per uscire; anzi, l’esercizio fisico, fino a un’ora al giorno, è sempre stato incoraggiato, senza grandi controlli.

Ma da ieri chi può (formula volutamente vaga) è “attivamente incoraggiato” a tornare al lavoro: il risultato sono le immagini, rilanciate da media e social network, di mezzi di trasporto pieni, con misure di distanziamento osservate in modo casuale, scarse le sciarpe a coprire il viso e scarsissime le mascherine. Anche sul coprire la bocca le indicazioni del governo non sono perentorie: il parere scientifico ufficiale è che non facciano una grande differenza, se non in luoghi chiusi e in spazi ristretti. Ieri la rivista scientifica Lancet ha pubblicato i risultati di una ricerca dell’University College: circa il 20% della forza lavoro ha patologie pre-esistenti, come diabete o ipertensione, ed è particolarmente a rischio in caso di contagio. 8 milioni di persone.

La classica bomba a orologeria. Paradosso significativo, che colora di privilegio sociale la nuova fase: da ieri si può ricevere a casa un collaboratore domestico o un agente immobiliare, ma non due parenti stretti. Polemiche anche sulla decisione di imporre solo alla fine del mese, per la prima volta, la quarantena per gli arrivi dall’estero: servirebbe a impedire una recrudescenza ora che i contagi appaiono in calo. Vacilla anche l’unità del partito conservatore, che dopo la guerra interna a Theresa May sembrava essersi rinsaldata con l’elezione di Boris Johnson a leader.

Ora le cautele sull’allentamento del lockdown gli costano l’ostilità dei falchi, che vorrebbero far ripartire l’economia completamente, mentre altri mal tollerano la sua gestione della crisi. Per esempio, il fatto che abbia annunciato le nuove misure direttamente alla nazione, senza passare per il Parlamento e dimostrando così di non rispettarne la sovranità.

Il dc con le corna dei vichinghi

Troppu trafficu ppi nenti, per dirla con Andrea Camilleri – Tanto rumore per nulla, dunque, con William Shakespeare – se la giornata di ieri, con la nomina di un leghista all’assessorato alla cultura nel governo della Regione siciliana, è stata così sottosopra da far sbucare fuori dalle corna dei vichinghi un notabile democristiano.

Eccolo: Matteo Francilia, mancato deputato del centrosinistra quando nel 2017 si candida contro la coalizione di Nello Musumeci è attualmente sindaco di Furci Siculo in quota Giampiero D’Alia, il rais centrista eolian-peloritano che a sua volta fu assessore del compagno Rosario Crocetta e dunque, caro lettore: troppu trafficu ppi nenti. Anzi, no, urge Pirandello: Così è se vi pare.

La giornata di ieri ha messo a soqquadro tutto il sopracciò dei social tutti – tutti indignati – e delle Patrie lettere tutte addolorate ma l’arrivo del polentone chiamato a rappresentare l’identità siciliana non apre la strada al Papeete (un fior di modello nel turismo), piuttosto aggiorna il più sopraffino trasformismo nell’eterna Sicilia dei Francantonio Genovese (manco a farlo apposta farina dello stesso sacco messinese).

Nipote di Nino Gullotti – il ministro Dc della Prima Repubblica – poi battezzato segretario regionale del Pd da Walter Veltroni, quindi cresimato berlusconiano direttamente dal Cavaliere, Genovese incarna il prototipo di cui il neoassessore neoleghista si fa replicante. Francilia, infatti, è stato anche candidato di Mario Monti alle Politiche ma sempre così è – se vi pare – questa storia tra le tante, nell’esito di un’arte complicatissima.

Tutta di realtà più che di nemesi, se vi pare. Nuccio Molino, navigato analista di politica siciliana, interrogato sul tema risponde: “Mi rifiuto di spiegare la Sicilia a me stesso.”

Tra i leghisti di Sicilia, nomi cui attingere ce ne sarebbero. Il più titolato è Alberto Samonà, scrittore, attivo nel cda della Fondazione Piccolo di Calanovella. A Milano qualcuno ha pensato a un potente protagonista di Milano – nonché protagonista potente di Sicilia – qual è il banchiere Gianni Puglisi, artefice massimo dell’Unesco. Ma potrebbe, la Lega, adottare lo stesso metodo usato in Umbria dove alla Sanità c’è il veneto Luca Coletto. In Sicilia, appunto, un assai gradito assessore alla cultura e all’identità siciliana non potrebbe che essere Andrea Mascetti da Varese.

Leader di Terra Insubre, Mascetti, corrisponde a una terra di per sé lumbard. Il Gran Lombardo – con Elio Vittorini in Conversazioni in Sicilia – è il ceppo che s’innerva all’ombra del Castello di Lombardia, a Enna, nella normanna Sicilia bedda, col suo parlamento, Palazzo de’ Normanni, plasmato dalla vocazione zero sovranista e tutta universale se la Cappella Palatina al suo interno è la perfetta scenografia di una cantata di Lello Analfino: “Mezzi cattolici e mezzi musulmani”.

Dopodiché, certo, la Sicilia è uno, nessuno e centomila.

Post scriptum. A proposito di numeri. Ai tempi della Lega Nord, Gianfranco Miglio raccontava con orgoglio come sua nonna disdegnasse la lingua italiana: “Contava le proprie galline in tedesco, ein, zwei, drei…”. Lo storico Santi Correnti, compiacendosi, gli rispondeva così: “Esimio collega, anche mia nonna non parlava italiano, ma solo in siciliano; e però non contava le galline, ma i propri feudi!”.

Il rispetto umano, la chiesa e il Covid

Al tempo della pandemia da Covid-19 i fedeli delle varie religioni si sono trovati a vivere una situazione inedita. In particolare, i credenti delle religioni monoteiste non hanno potuto celebrare con le proprie comunità di appartenenza, in maniera ordinaria, le grandi feste che sono tutte cadute in aprile: la Pasqua ebraica, quella cattolica, quella ortodossa e il Ramadan.

La ragione è nell’impedimento a riunirsi a causa delle norme stabilite dai governi di molti Paesi in tutto il mondo per rallentare la diffusione di un virus altamente contagioso. La proibizione delle celebrazioni nei luoghi di culto è solo un esempio delle restrizioni di vasta portata all’esercizio di molti diritti umani e libertà civili in tutto il mondo, determinate dallo sforzo di far sì che la distanza fisica prevenga efficacemente le infezioni. Dopo la caduta del Muro di Berlino, non si ricorda in Europa una simile restrizione della libertà religiosa o di altri diritti fondamentali, che sono la spina dorsale della nostra democrazia e dello Stato di diritto. Tante voci si sono levate come se in alcuni Paesi si fosse messa in discussione la libertà di culto. Che cosa pensare di quanto è accaduto, dunque?

Per una valutazione adeguata occorre comprendere che per l’umanità la sfida che stiamo vivendo è davvero seria. Abbiamo assistito – in mancanza di un vaccino e di cure adeguate – allo sconvolgimento dei sistemi sanitari nazionali in tutto il mondo. I focolai pandemici hanno provocato il contagio e la morte. Limitare severamente il contatto fisico tra le persone si è rivelato l’unico rimedio efficace, riducendo al minimo tutte le attività non essenziali: commerciali, culturali e sportive, raduni e celebrazioni private. Tutto questo ha significato una certa limitazione dei diritti fondamentali sanciti dal diritto nazionale, internazionale ed europeo. Tra questi, il diritto alla libertà di religione o di credo, che infatti comprende la libertà di ogni persona di manifestare, anche in comunità e in pubblico, la propria religione o il proprio credo, nel culto, nell’insegnamento, nella pratica e nell’osservanza. Le modalità proprie di una celebrazione liturgica – che richiede gesti, contatto, prossimità, che non è detto siano compatibili con i protocolli di sicurezza – non sono immuni, come ogni attività umana, dai meccanismi di trasmissione del contagio. Inoltre, una cosa è visitare individualmente un museo o una libreria, altra cosa è partecipare a una liturgia comunitaria: ogni paragone tra le due attività è improprio.

Se alcuni diritti fondamentali come la libertà di coscienza o di espressione non dipendono dal contatto sociale, altri invece – come la libertà di religione o di credo, e la libertà di associazione – sono diritti strettamente legati alla comunità e alla libertà di riunione. Proprio questi sono quindi particolarmente influenzati dalle misure attuali di lockdown.

La salute pubblica è menzionata specificamente dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo come uno dei rarissimi motivi per limitare la libertà di religione o di credo (articolo 9). Alcuni Stati hanno dichiarato emergenze nazionali, che consentono anche alcune restrizioni dei diritti fondamentali ai sensi della Convenzione. Quindi, le attuali restrizioni sono legali e accettabili dal punto di vista dei diritti umani. Consideriamo che la protezione dei deboli e dei vulnerabili è un valore molto elevato anche dal punto di vista religioso, e quindi deve essere bilanciata con il bisogno di comunità e di aggregazione. I provvedimenti sono volti a salvaguardare la vita umana, sia dei credenti che degli altri membri della società. Dunque, è importante riconoscere che il divieto delle assemblee, comprese le celebrazioni religiose, non deve normalmente essere inteso come discriminazione religiosa o addirittura persecuzione.

Tuttavia, tutte le restrizioni dei diritti fondamentali devono avere una base giuridica, essere necessarie, adeguate, ragionevoli e generalmente proporzionate in relazione allo scopo che servono e al diritto che limitano. La minaccia del Covid-19, per quanto grave, non esonera governi e parlamenti da questi requisiti. Le voci della comunità giuridica e di diverse comunità religiose si sono chieste se tutte le misure del lockdown siano proporzionate. D’altra parte, l’urgenza e il pericolo hanno richiesto ai governi di prendere decisioni molto serie e di vasta portata con brevissimo preavviso, ponendo sulle loro spalle un carico enorme in termini di responsabilità. È il caso per l’Italia dei “Decreti del Presidente del Consiglio” (Dpcm), atti amministrativi che non hanno forza di legge e che servono per dare attuazione a norme o varare regolamenti.

La società, portatrice di diritti fondamentali, deve dunque essere consapevole che le attuali restrizioni servono principalmente all’imperativo morale di proteggere le vite umane e non sono utilizzate per altri scopi politici, tranne in pochi deplorevoli casi. Se negli Stati democratici è sempre necessario mettere in discussione e controllare da vicino le azioni del governo, soprattutto quando limitano i diritti fondamentali, questo non ci sembra il momento per invocare una malintesa “disobbedienza civile”.

Tenendo presente che la dignità umana è più della vita umana e che gli esseri umani hanno bisogno di contatti sociali, i cittadini possono avere comunque dubbi sulla legalità delle misure adottate. Alcune di esse pongono chiaramente la questione se siano adeguate e proporzionate. In tali casi esiste ed è sempre legittimo e appropriato approfondire per valutare e, se è necessario, correggere le misure in questione. Ciò corrisponde all’esercizio di un altro diritto fondamentale: quello della tutela giuridica.

Ma è chiaro che, generalmente parlando, occorre esercitare pazienza e buona volontà, seguendo con realismo le norme volte a proteggere gli altri dalle infezioni. Sottovalutare le indicazioni dell’autorità sanitaria significherebbe essere irresponsabili. È invece fondamentale che siano messe a disposizione dai governi misure ad hoc che permettano ai fedeli di partecipare al culto in condizioni di sicurezza sulla base dell’evoluzione della curva epidemiologica. Non si devono assolutamente trascurare le esigenze spirituali delle comunità religiose che, con i loro valori, contribuiscono a garantire la tenuta e la coesione sociale. In particolare, in Italia, dal 18 maggio nelle chiese cattoliche riprendono le celebrazioni liturgiche con il popolo nel rispetto delle normative sanitarie. La decisione è frutto di un Protocollo sottoscritto dal presidente del Consiglio, il presidente della Conferenza episcopale italiana e il ministro degli Interni. Analoghi impegni sono stati assunti con le altre Confessioni religiose. Per ciò che riguarda le Chiese cristiane, è sempre importante considerare che il culto e l’azione pastorale sono pure vissute, come possibile, anche in condizione di lockdown. La Chiesa, se davvero è tale, non è mai “chiusa”.