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Non esistono “governatori” di Regione: sono presidenti

Lettrice del nostro quotidiano dalle prime edizioni, in precedenza fan di Montanelli (di cui conservo tutte le pubblicazioni e i suoi editoriali), oggi vi rivolgo un ordine, non una preghiera: piantatela di chiamare governatori i presidenti di Regione. Sono presidenti eletti dal popolo: nella nostra legislatura la figura del governatore non esiste. Grazie, buon lavoro e bravi con Sono le Venti.

Alda Cologni 

Cara Alda, ha ragione.

M. Trav.

 

Scarcerazioni dei boss: chi ha subito pressioni?

Gentile direttore, non le ho mai scritto, ma leggo il suo quotidiano da quando è nato: complimenti a lei e a tutti i suoi collaboratori! Volevo chiederle a proposito delle scarcerazione dei boss: non l’ha mai sfiorata il pensiero che le pressioni o altro possano averle avute i giudici?

Luigi Cugurra

Caro Luigi, temo che certi giudici “democratici” e “garantisti” non abbiano neppure bisogno di pressioni.

M. Trav.

 

I musei non dimentichino i lavoratori precari

Con riferimento alla lettera pubblicata martedì, desidero far sapere al giovane storico dell’arte quale è realmente il mio pensiero, perché quanto ha letto su “un giornale” (quale? quando?) ha fatto seguire a lui e al prof. Montanari ragionamenti che non vorrei sembrassero collegati al mio pensiero. Se da anni mi faccio carico di un lavoro pesantissimo, senza orari, pieno di rischi e responsabilità è principalmente per sviluppare occupazione dignitosamente retribuita per le nuove generazioni che hanno ostinatamente insistito a voler studiare il nostro patrimonio culturale per lo sviluppo culturale del Paese. Lo testimoniano tantissimi miei articoli e interviste: mi spiace che non li abbia letti e che si sia spaventato per “un giornale”. Detto questo, le preoccupazioni in un epoca come la nostra sono comprensibili. Desidero comunque che i lettori de Il Fatto non ricevano, per accostamenti che non hanno nulla a che fare con il mio pensiero, una immagine distorta dell’impegno della direzione generale musei e del sottoscritto.

Antonio Lampis, Dg Musei

Sono convinto che il direttore generale non si risparmi: mi pare il minimo, visto che il suo stipendio lordo annuo si aggira intorno ai 150 mila euro, e che i musei che dirige si reggono su un diffuso schiavismo di precari ora ridotti alla fame. Non so a quale sua dichiarazione si riferisse il giovane collega che ci ha scritto. Io ne trovo una di dieci giorni fa in cui, alla domanda “Riguardo ai custodi: si potrebbe pensare di assumere dei giovani nei posti che mancano?”, lei risponde: “È costosissimo e i musei senza gli incassi non possono vivere. Nell’immediato dobbiamo agire (se arrivano i rinforzi europei e regionali) su sistemi di sicurezza, allestimenti e pagamenti”. Che in effetti, tradotto suona: “Un dissuasore costa meno di un custode”.

Tom. Mont.

 

Territori a statuto speciale: troppe libertà (o capricci)?

Il Trentino con la scusa di Regione a statuto speciale, si mette in contrasto con le decisioni del governo nazionale. Forse sarebbe ora che questi Statuti speciali fossero eliminati… A me pare una vergogna, basti pensare che il Trentino, con poco più di un milione di abitanti, ha ben 70 consiglieri regionali, 20 in più del Lazio e della Campania, che di abitanti ne hanno quasi 6 milioni. Se calcoliamo che ogni consigliere regionale, con tutti gli annessi e connessi, costa alla popolazione quasi 15 mila euro al mese… a voi trarre le somme.

Antonio Fiengo

 

Droplet, lockdown, green: l’inglese è il neo-latinorum

Per evitare il droplet facciamo il lockdown, utilizziamo lo smart working e realizziamo il green deal. Non è ora di piantarla con questo latinorum del XXI secolo e di chiamare le cose col loro nome?

Fabio Tomei

 

Il nostro Paese inquinato da misogini e ignoranti

Mio zio mi ha mandato due foto di Silvia Romano, prima volontaria e poi a Ciampino con l’abito somalo, con la scritta: “Vuoi una vacanza che ti cambi la vita? Sei stanca degli occidentali e di una vita lontana dalla religione fondamentalista? Parti anche tu con Farnesina Viaggi a costo zero! Paga tutto Pantalone!”… Sono nipote di un leghista, che è il motivo per cui non ho più Facebook: mi vergognavo di mostrare la mia parentela con lui e le sue scempiaggini… Ora abito in Germania, da 10 anni, e sono una “fottutissima sporca immigrata” anche io! Eppure mio zio non è solo: c’è un marasma di gente che la pensa così. Sono magari quelli che vanno in chiesa, salvo poi cornificare la moglie. Non mi interessa se lo fanno, ma l’ipocrisia che c’è dietro. Sgranate il rosario e poi pisciate sull’immigrato: da vomitare. Io dico a questi misogini e ignoranti che inquinano il Paese: “Ma ’ndè in mona!”. Saluti da Mannheim!

Ludovica

 

“Repubblica” sa di fare il gioco di Salvini?

Mi è capitato più volte di sentire il “capitano” Salvini citare tutto soddisfatto Repubblica per rafforzare le sue dichiarazioni. Lui lo sa che sono cambiate alcune cose e quindi citarla ora come giornale di sinistra non ha senso? E coloro che hanno dato questa nuova linea al giornale son contenti di rafforzare le idee di Salvini?

Orlando Murray

Residenze per anziani. Maria Giovanna e Matilde sono guarite: festeggiamole

Gentile redazione, alcuni giorni fa, Maria Giovanna è tornata a “casa”: 84 anni, primo caso di Covid-19 del nucleo accreditato della residenza per anziani “Nevio Fabbri” di Molinella, in provincia di Bologna, a dispetto delle statistiche è guarita e ha potuto riabbracciare amici, familiari e operatori, anche se per ora in modo solo virtuale. Poi si è ammalata Matilde, 85 anni: anche lei ha vinto il Coronavirus ed è stata festeggiata con gioia dagli altri ospiti della struttura e dagli operatori.

Le nostre nonnine sono diventate il simbolo della vittoria del bene sul male, della salute sulla malattia, della vita sulla morte. Entrambe non sanno cos’è accaduto dopo le loro diagnosi: applicazione immediata d’istruzioni operative d’emergenza, distanziamento di due metri, ospiti in quarantena, zone rosse, blocco degli accessi al servizio da parte di parenti e fornitori, videochiamate quotidiane tra ospiti e familiari preoccupati, rivoluzione nei piani di lavoro, sanificazioni.

E la nostra stanchezza, l’irriducibile forza, la paura di qualcosa che non vedi, non sai da dove venga e se andrà via, l’immensa fatica, sfoghi, frustrazione, anche lacrime, ma tutti sempre presenti, senza mollare mai. Un lavoro di resistenza e cooperazione, sostenuti l’uno dall’altro e dallo psicologo che ci ha aiutati, con un risultato di cui possiamo essere fieri: nessun contagio ulteriore, zero decessi, nessuna assenza per malattia di chi presta servizio in struttura, personale negativo ai test per la ricerca del Covid-19.

È il nostro lavoro, lo scegliamo ogni giorno, andando in prima linea, indossando e svestendo tute, cuffie, calzari, occhiali e guanti protettivi, sudando e respirando dentro a camici e spesse mascherine per turni di otto, a volte dodici ore, accettando un possibile rischio, che può diventare reale per un errore umano dovuto a distrazione e stanchezza.

Sembra pazzesco da dire, ma è stato bello. Bella la nostra squadra di operatori sociosanitari, infermieri, psicologi, fisioterapisti, animatori, medici, responsabili dei reparti, ausiliari, impiegati. Belli gli occhi sorridenti dietro le mascherine, le carezze agli anziani spaventati. Belle le guarigioni, le feste per Maria Giovanna e Matilde, e le parole di conforto per i familiari che da mesi, per proteggerli, non vedono i loro cari. Bello è che in questo periodo terribile, ognuno di noi della “Nevio Fabbri” abbia potuto fare la differenza.

Giuseppe Vito,Coordinatore “Nevio Fabbri” (Bo)

Gallera non impara dagli errori, oramai è uguale a Badoglio

Uno dice: ha sbagliato tutto all’inizio, quando eravamo tutti impreparati e colti di sorpresa dall’attacco del virus; ma ora ha avuto il tempo per reagire, per predisporre i piani di contrasto alla pandemia. Finalmente ci sarà la riscossa. Invece no. Giulio Gallera no. L’assessore al Welfare della Regione Lombardia no. Volete le mascherine, che sono obbligatorie? Compratevele, spesso a prezzi gonfiati. Per mappare i contagi sono necessari test sierologici e tamponi? Fateveli a vostre spese, nei laboratori privati, o dando soldi pubblici alle strutture private. Questa è la fase 2 della Regione più ricca d’Italia: ciascuno s’arrangi come può. Evviva il libero mercato.

Questo è il senso della delibera regionale di Gallera e del suo presidente Attilio Fontana che liberalizzano il mercato dei test sierologici per sapere se nel sangue sono presenti gli anticorpi al Covid-19. È la dichiarazione di resa finale: noi non ci riusciamo, fate voi, cercatevi un laboratorio privato, sceglietevi un test qualsiasi e poi pagate sia il test, sia il tampone che sarà necessario nel caso di test positivo.

A febbraio, Gallera aveva indossato la divisa del generale Cadorna, quello della disfatta di Caporetto. Aveva lasciato dilagare il contagio nell’ospedale di Alzano Lombardo, poi a Bergamo, a Brescia, a Milano. Niente zona rossa, mentre il virus si diffondeva negli ospedali, contangiando medici e infermieri, e sul territorio. E nelle residenze per anziani, lasciate senza protezione.

La regione con la “sanità d’eccellenza” si è così trasformata nell’area d’Europa più colpita dal virus. Abbandonata Caporetto al suo destino, il general Gallera si era attestato in Fiera, la sua linea del Piave, pronto ad accogliere nel suo nuovo Bertolaso Hospital 400 pazienti in terapia intensiva. Mai arrivati. Spesi 21 milioni per ospitare venti pazienti: dopo la disfatta, il flop.

Ora, per la fase due, sarebbero necessari medicina territoriale, controlli degli infetti, mappature degli asintomatici. Test e tamponi di massa. I test sierologici sono importanti perché rilevano la presenza di anticorpi, quindi fanno scoprire se si è venuti a contatto con il virus, anche se asintomatici. Fatti in maniera diffusa, i test permettono dunque di raccogliere i dati epidemiologici per mappare la circolazione del virus nella popolazione.

Ma Gallera, dismessa l’uniforme del general Cadorna, ha indossato quella di Badoglio per celebrare il suo 8 settembre della sanità, lasciando soli, come per settimane medici e infermieri, anche i cittadini. Non ha scelto un test unico, vale tutto, dalla chiusura si è passati al far west. Se un gruppo, un’azienda, un Comune vuole il test, si accordi con un laboratorio e se lo paghi (un test costa circa 70 euro, 62 euro il tampone, se riuscite a trovare chi ve lo fa).

Dice così la sua delibera. Via libera ai test sierologici per scoprire gli anticorpi Sars-Cov-2, sia quelli con prelievo del sangue, sia quelli rapidi “pungidito”. Li possono eseguire i laboratori privati specializzati in microbiologia e virologia o con sezioni specializzate in microbiologia e virologia. Screening fai-da-te.

Negli ambiti in cui è più necessario eseguire controlli e mappature – i luoghi di lavoro – i test non saranno rimborsabili dal sistema sanitario regionale, che poverino ha già buttato tanti soldi nell’ospedale in Fiera delle vanità. I risultati dovranno essere comunicati all’Ats, con l’impegno a realizzare in proprio – e a proprie spese – anche i tamponi a chi risulterà positivo al test. È l’eccellenza lombarda del maresciallo Giulio Gallera Badoglio.

Papa Bergoglio, il cristianesimo oltre gli schemi

L’articolo di Ernesto Galli della Loggia uscito sul Corriere della Sera domenica si potrebbe riassumere così: la Chiesa di Papa Francesco non ha più peso politico perché non è più autenticamente religiosa. Un po’ paradossale, da parte di un pensatore laico, eppure molto aderente all’idea direttiva del suo testo.

La Chiesa cattolica, dice Galli della Loggia, fin dall’età costantiniana e fino all’Italia dell’ultimo secolo, ha sempre esercitato un peso politico decisivo per la sua capacità di orientare, con il suo insegnamento e la sua pastorale, ingenti masse di persone che ne seguivano le indicazioni morali e spesso anche direttamente politiche. Tutti ricordano quanto abbia pesato nelle decisive elezioni italiane del 1948 lo slogan: “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”. E tanti altri esempi simili. Ebbene, la forza di questa vasta influenza della Chiesa è sempre dipesa dai contenuti strettamente religiosi del suo insegnamento. Contenuti che, come Galli dice, alludono alle tematiche essenziali della vita umana: la morale personale e collettiva, il destino eterno dell’anima, il senso della vita e della morte. Galli non nomina l’Inferno, ma si capisce che anche questo è un suo termine di riferimento.

D’altro canto, anche e proprio dell’Inferno Papa Francesco parla poco o niente; così pure dell’aldilà, della vita eterna, eccetera. Nella sua predicazione prevalgono temi come la pace nel mondo (pensiamo alla – oserei dire – rivoluzionaria dichiarazione ecumenica di Abu Dhabi del 4 febbraio 2019, Documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune”, che non ricordo Galli abbia menzionato), la giustizia sociale, i poveri e gli esclusi fino alle masse di migranti costretti a cercare una vita migliore lontano dalle proprie regioni di origine. Invece, cito: “Dominano il discorso di Bergoglio insieme a una marcata noncuranza della vicenda culturale dell’Occidente e un’ostilità sempre allusa ma chiarissima per il capitalismo e per gli Stati Uniti, una forte simpatia per la dimensione dell’iniziativa spontanea e per l’auto-organizzazione popolare… e infine l’auspicio di una economia natural comunitaria a base egualitaria… e la proposta di recente avanzata da Francesco stesso di un non meglio specificato ‘reddito universale’”. Tutte cose ovviamente conformi al messaggio evangelico, ma che nella predicazione di Bergoglio cambiano di segno “quando il richiamo al depositum fidei cattolico tende a essere messo sullo sfondo fino a svanire”.

La predicazione di Bergoglio non parla più della vita e della morte, della trascendenza, temi essenziali per ogni religione; e perdendo l’“innervatura teologica” si riduce a “discorso ideologico di una ideologia a sfondo populistico-comunitario-anticapitalistico, non dissimile da altri in circolazione specie nel Sud del mondo”.

Un sacco di buone ragioni, se si toglie l’evidente preferenza di Galli per “l’Occidente” e una certa antipatia per il Sud del mondo, quel Sud da cui anche Bergoglio viene e che non ha mai contato molto nella politica della Chiesa. È ben vero che la predicazione cristiana di Papa Francesco è eterogenea rispetto al cristianesimo come lo ha sempre visto il pensiero laico cui Galli si ispira, e che ne sente una certa nostalgia. Ma come mi sembra evidente dall’assenza di attenzione verso la dichiarazione ecumenica di Abu Dhabi, Galli non crede ci possa essere un mutamento storico nel messaggio evangelico, visto che la Chiesa esiste appunto per questo (la Pentecoste…).

A molti cristiani cattolici Bergoglio non sembra affatto un Papa “irreligioso”, ma un dono provvidenziale per ripensare la vita cristiana fuori dai troppi schemi prevalentemente conservatori e tradizionalisti in cui è sempre stata presentata. È troppo dire che molti di noi, da quando c’è Papa Francesco, si sentono meno imbarazzati a dirsi cristiani?

Ambiente, 40 anni fa già sapevamo tutto

Non ho niente da fare. Scartabello il mio archivio cartaceo, che ovviamente è datato al tempo in cui i giornali esistevano ancora, e trovo la cartellina “Ambiente”. Sono articoli fra la fine degli anni 80 e gli inizi dei 90. L’allarme ambientale, con tutte le sue implicazioni che non sono solo e semplicemente ecologiche ma anche sociali ed esistenziali, era stato lanciato una ventina d’anni prima dal Club di Roma diretto da Aurelio Peccei che aveva incaricato un gruppo di scienziati del mitico Mit (Massachusetts Institute of Tecnology) di elaborare uno studio che era stato poi raccolto in un libro col titolo: I limiti dello Sviluppo.

C’erano stati dei precursori come Rachel Carson che aveva pubblicato Silent spring (1962), ma avevano avuto una scarsissima eco perché negli anni Sessanta la sensibilità ambientale era modesta. A cavallo fra gli Ottanta e i Novanta la questione era diventata invece calda. C’era però chi aveva già capito tutto. Leggo: “La prima certezza è che il mercato, l’industria e tutto ciò che compone una economia moderna, sono in sostanza invenzioni del Demonio… prevarranno frugalità e letizia e tutti saranno in armonia con se stessi, con gli altri e con la natura. Ciò che è più stupefacente nell’Italia di oggi è che una simile ideologia, reazionaria nel senso stretto e tecnico del termine, espressione cioè di una rivolta conservatrice contro la modernità, continui imperterrita a sopravvivere impregnando di sé il sentire comune di ampie fasce del Paese, ivi compresa buona parte degli intellettuali”. Chi può essere se non Angelo Panebianco in un commento sul Corriere del 1989 (“Ambiente e populismo”, 30.5)? Trombone era già a quarant’anni e trombone è restato. Oggi tesi del genere possono essere solo di un Panebianco o di un Trump, con la differenza che il secondo è perlomeno folcloristico mentre il primo è plumbeo.

Dopo la pubblicazione de I limiti dello Sviluppo conferenze internazionali sull’ambiente, con partecipazione spesso di capi di Stato, si sono fatte un po’ ovunque, ma senza cavarne un ragno dal buco perché nessuno vuole rinunciare al mito della crescita, inoltre sono entrati in scena Paesi enormi come la Cina che stanno crescendo esponenzialmente. Ma quello che negli anni Ottanta poteva sembrare un dibattito fra intellettuali, oggi è diventata una questione di vita o di morte. Secondo una ricerca della rivista scientifica Geophysical Research Letters dal 1979 il volume del ghiaccio del Polo Nord si è ridotto del 70 per cento. Ma è solo uno dei tanti segnali sinistri dell’aumento sempre più galoppante dell’anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera, dovuto, in massima parte, alla produzione industriale.

Purtroppo gli scienziati del Mit in una cosa si sbagliavano: pensavano che alcune fonti energetiche, come il petrolio, o altre necessarie all’attuale modello di sviluppo (stagno, tungsteno, zinco) si sarebbero esaurite entro il Duemila o poco oltre. Se ciò fosse avvenuto saremmo stati costretti dalla necessità ad autoridurci. Ma così non è stato.

Non mi sono mai occupato nei miei libri e nei miei scritti d’occasione di questioni strettamente ecologiche, perché ritengo che il problema ambientale, pur importante, sia solo un aspetto di secondo grado (in fondo l’uomo ha dimostrato di essere un animale molto adattabile) rispetto alle devastazioni che Tecnologia insieme alla sua sorella gemella Economia fanno sul nostro esistere, allontanandoci dal senso della comunità, dagli altri e alla fine anche da noi stessi.

Ma questo alla fine era anche il pensiero di quelli del Mit, che non erano degli umanisti ammalati d’utopia ma degli scienziati con le carte in regola, che concludono così I limiti dello Sviluppo: “Un’ultima osservazione: è necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i valori che la ispirano, oltre che pensare al mondo che si accinge a modificare, incessantemente, giacché il problema non è solo stabilire se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta”.

Gramellini, il puro Cappuccetto rosso del giornalismo

Alla fine della fiera, Gramellini s’è scusato per il pezzo che scrisse sul Corriere della Sera nel 2018, quando fu rapita Silvia Romano. Intitolato “Cappuccetto rosso”, cominciava così: “Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto”. Terminava così: “A suo modo, voleva aiutarli a casa loro”. Oggi definisce quell’infamia un “errore di comunicazione”, e magari qualcuno se la beve. In realtà, è puro Gramellini. Nel 2001, il giorno dopo la mia intervista a Marco Travaglio, Gramellini scrisse sulla prima pagina della Stampa un pezzo intitolato “Luttazza continua”. Ecco il testo: “In questo Paese di emme, come lo ha chiamato per esteso l’esperto del ramo Daniele Luttazzi, succede anche questo. Che i giornalisti facciano spettacolo, i politici pena e i comici rubino il mestiere agli uni e agli altri, ma con un’aggiunta di fanatismo moralista che mette i brividi. Il Luttazzi che insinua la mafiosità di Berlusconi e si stende a stuoino davanti a quelli della propria parte politica incarna il modello dell’intellettualino ulivista che crede di essere in missione per conto di Dio. Per costoro non c’è appello alla moderazione che tenga: sono convinti che mezza Italia sia abitata da barbari rincoglioniti dalla tv e l’altra mezza, quella di sinistra, infestata da collaborazionisti alla D’Alema che vogliono venire a patti coi trogloditi anziché metterli in cella di rieducazione a studiare l’opera omnia di Nanni Moretti. I Luttazzi Continui pensano che Berlusconi non sia un avversario e neppure un nemico, ma un gangster. E con un gangster non si discute, si chiama la polizia. Prima che arrivino i suoi sicari, ovvio. L’unica cosa che faceva ridere, nel Satyricon dell’altra sera, era la libidine da martirio che il conduttore cercava di infliggere anche al pubblico, come quei bambini che ficcano il dito nella marmellata mormorando: adesso mi beccano… Nessun pericolo: i Luttazzi si adattano alle marmellate di tutti i regimi”. Gramellini aveva ragione: Berlusconi non c’entrava nulla con la mafia e non era un gangster, D’Alema non era un collaborazionista, e io sono un fanatico moralista che si è sempre adattato a tutti i regimi. Per questo oggi sono vicedirettore del Corriere della Sera e conduco un programma su Rai3, dopo aver lavorato per anni con Fabio Fazio, uno che non si è mai steso a stuoino davanti a quelli della propria parte politica.

Anni fa, Gramellini presentò da Fazio un libro su sua madre, morta quando lui era piccolo, e descrisse la vicenda alludendo a un mistero su di lei che gli avevano tenuto nascosto. Fazio manda la pubblicità: “Poi Gramellini svelerà questo mistero”. Tornano in studio, e Gramellini fa crescere la suspense finché rivela di aver scoperto solo a 40 anni che sua madre si era uccisa. Si è venduto il suicidio di sua madre. Che Fazio ha usato come teaser! A noi Black Mirror ci fa una sega.

L’alleato mascherina

Uno dei tormentoni di questa pandemia è stato quello della mascherina. Si è detto che fosse inutile indossarla, tranne che per gli operatori sanitari e per i malati che così evitavano di contagiare gli altri. Si è poi passati all’obbligo di indossarla. Sappiamo ora che anche gli asintomatici possono contagiare e oltre il 50% della popolazione ha avuto contatto col virus. Potenzialmente tutta la popolazione deve quindi essere reputata capace di infettare e come tale dovrà indossare la mascherina. Chiarito questo punto, cercando di trovare la quadra tra principi virologici, psicologia sociale e necessità produttive, l’uso della mascherina è oggi l’unico mezzo che può permetterci di riprendere una vita quasi normale (lavarsi le mani è implicito sempre).
Se la gente la usasse adeguatamente, sarebbe una misura di contenimento del contagio che potrebbe persino consentire di derogare ad alcune difficili distanze sociali. Inoltre, la ridotta trasmissibilità potrebbe ridurre sostanzialmente il bilancio delle vittime e l’impatto economico. Uno studio, anche se limitato numericamente, rileva l’efficacia delle mascherine chirurgiche per il controllo della fonte per coronavirus, influenza e rinovirus stagionali.
Se le mascherine non funzionassero, avremmo avuto migliaia di morti in più fra gli operatori sanitari. È evidente la loro utilità, se si tiene conto che “ogni aumento di 10 volte della carica virale provoca il 26% in più di decessi dei pazienti per infezioni acute causate da agenti patogeni”. Le mascherine abbassano, se non azzerano, la carica virale circolante intorno a un infetto.

Conte a Casa, come il cane che morde l’uomo

Il deputato leghista Pagano che chiama “neo terrorista” (?) Silvia Romano, è il cane che morde l’uomo. Cioè, quasi una non notizia. Banale, scontata, giusta per lucrare cinque minuti di ordinaria infamia. Come Vittorio Sgarbi che urla (non mi dire) e strepita: “Arrestatela”. O come la fogna del web dove gorgogliano gas mefitici (si sa), quando per evitare le zaffate escrementizie non occorre la polizia postale, basta non scoperchiare i tombini.

Il cane che morde l’uomo è il primo comandamento dell’informazione, quella robetta pettinata e infiocchettata che quando siamo entrati nei giornali c’è stata rispedita in forma di pallottola di carta da un caporedattore piuttosto alterato: questo lo sanno tutti non frega niente a nessuno, alza il culo e porta qualcosa di pubblicabile. Il cane che morde l’uomo è la testata unificata sul de profundis Conte: la Stampubblica della Sera che preconizza un giorno sì e l’altro pure la caduta del governo, (evento che prima o poi, è matematico, accadrà), ma al centesimo retroscena sempre uguale, uffa che pizza, che noia. Il cane che morde l’uomo sono le gerenze dell’apocalisse che ci sfiniscono con i soliti titoli augurali, sempre uguali: “Ha vinto il terrore. La jihad ringrazia Silvia e l’Italia” (Il Giornale), oppure “Guadagnano solo i criminali” (il vezzoso Libero). Poi però c’è Francesco Storace (che più di destra non si può) che a proposito di Silvia dice: “Facile darle addosso, lei ha visione e coraggio”. Poi c’è Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di FdI, che dichiara al Foglio: “Io non voglio consegnare alla sinistra quel mondo meraviglioso del volontariato e dell’altruismo. Io non ci sto a regalare quella figura straordinaria che è Silvia Romano”. È la destra che non ha portato il cervello all’ammasso della vergogna. E che nel sapersi distinguere veicola una comunicazione politica originale, valoriale, che non ti aspetti. L’uomo che morde il cane vince sempre.

Il provvedimento “aiuta-tutti”

Un decreto “aiuta-tutti”. Nella sua forma “monstrum” dal punto di vista della quantità dei soggetti coinvolti, delle risorse messe in moto, dei provvedimenti normativi attivati, riesce ad andare dalla regolarizzazione dei migranti fino alla sospensione dell’Irap alle imprese.

La difficile marcia del governo Conte nella Fase 2 è intrapresa all’insegna di un interclassismo dal sapore antico e dalle proporzioni inusitate, come inusitata è la misura della crisi. Stavolta si è voluto arrivare a tutti, ma proprio tutti (almeno alla prima lettura del testo, ci saranno senz’altro dei buchi) ed è questo il bilancio attivo di Conte e Gualtieri.

La sospensione dell’Irap concessa al neo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che pure chiedeva l’abolizione, è un chiaro segnale che in questo aiuto generalizzato deve starci anche la categoria più forte. E per le imprese il piatto è davvero ricco mentre, a voler essere puntigliosi, misure come il Reddito di emergenza lasciano delusione: pochi 400 euro (800 se due persone) complicato il requisito dell’Isee e troppo breve il periodo individuato, un anno. Ma comunque è una misura che si affianca al Reddito di cittadinanza, al reddito di ultima istanza, ai bonus agli autonomi o a quello per lavoratrici domestiche.

“Non è solo un decreto sociale, ma economico” dice Giuseppe Conte nella conferenza stampa serale. La specificazione mira a riequilibrare l’immagine di un governo sbilanciato a sinistra e verso il lavoro. Accusa pretestuosa, ma che ha sortito degli effetti concreti.

Un enorme provvedimento tampone, quindi, inevitabile vista la fase e che pone il nodo del futuro. Non si può pensare al medio periodo solo con il metodo “aiuta-tutti” reso possibile grazie all’esplosione del debito. Qualche scelta andrà fatta. Da questo punto di vista si capisce meglio l’offensiva di Confindustria per condizionare le mosse del prossimo periodo. In cui il nodo del debito dovrà essere guardato in faccia. Lo ha fatto Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera

nel supplemento economico di quel giornale lunedì scorso, per dire però che ci aspettano scelte dolorose. Ed è il nodo che sta dietro al dibattito sulle risorse europee – Mes, Sure, Recovery fund – che a oggi sono immaginate tutte in funzione dell’aumento del debito. Bisognerà inventarsi qualcosa sul piano della finanza pubblica e del ruolo della Bce. Ma occorre pensare a qualcosa anche per il rilancio dell’economia reale.

Nel Def presentato al Parlamento si sostiene che “il debito pubblico dell’Italia è sostenibile” e che il rientro verso la media dell’area euro “si baserà sul rilancio degli investimenti, pubblici e privati, grazie anche alla semplificazione delle procedure amministrative”.

Questa linea strategica, l’unica che siamo riusciti a rintracciare finora, non sembra garantire, vista la realtà italiana, chissà quali recuperi. I riferimenti, che pure ci sono all’economia verde e circolare o al Green Deal

, al momento fanno i conti con risorse davvero scarse. Dopo l’emergenza, dopo il mega-tampone di ieri sera, Conte è riuscito a ricompattare la maggioranza, come dimostra il giudizio di Luigi Di Maio – “è stato un grande lavoro di squadra” – e come ha mostrato la conferenza stampa in cui hanno preso la parola un ministro per ogni forza politica che sostiene l’esecutivo. Ma il futuro del governo e dello stesso Conte, al di là del complesso dibattito parlamentare che si annuncia, dipenderà dalla capacità di una visione politica di respiro.

Il ras di Brancaccio rientra: c’è una lista con altri venti nomi

Il primo a tornare in carcere è stato Nino Sacco, 65 anni, boss di Brancaccio che il pentito Nino Zarcone ha definito “molto pericoloso”, ma al Dap è pronta una lista di circa 20 detenuti mafiosi ai domiciliari pronti a rientrare in cella (o in una struttura sanitaria penitenziaria) dopo il decreto Bonafede.

Per i boss scarcerati dai giudici di sorveglianza, dopo la circolare del Dap del 21 marzo scorso, è iniziata la Fase 2 dell’emergenza Covid: nel decreto, infatti, il governo chiede ai magistrati di rivalutare entro 15 giorni le condizioni di salute del detenuto, ma di decidere “immediatamente” se il Dap dovesse comunicare la disponibilità di una struttura sanitaria penitenziaria in cui ricoverare e curare il detenuto.

“Ora toccherà agli altri – scrive in una nota il presidente della Commissione antimafia, Nicola Morra –: è nell’interesse di tutti che gli errori del passato vengano sistemati al più presto, senza permettere a questi mafiosi di scappare o di organizzare la propria rete dai domiciliari”. Sono 458, secondo i dati forniti durante un incontro web dal procuratore nazionale antimafia aggiunto Maria Vittoria De Simone, i detenuti del circuito di alta sicurezza che hanno ottenuto dai primi di marzo gli arresti domiciliari, tra questi anche tre esponenti di spicco della camorra, Vincenzo Lucio, Mario Ascione e Gennaro Dantese, due dei quali ergastolani, il cui ritorno sul territorio campano ha spinto il sindaco di Ercolano, Ciro Bonaiuto, a sollecitare il prefetto. Non è mai tornato in Sicilia, invece, Nino Sacco, che aveva ottenuto i domiciliari in una località del Nord; il suo livello di pericolosità e le sue mire espansionistiche dentro Cosa Nostra sono state descritte dal pentito Nino Zarcone: Sacco “non si sapeva che cosa aveva in mente e quando si è saputo che voleva mettere mano su Villabate, dice, ‘ma il problema lo risolviamo subito, Nino, problema non ce ne è’ dice perché dice ‘iniziamo sta sera e a due o tre giorni ce li puliamo (li uccidiamo, ndr) a tutti’”. Ieri il Tribunale di sorveglianza ha revocato i domiciliari e il boss è stato trasferito in una struttura ospedaliera penitenziaria. Caso della scarcerazione del casalese Pasquale Zagaria: il giudice di sorveglianza di Sassari firmò la scarcerazione in assenza di risposta del Dap. Che proprio ieri ha trovato, però, una nuova collocazione nel carcere di Viterbo; a Sassari è già fissata un’udienza il 22 maggio per Zagaria.