Roberto Scarpinato. Boss scarcerati: gli errori del Dap e quelli dei giudici

I decreti legge del 30 aprile e del 10 maggio 2020 contenenti misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario ed emanati dopo le polemiche seguite ai provvedimenti che hanno concesso la detenzione domiciliare a numerosi esponenti della criminalità mafiosa, hanno effettuato un semplice resettaggio del sistema, rendendo cogenti e meglio specificando procedure che in buona misura avrebbero potuto essere attuate anche in precedenza, minimizzando così problemi che si sono verificati a causa più di deficit gestionali che di carenze di legge. Ad esempio l’art. 2 del decreto legge del 10 maggio dispone che il Dap deve monitorare in modo costante la disponibilità di strutture penitenziarie e di reparti di medicina protetta in cui il condannato o l’internato può proseguire la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute, fornendo così all’Autorità giudiziaria informazioni indispensabili per decidere sulle istanze di ammissione alla detenzione domiciliare, da disporsi solo nei casi nei quali viene comunicata l’indisponibilità di tali strutture.

In realtà tale monitoraggio poteva e doveva essere attuato anche prima. L’art. 11 dell’ordinamento penitenziario nel prevedere l’istituzione di articolazioni del Servizio sanitario nazionale e di centri medici specializzati negli istituti penitenziari, dispone espressamente: “Nel caso di diagnosi anche sospetta di malattia contagiosa sono messi in atto tutti gli interventi di controllo per evitare insorgenza di casi secondari, compreso l’isolamento”. Dunque nel momento dell’insorgenza della pandemia da Covid-19, la Direzione del Dap avrebbe dovuto effettuare una ricognizione in campo nazionale di tutte le strutture penitenziarie e dei reparti di medicina protetta nei quali – anche mediante trasferimenti e riallocazioni – era possibile assicurare la prosecuzione della detenzione in condizione di sicurezza per i soggetti che, essendo affetti da particolari patologie, erano più esposti a gravi complicanze in caso di contagio.

Dopo avere effettuato questo monitoraggio ed avere esaurito tutti gli strumenti gestionali interni, il Dap avrebbe potuto segnalare all’Autorità giudiziaria i casi che non erano gestibili con le risorse disponibili e per i quali, dunque, si profilava la necessità di soluzioni alternative quali il ricovero in strutture sanitarie esterne o la detenzione domiciliare da attuarsi con tutte le cautele necessarie in considerazione delle peculiarità criminologiche dei soggetti interessati. Invece di adottare questa strategia, la Direzione del Dap con direttiva del 21 marzo 2020 si è limitata a imporre a tutti i direttori degli istituti penitenziari di comunicare “con solerzia all’Autorità giudiziaria, per le eventuali determinazioni di competenza” i nominativi di tutti i detenuti ultrasettantenni e di quelli affetti da particolari patologie che li rendevano più esposti al pericolo di complicanze nel caso di contagio. Così, senza alcuna pianificazione e senza alcun preavviso preventivo, da un giorno all’altro, l’Autorità giudiziaria è stata subissata di segnalazioni di tale tipo da parte dei direttori degli istituti penitenziari, di cui non si comprendeva l’origine e lo scopo. Come dovevano intendersi quelle segnalazioni? Come implicite e generalizzate richieste di differimento dell’esecuzione della pena e di ammissione al regime di detenzione domiciliare per l’accertata e documentata indisponibilità in sede locale e nazionale di reparti di medicina protetta e di strutture penitenziarie dove garantire l’isolamento?

A Palermo abbiamo subito chiesto spiegazioni apprendendo con stupore che in realtà non era stato effettuato alcun monitoraggio preventivo di tali risorse interne, e che, dunque, i nominativi venivano segnalati sic e simpliciter con una sorta di partita di giro che scaricava interamente sull’Autorità giudiziaria compiti che il Dap non aveva assolto prima e che in taluni casi eclatanti – come la vicenda che ha portato alla ammissione alla detenzione domiciliare del boss Pasquale Zagaria – non ha assolto neppure dopo, quando a fronte di reiterate e urgenti richieste di informazioni da parte della magistratura di sorveglianza, è rimasto inerte rispondendo in ritardo e fuori tempo massimo. Per di più la direttiva del Dap del 21 marzo sino al 21 aprile non è stata neppure comunicata alla Direzione nazionale antimafia, con il risultato che non si è reso possibile attivare in tempo utile un monitoraggio delle istanze di scarcerazione dei detenuti soggetti al regime del 41-bis e di quelli ristretti in regime di alta sicurezza, in modo da canalizzare sull’Autorità giudiziaria informazioni indispensabili per decidere con piena cognizione sulle istanze presentate, avendo riguardo all’attualità dei collegamenti con il crimine organizzato e alle specifiche misure da adottare per limitare, pur nella detenzione domiciliare, i rapporti con l’esterno.

Il decreto legge n. 28 del 30 aprile ha reso ora obbligatorio il parere preventivo dei procuratori distrettuali antimafia e, nel caso di detenuti sottoposti al regime del 41-bis, anche del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. I deficit non sono stati solo dell’Amministrazione penitenziaria. In molti casi la magistratura di sorveglianza competente per i condannati e l’autorità giudiziaria competente per gli imputati, hanno gestito le istanze di differimento della pena e di ammissione alla detenzione domiciliare dopo avere effettuato complesse istruttorie. Hanno preventivamente richiesto all’Amministrazione penitenziaria se erano disponibili strutture e reparti di medicina specializzata interne al circuito carcerario ove trasferire i detenuti. Nei casi nei quali è stata data risposta positiva è stato disposto tale trasferimento, in quelli nei quali non vi era tale disponibilità è stato disposto il ricovero in strutture ospedaliere specializzate esterne. In altri casi è stata disposta la detenzione domiciliare in strutture di accoglienza lontane da luoghi di residenza per evitare il ritorno nel territorio di soggetti pericolosi nei territori di origine.

In tal modo è stato possibile pervenire a un ventaglio di soluzioni equilibrate attuando un bilanciamento tra l’interesse del condannato a essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività. Bisogna tuttavia ammettere che si sono verificati anche casi nei quali sono stati invece assunti provvedimenti sbrigativi che senza essere preceduti da una adeguata istruttoria mediante la preventiva acquisizione di informazioni presso il Dap e presso la magistratura antimafia, hanno disposto l’ammissione alla detenzione domiciliare di pericolosi esponenti della criminalità organizzata nei territori di provenienza ove avevano spadroneggiato, pressoché esclusivamente sul presupposto della inconciliabilità del regime detentivo in carcere con il pericolo del contagio da coronavirus.

In un caso che ha avuto risonanza mediatica nazionale, un boss mafioso sottoposto al regime del 41-bis, dopo essere stato ammesso alla detenzione domiciliare nella propria abitazione a Palermo, è stato autorizzato ad uscire dal domicilio per accompagnare i propri familiari dal dentista o in altre visite mediche, e a recarsi fuori Palermo per partecipare a matrimoni, battesimi, funerali, nonché ai festeggiamenti del “25 e 26 dicembre, della domenica di Pasqua e lunedi dell’Angelo”. In sostanza un brusco passaggio da un rigoroso regime di isolamento determinato dalla diagnosi di pericolosità per l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata a una vita di piena socialità, che non ha alcuna connessione con l’esigenza di tutela della salute e che mette gratuitamente a rischio la sicurezza della collettività e la fiducia nello Stato. Alla luce del senno di poi, dobbiamo forse ammettere che siamo stati tutti colti impreparati dall’improvvisa accelerazione della emergenza sanitaria causata dal Covid-19, e per qualche tempo abbiamo proceduto in ordine sparso con qualche caduta e sbandamento. Ma la situazione è stata ripresa in tempo e appare sotto controllo. Più che al passato occorre ora guardare al futuro: la questione carcere resta la cattiva coscienza di questo Paese e la cartina di tornasole delle storture di un sistema giustizia che, per un verso, declama nobili principi di uguaglianza dinanzi alla legge e di trattamento rieducativo dei condannati, e, per altro verso, continua a ospitare nelle carceri la stessa popolazione carceraria degli inizi del Novecento. Come attestano le statistiche del Dap sulla composizione sociale della popolazione carceraria, oggi come ieri come l’altroieri, in carcere a espiare la pena finisce quasi esclusivamente chi occupa i piani più bassi della piramide sociale. Il numero dei colletti bianchi è talmente esiguo da non essere neppure statisticamente quotato. Forse questo è uno dei motivi dell’eterna irresolubilità della questione carcere, che si trascina da più di un secolo di emergenza in emergenza, da amnistia ad amnistia, da indulto a indulto, da uno svuotacarceri a un altro, lasciando inalterate le condizioni di invivibilità e di sovraffollamento di sempre, riservate solo ai piani bassi e specchio fedele delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali fuori dal carcere.

 

Al Csm sul caso Dap-Bonafede frecciatine tra Davigo e Di Matteo

L’annuncio di una querela di peso, quella di Piercamillo Davigo e una replica di Nino Di Matteo, è l’esordio, fuori programma, ieri, del plenum del Csm, che ha approvato una serie di nomine, tra le quali quella del procuratore di Bergamo, che sarà alle prese con i morti di Covid-19 e diverse condotte colpose.

“Ritengo doveroso informare il Consiglio”, esordisce Davigo, tra il silenzio generale. Di cosa? “Il Riformista ha pubblicato un articolo in cui si dice che io sarei il mandante del diverbio intervenuto tra il consigliere Di Matteo e il ministro Bonafede per asserita rappresaglia nei confronti del ministro, che si sarebbe opposto a un emendamento (di Fdi, al decreto anti-Covid, dichiarato inammissibile in Commissione, ndr) per prolungare l’età pensionabile dei magistrati”. Chiariamo, per chi non lo conosce, che Davigo si riferisce al quotidiano diretto da Piero Sansonetti e finanziato dall’imprenditore Alfredo Romeo, imputato a Napoli per corruzione. Insinua, senza alcun riscontro, che Di Matteo ce l’abbia con Bonafede perché nei giorni scorsi gli ha preferito al Dap Dino Petralia e che Davigo, prossimo ai 70 anni in autunno, vuole l’innalzamento dell’età pensionabile, ma Bonafede è contrario. A dire il vero, l’unica voce ufficiale e contraria è quella del sindacato dei magistrati: la giunta dell’Anm, sabato, ha detto no a questa ipotesi.

Sempre Davigo, ieri in plenum, ha precisato: “A parte che ignoravo persino l’esistenza dell’emendamento, io non sono il mandante di un bel niente, e questo potrebbe testimoniarlo tranquillamente il consigliere Di Matteo. Informo il Csm, a tutela dell’onorabilità non solo mia ma dell’intero Consiglio, che ho dato mandato al mio legale di predisporre la querela, che venerdì firmerò al mio rientro a Milano e verrà presentata. L’autore di quell’articolo risponderà nelle opportune sedi delle falsità che ha scritto”.

Nino Di Matteo interviene, ma per rintuzzare Davigo, con il quale, non è un mistero, al Csm i rapporti sono complicati per via della differenza di vedute su alcune nomine, a cominciare da quella di Michele Prestipino a procuratore di Roma. Di Matteo, a differenza di Davigo, ha votato per Creazzo, il procuratore di Firenze. Ieri, a Di Matteo non gli è proprio piaciuto che il capogruppo di Autonomia Indipendenza (nelle cui file è stato eletto lui stesso, come indipendente) abbia liquidato il caso della sua mancata nomina al Dap, due anni fa, come un “diverbio” con il ministro della Giustizia: “Prendendo atto della dichiarazione di Davigo, la precisazione è soltanto sull’utilizzo del termine ‘diverbio’. Io ho raccontato dei fatti, tutto qui. Non credo che l’utilizzo del termine diverbio sia appropriato, per il resto prendo atto della dichiarazione di Davigo”.

Il riferimento dell’ex pm di Palermo è al suo intervento telefonico in televisione, a Non è l’Arena, La7, quasi due settimane fa, per precisare, rispetto a quanto ascoltato fino a quel momento, che non c’era stata, nel giugno 2018, alcuna trattativa con Bonafede, ma che era stato il ministro, come ormai è noto, a chiamarlo e a proporgli, in un primo tempo, di scegliere tra la direzione del Dap e degli Affari penali al ministero, ma che poi Bonafede, 24 ore dopo, cambiando idea, ritirò la proposta del Dap e gli confermò la proposta per andare agli Affari penali, secondo il ministro, come ha ribadito, una posizione più adatta. Il magistrato, però, rifiutò.

Chiusa la parentesi incandescente, il plenum ha votato ieri una serie di nomine. Scelto come procuratore di Bergamo Antonio Chiappani, una vita a Brescia anche come pm dell’inchiesta sulla strage di piazza della Loggia, nell’ultimo periodo era a capo della Procura di Lecco. A Bergamo trova le indagini legate al Covid: sui morti nelle Rsa e sulla riapertura del pronto soccorso dell’ospedale di Alzano dopo l’accertamento dei primi due casi di contagio. Chiappani, nei 30 anni a Brescia è stato titolare anche delle indagini collegate agli attentati di Mumbay nel 2009, con 170 vittime, che consentirono di individuare alcune persone che da Brescia avevano provveduto a pagare il noleggio delle linee di comunicazione utilizzate dai terroristi. Negli anni di Tangentopoli si è occupato anche degli esposti contro i magistrati del pool di Mani Pulite.

Alla guida della Procura di Monza va invece Claudio Gittardi, attualmente procuratore di Sondrio, per molti anni a Milano. Sue le indagini per corruzione e turbativa d’asta sulle procedure di appalto relative a Expo, che si sono concluse con condanne definitive.

Sempre ieri è stato nominato il nuovo presidente del Tribunale superiore delle Acque pubbliche. Si tratta di Giuseppe Napoletano, presidente della Sezione Lavoro della Cassazione. Rosa Anna Depalo, invece, è stata nominata presidente del Tribunale di Taranto, dal 2014 era presidente della sezione Gip di Bari.

L’impresentabile “convertito” al salvinismo

Leghista di ferro, devoto alla Madonna di Medjugorje e trasformista della politica. Alessandro Pagano in Sicilia lo conoscono tutti. Prima berlusconiano convinto, poi alfaniano a tempo determinato e da qualche anno innamorato del Carroccio. La sua carriera politica parte da San Cataldo (Caltanissetta) e a metà anni Novanta si trasferisce tra i corridoi dell’Assemblea regionale. Con gli azzurri nel 1996 diventa assessore alla Sanità. Dal 2001 al 2004, Totò Cuffaro gli affida Bilancio e Beni culturali. Il salto a Roma arriva quattro anni dopo, quando Berlusconi lo piazza nella lista del Pdl. Ma lo scranno all’Ars rimane in famiglia: a sostituirlo è il cognato Raimondo Torregrossa, ex sindaco di San Cataldo.

Rieletto alla Camera con il Pdl, nel 2013 Pagano passa con Angelino Alfano e Ncd. Tre anni dopo l’ingresso nella Lega con Matteo Salvini che lo nomina coordinatore del partito per la Sicilia occidentale. San Cataldo si trasforma in un fortino leghista e Pagano per la terza volta, nel 2018, viene eletto alla Camera. Nemmeno il tempo di festeggiare che cominciano i guai: a Termini Imerese scoppia l’inchiesta “Voto connection” . I pm lo accusano di essere coinvolto in un raggiro legato alla candidatura all’Ars di Mario Caputo.

Pagano, insieme all’altro coordinatore Angelo Attaguile, avrebbe suggerito di inserire nel santino elettorale la dicitura “detto Salvino”. Così da indurre gli elettori a riconoscere nel candidato il fratello Salvatore, conosciuto proprio come “Salvino”, già deputato all’Ars ma non più candidabile per una precedente condanna.

Lanci di bottiglie e minacce: verso la scorta a Silvia Romano

Il Comitato per l’ordine e la pubblica sicurezza di Milano entra oggi nel vivo del caso Silvia Romano, la volontaria milanese rilasciata dopo 18 mesi di prigionia tra il Kenya e la Somalia. Si riunirà per discutere della sicurezza della 25enne soprattutto alla luce dell’ultimo episodio: il ritrovamento di alcuni cocci di una bottiglia in un appartamento del suo stabile. Il Comitato oggi ne valuterà la gravità. Bisognerà anche capire se effettivamente quella bottiglia sia stata lanciata contro la casa della giovane.

Insieme alla valanga di insulti che scorrono sul web soprattutto per la decisione di convertirsi all’Islam, quest’ultimo episodio pone il comitato di fronte a un interrogativo: ci sono gli estremi per una scorta? Su questo la decisione, che potrebbe arrivare a breve, spetta al prefetto di Milano Renato Saccone. In ogni modo un eventuale protezione sarà data solo in un secondo momento, ossia quando saranno trascorsi i quattordici giorni di quarantena e la 25enne potrà uscire. Intanto già alcune volanti di polizia e carabinieri durante il giorno stazionano sotto casa sua, soprattutto per la ressa di giornalisti, mentre di notte è stata decisa una “sorveglianza attiva”, ossia un’auto delle forze dell’ordine che passa a controllare di tanto in tanto. La speranza degli addetti ai lavori è che, come avvenuto in altri casi, la situazione, minacce comprese, possa andare man mano affievolendosi.

Intanto sulle intimidazioni indaga il pm di Milano, Alberto Nobili. Due giorni fa sia Silvia Romano che la madre sono state interrogate ed entrambe hanno dichiarato di non aver mai ricevuto minacce prima d’ora.

In queste ore gli investigatori stanno analizzando decine e decine di messaggi online, concentrandosi sulle intimidazioni più gravi, anche con minacce di morte. Come quelle contenute in alcuni volantini trovati vicino casa della Romano. Non è escluso quindi che nei prossimi giorni nel fascicolo possa essere contestato il reato di minacce aggravate dall’odio razziale.

A ciò si aggiunge l’episodio della bottiglia. A dare l’allarme è stato il condomino che vive nell’abitazione al primo piano del palazzo e che ha chiamato la polizia dopo aver trovato sul proprio davanzale dei cocci di una bottiglia, che lui non aveva rotto. Ieri la polizia scientifica ha effettuato rilievi all’interno dell’appartamento. Il sospetto quindi è che quella bottiglia fosse stata lanciata proprio contro la finestra dell’appartamento della ragazza. Anche su questo la Procura di Milano svolgerà accertamenti.

La situazione resta quindi preoccupante. E non aiutano a placare il clima d’odio i toni della politica. L’ultimo episodio ieri con il deputato leghista Alessandro Pagano che ha definito la giovane una “neo terrorista”, facendo scoppiare la bagarre nell’aula di Montecitorio. Matteo Salvini ha provato a raddrizzare la barra: “Il problema non è Silvia Romano”, ma “l’Islam fanatico, integralista, violento, assassino. Nessuno spazio, nessuna tolleranza, nessuna pubblicità o sostegno a questi delinquenti”, ha detto senza citare il caso di Pagano. Che in serata fa un passo indietro: “Se ho offeso qualche sensibilità mi scuso, era volto a sollevare interrogativi nei confronti di una azione di governo”, ha detto. Ma l’odio sul web scorre più veloce delle scuse.

Twitter, voglia di lavoro ‘smart’. L’Italia è pronta? Non ancora

Bravo Twitter, social network da 140 caratteri che pare voglia consentire ai dipendenti che vorranno lavorare da casa anche dopo la fine dell’emergenza. “Se vogliono, Twitter lo renderà possibile” ha detto Jennifer Christie, responsabile delle risorse umane, quando a San Francisco (sede del gruppo) si contano quasi 2mila positivi. Chiaro, non tutti potranno. Chi lavora con dati sensibili che non possono uscire dalle sedi sarà costretto ad andare al lavoro comunque. “Aprire gli uffici sarà una nostra decisione, quando e se i nostri dipendenti vogliono rientrare sarà loro”, ha detto il Ceo Jack Dorsey. Non prima di settembre, comunque. Linea simile agli altri big della tecnologia: Google e Facebook hanno allungato il periodo di lavoro da casa fino al 2021, Amazon fino a ottobre. Certo, siamo nella Silicon Valley e nel campo di multinazionali per cui lavorano soprattutto sviluppatori, programmatori, informatici o comunque addetti a “mansioni immateriali”. Eppure, se i custodi delle identità, dei gusti e dei segreti di miliardi di utenti in tutto il mondo credono di poter garantire lavoro in (cyber) sicurezza anche a distanza, cosa mai potrà fermare il resto del mondo?

In Italia, la ministra della Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone, in questi giorni ha dichiarato che la modalità dello smart working potrebbe costituire in futuro più di un terzo del monte ore dei lavoratori italiani, anche dopo l’emergenza. L’idea è semplice: via la filosofia del cartellino, dentro il lavoro “a risultati” per raggiungere i quali si possono impiegare otto ore ma anche tre, a discrezione (e capacità) del lavoratore. Le intenzioni devono però essere supportate da strumenti e contesto adeguati. Qualche settimana fa avevamo raccontato della sospensione (tra le altre attività) del Foia, il diritto di richiedere atti e informazioni della Pa. Dopo qualche giorno ci aveva scritto un lavoratore della Pa raccontandoci che non c’era molta alternativa: pur volendo, la maggior parte degli atti e della documentazione della Pubblica amministrazione è in formato cartaceo, conservata in archivi e faldoni non digitalizzati. La materia prima, insomma, non è adatta allo smart working: “Lavorando da casa non potrei comunque evadere le richieste”, spiegava.

Le aziende non stanno messe molto meglio. Secondo il bollettino annuale del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e Anpal, prima del lockdown solo una impresa su quattro (24,6%) aveva investito su sistemi di smart working. L’ambito più ricettivo è quello delle Public utilities (luce, acqua, gas) per il 34,7%, poi quello dei Servizi (25,5%), l’Industria (22,5%) e – ovviamente – le Costruzioni (19,9%). Nell’area dei servizi ha investito in smart working solo il 50,9% delle imprese di Servizi informatici e delle telecomunicazioni e il 48,8% delle imprese di Servizi finanziari e assicurativi. Solo il 15,7% delle imprese dei Servizi culturali, sportivi e altri servizi alle persone e il 17,9% dei Servizi di alloggio, ristorazione e turistici (i più in crisi). A sorpresa: è soprattutto il Sud a farne uso “colmando così altri gap strutturali” si legge nelle note, con il 27,1% delle imprese rispetto al 23,5% del nord.

Certo, non tutti i lavori possono essere “portati a casa” e la vocazione economica del Paese per le attività “materiali” più che per quelle immateriali ha un suo peso. Come raccontato da Gianni Balduzzi su Linkiesta, in Italia questo tipo di attività influisce sul Pil per una percentuale sensibile tra commercio (all’ingrosso e al dettaglio), trasporti, alloggio e ristorazione: il 19,3% contro il 17% della media europea. Inoltre, l’Italia risulta al di sotto della media europea quanto a peso dei settori più “immateriali”, come i servizi di informazione e comunicazione, le attività finanziarie, professionali e scientifiche. Nel 2018 il peso sul Pil delle attività più immateriali era del 16,4% in Italia e del 19,3% in Europa, ma si arrivava al 27,7% in Irlanda, al 24,3% nel Regno Unito, e nei Paesi Bassi, sedi ‘storiche’ delle multinazionali tech.

Manca l’opportunità, ma anche le competenze. Sono noti da tempo i dati della Commissione Ue che ci mettono tra gli ultimi in Europa per la digitalizzazione dell’economia, a metà classifica (e sempre sotto media) per percentuale di lavoratori che usano computer e internet (il 50%, contro l’82% in Svezia, il 62% in Francia, il 59% in Germania). Secondo l’Eurostat solo poco più di un quinto degli italiani aveva competenze superiori a quelle basiche nel 2018, contro il 33% medio europeo. E i giovani? Anche in questo caso, solo un terzo ha competenze sopra la sufficienza.

Il Bertolaso hospital è ancora da inaugurare

Il flop dell’ospedale alla Fiera di Milano realizzato da Bertolaso continua a pesare come un macigno sul Covid Hospital di Civitanova Marche di prossima inaugurazione. Nonostante le rassicurazioni del presidente della Regione, Luca Ceriscioli, i dubbi e le perplessità sulla necessità, sulla reperibilità del personale medico e infermieristico non si quietano. E a rassicurare non giovano certamente le consuete dichiarazioni teatrali da salvatore della patria dell’ex presidente della Protezione civile che, arrivato nei giorni scorsi, al Covid Hospital di Civitanova senza mascherina, ha spiegato di essere immune: “Sono pieno di anticorpi – ha detto – e non appena le Marche saranno pronte con la sperimentazione del plasma (protocollo, nel frattempo, presentato) sarò felice di essere il primo donatore”. La struttura, già terminata in attesa che si concluda la formazione del personale per dare il via all’inaugurazione, prevista per sabato prossimo, conta 82 posti fra terapia intensiva e livelli più bassi di assistenza da modulare in base alle necessità e di macchinari di ultima generazione come la Tac dai tempi immediati e richiede, a pieno regime, circa 200 operatori sanitari.

La domanda regina resta sempre la stessa: a cosa servirà, considerato che su 865 tamponi effettuati – dati del Gores di ieri –, solo 20 sono risultati positivi, di cui 15 nella provincia di Pesaro-Urbino, maggiormente colpita dall’epidemia, 1 ad Ancona, 2 a Macerata, nessuno nelle altre due province di Fermo e Ascoli Piceno e 2 residenti fuori regione? Dati più che rassicuranti, tant’è che la Regione ha diramato linee guida che prevedono la riapertura di bar, stabilimenti balneari, parrucchieri, seppure con tutte le precauzioni necessarie.

La risposta del presidente è netta: “In base alla direttiva del ministro della Salute Speranza, ogni Regione deve munirsi di un ospedale Covid per fronteggiare ogni eventuale emergenza e se sciaguratamente dovesse esserci un’altra ondata, le Marche saranno pronte ad affrontarla”. In effetti come negare che, anche nelle Marche, dove i decessi sono stati 970, molti siano morti per la mancanza di posti in rianimazione oltreché per l’inadeguatezza della medicina assistenziale territoriale e, molti si sono contagiati proprio in quanto ricoverati, per altre patologie, negli ospedali, utilizzati per i malati Covid?

Il Covid Hospital, infatti, permetterà anche di svuotare gli ospedali utilizzati per l’emergenza, che potranno tornare a svolgere le loro funzioni primarie e, per abbattere i costi delle strutture private dove sono stati ricoverati i post Covid. Ma quando un domani non servirà più, resterà una cattedrale nel deserto dopo uno sperpero di soldi pubblici? No, assicurano dalla Regione, perché le strumentazioni verranno utilizzate per integrare le strutture esistenti e non vi è stato alcun esborso di soldi pubblici in quanto la struttura è stata realizzata in 20 giorni grazie alle donazioni di privati, raccolte dalla Fondazione Cisom del Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta presieduta da Gerardo Solaro del Borgo a iniziare dai 5 milioni della Banca d’Italia. “La Regione avrà in carico solo la gestione della struttura ad altissima tecnologia, che si avvarrà del contributo di rianimatori, internisti, infettivologi, geriatri, radiologi e cardiologi”, spiega Ceriscioli, che annuncia: non mi ricandiderò alla Presidenza della Regione, tornerò a insegnare”. Insomma, nulla a che vedere con il flop lombardo. Aspettare per credere.

I Pronto soccorso e la “zona grigia” dei sospetti Covid

“Su dieci malati che ci arrivano in reparto dal Pronto soccorso, uno o due sono positivi al Covid”. La denuncia arriva da un operatore sanitario che lavora in uno dei più importanti reparti dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. Dopo la riapertura dell’attività, il 9 aprile, la paura è tanta in uno dei posti simbolo della pandemia. E i dubbi sono ancora di più. Da quando i Pronto soccorso hanno ricominciato ad accogliere flussi elevati di pazienti non Covid le incognite sono tante. Tra diagnosi spesso quasi impossibili e riorganizzazioni complesse, per mancanza di spazio e di risorse. La sintesi la fa Fabio De Iaco, direttore del Ps del Martini di Torino: “La Gold standard della diagnosi non ce l’abbiamo”. Tradotto: in caso di paziente positivo al tampone, la certezza c’è. In caso di paziente negativo, no.

Simeu (Società italiana della Medicina di emergenza-urgenza) ha elaborato un documento che prevede la Divisione tra percorsi Covid e non Covid in pronto soccorso e in ospedale, il mantenimento del distanziamento, il mantenimento del pre-triage, oltre all’individuazione di aree “filtro” dove indirizzare il paziente sospetto Covid. Questo mentre le Regioni stanno elaborando delle Linee guida.

Ma ci si muove sempre nell’ambito della “probabilità”. Roberto Cosentini, primario del Pronto Soccorso Giovanni XXIII, spiega che i pazienti Covid, rispetto alla fase acuta dell’epidemia, ora sono circa un quarto. “Abbiamo una parte del Ps ‘sporca’ (ovvero Covid), una ‘pulita’ (non Covid), ma non la zona grigia, se non per chi aspetta il risultato del tampone”.

Palesemente non risolutivo. Non solo: “Se un paziente ha bisogno di terapia intensiva, il risultato non si aspetta”. Rischi evidenti: “Non mi risulta che siano stati mandati pazienti positivi nei reparti. Ma non posso escluderlo. La certezza non è concettualmente possibile”. Però, “ci sono le distanze di sicurezza stabilite dalla Regione”.

A proposito dei tamponi: per avere i risultati, bisogna aspettare. Tempi variabili, a seconda degli ospedali. Così gli “assembramenti” si verificano pure nei Pronti soccorsi. In quelli del Piemonte ci sono in media almeno 10 pazienti al giorno in attesa, in barella. Non a caso arriva un appello da molti primari: non utilizzare più i Ps se non per le vere emergenze. Giuseppina Petrelli, primaria del Ps di San Benedetto del Tronto che è stato ospedale Covid (e riaprirà al flusso normale tra una quindicina di giorni) lancia l’allarme: “Se non arrivano solo per vere emergenze, il sistema collassa”. Nell’Ospedale San Paolo di Civitavecchia, che ha dovuto gestire l’arrivo della Diamond Princess, “siamo tornati alla situazione di metà febbraio, con il raddoppio degli accessi di marzo e aprile. Arrivano i pazienti cronici, come quelli psichiatrici. E facciamo fatica a gestirli”, racconta il Primario, Beniamino Susi. Approccio pragmatico: “Dovremo mettere le strisce per terra come nei posteggi”. E denuncia: “Mancano 2500 medici di urgenza in Italia. Io ho preso una serie di persone che devo formare. Ma il sistema si deve fare carico di questa situazione. Ogni Pronto soccorso si sdoppia”.

Andrea Magnocavallo, primario del Ps di Piacenza, città molto colpita, ha elaborato un protocollo: “A livello di pre triage c’è un infermiere che filtra i pazienti”. Tre opzioni: il percorso sporco, quello pulito e quello grigio. Chi non viene dimesso, viene mandato nei reparti, ma per valutare se può andare in quello pulito servono 5 strumenti: “Epidemiologico (una serie di domande, a partire dai contatti con persone positive); clinico (i sintomi riferiti); laboratorio (esami del sangue: linfociti, ldh, Pcr), il tampone e la radiologia (Rx o Tac). Se sono tutti negativi, va nel reparto pulito. Se il tampone è positivo va nello sporco. Nel dubbio, resta per 24-48 ore in quello grigio: due tamponi negativi danno qualche certezza in più”. Ma poi ammette: “Capita di trovare pazienti Covid in un reparto non Covid”. Insomma, la prima fase della guerra (forse) è finita. Ora inizia la trincea.

Fiera, ora l’inutile ospedale rischia perfino di chiudere

L’ospedale in Fiera, costato 21 milioni di euro e pressoché inutilizzato, sarà presto chiuso: parola del professor Antonio Pesenti, primario di anestesia e rianimazione del Policlinico di Milano e responsabile dell’Unità di crisi della Regione Lombardia per le terapie intensive. “Penso che se le cose vanno avanti così – ha dichiarato a Fanpage.it – entro un paio di settimane chiuderemo l’ospedale in Fiera Milano”.

“Ma non ci pensiamo nemmeno”, replica a distanza una fonte autorevole di Regione Lombardia. “Il ministro della Salute sta predisponendo un piano che prevede la preparazione di centri Covid in tutte le regioni d’Italia. Noi ce l’abbiamo già, è l’ospedale in Fiera, un gioiello. Perché mai dovremmo chiuderlo?”.

Il “Bertolaso hospital” di Milano era stato annunciato dal presidente della Lombardia Attilio Fontana come un hub con 600 posti di terapia intensiva da far nascere in due padiglioni della Fiera di Milano. A dare un sapore glam all’operazione era arrivato, volontario, anche lo chef Carlo Cracco, a cucinare per chi lavorava nel cantiere.

Il progetto si ridimensiona strada facendo: i letti diventano 400, poi 200, infine 157. Oggi i posti pronti sono 53, i pazienti sono una ventina. Era il 12 marzo quando l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera aveva lanciato la sfida: “I cinesi a Wuhan ci hanno messo dieci giorni a costruire un ospedale? I lombardi ne impiegheranno sei”. Sarà inaugurato il 31 marzo (19 giorni dopo) e i primi tre pazienti entrano in corsia il 6 aprile (25 giorni dopo). È arrivato fuori tempo: le terapie intensive si svuotano (per fortuna, e speriamo non tornino ad affollarsi dopo le riaperture).

Guido Bertolaso, chiamato da Fontana a dirigere l’operazione, aveva definito il nuovo ospedale “un’astronave che i medici non riescono a digerire”. Critici, infatti, molti clinici, come Giuseppe Bruschi, dirigente medico del Niguarda, che aveva spiegato: “Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale”, perché il Covid-19 provoca complicazioni su cui è necessario intervenire d’urgenza e che non sono solo polmonari, ma cardiovascolari, nefrologiche, neurologiche… Qualcuno racconta che anche il professor Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele, se ne sia andato da una riunione in Regione sull’ospedale sbattendo la porta.

Poi Bertolaso aveva abbandonato l’impresa, contagiato dal virus, e il progetto era stato via via ridimensionato. L’astronave non è mai decollata. Con i suoi venti pazienti, è diventata il simbolo del flop di Regione Lombardia nell’azione di contrasto alla pandemia. I 21 milioni dei costi sono stati offerti da donatori privati, ma secondo i critici sarebbero stati più utili se impegnati per potenziare ospedali già esistenti o rafforzare la medicina territoriale. Ora proprio il primario che lo ha tenuto a battesimo ne annuncia il possibile smantellamento entro un paio di settimane, perché i ricoveri in terapia intensiva sono in continuo calo, anche in Lombardia, l’area che resta la più colpita dal virus. Secondo il professor Pesenti, l’ospedale in Fiera è “una scialuppa di salvataggio”, pensata a marzo, “quando non sapevamo dove si sarebbe fermata l’epidemia. Noi abbiamo chiesto allora una scialuppa di salvataggio, per avere a disposizione dei letti nel caso l’epidemia avesse continuato a crescere. C’erano delle previsioni catastrofiche: fino a 140 mila posti di terapia intensiva occupati in Italia. Noi siamo soltanto dei medici e davanti al continuo aumento della richiesta di posti letto abbiamo chiesto alla Direzione sanità della Lombardia di trovare delle soluzioni d’emergenza”.

Ammesse le previsioni sbagliate, Pesenti ne tira le conseguenze: “Oggi la scialuppa di salvataggio non serve più. Sono più i pazienti dimessi dalle terapie intensive di quelli ricoverati. Penso dunque che noi a breve, entro un paio di settimane, chiuderemo le attività della Fiera, se le cose vanno avanti così”.

Furibondi i vertici di Regione Lombardia, che vedono smentita la loro strategia e ammesso il loro fallimento. E non da un avversario, ma dal medico che aveva partecipato all’operazione.

“L’ospedale in Fiera resta”, ribattono in Regione. “Sarà il centro Covid con i posti di terapia intensiva in più che ogni Regione deve preparare, come sarà previsto dal piano che il governo sta approntando”.

“Il Covid-19 lascia danni, il 30% di chi è guarito rimane malato cronico”

Come uno tsunami, il Covid-19 ha travolto tutto e tutti. E come dopo uno tsunami, ora che le acque si stanno lentamente ritirando, si iniziano a comprendere i danni permanenti prodotti dal virus. Danni sanitari soprattutto, i cui scenari in queste ore occupano i tavoli di discussione di medici e ricercatori. Su tutti una certezza: questa pandemia lascerà in eredità una nuova categoria di malati con patologie croniche che impegnerà in modo importante il Sistema sanitario nazionale. Circa un paziente su tre scampato alla furia del virus riporterà danni permanenti. Indiziati principali sono i polmoni, ma rischi di complicazioni si valutano anche negli atri organi che non sono affatto immuni. Tracce di Covid sono state individuate in reni e fegato.

“Ci ritroveremo con circa il 30% di guariti da Covid trasformati in malati cronici e colpiti soprattutto da difficoltà respiratorie”. La posizione di Maurizio Viecca, primario di Cardiologia all’ospedale Sacco di Milano oltre che netta mette sul tavolo delle future politiche sanitarie un alert non da poco. Che imporrà di pianificare un modello in grado di fronteggiare l’ennesima emergenza. A ieri i guariti in Italia risultano essere 112.541. Su questi andrà fatto uno screening attento per capire quanti di loro rischiano danni permanenti. “Qui da noi – prosegue Viecca – abbiamo avuto persone dimesse e poi rientrate in ospedale dopo un mese con embolie, flebiti e vasculiti”. Le famose polmoniti bilaterali interstiziali sono la conseguenza di piccoli coaguli di piastrine, detti trombi bianchi, che impediscono lo scambio di ossigeno e anidride carbonica tra gli alveoli e i polmoni. Un dato importante che ha permesso al dottor Viecca di mettere a punto un protocollo terapeutico con infusione di almeno cinque medicinali oggi adottato anche negli Stati Uniti e che ha mostrato ottimi risultati soprattutto nei pazienti gravi.

Il dato è rilevante anche nella prospettiva di una larga coorte di nuovi pazienti. La scoperta arriva dallo studio autoptico su circa 30 deceduti per Covid. “In tutti – spiega Viecca – è stato riscontrato un parametro del sangue, detto D-dimero, molto alto ed espressione di trombosi”. Un dato rilevato anche nello studio, al momento in pre stampa, fatto dall’ospedale Sacco e dal Papa Giovanni XXIII di Bergamo su 38 cadaveri. Si legge nel report: “Sono stati osservati trombi di fibrina di piccoli vasi arteriosi in 33 pazienti, metà dei quali con coinvolgimento dei tessuti e associati ad alti livelli di D-dimero nel sangue”. E ancora: “Il principale risultato rilevante è la presenza di trombi piastrinici-fibrinici in piccoli vasi arteriosi”. E dunque oltre alle terapie intensive, oggi ci troviamo di fronte alla necessità di implementare anche il numero di letti nei reparti di pneumologia e di preparare ambulatori dedicati per controllare l’andamento clinico dei guariti da Covid. “Dentro questo quadro futuro – conclude il professor Viecca – si pone la necessità di implementare la medicina territoriale per poter seguire i malati cronici al loro domicilio”.

Il dopo Covid apre dunque nuovi scenari sanitari. Ora è il momento dello studio e delle valutazioni. Al Papa Giovanni si è già pensato di istituire un ambulatorio apposito dove richiamare le migliaia di pazienti guariti. “In questi mesi – spiega il dottor Luca Lorini direttore delle terapie intensive a Bergamo – abbiamo scoperto che Covid è una malattia che lascia segni importanti”. Per questo “si impone un follow-up per analizzare i tre livelli di pazienti: dai meno gravi a quelli finiti nelle terapie intensive e poi usciti”. Capacità respiratorie e cardiovascolari. Questi saranno i cardini dello studio. “Dovremo capire i danni sul singolo. In sostanza capire quanto è grande e invalidante la cicatrice lasciata dalla malattia sul polmone di un paziente e quanti pazienti hanno riportato questi danni”. Siamo solo all’inizio. In Italia soprattutto, dove il virus è arrivato da poco. In Cina alcuni risultati sono già sul tavolo e spiegano che un paziente su tre dopo le dimissioni riportava un residuo di insufficienza respiratoria. Molte di queste persone hanno mostrato una capacità respiratoria ridotta fino al 30%, il che significa che la crisi respiratoria interviene anche dopo una banale passeggiata. Insomma il problema seppur all’inizio è noto ai tecnici. Luca Richeldi, pneumologo al Policlinico Gemelli di Roma, membro del Comitato tecnico scientifico nonché presidente della Società italiana di pneumologia conferma il quadro del dottor Viecca. “Reliquati polmonari ci sono, per questo avremo una coorte di pazienti che avrà dei residuati fibrotici a livello polmonare e diventerà una nuova categoria di pazienti con malattie polmonari e insufficienza respiratoria, che rappresenterà certamente un nuovo problema sanitario”. Scenario confermato anche dal professor Massimo Galli del Sacco di Milano, per il quale in molti casi le compromissioni polmonari risultano irreversibili. Insomma, come dopo ogni burrasca toccherà fare la conta dei danni.

Caccia grossa al turista. L’Italia si appella all’Ue contro i corridoi estivi

Mentre qui misuriamo le distanze tra gli ombrelloni e litighiamo sul plexiglass fronte mare, i nostri dirimpettai sull’Adriatico trattano con Austria e Germania per un “corridoio” che porti i turisti dritti lì, sulle spiagge della Croazia. Ancora l’altro ieri, Zagabria porgeva il suo biglietto da visita ai colleghi di Berlino e Vienna: pochi contagi, facilmente raggiungibile in auto, altrettanto vicina se ci sarà bisogno di far ritorno a casa (il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas si è raccomandato: se si ricomincia a viaggiare, è verso destinazioni in cui non bisognerà organizzare voli per andarvi a riprendere). Eppure, dalle nostre parti, l’attivismo croato non è stato gradito. O meglio: è comprensibile che ogni Paese tenti di risollevare le sorti economiche della stagione che sta per cominciare, ma niente “accordi bilaterali” che penalizzerebbero prima di tutto l’Italia, che da regina del turismo rischia di ritrovarsi cenerentola dell’estate 2020.

Corridoi per turisti e alberghi da salvare

È il senso dei ragionamenti che da giorni il ministro Dario Franceschini sta facendo a livello europeo e che sono alla base del “piano” di riapertura dei confini che sta studiando insieme al titolare della Farnesina Luigi Di Maio e alla ministra dei Trasporti Paola De Micheli, impegnati a costruire quel “cordone di sicurezza” che potrà permettere ai viaggiatori europei di venire in Italia (sperando ne abbiano voglia). E che deve evitare di farci finire discriminati per i 220mila contagi che, insieme alla Spagna, abbiamo sopportato negli ultimi tre mesi. Ieri è stata la Commissione europea a chiarire il punto: “Proponiamo un quadro di riferimento valido per tutti, per evitare discriminazioni basate sulla nazionalità. I viaggi potranno effettuarsi, anche con differenziazioni territoriali all’interno degli Stati membri: in Italia, ad esempio, la differenza potrebbe riguardare regione per regione e aree all’interno della stessa regione”. Di tedeschi sul lago di Garda, per capirci, quest’anno non se ne vedranno. Ma nulla deve impedire a chi lo vorrà di raggiungere la Sicilia o la Sardegna, per citare due regioni meno colpite dal Covid-19. Il punto sarà come arrivarci: il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ieri ha detto che “non vi è alcuna prospettiva di aprire presto i confini con l’Italia”. Lo stesso Francia e Svizzera. Mentre la Germania si limita a dire che non avendo “una frontiera diretta, la decisione passa per altri Paesi”. Ma oltre ai “corridoi” serviranno regole sugli arrivi: perché è logico che, se per chi arriva dovesse essere imposta la quarantena, nessuno si muoverebbe più. Nell’attesa di capire che fare, il governo prova a ridare fiato al settore in crisi: tra le misure – dai bonus vacanza agli indennizzi ai lavoratori – c’è anche l’ingresso di capitali pubblici nelle strutture ricettive, che poi potranno avere un diritto di prelazione sulle quote, a emergenza finita. Un modo, spiegano dal Mibact, per “mantenere il ‘brand Italia’ e fermare gli appetiti di mafie e investitori stranieri”.

Stop autocertificazioni, sì alle cene tra amici

Prima dei turisti stranieri, però, c’è da capire cosa potremo fare noi. Nel decreto che il premier firmerà tra oggi e domani dovrebbe arrivare la libertà di muoversi all’interno della propria regione. E per la prima volta senza aver bisogno di giustificare i motivi dello spostamento: stop quindi alle autocertificazioni. Sparisce, dunque, anche il limite di incontrare solo “congiunti”: si possono incontrare anche gli amici, ovviamente sempre a debita distanza.

Le linee guida e il limite delle Regioni

Ieri sono state trasmesse alle Regioni tutte le linee guida per la riapertura delle attività di lunedì: erano già note quelle di bar, ristoranti e spiagge, sono arrivate ora quelle di parrucchieri, barbieri e centri estetici: si lavorerà solo su prenotazione e con le porte aperte. Oltre alla mascherina, il cliente dovrà avere mantellina e asciugamani monouso. Spariscono le riviste da sfogliare in attesa della tinta. E lo stesso dovrebbe accadere ai limiti su orari e giorni di chiusura. Saranno le regioni però a decidere nel dettaglio se e quando riaprire. Per le palestre bisognerà aspettare il 25 maggio. Di fatto l’unico divieto che resta “categorico” è quello di spostarsi fuori regione: non è detto, sul punto, che nemmeno a giugno si arrivi al liberi tutti. Più probabile che sarà consentito spostarsi solo tra territori con indici di contagio basso.