I decreti legge del 30 aprile e del 10 maggio 2020 contenenti misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario ed emanati dopo le polemiche seguite ai provvedimenti che hanno concesso la detenzione domiciliare a numerosi esponenti della criminalità mafiosa, hanno effettuato un semplice resettaggio del sistema, rendendo cogenti e meglio specificando procedure che in buona misura avrebbero potuto essere attuate anche in precedenza, minimizzando così problemi che si sono verificati a causa più di deficit gestionali che di carenze di legge. Ad esempio l’art. 2 del decreto legge del 10 maggio dispone che il Dap deve monitorare in modo costante la disponibilità di strutture penitenziarie e di reparti di medicina protetta in cui il condannato o l’internato può proseguire la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute, fornendo così all’Autorità giudiziaria informazioni indispensabili per decidere sulle istanze di ammissione alla detenzione domiciliare, da disporsi solo nei casi nei quali viene comunicata l’indisponibilità di tali strutture.
In realtà tale monitoraggio poteva e doveva essere attuato anche prima. L’art. 11 dell’ordinamento penitenziario nel prevedere l’istituzione di articolazioni del Servizio sanitario nazionale e di centri medici specializzati negli istituti penitenziari, dispone espressamente: “Nel caso di diagnosi anche sospetta di malattia contagiosa sono messi in atto tutti gli interventi di controllo per evitare insorgenza di casi secondari, compreso l’isolamento”. Dunque nel momento dell’insorgenza della pandemia da Covid-19, la Direzione del Dap avrebbe dovuto effettuare una ricognizione in campo nazionale di tutte le strutture penitenziarie e dei reparti di medicina protetta nei quali – anche mediante trasferimenti e riallocazioni – era possibile assicurare la prosecuzione della detenzione in condizione di sicurezza per i soggetti che, essendo affetti da particolari patologie, erano più esposti a gravi complicanze in caso di contagio.
Dopo avere effettuato questo monitoraggio ed avere esaurito tutti gli strumenti gestionali interni, il Dap avrebbe potuto segnalare all’Autorità giudiziaria i casi che non erano gestibili con le risorse disponibili e per i quali, dunque, si profilava la necessità di soluzioni alternative quali il ricovero in strutture sanitarie esterne o la detenzione domiciliare da attuarsi con tutte le cautele necessarie in considerazione delle peculiarità criminologiche dei soggetti interessati. Invece di adottare questa strategia, la Direzione del Dap con direttiva del 21 marzo 2020 si è limitata a imporre a tutti i direttori degli istituti penitenziari di comunicare “con solerzia all’Autorità giudiziaria, per le eventuali determinazioni di competenza” i nominativi di tutti i detenuti ultrasettantenni e di quelli affetti da particolari patologie che li rendevano più esposti al pericolo di complicanze nel caso di contagio. Così, senza alcuna pianificazione e senza alcun preavviso preventivo, da un giorno all’altro, l’Autorità giudiziaria è stata subissata di segnalazioni di tale tipo da parte dei direttori degli istituti penitenziari, di cui non si comprendeva l’origine e lo scopo. Come dovevano intendersi quelle segnalazioni? Come implicite e generalizzate richieste di differimento dell’esecuzione della pena e di ammissione al regime di detenzione domiciliare per l’accertata e documentata indisponibilità in sede locale e nazionale di reparti di medicina protetta e di strutture penitenziarie dove garantire l’isolamento?
A Palermo abbiamo subito chiesto spiegazioni apprendendo con stupore che in realtà non era stato effettuato alcun monitoraggio preventivo di tali risorse interne, e che, dunque, i nominativi venivano segnalati sic e simpliciter con una sorta di partita di giro che scaricava interamente sull’Autorità giudiziaria compiti che il Dap non aveva assolto prima e che in taluni casi eclatanti – come la vicenda che ha portato alla ammissione alla detenzione domiciliare del boss Pasquale Zagaria – non ha assolto neppure dopo, quando a fronte di reiterate e urgenti richieste di informazioni da parte della magistratura di sorveglianza, è rimasto inerte rispondendo in ritardo e fuori tempo massimo. Per di più la direttiva del Dap del 21 marzo sino al 21 aprile non è stata neppure comunicata alla Direzione nazionale antimafia, con il risultato che non si è reso possibile attivare in tempo utile un monitoraggio delle istanze di scarcerazione dei detenuti soggetti al regime del 41-bis e di quelli ristretti in regime di alta sicurezza, in modo da canalizzare sull’Autorità giudiziaria informazioni indispensabili per decidere con piena cognizione sulle istanze presentate, avendo riguardo all’attualità dei collegamenti con il crimine organizzato e alle specifiche misure da adottare per limitare, pur nella detenzione domiciliare, i rapporti con l’esterno.
Il decreto legge n. 28 del 30 aprile ha reso ora obbligatorio il parere preventivo dei procuratori distrettuali antimafia e, nel caso di detenuti sottoposti al regime del 41-bis, anche del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. I deficit non sono stati solo dell’Amministrazione penitenziaria. In molti casi la magistratura di sorveglianza competente per i condannati e l’autorità giudiziaria competente per gli imputati, hanno gestito le istanze di differimento della pena e di ammissione alla detenzione domiciliare dopo avere effettuato complesse istruttorie. Hanno preventivamente richiesto all’Amministrazione penitenziaria se erano disponibili strutture e reparti di medicina specializzata interne al circuito carcerario ove trasferire i detenuti. Nei casi nei quali è stata data risposta positiva è stato disposto tale trasferimento, in quelli nei quali non vi era tale disponibilità è stato disposto il ricovero in strutture ospedaliere specializzate esterne. In altri casi è stata disposta la detenzione domiciliare in strutture di accoglienza lontane da luoghi di residenza per evitare il ritorno nel territorio di soggetti pericolosi nei territori di origine.
In tal modo è stato possibile pervenire a un ventaglio di soluzioni equilibrate attuando un bilanciamento tra l’interesse del condannato a essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività. Bisogna tuttavia ammettere che si sono verificati anche casi nei quali sono stati invece assunti provvedimenti sbrigativi che senza essere preceduti da una adeguata istruttoria mediante la preventiva acquisizione di informazioni presso il Dap e presso la magistratura antimafia, hanno disposto l’ammissione alla detenzione domiciliare di pericolosi esponenti della criminalità organizzata nei territori di provenienza ove avevano spadroneggiato, pressoché esclusivamente sul presupposto della inconciliabilità del regime detentivo in carcere con il pericolo del contagio da coronavirus.
In un caso che ha avuto risonanza mediatica nazionale, un boss mafioso sottoposto al regime del 41-bis, dopo essere stato ammesso alla detenzione domiciliare nella propria abitazione a Palermo, è stato autorizzato ad uscire dal domicilio per accompagnare i propri familiari dal dentista o in altre visite mediche, e a recarsi fuori Palermo per partecipare a matrimoni, battesimi, funerali, nonché ai festeggiamenti del “25 e 26 dicembre, della domenica di Pasqua e lunedi dell’Angelo”. In sostanza un brusco passaggio da un rigoroso regime di isolamento determinato dalla diagnosi di pericolosità per l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata a una vita di piena socialità, che non ha alcuna connessione con l’esigenza di tutela della salute e che mette gratuitamente a rischio la sicurezza della collettività e la fiducia nello Stato. Alla luce del senno di poi, dobbiamo forse ammettere che siamo stati tutti colti impreparati dall’improvvisa accelerazione della emergenza sanitaria causata dal Covid-19, e per qualche tempo abbiamo proceduto in ordine sparso con qualche caduta e sbandamento. Ma la situazione è stata ripresa in tempo e appare sotto controllo. Più che al passato occorre ora guardare al futuro: la questione carcere resta la cattiva coscienza di questo Paese e la cartina di tornasole delle storture di un sistema giustizia che, per un verso, declama nobili principi di uguaglianza dinanzi alla legge e di trattamento rieducativo dei condannati, e, per altro verso, continua a ospitare nelle carceri la stessa popolazione carceraria degli inizi del Novecento. Come attestano le statistiche del Dap sulla composizione sociale della popolazione carceraria, oggi come ieri come l’altroieri, in carcere a espiare la pena finisce quasi esclusivamente chi occupa i piani più bassi della piramide sociale. Il numero dei colletti bianchi è talmente esiguo da non essere neppure statisticamente quotato. Forse questo è uno dei motivi dell’eterna irresolubilità della questione carcere, che si trascina da più di un secolo di emergenza in emergenza, da amnistia ad amnistia, da indulto a indulto, da uno svuotacarceri a un altro, lasciando inalterate le condizioni di invivibilità e di sovraffollamento di sempre, riservate solo ai piani bassi e specchio fedele delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali fuori dal carcere.