La discussione sul Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, ha ormai raggiunto vette surreali.
Ieri il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha detto che “il debito pubblico italiano non è gestibile senza l’aiuto della Ue e di Paesi come l’Austria” e ha invitato Roma a richiedere i 36 miliardi di “prestiti sanitari” all’ex fondo “salva Stati”. Se il debito non è gestibile, aumentarlo con nuovi prestiti non risolve il problema. Kurz lo sa bene, ed è per questo che la partita è in realtà tutta politica. Nelle prossime settimane, la Bce sarà chiamata a scelte fondamentali. Sempre ieri Blackrock, il più grande gestore di fondi del mondo, ha annunciato che ridurrà la sua esposizione sul debito pubblico dei Paesi meridionali della zona euro dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca, che ha messo in dubbio le politiche monetarie della Bce. I giudici di Karlsruhe, come noto, hanno puntato il programma di acquisti di debito da 2.000 miliardi varato da Draghi nel 2015 (Qe) e intimato a Francoforte di motivare le sue decisioni o il suo maggior azionista, la Bundesbank, dovrà tirarsi fuori dal programma. “Questa sentenza arriva quando le iniziative della Bce per frenare la crisi dovuta alla pandemia già sembravano limitate rispetto a quelle della Federal Reserve – si legge nella nota di Blackrock –. Questo minaccia di aumentare la frammentazione nell’area euro”. Negli ultimi due mesi, la Fed ha acquistato 1.500 miliardi di titoli del Tesoro Usa e 600 miliardi di titoli legati a cartolarizzazioni di mutui come parte del suo impegno ad acquistare una quantità illimitata di debito pubblico. La Bce, invece, ha annunciato un piano di acquisti da 750 miliardi in tutto nel 2020. Secondo Unicredit, finora ha acquistato il doppio dei Btp italiani previsti dai capital keys (le quote per Paese) e a giugno dovrà implementare i suoi acquisti. Si parla di 500 miliardi, per arrivare in un anno a quanto la Fed ha fatto in due mesi. Il futuro dell’Italia e dell’euro non dipendono dai prestiti vincolati del Mes, ma da cosa farà Francoforte.
Se sarà ancora in campo, lo scopriremo a breve.
Riecco Federconsorzi. Il monopolio Coldiretti grazie ai soldi di Cdp
Il mondo agricolo italiano, di cui abbiamo capito l’importanza strategica con il lockdown, rischia una catastrofe: la trasformazione della rete dei consorzi agrari, sistema circolatorio dell’agricoltura, in un monopolio privato. Voi vi sedete a tavola e ignari mangiate. Ma dietro quell’insalatina mista, quella mela, quella pagnotta di grano Cappelli c’è il far west, un mondo con poca etica e una sola legge, quella del più forte. Il più forte è chi intercetta i fondi europei. Ogni anno 4-5 miliardi sovvenzionano tutto ciò che ha foglie e radici. Il sistema delle associazioni di categoria distribuisce con qualche arbitrio il fiume di denaro pubblico a milioni di aziende grandi e microscopiche, trattenendo per il disturbo circa 500 milioni di gabelle. Forse. Perché il mercato agricolo italiano è più opaco di quello della cocaina.
Chi spadroneggia è una peculiare autocrazia chiamata Coldiretti. Fu pilastro del potere democristiano nel Dopoguerra, quando si chiamava la Bonomiana, dal nome di Paolo Bonomi che la guidò dal 1944 al 1980 per lasciare poi lo scettro ad Arcangelo Lobianco, deputato Dc per 26 anni e artefice nel 1991 del crac Federconsorzi insieme alla Confagricoltura. Il sistema spendeva più soldi di quanti riusciva a succhiarne allo Stato, così alla fine è saltato lasciando ai contribuenti un conto miliardario. La Confagricoltura, invece, un tempo così potente da accompagnare al potere Benito Mussolini, oggi è costretta a reggere la coda a Vincenzo Gesmundo, onnipotente direttore generale di Coldiretti, padrone del sistema sconosciuto ai più ma celebre nel mondo agricolo per i suoi stipendi stellari. Il merito di Gesmundo è aver traghettato la Coldiretti dal rapporto monogamico con la defunta Dc ai patti con chiunque abbia il potere.
Nonostante i miliardi pubblici in gioco, è un mondo chiuso in cui nessuno osa mettere il naso o fare domande. Tantomeno i politici. Nemmeno quando vengono fatte porcherie come quella del grano Cappelli. Questa nota varietà di grano duro fu ottenuta nel 1915 dal genetista Nazareno Strampelli che la intitolò al senatore e agricoltore Raffaele Cappelli ma non la brevettò, lasciandola in proprietà allo Stato. Nel 2016 il Crea (centro statale di ricerche agricole) ha dato a una società privata, la Sis, l’esclusiva della vendita del Cappelli: avete capito bene, una cosa che era di tutti, come l’aria che respiriamo, è diventata privata. E la Sis, come ha accertato l’Autorità Antitrust, ha pensato bene di vendere i pregiati semi solo agli iscritti alla Coldiretti, imponendo anche che il grano prodotto venisse venduto solo alla Sis, mentre il prezzo dei semi è stato aumentato “in maniera significativa e ingiustificata”. Tutto risolto con 150 mila euro di multa.
La vicenda del Cappelli è una specie di trailer. La Sis rappresenta metà del fatturato del gruppo quotato Bonifiche Ferraresi, la più grande società agricola italiana: principali azionisti la Fondazione Cariplo, la Cassa Depositi e Prestiti attraverso Cdp Equity, e l’amministratore delegato di Bf Federico Vecchioni, ex presidente di Confagricoltura convetito alla fede Coldiretti.
L’idea meravigliosa di Gesmundo e Vecchioni è di rifare la Federconsorzi, rilanciando il sogno di Lobianco vanificato dal crac: il “progetto Aquila” puntava a concentrare in un unico soggetto nazionale tutte le attività dei consorzi agrari locali. Oggi l’obiettivo è a portata di mano grazie al denaro pubblico di Cdp ed Enpaia, ente previdenziale degli agricoltori: cementare definitivamente il potere della Coldiretti su tutte le forme di fotosintesi esistenti nella penisola.
Sul progetto è in corso da mesi una rissa nei maggiori consorzi agrari. Esponenti locali della Confagricoltura (disconosciuti in silenzio dal presidente Massimiliano Giansanti), della Cia (ex Confcoltivatori) e della stessa Coldiretti si sono messi di traverso. I consorzi agrari, cooperative mutualistiche severamente normate, hanno un monopolio di fatto dell’attività commerciale: vendono agli agricoltori tutto ciò che serve, dal seme al trattore, e commercializzano il prodotto. Il loro giro d’affari è un altro mistero doloroso, oggetto di stime, come per la cocaina, da uno a tre miliardi, ma se chiedi una cifra a uno dei boss del sistema la risposta è sempre “non lo so”. Anche i debiti dei consorzi sono un segreto di Fatima, con stime da 350 a 500 miliardi.
Il piano è questo: i cinque maggiori consorzi agrari italiani (Nord Est di Verona, Terrepadane di Piacenza, Centrosud, Emilia e Adriatico) conferiscono le loro attività a una nuova società nella quale Bf avrà una quota inferiore al 50 per cento ma il controllo di fatto con diritto di nomina dell’amministratore delegato. Perché meno del 50 per cento? Perché la legge dice che i consorzi agrari non possono cedere il controllo della loro attività a una società terza, pena la perdita della natura mutualistica e relativi privilegi.
Il presidente del consorzio Nord-Est Ettore Prandini, casualmente anche presidente Coldiretti, è stato costretto a chiedere due pareri legali, e sia il noto ex sottosegretario Andrea Zoppini sia la giurista Giuliana Scognamiglio hanno scritto, in sintesi, che quel 51 per cento è un aggiramento della legge. Ma il presidente della Cia Dino Scanavino è scoraggiato: “Non sarà certo l’opposizione degli agricoltori a fermare un’operazione di questa portata. Nelle stanze del potere finanziario, sostenuto da uno Stato complice, si sprecano i soldi dei contribuenti mentre l’agricoltura continua ad arrancare”.
“Che ci faccio qui”: la Tv d’autore è viva
Bartolo Mercuri, fondatore dell’associazione il Cenacolo, è uno strano rider. Sale sull’auto e invece di andare al suo negozio di mobili, attraversa la piana di Rosarno, si fa largo tra baraccopoli in rovina e casolari nel nulla per lasciare la spesa a domicilio, anche se il domicilio non c’è. Queste consegne Bartolo le faceva prima del Coronavirus e continuerà a farle dopo, perché certe quarantene non finiscono mai.
C’è un mondo in cui il day after assomiglia tanto al day before, dove c’è solo la Fase zero, e da zero si ricomincia ogni giorno. Per la nuova stagione di Che ci faccio qui (Rai3, domenica, 20:30) Domenico Iannacone ha voluto ripartire da dove non c’è frontiera tra prima e dopo, dove il tempo si era già fermato.
In viaggio con “papà Africa”, come i migranti chiamano Bartolo, Iannacone usa il giornalismo allo stesso modo: consegna agli spettatori merci semplici quanto rare nel mercato televisivo. Il reportage al seguito di Mercuri nel quadrante compreso tra Rosarno a Gioia Tauro racconta un territorio dove lo Stato sparisce di fronte allo sfruttamento selvaggio di braccianti ed extracomunitari. Un mondo da 1 euro e 30 a cassa di arance senza contratto, senza bonus, senza voucher, senza Rem, senza permessi, senza sanatorie. Un mondo che meno è visibile, più è vero.
Il racconto nasce dagli incontri e anche in questo Iannacone rema controcorrente, la politica si dà alla macchia, indietreggiano i dati e gli esperti, resta la catena umana. Ma anche qui, nessun monologo. Tutto poggia sugli sguardi, le incerte parole strappate a stento, i lunghi silenzi. È una sintassi aspra e ostinata come il transumare di un pastore verso l’alpeggio.
C’è il sogno di una cosa in Che ci faccio qui, la volontà di mostrare, nonostante tutto, “che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa”. Dai piani sequenza nel far west del Mezzogiorno alternati ai primi piani affiorano memorie di cinema, da Pasolini a Garrone.
La tv d’autore è possibile, anche questo è il sogno di una cosa.
Mail box
Virus, ricerche, cure e dati: confusione, non complotti
Gentile dottoressa Gismondo, una ricerca del patologo Pasquale Bacco ha svelato che su 7.038 cittadini del Bresciano asintomatici, il 49 per cento era positivo al virus. Ora su scala nazionale significherebbe che almeno 25 milioni di italiani sono così: asintomatici. Quindi la mortalità del virus in percentuale sarebbe declassata a poco più che una influenza. Se poi aggiungiamo che i 58 malati di Mantova trattati col plasma sono guariti tutti in 5 o 6 giorni, e idem a Padova, lei non crede che ci sia qualcuno che ha interesse a screditare la cura per motivi commerciali, o per coprire errori o per altri innominabili scopi a danno della popolazione?
Enrico Costantini
Gentilissimo, non sono in grado di confermare quanto da lei scritto. Mi sorge il dubbio che in questa faccenda si siano addensati troppi protagonismi e troppi poteri. Io me ne sono stata alla larga: quando la scienza scade a livelli di mercato non è scienza.
MRG
Le messe non sono “raduni” qualsiasi
Sono un medico, cristiano e socio del Fatto: vorrei rispondere alla dottoressa Gismondo, la cui rubrica titola: “I parroci: nuovi virologi”. Io potrei rispondere con un titolo equivalente: “I virologi: nuovi teologi”. Non me ne voglia, sul Covid la seguo, ma in tema di religione no. Con le messe, si chiede lei, “non potevamo evitare un’ulteriore causa di assembramento, almeno nella Fase 2?”. I martiri di Abitene danno una risposta eloquente: nel 303-304 d.C. Diocleziano scatenò una violenta persecuzione proibendo di celebrare l’Eucarestia. Un gruppo di 49 cristiani si riunì comunque: scoperti, furono sottoposti a giudizio. Alla domanda del proconsole Anulino che chiedeva giustificazioni, risposero: “Noi cristiani senza la domenica non possiamo vivere”. In conclusione, gentile dottoressa, se dobbiamo privarci del Dominicum obbediamo, ma non banalizziamo la questione: la messa non è un assembramento qualsiasi.
Roberto Giagnorio
Mi spiace che lei abbia interpretato come banalizzazione della messa il mio consiglio. Proprio nelle prime righe riportavo quello che mi è stato insegnato dalle suore e cioè che Dio è dappertutto e che non dobbiamo sentirci privati di Lui se non siamo in una chiesa. Non voglio fare la teologa e accetto le sue osservazioni, restando, come virologa, del parere che siamo in una fase delicata e che dobbiamo assolutamente proteggere i deboli. E questo mi sembra di ricordare sia stato uno dei messaggi di Gesù Cristo.
MRG
Non dimentichiamo la giovane Giorgiana Masi
Giorgiana Masi oggi avrebbe la stessa età delle mie sorelle: sarebbe una signora di poco più di 60 anni… Di lei si è sempre avuta solo una foto, quella della carta di identità: Radio3 Rai ieri mattina, per ricordarla, ha scelto la parola “incantesimo”. Ecco a me sembra che il 12 maggio sia una giornata ferma come per incantesimo, in cui nessuno ha sciolto il mistero della sua morte e della mano che l’ha colpita. Rimane lei, Giorgiana Masi, e noi che allora avevamo solo quella “primavera romana” con una carica di alleggerimento, sogni e speranze, da non scordare mai e difendere. Ciao ragazze e ragazzi, di ieri e di oggi. Sempre.
Doriana Goracci
Le giravolte di opinione degli chef televisivi
Alessandro Borghese, noto chef protagonista di programmi televisivi, in un’intervista a Repubblica diceva: “Chi lavora bene ce la farà, gli improvvisati salteranno”. Giorni dopo, invece, sul Corriere della Sera affermava: “Sta radendo al suolo la ristorazione italiana… lo Stato”. Prima pare fare il tifo per la chiusura degli “improvvisati”, qualunque cosa voglia dire, e poi piagnucola di non essere aiutato dal governo. Signor Borghese, la prossima volta pesi meglio le parole.
Mario Moretti
La didattica a distanza fa della scuola un’azienda
Se la (vera) scuola ha un merito è quello di incentivare e formare lo spirito critico e dialettico, attraverso il dialogo e il confronto de visu. Con la Didattica a distanza questo ruolo formativo viene meno: nella migliore delle ipotesi, la Dad funziona come trasmissione di nozioni, ma il confronto dialettico è azzerato, temo, poiché manca proprio la vicinanza fisica. La Dad ha sancito l’ultimo passaggio verso l’aziendalizzazione della scuola, nella misura in cui va a equiparare la funzione educativa, che è una professione intellettuale, al mero ruolo impiegatizio. Senza offesa per gli impiegati, ma l’insegnamento non si può ridurre allo smart working, sebbene tale soluzione sia gradita a vari dirigenti scolastici e persino a qualche collega. I risultati sono i seguenti: si compie una fatica enorme e con scarsi esiti educativi, dato che i ragazzi sono ancora più distanti e svogliati.
Lucio Garofalo
Chi corre senza mascherina è pericoloso per gli altri
Si può finalmente andare al parco, ma si rischia perché quelli che corrono sono esentati dalla mascherina a scapito dei poveri fessi che fanno solo la passeggiata. I percorsi pedonali nel parco di Trenno a Milano sono larghi cerca 3 metri; la soluzione sarebbe facile: si potrebbe dividere il percorso in due tronchi, uno per chi corre l’altro per noi (spesso più anziani) che camminiamo. Dovrebbero essere le amministrazioni locali a capire i problemi: se ci sono arrivato io ci potrebbe arrivare anche il sindaco di Milano. Della Regione neanche parlarne.
Francesco Saverio Lanza
Venezuela. Il “golpetto” sfugge ai giornali troppo impegnati ad accusare la Cina
Buongiorno, come era facile prevedere, il Fatto è l’unico quotidiano italiano che abbia dato la notizia (Alessia Grossi il 6 maggio) di un avvenimento internazionale di grande rilevanza: lo sbarco, in territorio venezuelano, di gruppi di commandos di varie nazionalità, ma comandati da due cittadini americani, membri di una Agenzia privata di contractor. Attesi sulla terraferma da complici pesantemente armati, avrebbero dovuto assassinare il presidente della Repubblica venezuelana e tutti i membri del governo. I protagonisti della vicenda, arrestati, dichiarano di avere agito sul tacito mandato di Trump che ovviamente li smentisce. Il titolare dell’agenzia, l’americano Jordan Goudreau, conferma invece tutto. I giornali americani ne parlano ampiamente. Il Washington Post pubblica addirittura copia di un contratto dei mercenari, in cui si impegnano, in cambio di somme di denaro ben specificate, a sterminare l’intero governo venezuelano e a consegnare il potere all’autoproclamatosi presidente Guaidó, la cui firma (dichiarata autentica da una perizia calligrafica) figura in calce al contratto stesso, come mandante della strage. Sarei curioso di sapere cosa ne pensa l’onorevole Tajani, che non perde l’occasione di elogiarlo e sponsorizzarlo e di sapere perché i maggiori quotidiani italiani, di fronte ad avvenimenti di tale portata, tacciono.
Venanzio Antonio Galdieri
Si potrebbe direche non esistono più le Baie dei porci di una volta. Che pur fallendo, almeno avevano un certo potenziale militare. Qui, invece, ci troviamo di fronte a ex membri delle forze speciali, intruppati in un’impresa al limite del ridicolo. Lei cita giustamente l’articolo del Washington Post secondo il quale si è comunque trattato di “un’operazione seria per cui valeva rischiare la vita”. Alcuni giornali hanno adombrato l’ipotesi di una fake orchestrata dallo stesso Maduro, magari nell’intento di rafforzare il proprio potere. In realtà, gli Stati Uniti ci hanno abituato a operazioni del genere: allestire operazioni apparentemente sballate, da scaricare un minuto dopo il loro fallimento, ma comunque utili a saggiare le forze sul campo e poi impugnate in caso di successo. Di Jean Goudreau, probabilmente non sentiremo più parlare e in realtà, come lei giustamente sottolinea, non ne abbiamo sentito parlare chissà quanto in questi giorni. Al contrario, autorevoli editorialisti e in particolare la nuova linea editoriale di Repubblica, ci ha avvertiti della gravità, per il governo italiano, di non aver preso le distanze dalla Cina sul caso Coronavirus. E questo, guarda un po’, proprio mentre Donald Trump sta cercando di distrarre gli elettori dalla sua sciagurata gestione, puntando il dito proprio contro Pechino (si guardi il video dell’ultima conferenza stampa e le offese alla giornalista asiatica). Vuol vedere che tra i due fatti c’è un nesso?
Salvatore Cannavò
Fase due e “faso mi”. I governatori all’arrembaggio
Se non ne potete più dei virologi a reti unificate, state pronti: è l’ora dei governatori. O meglio dei Presidenti di Regione (così si chiamano) i quali stanno per ottenere l’autonomia che da settimane esigono a suon di ordinanze (soprattutto quelli che appartengono a forze politiche di opposizione). Le ragioni per cui il governo ha deciso per tutti le ha spiegate con estrema chiarezza Gustavo Zagrebelsky, commentando le frizioni tra Stato e Regioni: “La tensione è politica. Giuridicamente, la questione è risolta dal principio costituzionale di sussidiarietà: la competenza segue la dimensione del problema. È come un cursore che si arresta e conferisce la competenza nel punto (alto o basso che sia) adeguato alle funzioni da gestire: funzioni piccole, in basso; funzioni grandi, in alto. Il cursore va dai Comuni fino allo Stato, passando per le dimensioni intermedie. Questa è una pandemia: il minimo è che se ne occupi lo Stato”. Dunque, nulla quaestio. In teoria. In pratica per cinque minuti di notorietà qualcuno ha voluto strafare, sfornando ordinanze intempestive (regolarmente respinte al mittente dai Tribunali amministrativi).
Il governo ha deciso il lockdown: per alcuni troppo severo (riaprire tutto, tuonavano a una voce sola i due Matteo nel pieno dell’emergenza), per altri troppo poco rigoroso (i linciatori di runner solitari). Pensatela come volete: il lockdown ha portato l’indice di Ro (quante persone contagia ogni singolo malato) a una situazione governabile da un punto di vista sanitario. Le conseguenze sul piano economico sono ugualmente drammatiche e ora bisogna trovare il modo di ripartire. Che non sarà uguale per tutti. Giustamente si fa notare che alcune regioni, a differenza di altre, sono state solo parzialmente visitate dall’epidemia. È l’ora della responsabilità, va ripetendo in queste ore il ministro Boccia (che in questi mesi ha fatto il vigile urbano tra le fughe in avanti e i sensi vietati presi da qualche amministratore locale) parlando della differenziazione territoriale. Tutto bene, quindi? Insomma. Aperture e chiusure avranno un interruttore: il rispetto dei paletti fissati dal ministero della Salute. Si tratta di 21 indicatori in grado di misurare la diffusione del contagio e la capacità delle Regioni di tracciare e isolare i focolai. Ieri abbiamo raccontato sul Fatto la situazione al 4 maggio. Stando al report del ministero della Salute, l’epidemia era in forte contrazione, con un indice di riproduzione dei contagi mediamente attorno allo 0,5. Ma il punto è che siccome il virus c’è ancora, volendo ripartire bisogna attrezzarsi per mapparlo e contenerlo. Quasi tutte le Regioni (a parte parzialmente Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Provincia di Bolzano) non sono in grado di fornire dati di sorveglianza epidemiologica sufficienti, né di accorciare i tempi tra rilevazione dei sintomi e diagnosi della malattia nei 5 giorni individuati dal ministero. Per dire: in Calabria, dove si voleva riaprire tutto e subito, la tempistica sintomi/tampone è di 24 giorni. Ciao core. Restando al Sud: in Puglia e Sicilia l’indice di Ro è rispettivamente 0,96 e 1,12. Altrove il problema sono i posti letto dei malati Covid: non devono superare il 40 per cento del totale, nel Lazio sono il 29 per cento. La Lombardia è la sola a essere ancora “a rischio moderato” perché i casi accertati sono molti. La Campania di Vincenzo De Luca (che con voce baritonale reclamava ventilatori polmonari non avendo mai avuto situazioni paragonabili a Bergamo) ha una buona situazione negli ospedali. Dei suoi dati epidemiologici, però, non si sa quasi nulla. Più che fase due, “faso mi”. La pandemia ha preso tutti alla sprovvista, per carità. Vedremo se i governatori useranno bene la libertà che ritengono essere loro dovuta.
Capitalismo all’italiana: “Dateci i soldi e fatevi i cazzi vostri”
Abituati al piccolo cabotaggio, al chiacchiericcio politico fatto di sgambetti, ripicche e testacoda, ci sfugge forse un dettaglio che non è un dettaglio, anzi è il punto centrale: con 150 miliardi a disposizione (le cifre sui soldi disponibili per affrontare la crisi, in prospettiva sono più o meno queste) si potrebbe, volendo, cambiare il Paese. Lo dico subito: all’ipotesi speranzosa – ai confini del misticismo – che dopo “saremo migliori” non do molto credito, e lascio a ognuno interpretare i numerosi segnali di incattivimento. È evidente a tutti, comunque, che la battaglia per chi gestirà quei soldi, come li distribuirà, con quali regole, con quali benefici, a chi, quando e in che misura, è più attiva che mai.
Si segnala per tigna e determinazione, il mondo delle imprese, insomma il non eccelso capitalismo italiano che rivendica un ruolo centrale, si oppone ai finanziamenti “a pioggia” (sugli altri), ancora mugugna sul Reddito di cittadinanza (assistenzialismo!) e chiede valanghe di soldi a fondo perduto per sé (assistenzialismo, ma, sembrerebbe, più nobile perché invece dei poveracci riguarda gli imprenditori). Insomma il ritornello è sempre quello: che se stanno bene gli imprenditori poi, a cascata, staremo meglio tutti, tesi smentita da almeno trent’anni di politiche sul lavoro, ma a ancora valida nella narrazione padronale.
La storiella si incrina un po’ quando si parla di regole e controlli. Esempio: se lo Stato “regala” una cascata di soldi a un’azienda, quali richieste di garanzia potrà mettere in atto? Piccole cose elementari: niente aiuti a chi licenzia, per esempio (o divieto di licenziare per chi prende aiuti, fa lo stesso). Oppure un rappresentante pubblico nei Cda, giusto per controllare che i soldi di tutti non finiscano nell’acquisto di una barca nuova anziché andare alla produzione e ai salari per le famiglie. O ancora: niente soldi a chi delocalizza, o ancora: niente soldi a chi ha situazioni fiscali non cristalline (tipo la residenza fiscale in Olanda, per dire). Tutte cose non così peregrine, insomma, davanti alle quali si è subito alzato un muro di granito. Le giaculatorie padronali riguardano il vecchio intramontabile ritornello che lo Stato deve stare lontano dagli affari, il che però si incastra proprio male con la richiesta costante e pressante di soldi pubblici. Traduco: il liberismo ama tanto quella manina invisibile del mercato che sistema tutto, ma poi capita che quella manina si presenti col cappello in mano a chiedere soldi, e allora tutte le belle teorie sul mercato che si autoregola vanno un po’ a farsi benedire.
Le obiezioni a qualunque possibile controllo statale sulle aziende che beneficerebbero di finanziamenti, insomma, sono di tipo ideologico. La prima, un po’ sorprendente, dice che mettendo qualcuno a controllare come le aziende spendono i soldi nostri aumenterebbe la corruzione. Come dire che, uff!, se mi mettete qui qualcuno a controllare, poi mi tocca corromperlo. Strana difesa. Altri, più fantasiosi, gridano ai Soviet e all’economia di Stato, e si inalberano anche quando si chiede una partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle aziende. Vade retro, pussa via! Ma dove siamo, eh, a Mosca negli anni Trenta? Sfugge a costoro, anche se lo sanno bene, che in Germania questo già succede, e anche con buoni risultati.
Insomma, il mood confindustrial-italico è “dateci i soldi e fatevi i cazzi vostri”, in pratica la richiesta di un capitalismo assistito ma senza contropartite. In questo modo, la cascata di miliardi in arrivo non solo non cambierà il Paese, ma finirà per perpetuare all’infinito il sistema delle diseguaglianze che la pandemia ha reso visibile a tutti. E dopo, quando saremo peggiori, potrà continuare imperterrita la storiella che lo Stato deve stare alla larga dal mercato, salvo cacciare soldi a pioggia quando servono.
Silvia, il perfetto capro espiatorio
Cosa tiene unita una società? Il “linciaggio fondatore, l’ombra del capro espiatorio”, scrisse l’antropologo René Girard. La liberazione di Silvia Romano, giovane volontaria di una Onlus marchigiana rapita in Kenya dai terroristi islamici di Al Shabaab nel novembre 2018, rientra proprio in questa economia simbolica. Il rito della liberazione, lungi dal trasformarsi in festa, ha scatenato una violenza massiva che si è riversata sulla vittima. Il Corriere ha dovuto bloccare i commenti sui social, tanti erano gli insulti e le minacce degli odiatori. Politici e direttori di giornali hanno partecipato da par loro a quest’orgia nefanda.
Quando si parla di capro espiatorio si pensa all’offerta di animali o umani su altari sacri: nelle società tecnologicamente avanzate, nondimeno sopravvive “quell’evento primordiale, sempre ripetuto, in cui la società trova la sua origine, nel circolo vizioso fra sacro e violenza”. La parola “linciaggio” ci è familiare: periodicamente una vittima è sezionata e data in pasto sui media, come il corpo di Dioniso, dio del sacrificio. Ogni società ha bisogno di una vittima che assorba la violenza che, se non soddisfatta, la annienterebbe.
La conversione di Silvia Romano ha scatenato risentimento perché è stata vissuta come un tradimento, un sacrilegio dell’investimento emotivo fatto sulla sua salvezza. Eravamo disposti a dare in cambio qualcosa della comunità (il riscatto) a patto che lei tornasse intaccata dalla violenza, ma intatta nella sua identità clanica. È successo esattamente il contrario: la dichiarazione di Silvia di essere stata trattata bene ha dis-investito il nostro desiderio mimetico e ha generato delusione invece che sollievo. Nell’economia del sacrificio, l’aguzzino-nemico esterno che attenta alla integrità dei membri di una comunità deve essere feroce per espletare la sua funzione e perché la vittima torni nella società investita del potere sacro dell’immolazione. Mentre si imprimeva sulle nostre rètine l’immagine di Silvia vestita in abiti occidentali, durante la prigionia lei si trasformava, incorporando i valori del nemico. Eravamo disposti a condividere parte della violenza subìta da lei e dello strazio dei suoi genitori, a patto che lei restasse “nostra”, persona non autonoma, non dotata di una propria disposizione interna.
Il rito liberatorio collettivo è compiuto quando la vittima, assumendo su di sé il male e insieme rigettandolo, diventa sacra. La conversione all’islam ha spezzato questo circolo, ha deluso il desiderio di violenza insito in ogni società, restituendo la percezione che Silvia abbia “portato dentro” la comunità d’origine i valori del nemico e rigettato quelli che morendo eroicamente (come in guerra) o soffrendo aspramente avrebbe ribadito. Non è un caso se la violenza più brutale contro di lei si sia scatenata attorno all’ipotesi che fosse incinta di un suo carceriere: con ciò avrebbe portato anche fisicamente in sé un po’ del nemico. Si sarebbe sconsacrata. In questa anamorfosi, avremmo pagato il carnefice non per escluderlo, ma per averlo con noi. Per molti, addirittura, avremmo pagato “la dote” di Silvia: l’interdizione massima, la non commistione tra bene e male (anzi: la sua unione nel piacere sessuale) è infranta. Il circolo vizioso tra violenza e sacro raggiunge in questa potente immagine simbolica il suo apice.
Si è prodotta un’inversione emotiva: in una nazione prostrata dal lockdown, Silvia – che è stata davvero privata della libertà vitale per un anno e mezzo – ha catalizzato la rabbia e la frustrazione covate in mesi di proclami sui buoni sentimenti, il “torneremo migliori” degli spot motivazionali. Le stesse persone che prima cantavano dai balconi si sono reinventate come persecutori. La vittima è diventata colpevole. “Va arrestata” ha detto qualcuno: come per Nietzsche, si punisce il reo non per impedire la reiterazione del reato (che non c’è), ma per colpire in esso chiunque attenti alla supposta unità della comunità. Si converte la violenza inaccettabile in una violenza socialmente accettata.
Silvia è capro espiatorio di una violenza che si vorrebbe esercitare sul nemico, che è l’islamico, non il terrorista. Appare chiaro il mix di pregiudizio etnico e violenza amministrata che ha coalizzato per anni una società disgregata, senza altri motivi di agglutinazione che non il meccanismo persecutorio (i decreti sicurezza, le vendette pubbliche perpetrate contro gli immigrati da alcuni leader politici).
Silvia non è diventata una terrorista, non è tornata con un giubbotto esplosivo addosso: è tornata indossando il tradizionale jilbab e, ancora più imperdonabilmente, i segni della salute fisica e mentale, cioè della scelta. E la scelta è estranea alla terribile economia di violenza-colpa-sanzione che fonda le comunità. In una civiltà immune al senso del sacro, il ciclo della violenza si spezza solo per tornare più forte di prima.
Campagne deserte e assembramenti di poveri coglioni
Attenzione: questa rubrica può causare dipendenza patologica.
Conte non ha fatto in tempo ad annunciare le linee guida della Fase 2, invitando tutti a essere responsabili, che subito, dai Navigli al Vomero, masse di coglioni hanno ripreso ad assembrarsi, dimostrando di non averne avuto abbastanza di ospedali al collasso, morti e arresti domiciliari. Mettetevi a inculare i pit bull, già che ci siete: fate prima. In una notizia correlata: Carlo Bonomi, il nuovo presidente di Confindustria, chiede l’abolizione dell’Irap, che serve a pagare le spese sanitarie delle Regioni.
In effetti, forse le spese sanitarie andrebbero ridotte: l’altro giorno Trump ha detto che il virus se ne andrà da sé. Trump ha anche proposto di iniettare un disinfettante alle persone per combattere il Covid-19: parole che ammantano di toga un uomo. “Iniettarsi disinfettante è velenoso. Per favore, non fatelo a casa”, ha subito precisato la tv trumpiana Fox, avvertendo il proprio pubblico, di cui conosce l’acume (non la guarderebbero, se fosse altrimenti).
Il New York Times ha chiesto a decine di esperti perché il coronavirus ha colpito alcuni Paesi più di altri. Trovata la causa principale: la sfiga.
Quando la Aquarius con i profughi respinti da Salvini sbarcò a Valencia, quella domenica, io ero al porto; e, mentre osservavo le operazioni, memore che la grande civiltà mediterranea si fonda sull’ospitalità allo straniero (poiché poteva essere un dio sotto mentite spoglie, ed è così che i Feaci accolgono il naufrago Ulisse), all’ombra della terrazza panoramica del molo ripetevo a mezza voce i primi versi del libro IX dell’Odissea, imparati a memoria al liceo. La mia volontà era apotropaica: non si respingono gli dèi senza che questi si vendichino, mossi dall’ira. “Aiutiamoli a casa loro”, era lo slogan dei malvagi, che riecheggiava in tutto il mondo degli affari. E gli dèi ci hanno punito con un virus che provoca morte e penuria, e ci costringe, in un sarcastico contrappasso, a starcene chiusi in casa nostra. O, se preferite, sfiga.
Con le campagne vuote, causa pandemia, si è finalmente zittito chi faceva propaganda sostenendo che gli immigrati ci portano via il lavoro. Io ho sempre avuto la preoccupazione contraria: che gli italiani portino via il lavoro agli immigrati. A Capodanno (bei tempi!), una nobildonna lombarda mi ha fatto un pompino a Cortina. Non è che non ci sapesse fare, ma non è certo il pompino che ti fa una coreana di 19 anni che s’è lasciata alle spalle i lager di Kim Jong-un. Quelli sono pompini! Pieni di passione, di gratitudine. Come se tu le stessi salvando la vita. Pompini molto diversi da quelli di una nobildonna lombarda il cui unico dramma è che quando va al Forte in estate le viene il crespo.
Fontana & Gallera. Se almeno fossero fannulloni quanto sono tonti. E invece no: traboccano di attività.
Occorre fare tesoro dell’esperienza. Prendete questa pandemia: per favore!
Dialoghi da Fase 2. “Hai il ketchup?”. “Sì, è in frigo, accanto alla pistola della maionese”. “No, aspetta. Allora voglio la pistola della maionese!”. “Ti perdi il bazooka del ketchup…”.
Scusate, stavo facendo binge-watching di Csi (15 stagioni). Cos’è che c’è? Una pandemia?
Immunità, parla l’Oms
Abbiamo letto diverse critiche rivolte all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Dobbiamo riconoscere però che in tema di test sierologici sta avendo un utile ruolo da “calmiere”, non indifferente. Purtroppo sappiamo che molti hanno avuto nei confronti di questi test un comportamento a dir poco leggero e, a parte lo spreco economico, il pericolo è quello di “patentare” immuni che sarebbero presto un pericolo di sanità pubblica. Già il 24 aprile eravamo stati messi in allarme sull’uso improprio di questi test. Oggi si aggiunge un dato scientifico importante che ridimensiona alcuni lavori scientifici che ci avevano fatto ben sperare sulla produzione e permanenza degli anticorpi IgG (quelli che dovrebbero proteggerci da una nuova infezione). “I primi studi sierologici dicono che una percentuale relativamente bassa della popolazione ha anticorpi contro Covid-19”, ha dichiarato il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus. Vuol dire che siamo ben lontani dall’obiettivo “effetto gregge” (popolazione con immunità acquisita al virus) e forse non lo raggiungeremo mai se, come avviene per altri Coronavirus, il nostro organismo non riesce a produrre anticorpi duraturi nel tempo. Su cosa puntare? Sul comportamento individuale e sulla ricerca di terapie efficaci. Una vecchia e consolidata nel tempo è la plasmaterapia, che certo non potrà sostituire totalmente i farmaci, ma che adesso può darci un aiuto importante e che, è stato dimostrato, sia in grado di ridurre a un terzo la mortalità dei malati Covid-19. Direi, avanti tutta!