La beatitudinedel ministro

Come sannogli eventuali lettori di questo spazio, noi si crede ciecamente nel ruolo storico di quel particolare stato dell’intelligenza, diciamo così, che Flaubert riteneva indissolubilmente legato alla santità e che nel dialetto romano, più moderatamente, è ritenuto segno di beatitudine (“beato te…”). Ecco, questa digressione per dire che il ministro Gualtieri – a giudicarlo dopo nove mesi di lavoro – se non santo, è almeno beato: partito anni fa per Bruxelles come mezza figura dell’inner circle dalemiano, è tornato a Roma in settembre circonfuso di rispettabilità, fama di competenza e dalla benedizione dei meglio circoli europei, nei quali s’apprezza sempre la santità, specie in un italiano che sieda su poltrone di rilievo. Ora per la terza volta in neanche un anno – legge di Bilancio e decreti Covid – si ritrova in emergenza e, invece di fare provvedimenti snelli come gli veniva consigliato persino dai colleghi, s’incarta in ingestibili produzioni normative monstre che partoriscono topolini economici e montagne burocratiche, nei quali, per sovrammercato, i “suoi” tecnici infilano di tutto senza che se ne accorga. E infatti, nonostante il Paese vada a catafascio e a milioni non abbiano visto un euro dei poderosi aiuti governativi, quando gli uscieri lo vedono uscire dal ministero non mancano di indicarselo a mezza voce: “Guarda, è il beato Gualtieri…”.

Basta “partiti del partito preso”: serve buon senso

Quando nel gennaio del 2019 il Reddito di cittadinanza diventò legge, il partito del partito preso contro i 5Stelle avviò una martellante campagna nazionale di dileggio che aveva come simbolo il divano dei nullafacenti, che sarebbero stati stipendiati (così sostenevano i cattedratici della qualunque) per continuare a poltrire.

Poi è successo quello che è successo e quando, sabato scorso a Stasera Italia (Rete4), Veronica Gentili ha portato il discorso su questo sostegno provvidenziale alle classi più povere e disagiate (che andrà sicuramente esteso e rafforzato), mi è sembrato che i suoi ospiti, i colleghi Maria Giovanna Maglie e Tommaso Labate, concordassero sull’utilità della norma. Posso sbagliarmi, ma avevo come l’impressione che questa onesta ammissione creasse loro una qualche sofferenza interiore, e anche fisica: qualcosa di simile non dico all’estrazione di un molare senza anestesia, ma quasi. Perché, confesso, neanche per chi scrive è stato agevole riconoscere che i grillini ne avevano fatta una giusta (tanto più se annunciata col proclama sull’abolizione della povertà). Purtroppo non si può stare mai tranquilli e in queste ore l’indispensabile accordo sulla regolarizzazione degli immigrati, saltato – chi dice per beghe grilline, chi per il rifiuto sempre grillino di condonare certe forme di caporalato – ripropone il tema delle negatività connesse al partito preso. Che funziona, va detto, in entrambi i sensi. Sarebbe bello, insomma, se davanti a un Paese che si prepara ad affrontare la Fase 3 – quella delle serrande e degli uffici che si riaprono su attività che spesso non ci sono più – Pd e 5Stelle, soprattutto, si venissero incontro in nome dell’interesse nazionale. Perché, come dice Alessandra Ghisleri, di fronte al timore di possibili rivolte sociali, “si deve affermare con forza che la politica oggi non deve inseguire il consenso, ma il buon senso”.

“Nel ’97 informai i pm su Dell’Utri: nessuno si mosse”

“C’era un rapporto tra il signor Marcello Dell’Utri e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che, tramite lui, erano interessati al finanziamento del nascente movimento politico Forza Italia perché erano convinti che questo li avrebbe garantiti e avrebbe garantito i loro interessi”. Il contenuto delle confidenze di Salvatore Baiardo lo riferisce in aula, ieri a Reggio Calabria, il capo della Direzione centrale anticrimine della polizia, Francesco Messina. È stato lui, assieme all’allora dirigente della Direzione investigativa antimafia di Firenze, Nicola Zito, a redigere il 4 novembre 1996 l’informativa sul colloquio avuto con Salvatore Baiardo, uno dei principali fiancheggiatori del boss di Brancaccio oggi imputato nel processo ’ndrangheta stragista.

A due anni dalla fondazione di Forza Italia e pochi mesi dopo la caduta del primo governo Berlusconi, le rivelazioni di Baiardo avrebbero provocato un terremoto non solo all’interno di Cosa Nostra ma anche nella politica italiana. Quella nota finì sulla scrivania del procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna. E poi? Alla domanda del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, Messina risponde senza tentennamenti: “Noi non abbiamo ricevuto delega come Dia. Almeno fino a quando ci sono stato io a Firenze e fino a quando era operativo il gruppo Stragi”.

In quell’informativa non c’è il nome di Salvatore Baiardo: “All’epoca – spiega Messina – non voleva comparire e fu utilizzato il termine ‘persona indagata nel procedimento penale 3309/93 (il processo sulle stragi, ndr) e per la quale pende richiesta di archiviazione a Firenze’”.

In sostanza, quelle informazioni “non furono sviluppate” dalla Procura che “diede atto del fatto che si trattava di un soggetto che non intendeva apparire”. Nel corso della deposizione, il capo dell’Anticrimine più volte definisce “ondivago” l’atteggiamento di Salvatore Baiardo, di fatto un potenziale pentito che, a metà degli anni Novanta, prima dei colloqui investigativi con la Dia era stato sentito a sommarie informazioni anche dai carabinieri di Palermo. “Fu convocato dai dottori Patronaggio e Caselli, ma si rifiutò di parlare”. “Io l’ho visto due volte – ricostruisce Messina –. Ci furono dei contatti preliminari finalizzati a capire se lui avesse intenzione di fare questo passo. Ci fu un tentativo di interrogatorio. Fu convocato ma all’atto dell’apertura del verbale disse che non aveva niente da dire. Nelle fasi in cui sembrava orientato a dare un contributo, ascoltammo questo signore per capire che spazio c’era e lui rappresentò genericamente di essere in possesso di informazioni che potevano essere strategiche per ricostruire tutto il periodo della latitanza dei Graviano e fornirci delle indicazioni che potevano essere utili”.

Al centro dell’informativa della Dia ci sono proprio quei colloqui investigativi: “Accennò – aggiunge il capo dell’Anticrimine – all’esistenza di un rapporto tra i fratelli Graviano e alcuni soggetti in particolar modo milanesi. Parlò di un tale Rapisarda, di origine siciliana, con cui c’erano degli interessi economici. E poi accennò anche a un rapporto tra il signor Marcello Dell’Utri e i fratelli Graviano e in particolare con Filippo, ritenuto la mente finanziaria dei Graviano”.

Agli investigatori della Dia, il fiancheggiatore Baiardo raccontò un episodio avvenuto a casa sua tra il 1991 e il 1992: “Ci disse – ricostruisce Francesco Messina – di avere assistito a due conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri. Conversazioni da cui emergeva che i due avevano in comune interessi economici”.

“Baiardo – continua Messina – disse di avere avuto informazioni particolari in merito alla natura dei rapporti che legavano Dell’Utri ai fratelli Graviano. Aveva capito che in questo contesto era coinvolto tale Fulvio Lima di Palermo, a suo dire parente del noto onorevole Salvo Lima (ucciso dalla mafia nel 1992, ndr)”. Sempre nella stessa informativa, il direttore dell’Anticrimine aveva appuntato che “Baiardo disse di avere accompagnato fisicamente, tra il 1992 e il 1993, i fratelli Graviano al ristorante ‘L’Assassino’ di Milano dove i due si sono incontrati con Dell’Utri” anche se lui non l’ha visto.

Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo insiste, riprova a chiedere che fine abbia fatto quell’indagine. Al termine dell’udienza, Messina ribadisce: “Fino alla mia permanenza nel gruppo investigativo della Dia non ho mai avuto deleghe”. E ritorna attuale la frase detta a mezza bocca da Baiardo in un’intervista fatta da Peter Gomez e Marco Lillo e pubblicata dal Fatto nel giugno del 2012: “Di queste cose non voglio parlare adesso. C’è già la Dia di Firenze che mi martella, l’ultima volta son venuti tre mesi fa”.

L’urlo della famiglia: “Vogliamo stare in pace”

Hanno bisogno di serenità, di “ossigeno”. Hanno bisogno di poter tornare a casa senza dover affrontare la ressa di giornalisti che da giorni stazionano sotto il loro appartamento. Lo ripete la mamma di Silvia Romano, e pure il papà. Su un aspetto però la madre non cede: non ci sta a sentire le offese rivolte alla figlia per aver scelto di convertirsi all’Islam. Una decisione che Silvia Romano, davanti ai pm di Roma che l’hanno interrogata domenica, ha definito libera. Non c’è stata, dice, alcuna costrizione.

“Provate a mandare un vostro parente due anni là e voglio vedere se non torna convertito. Usate il cervello”, ha detto ieri la mamma, Francesca Fumagalli. Ai microfoni del Tg3 la donna ha quindi aggiunto: “Cerchiamo di dimenticare, di chiudere un capitolo e aprirne un altro”. Per quanto riguarda un’eventuale conferenza stampa, “non facciamo niente – dice ancora – perché Silvia è in quarantena. Siamo qua, poi fra due settimane vedremo, non lo so, del doman non v’è certezza. Visto come sono andate le cose, non so nulla”. Qualche domanda le viene posta sulla onlus Africa Milele, per la quale sua figlia lavorava al momento del rapimento. Su questo Francesca Fumagalli taglia corto: “Non sono io l’ordine preposto per parlare di queste cose – dice –. C’è una procura che indaga e ci pensano loro, io non rilascio dichiarazioni sull’argomento”. Insomma quello che chiede è che possano vivere in pace nella loro casa a Milano, assediata dalla stampa ma anche da parecchi curiosi. La ragazza nei giorni scorsi ha ripetuto di stare bene “fisicamente e mentalmente”. Ieri l’ha anche visitata un medico, ma come ha rilevato il papà: “Non è che se uno sorride sta benissimo – ha detto Enzo Romano –. Non confondiamo il sorriso con la capacità di reagire per rimanere in piedi dignitosamente da una situazione di cui si è preda e che ti porta poi ad andare nella depressione più totale. Meno male che ha un po’ di palle e cerca di reagire, ma è la sopravvivenza”.

“Mia figlia sta come una che è stata prigioniera per 18 mesi”, aggiunge l’uomo raggiunto da Radio Capital.

E ribadisce che la sua famiglia ha bisogno solo di serenità in questo momento: “Noi vogliamo stare in pace, – ha concluso – abbiamo una ragazza da proteggere, abbiamo bisogno solo di ossigeno”.

Minacce di morte e accuse: Silvia e i genitori sentiti dai pm

C’è il rapimento. E poi ci sono le minacce, quelle che corrono sul web e per strada da quando la volontaria milanese Silvia Romano è tornata a casa. Tra chi le ha augurato la morte e chi l’ha offesa, i leoni da tastiera anche stavolta si sono scatenati, soprattutto sul tema della conversione, che Silvia ha ripetuto essere stata “spontanea”. Così la 25enne, dopo essere stata sentita domenica dai pm di Roma che indagano sul rapimento, ieri è tornata davanti a un altro magistrato. Si tratta del pm responsabile dell’antiterrorismo della Procura di Milano, Alberto Nobili, che ha aperto un fascicolo per minacce.

Interrogata per un’ora e mezza, Silvia Romano ha spiegato che mai prima di ora era stata minacciata e si è detta “serena” malgrado le intimidazioni e le offese. Per adesso i magistrati stanno raccogliendo post e tweet. Nel fascicolo ci sono anche due volantini, con esplicite minacce di morte, trovati vicino casa. Nei prossimi giorni la giovane tornerà davanti al pm e le verranno sottoposti i messaggi raccolti per capire se le intimidazioni provengano da qualcuno che conosce e se nascondono altri significati. Gli investigatori cercheranno di verificare anche se vi sono messaggi che possano essere collegati al rapimento. Allo stato ci sono solo le intimidazioni sul web. Il clima in cui sta vivendo Silvia Romano è preoccupante al punto che si pensa alla necessità di darle una scorta. Per esempio proprio ieri sotto casa un uomo le ha urlato: “Gli italiani muoiono di fame e noi spendiamo 1 milione di euro per questa che va laggiù ed è pure islamica”.

I pm di Milano ieri hanno interrogato la madre, Francesca Fumagalli, e anche lei ha spiegato di non essere mai stata minacciata, neanche durante i 18 mesi di prigionia della figlia. Nei prossimi giorni toccherà agli altri parenti della giovane, come il papà Enzo Romano o lo zio Alberto Fumagalli.

L’indagine è alle battute iniziali e nessuno è stato ancora iscritto nel registro degli indagati. Tra i messaggi al vaglio c’è anche un post di Vittorio Sgarbi, il quale ha scritto che la giovane “va arrestata” per “concorso esterno in associazione terroristica”. Molti dei messaggi offensivi sono stati cancellati. Come quello di un consigliere comunale di Asolo che in un post ha scritto: “Impiccatela”.

Parallelamente proseguono le indagini sul rapimento della Procura di Roma. Domenica, non appena atterrata in Italia, la giovane è stata interrogata: ha ricostruito i 536 giorni di prigionia, la propria conversione, il viaggio dal Kenya alla Somalia, i video, la prova per i servizi segreti che stavano seguendo la trattativa per la liberazione, che fosse ancora in vita. In uno di questo avrebbe fatto un appello anche al governo. Si tratta di video girati con un telefonino da un carceriere che parlava inglese. I pm inoltre stanno analizzando i contatti tra il commando e i somali, avvenuti anche prima del rapimento. Da alcuni tabulati telefonici emergerebbe che la banda di criminali, che ha prelevato Silvia nel novembre del 2018, ha avuto contatti con la Somalia sia prima che dopo il blitz avvenuto nelle vicinanze del villaggio Chakhama a circa 80 chilometri Malindi. Un elemento che avvalora ulteriormente l’ipotesi che il sequestro sia stato fatto su commissione e pianificato in Somalia dal gruppo jihadista Al-Shabaab, un’organizzazione somala affiliata ai terroristi di al Qaeda. Durante l’interrogatorio a Silvia sono state sottoposte anche le fotografie di sospettati, ma lei non ha riconosciuto nessuno tra i suoi rapitori. Neanche i due che l’hanno prelevata il 20 novembre 2018, ora arrestati e sotto processo in Kenya.

Nel frattempo non si placa la polemica sul riscatto. Ieri l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, alla domanda se sia un problema per l’Ue il fatto che un portavoce dei rapitori abbia annunciato che il riscatto pagato per la liberazione sarà usato dagli Shabaab per comprare armi, ha risposto: “È un problema”. E per la prima volta arriva una smentita da parte del governo: “Non mi risultano riscatti”, ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

“Non ha più senso vietare le manifestazioni”

“Non si può continuare col divieto di manifestare e scendere in piazza. Se così fosse, la nostra democrazia sarebbe in pericolo”. Con Massimo Villone, costituzionalista ed ex parlamentare dei Ds, parliamo della possibilità che il governo proroghi il divieto di manifestazioni derivante dall’emergenza Covid.

Un divieto che, secondo Stefano Fassina, potrebbe essere prolungato fino a gennaio 2021. Nei giorni scorsi a essere colpiti sono stati i ristoratori che hanno protestato in piazza a Milano, i lavoratori della Multiservizi a Roma e gli organizzatori della protesta per i mancati buoni spesa, sempre nella Capitale. Tutti multati, con sanzioni da 400 euro.

Professor Villone, non si può più andare in piazza?

Nel momento in cui si riapre tutto o quasi, non ha più senso continuare a vietare le manifestazioni. Facciamo un esempio: 50 persone possono stare in fila davanti al supermercato, ma se le stesse 50 persone vanno a protestare sotto Palazzo Chigi, rispettando le regole sulle distanze, vengono sanzionate. Quindi si vuole colpire il fine, non il pericolo o l’assembramento in sé. Questa è una sicura violazione della Costituzione. Parliamo degli articoli 16 sulla libertà di circolazione e 17 sulla libertà di riunione.

C’è pericolo di derive autoritarie?

Non in senso stretto, ma la storia ci insegna che il sogno dei governanti è quello di avere strumenti per tenere i governati docili e obbedienti. Le Costituzioni esistono anche per evitare che questo accada. Oltretutto, viste le difficoltà economiche di molte categorie, è possibile che si vada verso un periodo di tensioni sociali anche forti. La risposta non può essere quella di impedire alle persone di andare in piazza, pacificamente e nel rispetto delle regole. Sono state multate persone già in difficoltà economica: oltre al danno, la beffa.

Però l’emergenza sanitaria non è finita…

La Costituzione non impedisce che ci siano limitazioni anche importanti alla libertà dei cittadini, ma debbono essere però sempre temporanee e proporzionate. Come costituzionalista non sono a disagio per ciò che è avvenuto, lo sono invece per il fatto che queste decisioni siano passate come una sorta di trattativa tra Palazzo Chigi e i governatori, senza nessun passaggio parlamentare. Capisco Conte e l’emergenza che si è trovato ad affrontare, ma avrebbe dovuto usare i decreti leggi e non i dpcm: avrebbero avuto più forza e rispettato la centralità del Parlamento, evitando la babele di ordinanze dei governatori.

A proposito di governatori: hanno troppi poteri o troppo pochi?

Ne hanno il giusto, ma hanno approfittato della confusione. Non hanno nemmeno il potere di chiudere i confini regionali. L’articolo 120 della Costituzione dice espressamente che le Regioni non possono vietare la libera circolazione dei cittadini.

Dall’auto al terrazzo, l’onorevole Fantozzi collegato da remoto

C’è chi, pure se collegato da casa, non rinuncia alla tenuta di Palazzo: giacca, cravatta e, per non sbagliare, libreria d’ordinanza alle spalle e connessione con i fiocchi. Ma da un mese e mezzo a questa parte tra gli inquilini di Montecitorio, che a causa del lockdown imposto dal coronavirus hanno scelto di partecipare ai lavori delle commissioni in teleconferenza, si è visto davvero di tutto: barbe meno curate del solito, come quella dell’azzurro Enrico Costa. Luci e inquadrature improbabili che sono diventate la croce di Luca Pastorino di LeU.

Il segnale è stato finora così inclemente con Massimiliano Capitanio della Lega che i suoi onorevoli colleghi si sono più volte chiesti: “Ma è lui o non è lui?”. E poi c’è chi si connette dalla macchina. Chi dal terrazzo assolato, come la forzista Federica Zanella che infatti ha un’abbronzatura da invidia. Gli outfit da quarantena non mancano e per la verità nemmeno cucine, camere e camerette a fare da sfondo ai tele-onorevoli. A cui non manca la fantasia: per l’audizione in commissione Trasporti del Garante della Privacy, il pentastellato Davide Serritella (un trascorso da web designer e il pallino per gli occhiali alla Drugo del Grande Lebowski), ha scelto un poster dai colori così cangianti da provocare le vertigini. Alle spalle del leghista Alberto Gusmeroli, mentre partecipa da remoto alla commissione Finanze, incombe invece il gonfalone di Arona di cui è sindaco e pure un mastodontico ritratto di santo con gli occhi alzati al cielo. E che dire di Giovanni Donzelli? Nel corso di una seduta della commissione Affari costituzionali si è collegato dagli uffici di Fratelli d’Italia con il simbolo della fiamma tricolore in bella vista.

Non è tutto. Perché se è vero che, almeno finora, non hanno fatto irruzione in queste onorevoli dirette da casa, nonne, bimbi o animali domestici, qualche collaboratore si è intravisto far capolino. E proprio non si potrebbe.

Anche per questo il Presidente Roberto Fico ha voluto sottolineare che i deputati devono avere “sempre cura di trovarsi in un luogo adeguatamente isolato da interferenze di terze persone” e che “le disposizioni regolamentari che presiedono all’ordinato svolgimento dei lavori risultano pienamente applicabili anche alle riunioni delle Commissioni svolte con la partecipazione dei deputati da remoto, e ciò con particolare riferimento al divieto sia ai deputati presenti in sede sia a quelli collegati di esibire cartelli, striscioni o altre scritte o simboli, ivi inclusi fondali recanti tali segni ovvero non appropriati alla dignità dei lavori parlamentari”.

Fico ha risposto alle sollecitazioni del presidente della commissione Affari costituzionali, Giuseppe Brescia, uno dei più convinti sostenitori della digitalizzazione degli atti parlamentari e pure dei lavori da remoto che chiede di potenziare l’infrastruttura tecnologica della Camera. Anche perché, la tele-audizione che aveva programmato per il 28 aprile scorso con la ministra Dadone era stata interrotta sul più bello a causa di alcuni problemi tecnici: per tagliare la testa al toro, la titolare della Pubblica amministrazione aveva poi raggiunto di persona l’aula della I commissione per terminare il suo intervento, in cui peraltro non sono mancati altri colpi di scena.

Il forzista Francesco Paolo Sisto per esempio si è collegato dalla macchina su cui viaggiava peraltro insieme a un paio di collaboratori. “Al fine di assicurare il buon andamento dei lavori, va senz’altro evitato in particolare di collegarsi da mezzi di trasporto” ripete Fico, con buona pace di Sisto che almeno era al posto del passeggero. L’altro forzista Roberto Novelli invece era addirittura al volante, lo scorso 7 maggio mentre erano in corso i lavori della commissione Affari sociali: il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro in audizione ha risposto a tutte le sue domande sul virus. Ma più che di quella gragnuola di quesiti, pareva davvero preoccupato per la sua guida.

Insulti nel traffico e nuovi disagi: “Noi, congiunti fuori Regione”

Nel periodo di reclusione forzata ci avete raccontato le vostre giornate, tra nuove abitudini, prove di resistenza e sforzi di fantasia. Vi ringraziamo: le vostre parole sono la conferma che il Fatto non è solo un giornale, ma una comunità viva. Adesso però ci piacerebbe che condivideste con noi anche questi giorni di parziale rientro alla normalità, tra persone che tornano al lavoro e piccole libertà che ci si può finalmente concedere. Qual è stata la prima cosa che avete fatto dopo il 4 maggio? Siete riusciti a incontrarvi con una persona cara? Vi aspettiamo sempre all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it

 

Ok le attività, ma si deve pensare agli affetti

Rispondo alla vostra domanda se sono riuscito a incontrarmi con una persona cara. La risposta per noi allegramente apostrofati come “frontalieri dell’amore” è No. Inoltre, oltre a non essere in alcun modo tutelati e pensati dal governo, che in questo momento parla solo delle riaperture di barbieri e parrucchieri come fosse l’unica cosa che conta, il mio malessere cresce rapidamente, dal momento che non solo la “persona cara”, “congiunta” è la mia compagna, ma in questo pazzo miasma di provvedimenti, divieti e restrizioni, sebbene dettati da un’emergenza straordinaria, non ho ancora capito se sarà possibile vederla a breve oppure no. Vi risparmio dettagli che condivido con il resto degli italiani immagino, tipo che il Covid mi ha portato via molto, soldi, affetti, la vita come la conoscevo, ma questo non importa, è la vita e bisogna guardare avanti con fiducia, senza paura, ma vivere in questa indifferenza delle istituzioni e nell’incertezza per il nostro futuro, fa davvero male e ci sta rendendo persone infelici. Non so quando la rivedrò, non ci vediamo dal 10 marzo, siamo disperati e depressi in quest’incertezza, per non avere il conforto l’uno dell’altro.

Ma l’aspetto psicologico di tutta questa faccenda non frega assolutamente a nessuno. L’importante è che le fabbriche lombarde possano continuare a produrre, giusto?

Devono darci la possibilità di ritrovare i nostri affetti fuori regione, di poter rivedere anche noi i nostri cari.

 

L’edicola di Sandro continua a tenere duro

Il signor Sandro, con il figlio Emanuele, ha tenuto aperta la sua edicola di via Cappello, a Verona, anche nei giorni più difficili e bui (vedi foto). Naturalmente, con il Fatto Quotidiano in bella vista! Merita un plauso anche da parte del nostro quotidiano.

 

In pensione da 8 mesi, aspetto ancora il Tfs

Sono una docente di Lettere andata in pensione il 1° settembre 2019 con Quota 100. Potete immaginare la mia grande delusione, unitamente a quella degli altri miei colleghi, andati via dal lavoro convinti di ricevere subito l’anticipo del Tfs, come promesso da alcuni politici. Oggi abbiamo bisogno più che mai dell’anticipo anche a causa del coronavirus, ma ci occorreva anche prima, quando accettammo Quota 100 per delle urgenze familiari e necessità personali. Siamo persone che hanno lavorato oltre quarant’anni, siamo quasi tutti figli di operai, forse per questo ci ritroviamo punto a capo nei diritti acquisiti, che acquisiti invece non sono per alcuni politici.

 

Almeno in macchina non siamo cambiati

E meno male che la pandemia ci doveva rendere migliori! Primi giorni per strada in macchina e stessi insulti di prima. Almeno su questo, mi sa che non è cambiato niente…

Fontana, il Sughero del leghismo che galleggia nel naufragio Covid

Per quanti segni di sofferenza rechi il suo scarno viso, Attilio Fontana è un sughero che ancora galleggia, nonostante i molti disastri che assediano la sua Regione, e forse anche il suo sonno, vista la quantità di bare che da tre mesi di pandemia fuori controllo transitano, nottetempo, dentro i telegiornali, prima della buonanotte. Errori, improvvisazione, confusione. Corto circuito tra i reparti ospedalieri assediati dai malati, e smaltimento nelle Residenze per anziani. Molta impreparazione, tamponi insufficienti, nessun controllo digitale dell’infezione. Zone rosse chiuse con ritardo. Naufragio clamoroso della pluripremiata Sanità Lombarda, “quella che il mondo ci invidia”, in verità costruita sulla sabbia che il Celeste Formigoni, signore illibato della cattolicissima Comunione e liberazione, portava alla fine di ogni estate passata a scroccare vacanze sarde, bagni e aragoste. Tutto sul conto spese della sanità privata, finanziata con soldi pubblici a fin di bene, il suo.

Chiaro che a forza di tagliare letti e reparti, il castello longobardo dei nuovi feudatari non poteva reggere l’emergenza e infatti la sabbia è scivolata negli ingranaggi. Ma quando gli Ordini dei medici della Lombardia – chirurghi, primari, medici di base – hanno denunciato i molti errori della Regione, Attilio Fontana invece di cospargersi la mascherina di cenere, fa sapere che quel documento tecnico in realtà era “propaganda politica”, cioè a dire comunista, non di leale collaborazione, come lui si aspettava “in un frangente tanto drammatico”. Ne era dispiaciutissimo, anzi così tanto addolorato da non degnarsi di rispondere. Un sughero.

Nell’epopea leghista questo eccellente avvocato di Varese, 68 anni appena compiuti, è il classico uomo di mezzo. Discende in linea diretta dall’ex organista di chiesa Bobo Maroni, salito fino in cima al potere dello Stato centralista, per poi precipitare in fondo alle cronache locali, insieme con una sua ex segretaria e certi viaggi in conto spese, peccato di entità veniale, ma di patetica sostanza. E discende, in seconda istanza, da Bossi Umberto, il fondatore, che innalzò i primi accampamenti fuori dalle mura di Varese, da dove dichiarò guerra a Roma ladrona, e disse: “Vengo dalla gavetta, sono uomo di strada e viaggio in groppa come i miei avi con la carne cruda tra il sedere e il cavallo”. E poi: “Siamo un Winchester con le pallottole”. Solo che dopo tante sparatorie a salve e un brutto malanno, anche Bossi è finito nella polvere con tutta la famiglia al seguito, come un qualunque democristiano: canottiere, villetta e figli pagati dal partito, che in quegli ultimi frangenti ha fatto sparire un paio di tesorieri e un tesoro da 49 milioni tondi.

Se l’epica appena trascorsa fosse un film intitolato Il buono, il brutto, il cattivo, Attilio Fontana starebbe proprio nel mezzo, tra Luca Zaia, governatore del Veneto esperto di buon senso, e Matteo Salvini, che ogni notte addenta quello che trova, compresa la povera Silvia Romano colpevole di non essersi fatta ammazzare dai tagliagole somali.

Fontana viene da una famiglia benestante, padre medico, madre dentista, villa con giardino, gite al lago, buone scuole, una sbandata a destra da ragazzo, poi liberale, infine “leghista prima dei leghisti” o così oggi la racconta. Nel frattempo: una moglie, due figli, una Porsche. Inseparabile dal suo amico Andrea Mascetti, avvocato anche lui, ex Movimento sociale oggi Fondazione Cariplo, e Giancarlo Giorgetti, che passa per la testa fine della Lega, lo stratega che al Meeting di Rimini, proprio parlando di Sanità, proclamava: “Ma chi va più dai medici di base? Appartengono al passato”. Era agosto, cinque mesi prima della pandemia e dei medici di base lasciati senza linee guida.

A forza di evocare radici celtiche, Insubri e altre scempiaggini, Fontana finisce sindaco di Induno, anno 1995, poi il salto in Regione Lombardia, anno 2000, tiepido presidente di Giunta, fino a quando Bossi e Maroni gli chiedono il sacrificio di tornare a Varese per difendere la culla della Lega, terremotata da qualche scandalo di troppo.

Lui galleggiando va. E vince. Addirittura per due mandati, dal 2006 al 2016, dove governa senza alzare mai polvere, senza sbagliare i bilanci, magari con qualche convegno di troppo sulla Russia di Putin, tipo: “Famiglia, tradizione, identità. La sfida russa al mondialismo”. E anche qualche accordo commerciale dove spunta sempre il suo amico Gianluca Savoini, il futuro pollo dell’Hotel Metropol di Mosca dove nascerà il Russiagate, scandalo ancora inconcluso.

Fino a quando un altro contrattempo rispedisce Fontana in cima alla Lombardia. Stavolta in rappresentanza di tutta la Destra, compreso Berlusconi, che lo accoglie, ma senza barba, mi raccomando, perché all’ex Cavaliere non gli garba. Lui se l’è già tagliata, ci sa fare col tempismo, e per vincere gli basta promettere di rimpatriare 100 mila immigrati appena eletto: “Dobbiamo decidere – dice a Radio Padania – se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o deve essere cancellata”. Travolto da polemiche, dichiara che “razza bianca è stato un lapsus”, ma intanto gli elettori, che non sanno cosa voglia dire lapsus, lo issano entusiasti in cima alle urne.

Purtroppo per il sughero di Varese, che avrebbe continuato a galleggiare tra appalti e identità antirisorgimentale, è arrivata l’onda anomala del Covid-19, insieme con il naufragio anche psicologico di Salvini sulle pupe del Papeete. Sapendo poco o nulla di emergenza, ha sbagliato i consulenti scientifici, si è fidato dei sorrisi di Giulio Gallera, l’assessore alla Sanità, e addirittura di Guido Bertolaso richiamato dal Sudafrica per riprendere il filo dei suoi trionfi. Risultato: 80 mila contagi, 15 mila morti, la metà di tutta Italia. Un record. Una voragine per lui, per la Lega, per una intera macchina di governo selezionata nei vent’anni di potere, di raccomandazioni e ora di crisantemi.

Il “soccorso mafioso” di Cosa Nostra: 91 arresti, anche un ex Grande Fratello

A Palermo erano i promotori del welfare mafioso al tempo del coronavirus, a Milano riciclavano i proventi del traffico di droga, delle estorsioni e del gioco d’azzardo grazie anche, secondo l’accusa, a un ex concorrente del Grande Fratello, Daniele Santoianni.

I boss erano pronti a sfruttare l’emergenza Covid-19 per “praticare l’usura e per poi rilevare beni e aziende con manovre estorsive, alterando la libera concorrenza e indebolendo i meccanismi di protezione dei lavoratori-dipendenti”, come scrive il gip Piergiorgio Morosini che ha spedito in carcere e ai domiciliari 91 capimafia e gregari delle cosche dell’Acquasanta e dell’Arenella, storiche borgate marinare palermitane, legate ai corleonesi, ma con margini di autonomia criminale che hanno consentito ai boss di organizzare summit nel vicolo Pipitone con esponenti deviati delle istituzioni, come ha raccontato il pentito Vito Galatolo. E proprio Galatolo e Fontana sono i due cognomi delle “famiglie” disarticolate dall’operazione della Guardia di Finanza tra Palermo e Milano che restituisce l’istantanea di borgate sotto il “controllo capillare” di una mafia “predatoria”: le indagini hanno portato a galla decine di panifici, fruttivendoli, bar, tavole calde e ristoranti, agenzie di gioco e scommesse, supermercati, vendita di motocicli, aziende edili finiti nel mirino dei boss con metodi “persuasivi” collaudati, Attak nei lucchetti e bottiglie incendiarie davanti le saracinesche, e nuove “regole”, che spingono i mafiosi a decidere persino l’orario di apertura dei negozi per proteggere i commercianti “amici”: “Tu non ti permettere… gli ho detto – dicono Michele Ferrante e Liborio Sciacca riferendosi alla polleria Chicken Pizza di Angelo Tuzzolino – ti metti pollo e pizza la sera e basta! Il giorno devi stare chiuso’’.

Estorsioni, ma anche forme di “soccorso mafioso prodromiche al reclutamento di nuovi adepti”: il supermercato G&G srl dei fratelli Gambino (Nunzio e Giuseppe) era pronto a obbedire ai boss vendendo gli alimenti a credito a cittadini in “condizione di estremo bisogno (persino di cibo quotidiano)”, per essere poi ricompensati attraverso la società Spa.Ve.Sa.Na., “società operante presso i cantieri navali sotto il pieno controllo della famiglia Fontana – scrive il gip – riversando a componenti di vertice della associazione l’importo dell’Iva relativa alle fittizie fatturazioni”. Nell’ordinanza il gip Morosini mette in guardia dai rischi di un’aggressione mafiosa all’economia del territorio, ma non solo (“è prevedibile che, nelle prossime settimane, certi avamposti criminali apriranno la caccia alle tante aziende in stato di necessità anche nel nord dell’Italia”) in tempi di emergenza Covid: “Il ritorno alla normalità non è prevedibile che avvenga in tempi brevi – scrive il gip – Di tale situazione sono pronti ad approfittarne i clan, sempre attivi nel dare la caccia ad aziende in stato di necessità. E se è vero che le autorità centrali hanno deciso di stanziare ingenti risorse per il salvataggio di imprese ed esercizi commerciali, con un piano che prevede ammortizzatori sociali e forme di soccorso finanziario e fiscale – prosegue Morosini –, quel sostegno passerà per procedure amministrative che… potrebbero rivelarsi tardive”.

“Senza contare – conclude – che la bontà dell’intervento pubblico passa anche per una sintonia tra enti locali, rappresentanze di categoria e istituti di credito, che è tutta da sperimentare in un territorio maggiormente esposto a forme di illegalità nei circuiti della Pubblica amministrazione ed economico-finanziario, anche per via della risalente presenza dell’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra’’.