“Quelle scarcerazioni scoraggiano i cittadini”

“L’effetto delle scarcerazioni di questi mesi è stato devastante. Ha minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che avevamo faticosamente conquistato negli ultimi anni”. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, magistrato antimafia, è anche sicuro che le organizzazioni criminali stiano già sfruttando l’emergenza coronavirus per mettere le mani su pezzi dell’economia italiana.

Il decreto Bonafede del 10 maggio è riuscito a fermare l’epidemia di scarcerazioni avvenute negli ultimi mesi?

Obbliga almeno a controllare, prima di scarcerare, se è attuale e concreto il pericolo che il detenuto possa infettarsi di Covid-19; e a trovare eventuali soluzioni alternative alla detenzione domiciliare. Nei mesi scorsi sono stati mandati a casa molti detenuti per ragioni di salute: nell’ipotesi che, se contagiati, sarebbero potuti morire. L’ipotesi si basa sulla possibilità di essere contagiati. Ebbene, due mesi fa avevo detto che era più facile essere contagiato in piazza Duomo a Milano che non nelle carceri di San Vittore o di Opera. Sono stato criticato e attaccato. Oggi i fatti mi danno ragione: i contagiati in carcere sono 159 su 62 mila detenuti. Intanto ottomila persone sono uscite di cella, diminuendo il sovraffollamento carcerario. Ma intanto sono state scarcerate 400 persone che erano detenute al 41 bis o in alta sicurezza. In nome di un pericolo di contagio che non si è manifestato. I detenuti avevano il 99,5 per cento di possibilità di non infettarsi: a dirlo è il Garante nazionale delle private libertà. Era più pericoloso fare la spesa al supermercato che stare in carcere.

Il decreto Bonafede impone anche di chiedere il parere, prima di scarcerare, alle Procure distrettuali antimafia e alla Procura nazionale.

Le Direzioni distrettuali devono rilasciare il parere in due giorni: troppo pochi, ce ne vorrebbero almeno cinque. Anche perché la Direzione nazionale antimafia, che invece ha a disposizione quindici giorni, il parere lo chiede a noi delle Procure distrettuali.

L’ondata di scarcerazioni è stata causata dalla circolare del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) del 21 marzo?

Non credo sia stata fatta in malafede. Chiunque l’ha pensata non voleva certo favorire i mafiosi e non prevedeva neppure l’ondata di uscite dal carcere.

La responsabilità è allora dei magistrati di sorveglianza?

Non voglio dare pagelle e non posso sovrappormi alle decisioni di altri magistrati, perché non conosco gli atti.

L’effetto delle scarcerazioni è stato comunque un rafforzamento dei gruppi criminali?

Le ragioni poste a fondamento delle scarcerazioni sono legate a rischi di salute per il detenuto; purtuttavia un rafforzamento c’è stato in ragione dell’alto valore simbolico del rientro nei territori di provenienza degli appartenenti ai gruppi criminali. Un effetto devastante. La gente è smarrita di fronte a certe scarcerazioni. Ho visto una ricerca secondo cui i cittadini calabresi sono quelli con maggiore fiducia nella giustizia in Italia: da calabrese sono fiero di questo risultato che mi riempie d’orgoglio. Spero che l’effetto delle scarcerazioni non venga interpretato come debolezza dello Stato.

Un effetto collaterale: a causa del coronavirus si è ripreso a parlare di mafia.

Sì, e una gran parte dell’informazione ha fatto un ottimo lavoro. Ora dovremmo fare dei passi avanti. Per esempio istituendo i Tribunali distrettuali antimafia, per celebrare i processi di criminalità organizzata. Ogni mattina dal mio ufficio, qui a Catanzaro, partono sette auto per portare i pm in sette diversi Tribunali della Calabria, perché i processi si celebrano nel luogo dove è stato commesso il reato. Ma sarebbe più razionale unificarli tutti nei capoluoghi sedi delle Direzioni distrettuali antimafia. Otterremmo anche dei giudici con maggiore specializzazione ed esperienza.

L’emergenza virus non ha fermato le attività dei gruppi mafiosi.

Per niente. Le difficoltà di tante attività produttive o commerciali spingerà a chiedere soldi a usura ai gruppi criminali, i quali prestano soldi per poi rilevare le attività, che saranno usate per fare riciclaggio. Dopo il traffico di cocaina, l’usura è l’attività criminale più facile e frequente. Le cosche sono già al lavoro.

“Se avesse detto sì, Di Matteo al mio fianco contro i clan”

“La mafia avrebbe constatato una sola circostanza: Nino Di Matteo, dentro le istituzioni, lavorava al fianco del ministro della Giustizia”. Parola di Alfonso Bonafede, guardasigilli firmatario di provvedimenti anticorruzione e antimafia, che si è ritrovato dipinto come un ministro piegato ai boss per le accuse del centrodestra, sempre ricco di inquisiti e condannati per mafia. Motivo? La mancata nomina al Dap, nel giugno 2018, di Nino Di Matteo quando, cambiando idea, ritirò la proposta e gli confermò l’altra che gli aveva già prospettato: gli affari penali al ministero. Ieri mattina, Bonafede è tornato alla Camera per una informativa sulla vicenda. Riferendosi al dibattito politico, parla di “vergognose illazioni e suggestioni istituzionalmente e personalmente inaccettabili, in una sorta di pirandelliano ‘Così è se vi pare’”. Quasi urla: “E no! Così è se vi pare, assolutamente no!”. Spiega, ancora una volta, che sì, è vero che il 18 giugno di due anni fa aveva proposto a Di Matteo sia la direzione del Dap sia l’incarico al ministero ma che il 19, quando si incontrarono, “senza alcuna interferenza. Punto!”, gli offrì gli affari penali perché pensava fosse un incarico più adatto: “Un ruolo equiparabile a quello che era stato di Falcone. Avrebbe richiesto certamente più tempo e avrebbe implicato probabilmente una riorganizzazione del ministero (a bocce ferme il posto era occupato da una funzionaria) ma ne sarebbe valsa la pena. Non ragionai, lo ammetto, in termini di peso gerarchico del ruolo da ricoprire, bensì di buon funzionamento del progetto. La mafia, che vive di segnali, non sarebbe andata a guardare l’organigramma del ministero, avrebbe constatato una sola circostanza: Di Matteo lavorava al fianco del ministro”.

Il ritiro della proposta per il Dap è stata rivelata due anni fa dal Fatto senza che nessun esponente politico o organo di informazione abbia avuto da ridire. Nei giorni scorsi, però, c’è stato un botta e risposta, a distanza e al telefono, a Non è l’Arena di La7, tra Di Matteo (che interviene per controbattere al M5s Giarrusso, che aveva parlato di “trattative” tra magistrato e ministro) e il ministro stesso che racconta quanto detto ieri, anche se alla Camera aggiunge dettagli: “Il 19 giugno 2018 Di Matteo era andato a trovarlo per accettare il Dap, invece, Bonafede gli chiede di lavorare al ministero e “dal lungo colloquio”, il ministro dice di aver creduto che per il pm andasse bene anche via Arenula: “Ci lasciammo proprio con questa idea”. Ma il 20 giugno Di Matteo torna da lui e rifiuta.

Bonafede, sempre in risposta all’opposizione, torna a ribadire che cambiò idea sull’incarico al Dap, offerto invece a Francesco Basentini, non certo per le registrazioni in carcere dei mafiosi che temono l’arrivo di Di Matteo al Dap (pubblicate dal Fatto il 27 giugno 2018). Quelle registrazioni le conosceva, infatti, dal 9 giugno, cioè prima della doppia proposta al pm. Il ministro ricorda, inoltre, che durante l’incontro interlocutorio, il 19, aveva motivato a Di Matteo la sua scelta di averlo al ministero: “Il capo del Dap non si occupa soltanto del fondamentale tema della gestione dei detenuti mafiosi, deve occuparsi di tanta burocrazia”, al ministero avrebbe potuto essere più incisivo. Fu “sorpeso” del rifiuto del pm.

A proposito di Basentini, rivendica la sua scelta di nominarlo due anni fa, cita pure una relazione di allora della Dna che elogia il lavoro dell’ex procuratore aggiunto di Potenza. Come si sa, quasi due settimane fa, però, Bonafede ha convinto Basentini a dimettersi per i suoi errori in tempo di pandemia, dalla mala gestione delle rivolte in poi, ma lo stesso ministro ieri, ha voluto ricordare che prima di quest’ultimo periodo il Dap ha prodotto risultati positivi: l’assunzione di “3.931” nuovi agenti della polizia penitenziaria, la conversione in padiglioni per detenuti di strutture ex militari. I primi saranno inaugurati a Parma, Lecce e Trani entro due settimane. Entro l’anno toccherà a Taranto e Sulmona, previsto un piano per altri tremila posti in 25 nuovi padiglioni. Non solo sbarre, però, ma anche “70 nuovi protocolli per lavori di pubblica utilità per detenuti”.

Quanto alle scarcerazioni di detenuti per mafia, legate al rischio contagio Covid-19, anche se non oggetto dell’informativa, vengono addossate da Lega, FI e FdI al ministro, nel breve dibattito che è seguito alla Camera. L’ex sottosegretario alla Giustizia del Carroccio Jacopo Morrone e altri fanno finta di non sapere che un ministro non può e non deve interferire con le decisioni che spettano alla magistratura. Bonafede durante il suo intervento aveva previsto l’attacco e aveva ricordato che le scarcerazioni sono state decise “in piena autonomia e indipendenza” dai giudici. “I due decreti legge approvati nel giro di una settimana rappresentano la migliore risposta dello Stato – ha concluso – per garantire una stretta sulle richieste di scarcerazioni”.

“Tamponi in frigo anziché in laboratorio”

Migliaia di tamponi depositati in congelatori situati in un capannone della provincia di Cosenza, invece di essere portati nei laboratori per il processamento. Tutti eseguiti sui calabresi che, a partire dal 4 maggio, sono rientrati nelle loro case, provenienti dalle regioni del Nord. La denuncia arriva da un operatore del 118. Ha mandato un audio al deputato del M5S Francesco Sapia, membro della commissione Affari sociali e sanità: “Ho fatto una scoperta veramente bruttissima… – dice l’operatore –. Sono entrato nel magazzino e c’erano centinaia, ma che dico: migliaia, di tamponi fatti in tutti questi giorni e mai processati, mai portati in virologia”. Sapia ha inviato l’audio, con un esposto, alle cinque Procure della regione e alla Corte dei conti. “Se ci fossero riscontri si tratterebbe di un fatto gravissimo – dice Sapia –, che metterebbe a rischio la popolazione residente in Calabria e dovrebbe obbligare a rivedere le misure di contenimento, fondate su dati non conformi alla realtà”.

Ai magistrati è arrivata la registrazione originale. Poi, una versione con la voce camuffata – per impedire il riconoscimento dell’operatore sanitario – è stata diffusa. In poco più di due minuti l’uomo racconta di aver saputo da colleghi dell’ordine di lasciare i tamponi nei congelatori. “Notizie false e tendenziose, manifestamente infondate e tese a denigrare l’immagine di una Regione che ha invece risposto brillantemente all’emergenza Coronavirus”, la replica della Regione, che con un comunicato, ipotizzando anche il reato di procurato allarme, riepiloga i numeri. I tamponi in corso di lavorazione? 1.500 in tutta la regione. E i laboratori di microbiologia accreditati ne processano quotidianamente circa 1.300. La presidente Jole Santelli, interpellata dal Fatto, non risponde. Tutto è affidato al direttore generale della Salute, Antonio Belcastro, per il quale tutti i campioni, peraltro, risultano “custoditi sulla scorta della circolare del ministero della Salute del 22 gennaio 2020, che prevede la conservazione degli stessi, fino a cinque giorni, ad una temperatura di 4 gradi centigradi”. Spiegazioni che non convincono affatto Sapia: “È necessario fare luce su questa vicenda, capire quanti ne sono stati congelati, su ordine di chi e dove si trovano. La replica della Regione non entra nel merito. E dovrebbe essere la Santelli ad assumersi la responsabilità di chiarire”.

Ma c’è dell’altro. Secondo Belcastro, i tamponi vengono conservati per cinque giorni a 4 gradi, al contrario di quanto indicato dall’Istituto superiore della sanità: a questa temperatura, prescrive, i campioni possono essere conservati fino a un massimo di 72 ore (tre giorni), dopo devono essere congelati ad almeno 70 gradi sotto zero. Inoltre, verificando i dati diffusi dal bollettino regionale degli ultimi giorni, si scopre che siamo a una media di nemmeno 1.200 tamponi al giorno. Più o meno la capacità di processamento dei cinque laboratori effettivamente attivi in Calabria (quello di Crotone, di fatto, non è mai entrato in funzione). Il capannone dove sarebbero depositati i tamponi congelati, secondo l’operatore del 118, si trova nella contrada Serra Spiga, a circa quindici chilometri di distanza dall’ospedale di Cosenza. È un fabbricato messo a disposizione dalla Protezione civile. E da qui il trasporto dei tamponi fino al laboratorio, dovrebbe comunque avvenire, per la sicurezza biologica, a una temperatura sempre inferiore ai 70 gradi sotto zero, con un imballaggio tale da evitare qualsiasi tipo di perdita.

Test della Diasorin senza gara pubblica. Si muovono i pm

Per ora è a modello 45, senza indagati e senza ipotesi di reato. Eppure merita di essere seguita con attenzione l’inchiesta aperta dalla Procura di Milano sulla scelta della Regione Lombardia di assegnare senza gara e con procedura d’urgenza alla multinazionale piemontese Diasorin, 500.000 test sierologici a 4 euro l’uno per un totale di 2 milioni di euro, tramite il kit validato dal Policlinico San Matteo di Pavia. Nato su esposto di un’impresa concorrente, la Technogenetics di Lodi, il fascicolo si innesta in un momento delicato e confuso delle strategie antivirus regionali sul territorio più colpito dal Covid-19. La nuova gara della Lombardia per ampliare la platea dei test sierologici, che vede sul piatto 8 milioni di euro, è stata improvvisamente congelata dopo la manifestazione di interesse di 44 aziende. Tra le quali la Roche che secondo anticipazioni di stampa mai smentite sarebbe pronta a offrire il suo test a meno di 2 euro l’uno. Mentre nelle scorse settimane una fornitura da quasi un milione di euro messa a gara dalla Regione Piemonte è stata aggiudicata a Diasorin che ha offerto anche lì 4 euro, contro i 4,95 di Medical System e i 5 euro di Abbott, che si è invece aggiudicata, decidendo poi di regalarli, i primi 150.000 test dello screening nazionale ordinato dal commissario del governo Domenico Arcuri, ma ancora fermo ai blocchi: doveva iniziare il 4 maggio, partirà il 18.

Nel campionato dei ritardi si colloca anche la delibera della Lombardia che “liberalizza” i test presso i laboratori privati, rendendoli accessibili a tutti: annunciata da diversi giorni, è stata emanata ieri. Mentre lo screening regionale avviato dalla Diasorin nella rete dei laboratori pubblici, iniziato il 23 aprile, sta procedendo a rilento: appena 33 mila test effettuati fino al 6 maggio (il programma era concluderne 200 mila entro giugno). Poiché si dovranno poi fare i tamponi a chi ha gli anticorpi, secondo diverse fonti forse si ha paura di doverne fare troppi e non ce ne sono abbastanza. Ma la lentezza dello svolgimento fa a cazzotti con l’urgenza dell’assegnazione. “La Regione Lombardia deve spiegare perché sui test sierologici si è perso un mese, l’assessore Gallera ancora non ha risposto”, attacca il consigliere regionale M5s Massimo De Rosa. Il gruppo ha depositato un’interrogazione sull’assegnazione diretta a Diasorin. Ieri Gallera è tornato sui test sierologici, spiegando in diretta Facebook che sono stati sbloccati anche per i privati e avranno una tariffa di 62 euro per chi li vorrà fare in uno specifico ambito collettivo, ad esempio in un ambiente di lavoro, e non dovranno gravare sulla sanità pubblica. Le delibere però fissano a 62 euro il prezzo (da rimborsare) del tampone, e spiegano che i sierologici da soli non servono.

Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e il pm Stefano Civardi stanno studiando l’esposto di Technogenetics, joint venture italo-cinese. Cinque pagine contro la legittimità dell’accordo esclusivo del 26 marzo tra Regione, Diasorin e Policlinico di Pavia per la sperimentazione e l’uso di un progetto diagnostico sviluppato dal professor Fausto Baldanti e dall’ospedale per la ricerca degli anticorpi neutralizzanti, quelli che garantirebbero la cosiddetta “patente di immunità” al virus. Secondo i legali del gruppo ricorrente, l’accordo senza gara pubblica, con royalties dell’1 per cento per il Policlinico sulle vendite del kit – rivelato nelle scorse settimane dal Fatto Quotidiano – avrebbe violato i principi di libera concorrenza tra le imprese, configurandosi come una sorta di “aiuto di Stato”. Pende anche un ricorso al Tar Lombardia contro la determina San Matteo-Diasorin: oggi l’udienza sulla sospensiva. Il 21 aprile il presidente della Prima Sezione Domenico Giordano l’ha negata. Scrivendo però nel decreto che “l’accordo (…) presenta contenuti sinallagmatici con precisi vantaggi economici e conseguente valore di mercato sottratto al confronto concorrenziale”. E che le ragioni di Technogenetics “sono meritevoli di approfondimento in sede collegiale”.

Le Regioni contro Arcuri. Lui tratta con i farmacisti

Centinaia di milioni di mascherine “distribuiti dall’inizio del- l’emergenza”: 202,8 per l’esattezza. Di questi, “55 milioni di pezzi” giacciono nei magazzini delle Regioni. Lo ha spiegato ieri Domenico Arcuri, commissario straordinario all’emergenza Covid-19, in conferenza stampa nella sede della Protezione Civile, a Roma.

La Regione Lazio dice di non averle viste: “Nei nostri magazzini ne abbiamo circa 11 milioni, in massima parte chirurgiche ma sono state acquistate dalla Protezione civile regionale, non sono arrivate dal commissario”, spiegano dalla Pisana, che secondo il sistema “Analisi Distribuzione Aiuti” (Ada) che tiene il conto del materiale distribuito dalla struttura commissariale ha ricevuto 15.241.557 milioni di pezzi dal 1° marzo (prima della nomina di Arcuri) all’11 maggio. La Liguria, da parte sua, “non ha mascherine ferme in magazzino consegnate dalla struttura commissariale (5.429.528 quelle che risultano su Ada, ndr) – spiega Giacomo Giampedrone, assessore alla Protezione civile –. Tutti i Dpi sono stati distribuiti al personale sanitario”. “È successo invece – prosegue l’assessore – che il magazzino sia andato in difficoltà per la mancanza di certificazioni rispetto al materiale che arriva dalla struttura del commissario straordinario Arcuri”.

Lo stesso problema registrato anche in Veneto (dove secondo i dati della struttura commissariale sarebbero arrivate 30.317.049 mascherine): fino al 30 aprile, fa sapere l’ufficio stampa, la Regione ha ricevuto dalla Protezione Civile (la cui rete di trasporti viene utilizzata per distribuire le quantità di Dpi decise dalla struttura commissariale) 6 milioni e 62 mila mascherine: 2 milioni 638 mila per uso ospedaliero (tra chirurgiche, Ffp3 e Ffp2), mentre per la popolazione sono arrivati 3 milioni e 424 mila pezzi, tra cui 1,2 milioni di chirurgiche e 191mila Ffp2. Di queste, però, 1,2 milioni sono state segnalate come “problematiche” dai responsabili della sicurezza perché sono “prive di adeguata certificazione”.

Anche in Sicilia le mascherine sono arrivate: Ada dice che sono oltre 6 milioni, la Regione parla di 3.855.600 chirurgiche, 1.062.880 di Ffp2, 21.255 Ffp3 e 904mila monovelo. Ma, fa sapere il Dipartimento regionale della Protezione civile, “sono state già tutte distribuite a ospedali e forze dell’ordine”. Tradotto: nei magazzini della Regione non ci sono più.

In Campania (che secondo Ada ne ha ricevute 7,5 milioni), invece, “la dotazione arrivata dalla Protezione civile era insufficiente a rispondere alle esigenze”, fanno sapere dalla Regione. Che spiega di averne “comprate direttamente 4,5 milioni, e sta per completare l’acquisto di 1,7 milioni di mascherine per bimbi”. Una situazione simile a quella registrata in Puglia (che ha ricevuto oltre 10 milioni di pezzi per Ada): “La dotazione della Protezione civile era del tutto insufficiente”, fanno sapere da via Giovanni Gentile, a Bari, sede della Regione. Che ha acquistato le protezioni direttamente in Cina e ora “ha scorte sufficienti per qualche mese”. Il Fatto ha interpellato anche la Calabria, ma il dirigente della Protezione civile Fortunato Varone ha risposto di non poter dare nessun tipo di informazione, di nessun genere, per disposizione della presidente Santelli.

Poi c’è l’altra partita. Arcuri, nominato il 17 marzo, si trova nella scomoda posizione di dover garantire l’approvvigionamento di Dpi alle strutture pubbliche e integrare, “per quanto possibile” come recita il contratto, le forniture alle farmacie dopo aver fissato il prezzo massimo prima a 50 e poi a 61 centesimi. “I cittadini vanno al supermercato e le mascherine le trovano – ha precisato ieri mattina –. Non sono io a dover rifornire i farmacisti né i loro distributori”. Ieri pomeriggio, poi, l’ad di Invitalia ha incontrato Federfarma, Asf e Federfarma Servizi per seppellire l’ascia di guerra. Ed è tornato sulle parole, pesanti, di lunedì: se solo 48 ore prima sul tema della disperante mancanza di mascherine a prezzo calmierato aveva attaccato spiegando che “la colpa non è mia ma di distributori e farmacisti”, ieri mattina ha corretto il tiro: questi ultimi “non c’entrano nulla”. Una rettifica che ha favorito un clima più sereno durante l’incontro con le categorie avuto nel pomeriggio. Le mascherine ancora non ci sono, una soluzione (leggi, fornitori in grado di soddisfare il fabbisogno di uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia) ancora non si vede, ma ci si lavora. Le parti si sono aggiornate per questo pomeriggio alle 13.

“A Pantelleria per la Rai, adesso ritorno e studio”

Donatella Bianchi ha nel simbolo, il glorioso panda del benemerito movimento che presiede dal 2014, il Wwf Italia, il senso e il destino di questa nomina.

“Il panda però poi l’abbiamo salvato”.

La vediamo in televisione ogni sabato. Spesso su una barca a spiegarci come è profondo il mare, quanto dovremmo amarlo, come a volte lo disonoriamo. Conduce Linea blu, concede il suo volto alle campagne del movimento ecologista, da un anno guida il Parco delle Cinque Terre, da ieri è membro della task force di Vittorio Colao.

“Faccio molte cose, tento di farle bene. Questa nomina mi mette di fronte a una cosa ancora più grande alla quale si arriva temendo di non essere all’altezza e vogliosa invece di dimostrare di esserlo”.

I maschi hanno dimenticato che esistono le donne, e pongono rimedio. Una superquota rosa a partita iniziata. Il ristoro dopo la trascuratezza. Un esempio molto machista di come si affrontano le questioni, o no?

Il Covid non ci lascerà domani e non desidero perdere tempo adesso su un tema che pure avrà bisogno di essere discusso. Io per esempio sono l’unica donna in Italia a presiedere un ente parco, e mi chiedo spesso perché? In ragione di cosa si producano queste scelte?

Ecco, perché?

Ora devo pensare a dare un contributo utile alla compagine della quale sono stata chiamata a far parte.

L’ha chiamata Colao o Palazzo Chigi?

La Presidenza del Consiglio.

La pandemia ha denudato l’Italia, ha fatto rifiorire i boschi, restituito ai pesci il mare, tolte le auto dalle città. Le piazze sono apparse una magia. Una bellezza così stupefacente e anche però un po’ inquietante.

Bisognerà affrontare nel dettaglio gli effetti collaterali di questa nostra nuova condizione. È un mondo così inesplorato, e c’è il bisogno di riflettere bene cosa fare, come farlo e cosa sconsigliare.

Dovrà studiare.

Studierò, non mi manca l’attitudine alla fatica, e neanche il desiderio di portare una parola intelligente, un contributo utile.

Dove si trova adesso?

A Pantelleria, sto chiudendo un servizio per Linea blu.

Beata lei.

Sono sempre al mare, eppure mai un bagno.

Non nasconda il privilegio.

Dico che è tutto più faticoso di quanto appaia. Amo quel che faccio, la passione mi fa trottare.

Prima Sereno Variabile.

Prima ancora, da giovanissima, al Tg2 di Pastore e Moretti. Poi la mia carriera si è sviluppata intorno ai temi ambientali. E quindi gli approfondimenti settimanali.

È stata sposata con Osvaldo Bevilacqua, anch’egli sempre in missione per borghi e campagne.

Con Osvaldo ho avuto una figlia. Poi i miei anni di tv con Puccio Corona.

Divulgatrice del buon vivere, la pieraangela della televisione.

Piero Angela è una stella polare, un grande maestro.

L’invidia è che lei visita sempre luoghi bellissimi, spicchi di costa straordinari, acque travolgenti. Il brutto lo lascia agli altri.

La bellezza produce economia e mai come oggi avvertiamo la dimensione di questa industria. L’Italia ha una fortuna così ineguagliata, così enorme che dovremmo ficcarci in testa di tutelarla meglio, di rispettarla.

Lei ci vuole tutti ambientalisti devoti.

Bisognerebbe davvero essere devoti alla natura.

Ha idea di quel che le aspetta?

No. Dovrò leggere, studiare, poi riflettere e infine parlare.

Distanza e prenotazioni: le misure per lidi e locali

Distanziamento sociale e protezioni personali. Sono i princìpi attorno ai quali si organizzano le regole per ripartire, in qualsiasi settore e attività, seppur con effetti molto lontani dalla quotidianità a cui eravamo abituati. Ieri l’Inail ha pubblicato sul sito le indicazioni per la riapertura dei ristoranti e dei litorali (stabilite insieme all’Istituto Superiore di Sanità), in attesa che simili linee guida vengano diffuse pure a parrucchieri, estetisti e attività ancora chiuse.

Ristoranti. L’Inail precisa come l’attuale normativa non preveda norme specifiche sul distanziamento tra i tavoli, se non un vago riferimento a uno spazio per cliente pari a 1,20 metri quadri. Una flessibilità che non sarà più permessa. Tenendo conto che, almeno nella prima fase, “andrebbero favorite” soluzioni all’aperto.

Lontani. Andrà garantito un distanziamento tra i tavoli “non inferiore a 2 metri”, oltre che una distanza tra i clienti “in grado di evitare la trasmissione di droplet”, cioè le goccioline di saliva o di altre sostanze che trasportano il virus. Tradotto: “Va definito un limite massimo di capienza” prevedendo uno spazio “non inferiore a 4 metri quadrati per ciascun cliente”, a meno di non ricorrere a soluzioni diverse, come le barriere divisorie.

Prenotazione. Per evitare affollamenti fuori dal locale, l’Inail suggerisce la prenotazione obbligatoria per tutti i locali, da aggiungere a una turnazione nel servizio per far entrare gruppi di clienti a scaglioni. Da eliminare “modalità di servizio a buffet”.

A tavola. Basta coi menu di carta che passano di mano in mano. Molto meglio “format di presentazione alternativi”, come “menu scritti su lavagne, consultabili via app, o fogli monouso”. I clienti dovranno indossare la mascherina quando possibile, ovvero all’ingresso, per il pagamento e per l’utilizzo dei bagni.

Superfici. Si dovranno “privilegiare i pagamenti elettronici contactless”, con “barriere separatorie” alle casse e “prodotti igienizzanti” in più punti della sala. Al termine di ogni servizio al tavolo, andranno poi previste “le misure di igienizzazione” sulle superfici più a rischio, come i contenitori riutilizzabili (saliera, oliera eccetera).

Il personale. Tutto il personale – di cucina, di sala o amministrativo – dovrà indossare mascherine e guanti. Per eventuali spogliatoi, il titolare dovrà provvedere a una frequente igienizzazione.

Lidi. Come ammette l’Inail, “è impossibile definire un indicatore unico applicabile in ogni contesto”, avendo le coste conformazioni molto diverse. Dunque, più che una norma nazionale “sarebbero opportuni” specifici piani per la riaperture delle spiagge da parte delle “autorità locali”.

Stabilimenti. Per permettere di contingentare gli ingressi, l’Inail suggerisce il sistema della prenotazione obbligatoria negli stabilimenti. Questo permetterebbe anche “un’agevole registrazione degli utenti”, utile a “rintracciare retrospettivamente eventuali contatti a seguito di contagi”.

Ombrelloni. La distanza minima tra le file degli ombrelloni sarà di 5 metri, mentre tra ombrelloni della stessa fila ci saranno almeno 4,5 metri. Le attrezzature (lettino, sdraio ecc.) “dovranno essere fornite in quantità limitata” per garantire una distanza dalle attrezzature dell’ombrellone vicino di almeno 2 metri.

Zone comuni. Previsti percorsi di entrata e di uscita separati. Da vietare le attività sportive che possono provocare assembramenti, da “inibire l’accesso alle piscine”. Le docce dovranno essere a 2 metri di distanza, a meno che non siano divise da barriere. Obbligatorio l’uso di mascherine.

Spiagge libere. Anche qui si dovrà studiare una capienza massima e favorire un sistema di prenotazioni. Il perimetro di ogni allestimento potrà essere definito “con il posizionamento di nastri”. L’Inail suggerisce un sistema di prenotazioni per fasce orarie, anche in questo caso tramite app.

Gestione. È “opportuno”, dove possibile, “affidare la gestione delle spiagge libere a enti/soggetti che possono utilizzare personale adeguatamente formato”. Via libera dunque a “associazioni di volontariato, soggetti del terzo settore” e così via.

Ora le Regioni hanno paura: “Aspettiamo le regole per riaprire”

Il Veneto misurerà i quattro metri di distanza partendo dal centro tavolo. La Liguria non rispetterà i cinque metri fissati dall’Inail per separare gli ombrelloni in spiaggia. Le Marche dicono di essere già pronte a riaprire anche i centri estivi. Il Piemonte, la Lombardia, il Lazio, la Campania e la Toscana aspetteranno i dati del ministero della Salute prima di prendere qualsiasi decisione: “Entro giovedì darò una risposta, che sia positiva o negativa”, ha detto il governatore lombardo Attilio Fontana. Insomma, dal 18 maggio, regione che vai, regole che trovi. Peccato non ci si possa spostare, però: il divieto di uscire dal proprio territorio di residenza dovrebbe restare in vigore fino al primo giugno. E dopo, non è ancora chiaro se ci si potrà muovere liberamente o sconfinare solo tra regioni vicine e con indici di contagio ugualmente bassi.

La situazione è assai complicata e nessuno ha le idee chiare su come muoversi. Il fronte degli aperturisti (Luca Zaia e Giovanni Toti su tutti) è pronto a contestare i protocolli di sicurezza elaborati da Inail e Istituto superiore di Sanità. Misure stringenti (i dettagli li trovate nell’articolo a fianco) che hanno già scatenato le proteste delle associazioni di categoria, in particolare ristoratori e balneari, per le drastiche ricadute che avranno sui ricavi dei prossimi mesi.

Ieri il primo incontro al ministero dello Sviluppo economico con Confesercenti, Confcommercio, Cna, Confartigianato, i ministri Stefano Patuanelli e Nunzia Catalfo, i sindacati e il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro si è concluso con la dichiarazione di guerra degli imprenditori, secondo i quali i protocolli sono “insostenibili” perché ridurrebbero di un terzo i posti al ristorante e ancora di più negli stabilimenti balneari: si calcola che i gestori dei lidi perderebbero il 60 per cento della capienza, un “grave danno” che farà lievitare i prezzi dei singoli ombrelloni. Dubbi anche sulla norma che prevede l’ampliamento dei tavoli all’aperto e che varrà anche in spiaggia e che, nel caso di stabilimenti confinanti con le spiagge libere, porterà ad un ulteriore riduzione degli accessi al mare gratuiti. Le stesse perplessità, per usare un eufemismo, sono quelle che avvertono i titolari di bar e ristoranti: non solo per la questione del distanziamento ma anche per l’ipotesi di autocertificazione da parte dei nuclei familiari, che sarà a dir poco complicato far rispettare. Identica situazione per i negozianti, in particolare del settore abbigliamento, che denunciano i costi insostenibili delle continue sanificazioni. Secondo la Confersercenti, con queste regole, “un’impresa su quattro potrebbe essere costretta a non ripartire, per non trovarsi a lavorare con restrizioni tali da rendere anti-economico il proseguimento dell’attività, e anche per il timore di incorrere in sanzioni o peggio”.

Nonostante manchino solo sei giorni alle riaperture, la concertazione è solo all’inizio. E c’è da aspettarsi che il pressing delle associazioni di categoria, come già fu con Confindustria ai tempi del riavvio delle fabbriche, possa portare a qualche aggiustamento. Bisognerà attendere il prossimo decreto del presidente del Consiglio dei ministri, che non arriverà prima di domani o dopodomani, una volta analizzati i dati sull’andamento della curva epidemiologica a dieci giorni dalla fine del lockdown. Ieri è stata approvata la proposta del dem Stefano Ceccanti che prevede che i Dpcm vengano preventivamente illustrati in Parlamento prima della firma, ma non è detto che Giuseppe Conte voglia già metterla in pratica, visto che non è ancora entrata in vigore.

Tra le altre misure di allentamento in discussione c’è quella di valutare la possibilità di raggiungere le seconde case, purché all’interno della stessa regione. Una misura che alcuni governatori, come il Veneto e la Puglia, avevano già liberalizzato, seppur limitatamente alle attività di manutenzione. Ora potranno farlo anche gli altri, sempre che lo vogliano: ora che si avvicina il “liberi tutti” sono proprio i presidenti quelli che vanno proclamando cautela.

Rivolta dei Comuni insoddisfatti dal Tesoro: “Senza fondi l’immondizia resterà in strada”

Se il decreto di cui ancora si discute fosse arrivato davvero ad aprile, ora si potrebbe ragionare con più calma: il ritardo che pesa soprattutto sul ministero dell’Economia, le sue strutture burocratiche e il loro modus operandi, ha aperto invece il vaso di Pandora delle richieste.

Mentre si attardavano persino nel ricorrere ai mercati “coperti” dalla Bce per fare provvista di soldi, Roberto Gualtieri e i suoi tecnici hanno dato l’idea – non si sa se volontariamente o meno – che questo sarà l’ultimo intervento di peso sulla crisi innescata dal coronavirus e oggi si ritrovano a dover stiracchiare una coperta troppo corta, nonostante i 55 miliardi di portata totale del decreto ottimisticamente detto “rilancio”. La mezza rivolta dei sindaci, che in una lettera a Giuseppe Conte ieri hanno prefigurano un futuro in cui l’immondizia rimarrà per strada, nasce soprattutto da questo.

Per capire perché l’Anci, l’associazione dei Comuni, si sia esposta così bisogna partire da una cifra che arriva, guarda il caso, proprio dal ministero dell’Economia e più precisamente dal suo sistema informatico Siope: 2,7 miliardi. Sono le minori entrate da tributi e tariffe registrate dai Comuni nel primo quadrimestre dell’anno. Dice Mauro Guerra, sindaco di Tremezzina (Como) e presidente di Anci Lombardia: “E se questo è solo il primo quadrimestre significa che su base annua siamo vicini allo scenario peggiore che avevamo ipotizzato: un range di perdite tra i 4 e gli 8 miliardi di euro. Scenario che ha portato Anci a chiedere al governo un intervento di 5 miliardi per i mancati introiti”.

Qual è il problema? Che il ministero dell’Economia non intende stanziare tutti quei soldi: nella prima fase di questa tela di Penelope le risorse stanziate per i Comuni erano 2 miliardi, dopo estenuanti trattative si è arrivati nelle ultime bozze circolate a poco più di 3 miliardi. A Palazzo Chigi, se non al Tesoro, ritengono che si tratti di una cifra che potrà semmai essere accresciuta in seguito, quando il quadro della recessione da Covid-19 sarà più chiaro, i sindaci però – dopo settimane di inutili litigi – temono che alla fine, quando le fisime dei tecnici di Gualtieri sulle coperture saranno tornate a regnare indisturbate, il conto della crisi verrà fatto pagare soprattutto a loro, esattamente come dopo il 2011. Tanto più che, nel frattempo, ai Comuni sono state imposte regole contabili ispirate al famigerato pareggio di bilancio.

Così nasce la lettera inviata al presidente del Consiglio con quella non troppo velata minaccia: “Il governo ci ascolti, potrebbe saltare l’erogazione di servizi essenziali. Non vorremmo ritrovarci a gestire ‘pericolosi assembramenti’ di rifiuti lungo le strade delle nostre città”, scrivono – “dopo un confronto non facile col ministero dell’Economia” – il presidente dell’Anci Antonio Decaro e tutti i vertici dell’associazione insieme, ed è un segnale di compattezza, ai sindaci delle 14 città metropolitane che rappresentano oltre 21 milioni di italiani.

“Prima del varo del decreto Rilancio, che non contiene quello che serve ai Comuni e cioè ai cittadini, lei deve ascoltarci”, è l’appello dei sindaci a Conte. Oltre al crollo delle entrate dovuto al lockdown, infatti, ci sono anche tasse che i primi cittadini non intendono riscuotere, come quella sui rifiuti da esercizi commerciali chiusi da mesi e in larga parte con l’acqua alla gola.

L’Autorità per l’energia (Arera) – scrivono – “ha calcolato le riduzioni tecniche del prelievo sui rifiuti, basate sulla valutazione della minor produzione dovuta al lockdown delle attività economiche più colpite, in 400 milioni di euro, rimandando a ulteriori provvedimenti l’individuazione di mezzi di copertura”. Una miseria e persino di incerto ristoro, ma il servizio di raccolta dei rifiuti “va sostenuto, giorno per giorno, con adeguati flussi finanziari, se non vogliamo correre il rischio che a un’emergenza sanitaria se ne aggiunga un’altra”.

Coperture dubbie, dispetti e ritardi: il dl slitta ancora

Quand’è l’ora di cena il pre-Consiglio dei ministri, la riunione tecnica che prepara i materiali per i ministri e il premier, è in corso da otto ore (a non contare quello di lunedì) e i capi di gabinetto e i giuristi di tutti i dicasteri sono arrivati solo a metà dei 258 articoli di cui si compone il decreto monstre detto “Rilancio” e che fu già “decreto aprile” e poi “maggio”. E non solo i tecnici sono a metà dell’opera, ma non hanno nemmeno affrontato gli scogli più grossi: i fondi per la cassa integrazione che forse non bastano e il nodo della regolarizzazione dei migranti (ne parliamo qui accanto). Tradotto: il Consiglio dei ministri che dovrebbe finalmente approvare il testo atteso da milioni di persone viene rimandato ancora. Ad oggi, forse, o a chissà quando. Ormai nessuno può dirlo con certezza: basti dire che, mentre gli italiani mettevano i piatti in tavola (chi può permetterselo), non s’era ancora parlato di fisco e di soldi alle imprese.

La scrittura del “decreto Rilancio fu aprile” sta diventando una barzelletta. Magari sui temi seri c’è scontro, ma la burocratjia ministeriale non ha mancato di infilare qui e lì i suoi soliti avanzi di magazzino: all’articolo 54 dell’ultima bozza, per dire, c’è l’istituzione dell’Unità di valutazione degli effetti di finanza pubblica del partenariato pubblico-privato negli investimenti. Un vecchio progetto che ai tempi “gialloverdi” di Giovanni Tria aveva la forma di un Dipartimento (più potente) e oggi quella meno invasiva dell’ennesimo “gruppo di lavoro”: non si tratta di un imprescindibile strumento per monitorare gli investimenti, ma del modo con cui l’attuale Ragioniere dello Stato Biagio Mazzotta vuole liberarsi di Alessandra Dal Verme, sua antica rivale per quell’alta poltrona e, sia detto en passant, cognata di Paolo Gentiloni.

Certo, non di sole quisquilie vive la tela di Penelope del decreto più lungo di tutti i tempi. Oltre al conflitto politico (o mediatico) attorno alla regolarizzazione dei migranti, c’è il nodo finanziario di fondi che – pur ammontando a 55 miliardi – rischiano di essere insufficienti. Da questo punto di vista i temi maggiormente caldi sono due: la cassa integrazione e gli incentivi per il personale sanitario. Il tutto con effetti paradossali: la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ritiene che i fondi per la Cig siano insufficienti, il Tesoro invece no e nel frattempo circolano le ipotesi più assurde, tipo inserire clausole di salvaguardia su questo tema che coinvolgano una cosa che ancora non esiste come il programma europeo Sure, che poi sarebbero dei prestiti e quindi non si capisce cosa “salvaguardino” in termini di deficit. Nelle more di questa commedia non troppo divertente, i tecnici del Tesoro riesumano anche testi “classici”: nella bozza, forse risalente ai tempi della Prima Repubblica, c’è il rilancio della privatizzazione del patrimonio pubblico da cui ricavare i soldi che forse non ci sono o forse sì.

Come se non bastasse, dentro il decreto “Rilancio fu aprile” dovrebbe finire anche una norma per correggere una previsione del decreto “Marzo” (quello da 25 miliardi) sulla cassa integrazione in deroga, quella che stavolta serve anche per le aziende sotto i 9 dipendenti tipo bar, ristoranti o negozi in genere: governo e Regioni si sono accorte, ma mai quanto gli interessati, che i soldi non arrivano a destinazione, né ci arriveranno in tempi brevi. Colpa, per così dire, del fatto che non si è corretto il meccanismo usuale di questo strumento che prevede il coinvolgimento di imprese, sindacati e Regioni e solo in un secondo momento dell’Inps, che controlla il tutto: ora si punta a snellire il processo aggirando Regioni e sindacati e lasciando che chi ne ha bisogno si rivolga direttamente all’Inps. Mentre scriviamo è in corso un incontro tra i ministri Catalfo e Boccia (Regioni) col presidente emiliano Bonaccini: ne dovrebbe uscire una proposta da infilare nel testo, semmai vedrà la luce.