Servillo nei panni di Pirandello e Fassbender recita “Il killer”

A partire da metà febbraio Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone reciteranno nel nuovo film di Roberto Andò dal titolo provvisorio La stranezza, prodotto da Angelo Barbagallo e Attilio De Razza per Bibi Film e Tramp Limited, Medusa Film e Rai Cinema, in collaborazione con Prime Video. Nella storia, scritta dal regista con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, si immagina che nel 1920 Luigi Pirandello (Servillo), rientrato in Sicilia per un breve soggiorno, s’imbatta in un imprevisto che lo porterà a incontrare due singolari figure di teatranti, Onofrio Principato e Sebastiano Vella (Ficarra e Picone), due dilettanti che provano con gli attori della loro filodrammatica un nuovo spettacolo. L’incontro tra il geniale autore e la scalcinata compagnia amatoriale darà vita a molte sorprese. In scena, tra agli altri interpreti, Renato Carpentieri, Donatella Finocchiaro, Luigi Lo Cascio, Galatea Ranzi e Fausto Russo Alesi.

A quasi 30 anni dalla sua scomparsa, avvenuta in Svizzera nel 1993 a 63 anni, Audrey Hepburn sarà al centro di un biopic diretto da Luca Guadagnino per Apple Tv+ e interpretato da Rooney Mara (per l’occasione anche co-produttrice del film): la sceneggiatura è un adattamento di un’opera del drammaturgo Michael Mitnick.

David Fincher è tornato a girare per Netflix due anni dopo il successo di Mank, dirigendo a Parigi Michael Fassbender e Tilda Swinton nel thriller The Killer. Tratto da un’omonima serie di graphic novel del francese Alexis Novent (alias Matz), uscita nel 1998 e disegnata da Luc Jacamon, il film scritto da Andrew Kevin Walker (già sceneggiatore per Fincher di Seven) segue le vicende di un assassino impenitente che, nonostante viva in un mondo in cui le sue azioni non sono condannate dalla morale, si trova a dover affrontare una profonda crisi psicologica.

“Roma mi sembra un uomo che si mantiene esibendo ai turisti il cadavere di sua nonna”

Roma, per Joyce, non è stata una “passeggiata” come per Stendhal. E nemmeno una poesia, come per Keats e Shelley. Lo scrittore irlandese paragona infatti la capitale italiana a “un vecchio cimitero”: “Roma mi fa pensare a un uomo che si mantiene esibendo ai turisti il cadavere di sua nonna”, afferma in una delle lettere che invia al fratello Stanislaus, anch’egli scrittore. Ma a parte la fitta corrispondenza epistolare, Joyce a Roma non scrive nient’altro. Si trasferisce lì nell’estate del 1906, insieme alla compagna Nora e al figlio Giorgio. Di giorno lavora in banca e la sera si ubriaca nei locali. Per sette mesi vaga in una città di fantasmi, nomi e ossessioni che gettano le basi per la sua opera più celebre: l’Ulisse, che uscirà nel 1922.

A cento anni dalla prima edizione del più grande romanzo (anche per foliazione) del Novecento, il docente di Letteratura inglese Enrico Terrinoni ricostruisce il “periodo romano” del genio irlandese nel saggio Su tutti i vivi e i morti (Feltrinelli). Il titolo è evocativo: non è solo la frase con cui Joyce chiude Gente di Dublino, ma rappresenta anche l’atmosfera che respira nella Città eterna. Poco dopo l’arrivo riceve una notizia che lo turba. Il suo amico Gogarty si è sposato e “questa particolare perdita” getta lo scrittore nello sconforto. In un’altra lettera al fratello spiega che “dev’essere un segno di progresso e di esperienza veder cadere le proprie illusioni, una per una”. Parla anche del fatto che “non sarebbe accaduto se io fossi rimasto a Dublino”. Una relazione omosessuale con l’amico? Difficile dirlo, mancano molti dettagli. Sta di fatto che il “traditore” lo ritroviamo nei panni di Mulligan nell’Ulisse, uno studente di medicina chiamato anche l’“usurpatore”. E proprio a Roma Joyce legge Il ritratto di Dorian Gray di Wilde.

Nell’Urbe vengono a galla anche le fobie del giovane James. Tutto è foriero di sventure, dai cani ai fiumi: “Il Tevere mi fa paura” confida a Stanislaus. Un giorno l’amico Cosgrave, che dice di aver avuto una relazione con Nora, muore annegato nel Tamigi. Alla notizia Joyce sembra sollevato. Anche perché, in alcune lettere alla compagna, lo scrittore appare molto ferito e insiste per conoscere i dettagli più piccanti della tresca. Qui forse nasce l’idea per Leopold Bloom: il contrappasso letterario vuole che anch’egli abbia una moglie – Molly – che lo tradisce. Ma un data sembra mettere il cuore in pace all’autore. Tutto il romanzo è ambientato a Dublino, il 16 giugno 1904, giorno in cui Nora, a dire di Joyce, gli sbottonò i pantaloni e “lo rese uomo”.

Vasco, 70 anni, va ancora “al massimo” (e a Sanremo)

L’ombra del kingmaker torna ad avvolgere Sanremo. Vasco medita un secondo colpaccio: lo scorso anno il suo endorsement per i Maneskin spostò masse critiche di voti per la band, che vinse malgrado l’appoggio di Chiara Ferragni in favore di Fedez. Ora il candidabile del signor Rossi è l’(ex) rapper Rkomi, che propone Insuperabile, ad alto tasso di energia. Basterebbe a Vasco per suggerirne l’incoronazione? No: ma nella serata delle cover Rkomi si produrrà, supportato dai Calibro 35, in un medley del Vate di Zocca.

Sai che goduria per Vasco “manovrare” il Festival da casa. Occhio, però: Rossi è stato Grande Elettore pure con X-Factor, puntando su quel gIANMARIA che, pur lanciatosi nella sua Jenny, si è piazzato solo secondo. E stavolta l’azzardo da remoto sulla kermesse è rischioso. Rkomi potrebbe vincere, ma i favoriti restano Mahmood & Blanco, senza dimenticare Elisa, Sangiovanni, Moro.

Vasco valuterà presumibilmente l’omaggio di Rkomi prima di dedicargli una storia su Insta. Difficile sbarchi in Liguria, magari per affiancare il pupillo. Amadeus ci ha provato, lui nicchia, a dispetto dei vantaggi per l’album Siamo qui e le aspettative per il tour (start il 20 maggio) più volte rimandato. L’ultima apparizione (al netto dei brani firmati per altri) è stata la passerella del 2005, auspice Bonolis.

Sanremo è la magnifica ossessione di Vasco, che ieri ha ricordato sui social il debutto del 29 gennaio ’82, 40 anni fa, con Vado al massimo, “provocazione” quasi-reggae in risposta al detrattore Nantas Salvalaggio che l’aveva definito “fatto e drogato” dopo averlo visto a Domenica In. All’Ariston fece epoca, alla fine dell’esibizione di Vasco, il microfono in tasca: gli cadde con un tonfo e fu recuperato dal concorrente successivo, Christian. “Ci andai perché Ravera (il factotum del festival, ndr) mi offriva la platea nazionale della televisione garantendomi soprattutto la libertà di fare quello che volevo. Geniale Ravera, aveva capito che la musica nell’aria stava cambiando e che io rappresentavo il nuovo”, scrive Vasco. “Andai da solo, nessuno dei miei fidati collaboratori, Guido Elmi in primis, volle accompagnarmi, non ci credevano. Io, invece, sapevo bene quello che facevo”. Mirava a milioni di spettatori. “Volevo soprattutto sbalordirli, provocarli, scuotere in loro un’emozione, dissacrare quel palco con ironia e provocazione: Vado al massimo… vado a gonfie vele… (che non era per niente vero, in realtà). Ero certo avrei colpito e, nel bene o nel male affondato, chi mi guardava”.

Come? Attentando alla liturgia: “Della gara non m’importava nulla e tantomeno di vestirmi ‘elegante’, io avevo il mio look da concerto, jeans e giacca in pelle. Dietro le quinte mi guardavano tutti come se fossi un alieno, per me gli alieni erano loro che si stravestivano e si truccavano, a me interessava solo salire sul palco. Alla finale ci sono arrivato e questo a me bastava e avanzava… nella classifica ero in fondo ma fuori da lì cominciò davvero la mia straordinaria avventura live”. L’anno seguente, per “riconoscenza” verso il patron Ravera, Vasco tornò a Sanremo con Vita spericolata. Fu di nuovo snobbato dai votanti, vinse Tiziana Rivale.

Il 7 febbraio Vasco compirà 70 anni: “Sono 70 volte che la terra gira attorno al sole e… la testa non mi gira ancora”. I fasti sono già iniziati.

“Le luci di Strehler, il sosia Pasolini e le telefonate affettuose della Magnani”

La consapevolezza di un istrione: “Io? Cammino sempre al fianco del bambino che è in me. In parte gli restituisco l’infanzia non vissuta e in parte condivido con lui le scelte più importanti”. Quel bambino ha consigliato a Massimo Ranieri di tornare quest’anno a Sanremo, lo ha incoraggiato a pensare una nuova paternità a 71 anni, lo porta in giro per l’Italia, ogni giorno con “quattro, cinque, sei ore di viaggio e poi subito in scena”. Quel bambino gli regala ancora lo stupore di un’esistenza (professionale) iniziata con una traversata in nave a soli 13 anni, destinazione l’Ammerica, come si diceva un tempo, e che nei decenni successivi gli ha permesso di incontrare, abbracciare, lavorare, recitare, cantare o solo mangiare con “mostri” (parole sue) come Eduardo De Filippo, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Strehler e altri.

Ognuno di loro è dentro Massimo Ranieri.

E ognuno di loro si materializza grazie a Massimo Ranieri e alle sue imitazioni perfette.

Dopo lo stop da Covid, com’è stato il ritorno sul palco?

Ero commosso, mi tremavano un po’ le gambe, ma è stata un’emozione differente rispetto a tante altre occasioni di debutto; (sorride) il primo giorno ho ripreso una battuta nata quarant’anni fa con Strehler, quando ripetevo: “Scusate se mi impappino”.

Di cosa aveva paura?

Di non ritrovare tutto com’era prima della pandemia. Invece era lì, meravigliosamente granitico, immutabile nei riti, nelle sensazioni, nell’entusiasmo, nella dedizione del pubblico; (pausa) è stato faticoso.

Sempre emotivamente?

Anche fisicamente, perché in parte noi siamo come gli atleti e la voce va allenata.

Nella sua biografia appena uscita parla molto di Strehler…

Quando monto uno spettacolo, ancora lo vedo davanti a me, soprattutto riguardo alle luci: lì sento la sua voce dirmi “cos’è quella cagata che hai realizzato? Non è bello quel taglio, cambia, cambia!”. Le luci di Strehler sono uniche nella storia del teatro.

Ogni volta che lascia il palco per tornare alla canzone sembra sempre un artista che un po’ tradisce…

È vero. Anzi verissimo. Non a caso, a soli 24 anni, ho mollato la musica per dedicarmi al teatro…

Con Patroni Griffi.

Peppino un giorno mi disse: “Tu a da fa’ u teatro. Cummé”. “Maestro grazie, ma sto partendo per il militare”. “Io t’aspietto”. “Per cosa?”. “Tu ha da fatica’ con George”. “E chi è?”. “Ma tu si gnurante!”; (sorride) lui ha tirato fuori la parte attoriale che ogni napoletano ha dentro.

Scusi, ma George chi?

Strehler. Dopo cinque anni sono andato proprio a Milano.

Di Strehler ha intuito subito la genialità?

Lì per lì no, non avevo gli strumenti, insomma non capivo una mazza: mi stupiva solo il suo grado di esigenza, il suo perfezionismo.

Poi?

Dopo poco che stavo lì in compagnia non volevo mai restare in camerino: mi piazzavo ovunque per cercare di capire, di assorbire le sue indicazioni. Era di un altro livello. È lui ad avermi dato la patente di attore.

È stato importante…

Un giorno stavo su un set, vado al trucco e trovo Marcello (Mastroianni, ndr): entro, lo saluto, lui ricambia e mi domanda “che fai?”. “Finisco qui e parto per Milano: vado da Strehler”. E lui: “Cacchio, è come girare un film con Fellini. Te lo meriti”.

Invece non ha lavorato con Eduardo De Filippo…

Nel 1981 si presenta a Milano durante le prove. Tutti fermi. Mi guarda e le sue parole sono fisse nella mia testa: “Non capisco perché non vuoi lavorare con me”. “Direttore chi le ha detto ‘sta strunzata?”. “Eh, me l’hanno detto, me l’hanno detto”. E se n’è andato. Dopo 41 anni ancora non ho capito da chi è partita quella fandonia.

Però in tv ha portato le sue commedie…

Sono testi della nostra storia: da piccolo guardavo i suoi lavori insieme ai miei genitori.

Nella sua carriera chi l’ha colpita per carisma?

Strehler, Luchino (Visconti) e Bernstein; (pausa) aggiungo Franco Zeffirelli e Anna (Magnani). Anna era una giganta: quando arrivava sul set cambiava l’atmosfera, cambiava la luce intorno a tutti. E soprattutto ci azzittavamo; un giorno mi ha chiamato in camerino “ragazzi’, vie’ qui”. Sono diventato rosso.

Addirittura.

Ma avevo 19 anni. Lei mi ha coccolato e protetto come poche altre persone, pure nei rimproveri. “Massimé, la conosci ’sta canzone?”. Resto in silenzio, ascolto e confesso: “No”. “E che cazzo de napoletano sei?”. Era Reginella.

Un suo cavallo di battaglia.

Per forza, l’ho imparata immediatamente; anni dopo ci sentiamo al telefono: “Ragazzi’, ‘ndo vai?”. “America”. “Ah, bene, viemme a trova’ quanno torni”. “Va bene signora”. È stata la nostra ultima conversazione perché un giorno scendo dalla mia stanza d’albergo e trovo la prima pagina dei giornali statunitensi con il titolo “Anna Magnani is dead”.

Le dava del lei?

Certo. Non si poteva dare del tu alla Magnani: era consentito giusto a Luchino e Federico (Fellini), credo neanche a Pier Paolo (Pasolini). Pier Paolo dava del lei pure a Totò.

È vero che Visconti la voleva per Caruso?

Me lo disse Peppino: “Luchino ci vuole a cena a casa sua”. “Oddio, che vò”. “Non ti preoccupare”. Dopo le presentazioni, i convenevoli e i posti assegnati a tavola, venne al punto: “Mi ha detto Peppino che sei molto bravo e ti ho chiamato perché sto pensando a un progetto su Caruso. Voglio te”. Peccato che dopo sei mesi si è sentito male e il progetto è finito nel mio cassetto dei rimpianti.

In quel “cassetto” ce ne sono altri?

Una sera a casa di Zeffirelli per una prima, riservata, dedicata alla visione di Metello. Lì c’era anche Bernstein. Franco me lo presenta e aggiunge: “Sarebbe stupendo un vostro disco in napoletano”. E Bernstein: “Sono d’accordo”.

Così?

Il giorno dopo chiamo la mia casa discografica e felice gli racconto dell’incontro e della disponibilità. Risposta? “Ma dai, che c’importa. A chi lo vendiamo!”. Ed è finita lì. (Pausa) A casa ho una foto insieme a Bernstein: ogni volta che la guardo ancora mi incazzo.

Capitolo Sanremo: il brano è molto bello.

Quando l’ho ascoltato, su di me ha avuto lo stesso impatto di Perdere l’amore (ci ha vinto il Festival nel 1988, ndr).

Il testo sembra il suo racconto di quando è andato per la prima volta negli Stati Uniti…

E io tredicenne che sto sul ponte di prua e vedo sulla banchina i miei genitori, i miei fratelli e gli amici che mi salutano; (sorride) proprio come nei film, mamma sventolava il fazzoletto e piangeva, mentre papà urlava “torna presto!”.

In tour con Sergio Bruni.

In realtà il mio ruolo era quello di servo di scena: gli portavo la sedia, la giacca, magari il tè, poi intonavo un paio di canzoni. Lui è stato il mio primo grande maestro: era superbo; in assoluto è il più grande cantante napoletano, senza fare torto a Roberto Murolo.

Da 13enne all’estero.

Mi sono ritrovato in un mondo inimmaginabile per uno come me: già i viaggi in Cadillac mi stordivano, impegnavo tutto il tempo a giocare con i vetri elettrici o con i tasti dell’aria condizionata. Felicissimo. E poi era tutto grande: a colazione non mi davano un bicchiere di latte, ma un litro; non un uovo, ma sei. Non una tazza di caffè, ma una brocca. Ogni volta quella vista mi stordiva.

Tutto ciò diventerà mai una serie tv?

Non ci penso proprio. Vengo da una scuola teatrale che recita: noi scriviamo sulla sabbia, e conta solo il ricordo, la memoria.

Nel libro spiega che ha lasciato a 24 anni il canto perché ha percepito anche un certo pericolo…

Come diceva Gassman? “Un grande avvenire alle spalle”.

Tradotto?

Da ragazzino ero un barista, uno che portava in giro i caffè, che serviva ai tavoli fino a notte inoltrata, quindi non avevo paura in generale, sapevo quali erano i miei confini, quali le giuste certezze; resta che quel tipo di fama, a soli 24 anni, è difficile da gestire, può diventare pericolosa…

Nel pantheon delle sue emozioni, cosa mette?

A teatro? Aver assistito da spettatore a una recita di Renzo Ricci, un vero mostro di bravura, e aver lavorato con Romolo Valli.

Pasolini lo ha conosciuto?

Alla fine di un partita di pallone, si avvicina, poggia il piede sulla panca, mi guarda e prima che io lo saluti definisce la nostra vicinanza: “Allora è vero che ci somigliamo”. “Così dicono”, replico.

E basta?

(Ride) Sì, però posso dire di averlo conosciuto.

A Sanremo nella serata delle cover canterà Anna verrà di Pino Daniele…

Qui svelo un retroscena: quel brano l’ha composto per Fantastico del 1989, quello condotto da me. Doveva essere la sigla finale, un omaggio ad Anna Magnani. Addirittura ne incidemmo una copia.

E poi?

Quell’incisione la portai al capostruttura della Rai, ma non si convinse. Anni dopo, Pino la lanciò da solo.

Quindi ne esiste una versione cantata da lei e Pino Daniele?

Sì, ma non si trova.

Com’è possibile?

Era su musicassetta: la diedi a mio padre, morto lui non l’ho più recuperata. Ma prima o poi la trovo.

Il suo primo Sanremo.

1968 con Da bambino in coppia con I Giganti: io 17enne ho visto l’impossibile, fenomeni come Modugno, Endrigo o Tony Renis. Non capivo nulla. Li guardavo e non capivo; (pausa) è chiaro da dove venivo? Se uno ha chiaro il contesto può comprendere il mio piacevole stordimento; di quei momenti ho sempre l’immagine di Modugno con la sigaretta in mano.

Nel 1969…

Trovai Louis Armstrong, Lucio (Dalla), Stevie Wonder; tempo dopo vado a New York per presentare un programma sulla musica napoletana. Atterro. Raggiungo la città. E mi dicono: “C’è Lionel Hampton”. Vado. Mi presento. E lui: “So chi sei, siamo stati insieme al Festival”. “Davvero si ricorda?” “Sei fantastico”. Io felicissimo.

Lei a Sanremo 2022…

Andrò molto al bagno, come mi capita ogni volta in queste occasioni: per questo chiedo sempre un camerino vicino alla toilette. Ormai è una forma di rito…

E poi?

Cominceranno i tic, i riti, i dubbi.

Come i giovincelli…

C’è un bambino in tutti noi, e noi purtroppo non gli diamo ascolto perché ci impone molte verità. Quel bambino è sempre con me: quando bussa, lo ascolto e lo subisco perché è il mio miglior consigliere; non ho vissuto l’infanzia, così ora lo porto con me e cerco di farlo divertire.

Massimo Ranieri e Giovanni Calone vanno insieme…

Sono due persone diverse, separate, ma che si tengono per mano.

(Canta Massimo Ranieri ne “L’istrione”: “In una stanza di tre muri, tengo il pubblico con me. Sull’orlo di un abisso oscuro; col mio trac e coi miei tics. E la commedia brillerà del fuoco sacro acceso in me. E parlo e piango e riderò del personaggio che vivrò”).

Il segreto del tempo: quando far ridere è questione di ritmo

 

ELEMENTI DI STILISTICA COMICA

Nell’antica ars retorica, faceva parte dell’elocutio, cioè della stilistica, anche la metrica; e il tempo ha un ruolo fondamentale in ogni struttura espressiva. Per i suoi sabotaggi divertenti, un comico esperto sa avvantaggiarsi delle figure temporali, delle varie specie di tempo narrativo, e del ritmo.

Le figure temporali sono procedimenti di ricorrenza che sostituiscono, al tempo che scorre irreversibile, un tempo ripetitivo reversibile, che può essere ciclico (gli stessi avvenimenti si ripetono meccanicamente) oppure periodico (una sequenza di eventi viene ripetuta). Creano figure temporali i ritmi (di accenti, di timbri, di durate, &c.); le ricorrenze foniche o grafiche (modelli, rime, allitterazioni, &c.); le forme strofiche, i ritornelli, &c.; le simmetrie (enumerazioni, chiasmi, &c.); le chiusure nel testo (frasi, paragrafi, capitoli, atti teatrali, sequenze, movimenti musicali &c.); la circolarità (come nel Finnegans Wake, dove l’ultima frase si interrompe per continuare nella prima frase del libro; e ne Il pantano di Queneau, dove l’ultima frase è quasi identica alla prima); la completezza/incompletezza del testo; la periodicità mimetica (far rivivere un evento utilizzando la stessa scala temporale: per esempio, il triduo pasquale ripete i tre giorni della passione, l’annunciazione è il 25 marzo ovvero 9 mesi prima del Natale); la proiezione temporale (per esempio, i dodici giorni centrali dell’inverno che in certe culture sono considerati la copia in miniatura dei dodici mesi dell’anno, e altre forme di mise en abyme temporali. La mise en abyme è l’abisso espressivo che ripropone, dentro una struttura, una miniatura della stessa, con effetto matrioska). Anche una permutazione, l’inversione, può servire a creare metabole cronologiche: ne sono esempi la narrazione che procede al contrario in Tradimenti di Pinter, e l’anacronismo di Madame Bovary a New York ne Il caso Kugelmass di Woody Allen.

Metabole e tempo. Le metabole (verbali, visive, sonore &c.) operano, oltre che sui materiali, sulla forma del tempo, dunque sulla ricezione del testo (che va inteso come una rete di interdipendenze, di concatenazioni e di equivalenze: cfr. Qc #46). Le metabole possono creare: tempo progressivo irreversibile (esempi: romanzo, gag); tempo disordinato (esempi: filastrocche nonsense, anagramma, le colonne sonore di Carl Stalling: bit.ly/3Flzhqr); tempo elastico: effetti di dilatazione/contrazione della durata, per scomposizioni, abbreviazioni e mise en abyme; tempo reversibile (esempi: palindromo, antistrofe, chiasmo, tmesi, iperbato, metatesi; metafora rovesciata, come “Piove sulla figa tempestosa, e le nuvole sono in mestruo”); tempo ciclico: il ritorno di un evento intensivo (fonemi, sillabe, accenti, pattern sonori). È ritmico quando si basa sull’isocronia (regolarità del ritorno, forte prevedibilità); è periodico se l’isocronia non c’è (in questo caso, poggia sulla natura dell’evento: ha minor prevedibilità, come nella prosa). Di solito, nell’arte, il tempo ciclico combina elementi ritmici e periodici. I casi più frequenti: duplicazione (onomatopee che mimano azioni ripetitive, tipo gnam gnam; ripetizione di sillabe; ripetizione di fonemi da una parola all’altra per far percepire un’analogia fra significati; circolarità di un intero testo); triplicazione: usata a volte per marcare una successione, come in Veni, vidi, vici, la triplicazione dà un senso di struttura chiara e chiusa, di forma completa, oppure di ripetizione senza fine; moltiplicazione: con una traccia nel significante (rima e quasi-rima; metro poetico; ripetizione di unità più ampie, per esempio strofa, stanza, ritornello; ripetizione di sillabe, di durate, di altezze, di intensità; assonanza e allitterazione, anafora); oppure senza traccia nel significante (ritmo semantico: il senso è polarizzato attorno a certe parole la cui posizione e/o quantità è ricorrente); metafora ritmica (iconizzazione del referente: il ritmo del significante corrisponde al ritmo del referente, come quando Mina suggerisce il farsi delle bolle cantando “Bl-l-lu le mille bolle blu”). Nella vita, creano un tempo ciclico la liturgia religiosa; la messa in onda natalizia di film ambientati nel periodo natalizio, come La vita è meravigliosa e Una poltrona per due; e rivedere su Raiplay un episodio di Arsenio Lupin, il telefilm con Georges Descrières, la domenica pomeriggio, nello stesso orario in cui veniva trasmesso dalla Rai negli anni 70.

Ritmo, prevedibilità, gag

Il ritmo è una forma temporale che fa percepire gli elementi come un insieme, non come un assemblaggio casuale. Il ritmo è ordine, quindi prevedibilità (Qc #58). In un prodotto artistico, questa prevedibilità ritmica è prevedibilità del significante (per esempio, il numero di sillabe, oppure l’identità dei fonemi nella rima), e può suggerire quella del significato. Per esempio, il comico di carattere (l’avaro, il misantropo, la bisbetica &c.) è, sul piano del racconto, una prevedibilità ritmica che comporta quella del significato. Figure temporali di questo tipo sono il personaggio di Lapige, in La main passe di Feydeau, che abbaia quando è preda di una forte emozione; e il cosiddetto tormentone, cioè il modo di dire peculiare che caratterizza un personaggio comico. La comicità di carattere, essendo la messa in scena di una coazione a ripetere, media fra le due isotopie fondamentali (Qc #57): Anthropos è il carattere, Cosmos è la ciclicità delle sue occorrenze, che iscrive le gag di carattere (per esempio, tutte le volte che l’avaro di Molière si comporta da avaro) nel tempo rituale, di cui quelle occorrenze sono una parodia. Il valore dei fenomeni ritmici è nell’enfasi che apportano, ma la ridondanza ritmica, se eccessiva, tende ad abolire il messaggio, come fanno la ridondanza fonetica e semantica. Può risultarne un effetto divertente: “Omnia clocha clochabilis in clocherio clochando, clochans clochativo clochare facit clochabiliter clochantes” (Rabelais).

Effetti del ritmo. Il ritmo è la struttura del piacere estetico (Qc #58). Ha diversi effetti: dinamogeno (il ritmo di accenti stimola in chi lo riceve un’attività motrice sincrona); tonico (ne sono esempio le marce militari); eccitante; ipnagogico; euforizzante; e divertente: negli anni 50, il comico Milton Berle scoprì che anche una frase senza senso, se ritmata come una battuta in mezzo ad altre, fa scattare la risata. È verissimo.

(91. Continua)

Solo uomini in Giunta, per il Tar è giusto così

“Il principio di parità di genere va ritenuto recessivo rispetto a quello di attribuzione fiduciaria delle cariche di Giunta”. Con questa motivazione il Tar Puglia ha respinto il ricorso di tre consigliere di opposizione del Comune di Panni, in provincia di Foggia, Danida Mansolillo, Silvia Spada e Pasquale Ciruolo, che avevano impugnato la nomina di tutti gli assessori di sesso maschile, tre compreso il sindaco Amedeo De Cotiis, ritenendo violato il principio della parità di genere e “reclamando la nomina di almeno un componente di sesso femminile in Giunta”. Per i giudici amministrativi, le cariche “per la loro natura politica, sono naturalmente soggette al criterio dell’assegnazione agli appartenenti allo schieramento politico”.

Montante, processo vietato ai giornalisti

La corte d’Appello di Caltanissetta, presieduta da Andreina Occhipinti, alla ripresa del processo sul cosiddetto Sistema Montante – che si celebra a porte chiuse, con rito abbreviato – ha respinto la richiesta avanzata dall’avvocato Giuseppe Dacquì, difensore dell’ex comandante della Guardia di Finanza di Caltanissetta Gianfranco Ardizzone. Dacquì aveva chiesto di permettere ai giornalisti di poter assistere al processo. Il legale ha motivato la sua richiesta, sostenendo che altrimenti sarebbero state veicolate alla stampa informazioni non conformi a quanto accaduto in aula. All’istanza, che è stata respinta, si era opposto il sostituto procuratore generale di Catania Giuseppe Lombardo.

“Offrì 250mila a un assessore”, Angelucci rischia il processo

Antonio Angelucci rischia il processo per istigazione alla corruzione. La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per il deputato di Forza Italia, imprenditore della sanità ed editore dei quotidiani Libero e Il Tempo. Secondo i pm, il 19 dicembre 2017, a margine di un incontro in Prefettura, Angelucci ha promesso 250 mila euro ad Alessio D’Amato, attuale assessore alla sanità della Regione Lazio, in cambio del suo impegno per il riconoscimento di crediti che una delle cliniche di famiglia, il “San Raffaele Velletri”, sosteneva di vantare verso la Regione Lazio. “Istigazione non accolta”, da D’Amato, che anzi denuncia Angelucci. I due si ritrovano a un incontro istituzionale l’8 gennaio. Angelucci rinnova le richieste formali per la sua clinica. Ma D’Amato non cede. “Ho risposto che tali richieste erano inaccettabili – scrive l’assessore nella querela agli atti –. Angelucci ha iniziato a strappare in maniera plateale un foglio di carta (…) e ha detto che me l’avrebbe fatta pagare”. Tra le prove indicate dai pm c’è anche un’intercettazione del 23 aprile 2018, tra Ferruccio Calvani – indagato per altre vicende – e Antonio Vallone (non indagato), allora tra i vertici del Gruppo San Raffaele. Si fa riferimento a un incontro avvenuto tra deputato e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti (estraneo all’inchiesta). Nell’informativa, la Guardia di Finanza scrive: “Calvani comunica a Vallone che in mattinata Angelucci è ‘… andato da… in Regione’ (presso gli uffici del governatore Zingaretti) (…). Vallone apprendendo la notizia si dimostra soddisfatto e fiducioso poiché, a suo dire, ‘… c’è bisogno (…) di un dialogo, perché se non c’è dialogo (…) non funziona niente…’”. L’udienza preliminare è fissata per il 7 settembre 2022. “Angelucci non ha commesso alcun reato, l’accusa contestata è del tutto infondata. Siamo sicuri che la verità sarà accertata nelle sedi competenti”, dice al Fatto l’avvocato Pasquale Bartolo, legale di Angelucci.

I rider di nuovo in sciopero dopo l’accordo sindacale

Irider di Just Eat sono in sciopero in diverse città d’Italia; ieri sera hanno incrociato le braccia a Roma, dopo che nei giorni precedenti avevano fatto lo stesso i colleghi di Genova, Torino e Monza. A organizzare la protesta è il sindacato SiCobas. Sono passati dieci mesi dall’accordo che Cgil, Cisl e Uil hanno firmato con la multinazionale del cibo a domicilio, e che ha permesso per la prima volta l’assunzione come dipendenti dei rider; ora quel contratto – che pure ha portato a un risultato storico – viene criticato aspramente dai sindacati di base. Il motivo è che l’intesa ha sì previsto l’applicazione del contratto nazionale della logistica, importante richiesta sindacale, ma con una serie di deroghe concesse all’azienda. La prima richiesta del SiCobas è di applicare il ccnl integralmente. Quindi viene rivendicata, tra le altre cose, la possibilità di ottenere mezzi aziendali, visto che oggi i rider viaggiano ancora sulle proprie biciclette. Già da quando Just Eat ha accettato di offrire le tutele della subordinazione, molti lavoratori hanno protestato perché ritengono che la situazione non sia migliorata di molto, e per qualcuno sia anche peggiorata perché ha ottenuto un contratto da poche ore settimanali. Ad attaccare l’accordo era stata soprattutto l’Ugl, sigla “amica” delle imprese e firmataria di un altro accordo – dichiarato illegittimo da diversi tribunali – che conferma il modello del lavoro autonomo. Insomma, si trattava di una critica piovuta “da destra”. Ora, con le iniziative del SiCobas, il fuoco arriva anche “da sinistra”.

“Dopo la festa, volevo suicidarmi. Frequentai B. già da minorenne”

Pubblichiamo in anteprima un estratto dell’intervista a Noemi Letizia, che andrà in onda lunedì sera su Rai3 nella trasmissione tv “Report”, condotta da Sigfrido Ranucci.

Chi è Noemi Letizia oggi?

Io sono Noemi Letizia e sono nota per la mia festa di 18 anni un po’ movimentata. Una festa, un’occasione che mi ha lasciato una macchia addosso, una macchia che non mi appartiene e non è la mia, ma con la quale ho dovuto convivere per anni e che ha influenzato anche la mia vita in maniera molto negativa.

Hai vissuto una situazione più grande di te, vista la tua età allora?

Una situazione molto più grande di me…

Era normale, come ragazzina neanche maggiorenne, pensare di poter arrivare al presidente del Consiglio?

In realtà l’accaduto mi era sembrato strano, però siccome io partecipavo a sfilate e a cose così, avevo pensato: “Probabilmente sono entrata in qualche meccanismo, è normale…”. (…) Giravano dei book fotografici miei, all’interno di quelle situazioni. Per cui io pensavo che, in realtà, tramite situazioni circolari, ero arrivata lì.

Provi del rancore verso Silvio Berlusconi?

Il rancore non fa parte dei miei sentimenti. Provo probabilmente tenerezza.

Perché?

Ci sono persone che nella vita non guardano in faccia a niente, e probabilmente lui è tra quelle. Io sono stata “bullizzata” mediaticamente, sono diventata anoressica, mi sono chiusa in casa. E un motivo c’è, no?

Sarebbe?

Mi hanno violentata psicologicamente, chiamandomi “prostituta” a ogni angolo di strada, ma di cosa stiamo parlando? Su tutti i giornali “Noemi è andata a ballare… e la fotografia di Noemi che è andata a ballare… è una zoccola”. Io, tramite un percorso psicologico, sono riuscita a scegliere la strada più lunga, ma avrei potuto anche scegliere l’altra strada, come tanta gente fa, no?

L’altra strada quale?

Togliermi la vita. (…) Ci ho pensato tante volte.

Ti fa effetto pensare che il tuo nome sarà sempre legato a “Papi”?

Io chiamo “Papi” mio padre.

E anche Berlusconi…

Eh, ma mi era stato detto di dire questa determinata cosa… e io l’ho detta.

Cioè, non chiamavi così Berlusconi?

Ma no!

Si diceva che tuo papà fosse l’autista di Craxi.

Sì, va bene… Ci hanno detto di dire tante cose…

Ha cambiato dieci volte versione.

Purtroppo ci siamo attenuti a quanto ci hanno detto di dire e fare. (…) La verità è tutt’altra roba.

Quale è la tua verità?

Ma io non te la racconto, non mi va di raccontarla così la verità, renditi conto che mi stai chiedendo delle cose assurde. (….) Io a quella festa mi sono accorta che le cose non andavano bene, capisci? Quindi, di conseguenza, lui con me non ci è riuscito, perché evidentemente lui piano piano pensava di trascinarmi… Prima le feste erano tutte normali…

E poi a un certo punto?

Io sono andata a feste con Barbara D’Urso, feste del Milan. (…) Una festa sola è andata storta: ed era quella là. Ci dovevano essere i suoi figli. Lui, a mio padre che si preoccupava, ha detto: “No, non ti preoccupare, ci sono i miei figli, le fidanzate”.

E invece?

Quando arrivo lì, a un certo punto mi sono chiusa nella stanza dicendo: “Ho la diarrea”. Non sono uscita dalla stanza fino a quando non siamo partite. E a mio padre non ho raccontato niente perché non sapevo cosa potesse succedere. Tu capisci che quello è Berlusconi, è una persona potente, conosce il mondo, ma contro chi ti vai a mettere? Cioè io, come persona normale? (…) Capiscimi! E mio padre, io, in che situazione lo andavo a mettere?

Nei “casini”.

Ok. Allora io ho avuto un barlume di lucidità ed era quello di stare zitta per arginare il problema. Nel senso: “Ho visto queste cose, cazzi suoi. Non mi interessa e mi svincolo”. Quando mio padre, poi, giustamente… a Napoli non sai come funziona, ma si ricambia l’invito. E quindi lo ha invitato alla festa, non sapendo…

Non sapendo quello che era successo.

Pensa io come stavo, morta! Quando dopo praticamente è scoppiato il boom, le telefonate sono state: “Di’ questo, di’ questo, di’ questo”. E che fai? Parli? (…) Zitta, muta. Ho fatto quello che mi è stato detto di fare.

Te lo diceva direttamente Silvio Berlusconi, o parlavi coi suoi avvocati?

Telefonava proprio. No, no, nessun avvocato…

Cioè Berlusconi ti chiamava per dire “dite così”?

Telefonava anche a mio padre. Alfonso Signorini in un’intervista diceva: “Io quando venni a sapere il fatto di Noemi Letizia…”. Ma quale fatto di Noemi Letizia? Il fatto è del tuo amico Silvio Berlusconi. Noemi Letizia è una ragazzina di 18 anni che avete messo nella merda.