Partygate, in attesa del dossier c’è il toto-nomi sul dopo Johnson

Sul premierBoris Johnson incombe la pubblicazione del rapporto sul partygate che potrebbe costringerlo alle dimissioni, ma intanto a Londra è già cominciato il toto-nomi sui possibili successori del premier alla guida dei conservatori e del governo. Se l’indagine condotta dall’alta funzionaria pubblica Sue Gray accerterà che Johnson ha mentito al Parlamento e al Paese riguardo alle feste nei giardini di Downing Street in pieno lockdown, il premier verrebbe probabilmente scaricato anche dal suo stesso partito. Potrebbe prendere il suo posto il conservatore Tom Tugendhat, ex militare, che ha già dichiarato che ricoprire la carica sarebbe un “enorme privilegio”. Un altro nome che aleggia da settimane è quello del cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak. Al momento, è lui il favorito dei bookmaker britannici.

AfD “totalitaria”, il fondatore se ne va

Era il partito dei professori, ma uno alla volta lo stanno abbandonando. Altervantive Fur Deutschland (AfD), la formazione dell’ultra destra tedesca, perde uno dei suoi fondatori e copresidente: Jörg Meuthen. “Ci sono chiaramente echi totalitari. Non rispettano le più semplici regole democratiche” ha detto a sorpresa in un’intervista alla televisione pubblica Ard. Meuthen, 60 anni, professore di economia, alle ultime elezioni europee era il capofila di AfD. Ha fatto sapere che manterrà l’impegno da europarlamentare. Lascia il partito, ma resta nel gruppo Identità e Democrazia, di cui la Lega è azionista di maggioranza. AfD è nato nel 2013, quell’anno manca di poco la soglia di sbarramento del 5% e non entra al Bundestag. Bastano due anni perché Bernd Lucke, presidente e fondatore, venga buttato fuori. Cresce l’area populista, radicale e chi veniva dai conservatori della Cdu si sente costretto a lasciare. Meuthen calvalca l’onda reazionaria. Il partito cerca di inglobare l’anti-islamismo che, soprattutto nella Germania dell’est, si mobilita sotto le bandiere di Pegida. Nel 2017 AfD raccoglie i 12,7% dei voti, entra in parlamento con 94 deputati. La retorica xenofoba, cresciuta con il milione di profughi arrivati in Germania nel 2015, ha reso AfD il riferimento per tutta l’ultradestra europea. Dopo il loro ingresso al Bundestag Angela Merkel vieta alla Cdu ogni contatto politico con AfD. Più la cancelliera spinge verso il centro, più il partito dell’estrema destra erode il suo consenso a destra. Inizia un forte scontro interno tra una parte che vuole trasformare il partito in un’alternativa ai cristiano-democratici e chi vuole andare sempre più a destra. I radicali vincono tutti gli scontri. Nel 2019 Meuthen è il volto di AfD per le elezioni europee. Si presenta come un uomo di cultura, borghese e con un gran sorriso. Oggi però Zeitlo definisce “complice che si avvantaggiato dell’estremismo di destra”. Alle ultime elezioni federali Afd ha perso voti, ottiene comunque 83 seggi al Bundestag. La campagna elettorale si basa sul contrasto alle norme anti-Covid. Il partito va molto bene nei Land con il tasso di vaccinazione più basso, tutti nella parte orientale del paese. Meuthen si lamenta con gli altri leader del partito.

Il rischio è che AfD diventi sempre più forte nella ex Ddr e insignificante nel resto della Germania. Per mesi cerca di aprire un dialogo con i conservatori. Merkel non ha lasciato solo la cancelleria, ma anche il partito, che la settimana scorsa ha scelto il nuovo presidente: Friedrich Merz. Considerato da sempre un falco, Merz vuole riconquistare gli elettori della destra che nei 16 anni di Merkel la Cdu ha perso strada. Ci vorrà del tempo, deve pulire la sua immagine, ma Meuthen sa come arrivare a quei voti.

La lira affonda e il Sultano si sfoga sui ministri infedeli

Come tutti gli autocrati, il presidente turco Erdogan pretende che ministri e funzionari si pieghino ai propri desideri e, se non obbediscono, più prima che poi, sono costretti a dare le dimissioni o vengono licenziati. Questa volta la roulette si è fermata nel giro di poche ore su due nomi: quello del ministro della Giustizia, Abdulhamit Gul, e del direttore dell’Ufficio di Statistica, Sait Erdal Dincer. Il nuovo titolare della Giustizia è Bekir Bozdag, già ministro della Giustizia e vice primo ministro e attualmente deputato del partito della Giustizia e Sviluppo (Akp) di Erdogan. Insomma, un fedelissimo. In un altro decreto presidenziale, Erdogan ha sostituito anche il capo dell’Istituto di statistica (Tuik). Se le “colpe” di Gul, che secondo la versione ufficiale si sarebbe dimesso senza addurre motivazioni, possono essere forse riconducibili alla sua, peraltro debole e silenziosa, presa di distanza dall’ennesimo giro di vite contro giornalisti, attivisti e parlamentari dell’opposizione, costretti a lunghe carcerazioni preventive come pericolosi assassini solo per aver manifestato dubbi sull’operato del capo dello Stato, quelle di Dincer sono chiare.

A meno di un anno dalla sua nomina, il direttore dell’ufficio di statistica ha avuto l’ardire, secondo il “sultano”, di aver mostrato che la cosiddetta “Erdoganomics”, anziché abbassare l’inflazione, la sta spingendo a livelli mai visti prima. La Turchia sta sperimentando da due anni gravissime turbolenze economiche con una valuta nazionale instabile e in costante svalutazione, innescata da massicci tagli dei tassi di interesse. Erdogan si sta opponendo fermamente a tassi di interesse elevati, affermando che causano inflazione, contraddicendo la teoria economica consolidata. Da settembre al mese scorso, la Banca centrale turca (Bct) ha ridotto i tassi di 500 punti base al 14%, ma ha interrotto i tagli a gennaio. Lo scorso anno Erdogan aveva già fatto licenziare ben due governatori della Bct perché tentavano di evitare nuovi tagli del costo del denaro contravvenendo alla sua folle ricetta economica, tesa a rendere la Turchia un hub per le esportazioni grazie al deprezzamento della valuta locale. La teoria di Erdogan potrebbe anche avere senso, ma solo se la Turchia fosse come la Cina, ovvero il centro mondiale dell’esportazione. In realtà la Turchia non può che essere un Paese che fa affidamento sulle importazioni, a partire da gas e petrolio, di cui è priva, come altri beni di consumo.

Il direttore Dincer avrebbe voluto non nascondere più il reale tasso d’inflazione sui prezzi al consumo che a dicembre è arrivato ufficialmente al 36,08%. Da tempo i partiti di opposizione hanno messo in dubbio l’indipendenza dell’Istituto statistico turco e i suoi dati sono stati messi in discussione. Gli esperti indipendenti dell’Inflation Research Group affermano che l’inflazione annuale effettiva di dicembre è stata dell’82,81%. Una percentuale, che sommata agli scivoloni drammatici della valuta, sta mettendo in ginocchio la classe media turca. Intanto la Banca centrale ha rivisto le sue previsioni di inflazione questa settimana al 23,2% entro la fine del 2022 e al 5% entro la fine del 2024. Si tratta di dati ridicoli che non hanno più nulla a che vedere con la realtà e che dimostrano la fine dell’indipendenza dell’Istituto Centrale. Ali Babacan, ex vice premier di Erdogan, già a lungo ministro degli Esteri e ora capo del Partito Democrazia e Progresso (Deva) da lui costituito l’anno scorso, ha criticato Erdogan per queste nuove sostituzioni: “Un Paese governato da decisioni prese di notte con la firma di una sola persona può fare solo questo”, ha scritto in un tweet, aggiungendo che nessuno sa perché vengono apportati tali cambiamenti. Babacan ha anche sottolineato che l’alleanza di governo dell’Akp col Partito del movimento nazionalista (Mhp) dei lupi grigi di estrema destra sta danneggiando ulteriormente il Paese.

Crisi UcrainaZelensky: negoziati con i russi per risolvere l’impasse

Fino a qualche giorno fa chiedeva alla Nato di salvare l’Ucraina perché un’invasione russa su larga scala era imminente. Adesso il presidente ucraino Volodimir Zelensky invita a frenare “il panico” e propone la costituzione di una piattaforma negoziale tra Usa, Russia e Ucraina per risolvere la situazione nell’est del Paese. Il ministro degli Esteri russo, Serghey Lavrov, ha riferito che il Cremlino non permetterà che gli interessi della Federazione vengano ignorati dalla Nato e dagli Usa. Con il presidente russo Putin invece parlerà presto il premier britannico Boris Johnson, atteso in visita nell’est Europa, per “alimentare la via diplomatica contro lo spargimento di sangue”. A Kiev sono attesi nelle prossime settimane i ministri degli Esteri francese e tedesco, Jean-Yves Le Drian e Annalena Baerbock, per incontrare l’omologo ucraino Dmytro Kuleba. La crisi in Ucraina spacca anche le destre sovraniste europee riunitesi ieri a Madrid per creare un gruppo conservatore unico nel Parlamento europeo. Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki, premier di Ungheria e Polonia, hanno firmato una dichiarazione contro Mosca e le sue azioni militari. Si è rifiutata di farlo la francese Marine Le Pen, mentre i negoziati sulla crisi tra il presidente francese Macron e Putin sono in corso.

Biden punisce al Sisi, ma poi gli fa comprare armi per 2,5 miliardi

Cancellati 130 milioni di dollari di aiuti militari all’Egitto, causa mancato rispetto dei diritti umani da parte del regime repressivo del generale al-Sisi. È una decisione dell’Amministrazione Biden, secondo cui il regime non soddisfa le condizioni per avere gli aiuti, temporaneamente sospesi a settembre e definitivamente destinati ora ad altri programmi: l’Egitto non fa abbastanza per tutelare i diritti di dissidenti, attivisti, giornalisti, donne ed esponenti della società civile, per non parlare delle migliaia di persone arbitrariamente detenute o ‘fatte sparire’. La decisione degli Usa arriva però pochi giorni dopo che l’Amministrazione Biden aveva approvato la vendita all’Egitto di armamenti – 12 cargo C-130 e sistemi radar per la difesa aerea – per oltre 2,5 miliardi di dollari – 2,2 per gli aerei e 355 milioni per i radar –, venti volte la somma bloccata.

È vero che da una parte sono aiuti, denaro regalato dagli Usa all’Egitto, e dall’altra sono vendite, cioè soldi sborsati dall’Egitto ad aziende statunitensi. Ed è altrettanto vero che C-130 e radar non sono strumenti da repressione interna. Ma le notizie stridono, a giudizio dei media che se ne occupano, fra cui l’Ap, il New York Times – citato dall’Ansa – e al Jazeera. Aiuti militari Usa al Cairo erano già stati congelati nel 2017 per analoghe ragioni dall’allora presidente Donald Trump, ma furono sbloccati l’anno dopo. I 130 milioni ora stornati, il massimo che si potesse destinare altrove, sono solo un decimo degli aiuti che gli Usa forniscono all’Egitto ogni anno in ambito sicurezza. Nel dare l’annuncio del blocco, il Dipartimento di Stato non fa cenno alla vendita, ma ricorda che, in settembre, il segretario di Stato Usa Antony Blinken aveva approvato la concessione all’Egitto d’aiuti militari per 300 milioni, tenendone però sospesi 130, subordinati a che il regime del Cairo rispettasse, entro gennaio, “specifiche condizioni relative ai diritti umani” – al Sisi non l’ha fatto –. Una nota del Dipartimento di Stato recita: “Il governo egiziano ha fatto notevoli progressi, ma non ha rispettato i termini”. Esponenti democratici al Congresso esprimono soddisfazione per la decisione. Il senatore del Connecticut Chris Murphy ritiene “finiti i giorni in cui dittatori ricevevano assegni in bianco dall’America”. Ma il Dipartimento di Stato, autorizzando la vendita di aerei cargo e sistemi radar per oltre 2,5 miliardi di dollari, aveva sostenuto che essa “contribuisce a rafforzare la sicurezza di un importante alleato non Nato che continua a essere un importante partner strategico nel Medio Oriente”.Dopo il colpo di Stato che nel 2013 rovesciò il presidente eletto Mohamed Morsi, morto d’infarto nel 2019 durante un’udienza del processo a suo carico, il regime del generale al Sisi ha condotto una vasta persecuzione dei dissidenti e, in particolare, di esponenti della Fratellanza musulmana, uccidendo, imprigionando, torturando migliaia di persone, fra cui molti integralisti islamici, ma anche attivisti protagonisti della Primavera araba del 2011, l’insurrezione popolare che rovesciò Hosni Mubarak.

Nell’aprile del 2017, dopo un sanguinoso attentato contro una chiesa copta e attacchi anti-copti che fecero oltre cento vittime e centinaia di feriti, l’Egitto proclamò lo stato di emergenza, autorizzando, per i sospetti dio terrorismo, arresti senza mandati, procedure giudiziarie abbreviate e la creazione di corti speciali.

Da allora, lo stato d’emergenza è stato rinnovato a più riprese, finché, in ottobre, allo scadere dell’ultima estensione, il presidente Abdel Fattah al-Sisi annunciò che non sarebbe più stato prorogato. Proprio la proclamazione dello stato d’emergenza fu una delle cause che indusse, nel 2017, l’Amministrazione Trump a bloccare aiuti all’Egitto per 96 milioni e a congelarne altri per 195, contestando al Cairo, oltre che il mancato rispetto dei diritti umani, anche un eccesso di vicinanza alla Corea del Nord; a quell’epoca, Trump non aveva ancora rivalutato il dittatore nordcoreano Kim Jong-un al rango d’interlocutore. La mossa di Trump suscitò sorpresa: pochi mesi prima, il magnate presidente aveva riservato un’accoglienza calorosa alla Casa Bianca al generale al-Sisi, senza neppure sollevare, nei colloqui, il tema dei diritti umani. Del resto, l’autoritario leader egiziano appartiene alla genia d’uomini forti che a Trump tendenzialmente piace. L’atteggiamento degli Usa verso l’Egitto resta venato d’ambiguità: Washington desidera continuare a cooperare con il Cairo, che ritiene un alleato chiave e un cardine per la sicurezza della Regione.

Mail Box

 

Fanno di tutto per farci vergognare dell’Italia

Sono contento di essere italiano: di vedere che la nostra brava polizia, malpagata anche con le mie tasse, pestare con lodevole vigore i nostri studenti che protestano per ottimi motivi (finalmente); di sentire che un certo signor Amato è candidabile al Quirinale, dimenticando che è stato capace di prelevare qualche soldo dai conticini di risparmio delle mie due figlie; di apprendere che la signora Casellati sembrerebbe trombata nonostante le ampie dimostrazioni di assoluta mancanza di cultura etica; di sapere che i futuri benefici fiscali andranno alla classe media e alta, chi se ne frega dei poveracci che lavorano pure; di avere norme chiare a proposito del Covid; di pagare le tasse anche per chi non le paga; di avere ancora, che il Padreterno ci guardi, il Festival di Sanremo. Ah, dimenticavo: la pensione è sempre più striminzita.

Rodolfo Clini

 

Giannini e compagnia a spingere per Draghi

Sono cinque giorni consecutivi che Giannini è ospite fisso da Gruber, a perorare la causa Draghi al Quirinale. I giornaloni e trombettieri ritornano, tutti in campo.

Massimo Giorgi

Non sono bastati.

M. Trav.

 

Sul Quirinale, Mattarella era stato molto chiaro

Mattarella ha manifestato in più occasioni, e senza dubbio alcuno, la sua indisponibilità a essere confermato nella carica di presidente della Repubblica. Nonostante questo, adesso il suo nome raccoglie numerosi voti nelle elezioni attualmente in corso per la nomina del nuovo capo dello Stato. Chi lo vota vorrebbe pertanto violentare la sua volontà, costringendolo a fare il presidente della Repubblica anche se lui ha chiaramente fatto capire che vuole ritirarsi a vita privata. A me questo comportamento sembra offensivo e del tutto irriguardoso dei desideri di Mattarella, in quanto lo si vuole costringere a fare qualcosa che senza dubbio alcuno lui non desidera fare.

Pietro Volpi

Temo che non sia stato necessario violentarlo.

M. Trav.

 

Sbaglia chi paragona Belloni al russo Putin

C’è chi trova sconveniente che una persona che è stata addetta ai Servizi segreti assuma la funzione di capo dello Stato. La cosa spiace a chi trova analogie tra la carriera di Elisabetta Belloni e quella di Vladimir Putin. Eppure anche nel libero e democratico Occidente può capitare che un umo dei servizi segreti sia scelto per governare una nazione: George Bush padre aveva diretto la Cia, prima di diventare presidente degli Stati Uniti. Peraltro anche Sergio Mattarella, in qualità di vicepresidente del Consiglio dei Ministri nel governo retto da Massimo D’Alema, aveva avuto la delega ai servizi segreti in un momento particolarmente delicato: quando cioè l’Italia partecipava all’intervento militare della Nato in Jugoslavia; per i suoi meriti speciali, è poi diventato ministro della Difesa in un secondo governo D’Alema. Tutto questo, insomma, lo rende consapevole delle operazioni belliche spacciate per intervento umanitari.

Guido Bernasconi

 

L’ascolto di Händel in questi tempi oscuri

Georg Friedrich Händel compose Il trionfo del tempo e del disinganno nel 1707 su libretto del cardinale Benedetto Pamphilj. L’oratorio propone ora il famoso brano del piacere Lascia la spina cogli la rosa. Che entrambi avessero pensato a Casellati candidata al Quirinale? Il dramma è che in seguito Händel cambiò l’oratorio, anche in inglese, in Il trionfo del tempo e della verità. Niente da dire sul “Tempo”, rappresentato da Casini presente in Parlamento dalle invasioni barbariche, ma decisamente inadatto alla politica italiana nella seconda parte del titolo, “Trionfo della verità”. Non è un caso che si apprezzi di più Lascia ch’io pianga mia cruda sorte, e che sospiri la libertà.

Luciano Murgia

La “Memoria” di cos’è la vera politica

“Perché i cani e gli ebrei non possono entrare, babbo?”.

Dal film: “La vita è bella”

 

Nelle scuole italiane, lo scorso 27 gennaio, là dove il virus lo ha reso possibile, si è parlato del Giorno della Memoria per ricordare le vittime dell’Olocausto. Ma forse non si è riflettuto abbastanza sull’origine di un giorno così particolare. Poiché questa ricorrenza non è qualcosa che c’è sempre stato, una data acquisita sul calendario, incastrata tra le feste pubbliche e quelle religiose. Non è un appuntamento con la storia come ce ne sono tanti. No, perché senza la sensibilità, la determinazione, la volontà di Furio Colombo forse non avremmo avuto la legge n. 211 che il 20 luglio del 2000 istituì questa Giornata, “per ricordare lo sterminio del popolo ebraico, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. Quando si ascolta dal racconto di Furio come fu che quella legge passò con l’unanimità della Camera e del Senato, si ripercorrono cinque lunghi anni di colloqui, incontri, trattative, inciampi e rinvii. Con i parlamentari di An e Forza Italia che appena si parlava di antifascismo replicavano: “Sì, ma il fascismo ha fatto anche cose buone”. Senza contare l’obiezione immancabile: sì, ma se ricordiamo il fascismo dobbiamo anche ricordare i gulag e le foibe… Certo, rispondeva pazientemente il deputato Colombo, se fossi stato russo, o un cittadino dell’ex Jugoslavia lo avrei fatto, ma io sono italiano ed è nel nostro Paese che sono state approvate le leggi razziali. Poi, alla fine, ecco che, miracolosamente, la destra, la sinistra e il centro si mettono d’accordo avendo finalmente maturato la politica ciò che era già insito nella coscienza civile della Repubblica nata dalla Resistenza. Spesso non è facile spiegare ai ragazzi come mai ci furono tempi nei quali dei bravi padri di famiglia appendevano fuori dei loro negozi il divieto di ingresso a cani ed ebrei. Per non parlare dell’infame espulsione degli scolari e degli studenti ebrei dalle scuole e dalle università del Regno. Sarebbe dunque cosa buona e giusta se, accanto a questa memoria, ce ne fosse un’altra che spiegasse alle nuove generazioni il valore supremo della democrazia quando è confronto e anche contrasto delle idee. Di quella goccia che scava la pietra attraverso la riflessione che si fa discorso pubblico. E che, giorno dopo giorno, dopo milleottocento giorni porta a una decisione comune e condivisa. Una straordinaria lezione che esalta la funzione del Parlamento in tempi nei quali la “politica” non gode certo di grande favori. Quella volta, infatti, fu il lavoro di un solo deputato, dell’onorevole Furio Colombo, a rimuovere pregiudizi e indifferenza. Che se ne conservi memoria.

 

Le Alpi sono asciutte ma a Milano cade molta “neve chimica”

In Italia – Siamo rimasti al margine della burrasca invernale “Elpis” che ha sepolto di neve Grecia e Turchia, ma correnti fredde da Nord-Est hanno comunque insistito al Sud, specie in Sicilia, dove la neve è caduta in collina e le temperature sono scese a livelli insolitamente bassi: mercoledì 26 gennaio minima di -3,0 °C all’aeroporto di Catania, non lontano dai record di -4,0 °C del febbraio 1962 e gennaio 1966. Un vasto anticiclone sull’Europa centrale ha continuato a sbarrare la strada alle perturbazioni atlantiche, così nell’aria ferma della Valpadana inversioni termiche, nebbie e inquinamento hanno avuto vita facile. Per molti giorni le pianure lungo il Po non hanno praticamente visto il sole, e intorno a Torino e Milano è apparso il fenomeno impropriamente detto “neve chimica” (più corretto il termine “nebbia congelante precipitante”), leggera nevicata che si origina nello strato nebbioso sotto 0 °C con l’aiuto di miliardi di particelle inquinanti che fungono da nuclei di congelamento per il vapore acqueo dell’aria. Ben diversa l’atmosfera sulle Alpi scarsamente innevate: serena, asciutta e tiepida. Venerdì il foehn ha finalmente rimescolato l’aria su parte delle pianure del Nord, rimuovendo le nebbie ma facendo balzare i termometri a 18 °C a Susa e a 17 °C a Milano. Domani correnti fredde scandinave raggiungeranno il Centro-Sud con rovesci e neve a 500 metri, saltando nuovamente le regioni settentrionali, dove la siccità prosegue. Arpa Piemonte segnala che la portata media mensile del Po nell’Alessandrino è stata di circa 170 metri cubi al secondo, metà del normale: di recente, peggio di così in gennaio andò solo nel 2002 e 2016, e per altri dieci giorni non sono in vista precipitazioni.

Nel mondo – Da settimane aria gelida continua a scorrere dalla Scandinavia, ai Balcani, al Medioriente. Nevicate di rara abbondanza – anche più di 30 cm – hanno paralizzato Atene e Istanbul, città poco preparate a episodi che pure ogni tanto avvengono (memorabili furono rispettivamente quelli del 2008 e 1983), ma la neve ha copiosamente imbiancato pure Creta, Mykonos, Santorini, nonché Amman e Gerusalemme, e sui rilievi del Montenegro una temperatura di -33,4 °C a quota 1.300 m rappresenta probabilmente un minimo storico nazionale. Dopo un dicembre eccezionalmente caldo, l’inverno si è affermato anche negli Stati Uniti, dove un “Nor’easter” (tempesta da Nord-Est) sta portando bufere di neve a Boston, New York e Filadelfia. D’altronde il riscaldamento globale non esclude che da qualche parte, ogni tanto, faccia freddo e nevichi, sebbene più raramente di un tempo. L’epocale ondata di caldo in Sud America, dopo aver prodotto una raffica di record e valori prossimi a 46 °C ancora negli ultimi giorni in Paraguay, ora si concentra verso la Patagonia con punte di 38 °C. La tempesta tropicale “Ana” dall’Oceano Indiano ha investito Madagascar, Mozambico e Malawi con piogge alluvionali che hanno fatto almeno 77 vittime, e adesso il ciclone “Batsirai” minaccia le Mauritius e la Réunion. Gennaio 2022 è stato assai meno freddo del dovuto nell’Artico, anche oltre 10 °C sopra norma, e la banchisa è vicina ai minimi storici di estensione per il periodo. Ghiaccio marino, correnti oceaniche e atmosferiche, permafrost, ecosistemi… sono tutti elementi in rapida e radicale trasformazione, come descrive l’americano Mark C. Serreze nel libro Caldo. Breve storia dello scioglimento dell’Artico, edito da Luiss University Press (scioglimento è errata traduzione dell’inglese “melting”, fusione, che identifica il passaggio di stato da solido a liquido). Geografo e direttore dell’autorevole National Snow and Ice Data Center di Boulder, Colorado, Serreze racconta come gli scienziati nell’ultimo trentennio abbiano studiato e compreso con crescente preoccupazione la febbre del Polo Nord.

 

Poca fede. La folla invoca gli effetti speciali e un Messia “addomesticato”

Gesù era tornato a Nazaret, dove era cresciuto. La sua fama aveva cominciato a diffondersi. Adesso è nella Sinagoga. È sabato. Si alza a leggere. Sceglie un brano del profeta Isaìa dove è scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”. Sappiamo dall’evangelista Luca che c’era suspense alla fine della lettura: gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Si siede e dice: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Quell’uomo misterioso, il Messia, è lui.

Quale la reazione dell’assemblea? Tutti erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca. Ma ecco che subito la gente sembra svegliarsi da un colpo di sonno, e chiedersi: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”. Com’è possibile che una missione così straordinaria sia affidata al mio vicino di casa? Com’è possibile che il Messia abbia il volto del figlio di un artigiano che conosciamo tutti? Lo stereotipo e il pregiudizio si impongono. Il Messia dovrebbe essere misterioso, potentissimo, distaccato, con un tocco di fascino esotico, magari. E invece no. Gesù sente che cosa dice la gente e risponde: “Certamente voi mi citerete questo proverbio: ‘Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!’”. Gesù capisce bene e usa l’ironia: il pubblico vuole gli effetti speciali. Peggio: vuole “addomesticare” Gesù e chiedergli di fare prodigi a comando. I miracoli che aveva fatto in giro, dei quali era giunta la fama anche nella sua patria, doveva compierli anche lì, a Nazaret! Le guarigioni doveva farle a casa sua! Così tutti sarebbero rimasti colpiti e avrebbero battuto le mani.

Gesù reagisce. Aggiunge: “In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”, certificando così il rifiuto dei suoi concittadini. Ma non basta: approfondisce il concetto ricordando due storie del passato che fanno vedere l’azione di Dio a favore di due persone straniere. Infatti, c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, ma il profeta fu inviato con farina e olio solo a una vedova a Sarèpta di Sidòne, cioè a una straniera. E così c’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu guarito, se non Naamàn, il Siro: uno straniero appunto. Dio è un medico che non cura sé stesso. Per Dio non esiste lo straniero contrapposto al connazionale. Con lui non funzionano le limitazioni dei clan, le rivendicazioni dei “nostri” contro i “loro”. E con Dio non si gioca a Monopoli.

La suspense seguita dall’ammirazione si trasforma in rabbia: all’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Gesù è seduto. Tutti sono seduti. Ma la tensione esplode. Uno scatto: tutti si alzano. Si avventano contro Gesù cacciandolo fuori della città. Gesù deve star fuori, avendo rigettato la logica identitaria e nazionalista. E così lo spinsero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Non solo deve stare fuori, dunque, ma deve proprio essere buttato di sotto.

Gesù tiene un aplomb perfetto. Si lascia spingere, ma poi senza scomporsi —nota Luca —passando in mezzo a loro, si mise in cammino. Non fugge, non scappa da coloro che lo minacciano, e che però non sanno farlo fuori. E noi lo guardiamo così, mentre passa in mezzo a loro, camminando. Semplicemente.

*Direttore de “La Civiltà Cattolica”

 

Da B. a Trump, la forza oscura dei complici

Dopo eventi grandi e dolorosi provocati da persone contro persone, ci si dedica di solito ai personaggi ritenuti capaci di aver pensato e realizzato l’evento, come è accaduto nella identificazione e nel processo di Eichmann, l’organizzatore e il pianificatore della Shoah: certo non il solo, ma rilevante abbastanza per farne un simbolo. È un fatto importante e anzi inevitabile, non alla maniera della responsabilità individuale del diritto penale, ma nel senso più vasto della responsabilità spontaneamente assunta (o coperta dalla falsa necessità degli ordini la cui osservanza ti garantisce di restare nella parte “giusta” del momento).

L’Italia tesa e nevrotica di certe fasi del dopoguerra ha sperimentato accuse, incriminazioni, processi e condanne che per anni hanno continuato a oscillare a carico di parti diverse della storia, spesso opposte, creando file di colpevoli bloccate, se possibile, da sentenze definitive e infondate (come quella della strage del treno di Bologna, che ingenera un atto di fede nei sopravvissuti e nei familiari delle vittime, ma mette al riparo la vera forza lavoro dei grandi delitti politici, la rete di complicità, che non si saprà mai quanto è profonda e quanto si estende).

Non si è mai tentata una definizione della complicità, l’immensa palude umana in cui sono immersi delitti come l’arrivo al potere di Hitler, l’incarico di formare il governo del re d’Italia a Mussolini, la fitta serie di delitti che segnano i due regimi, e poi il lungo corridoio di morte delle persecuzioni razziali e di una guerra ignobile, con milioni di morti, senza una ragione, non sul momento, non nella storia. Abbiamo chiuso i faldoni con pochi nomi di colpevoli in copertina, fieri di esserci liberati del peso della storia, mentre tutti gli altri colpevoli, rimasti fuori dal faldone, applaudivano e raccontavano la loro virtuosa estraneità al delitto. Eppure, poco prima, le piazze italiane erano stracolme di uomini e donne deliranti. Io ricordo il mio terrore di bambino provato quando l’urlo della piazza gremita è diventato due volte più folle e violento alle parole “dichiarazione di guerra”.

La macchia della complicità rimane: si è estesa sulle democrazie, è cresciuta con la tecnologia e la macchina funziona in modo che ogni nuova inchiesta si infetti subito di false notizie, false informazioni, falsi dettagli. Ero all’Hotel Ambassador di Los Angeles quando è stato ucciso Robert Kennedy, che aveva appena vinto le primarie democratiche per le elezioni presidenziali del 1968. A Memphis (stesso anno, pochi mesi prima) ero stato in grado di filmare e investigare l’intera area del delitto di Martin Luther King (la balconata dell’ultimo piano dell’Hotel Lorraine). Ero certo, e lo sono sempre stato insieme a Coretta King, che l’evento, nella sua apparente semplicità (un proiettile alla testa, in una sera piena di luce, all’aperto) era stato manipolato in modo da presentare un colpevole (James Earl Ray) che non era sul posto e non aveva l’arma, di cui abbiamo chiesto invano per anni la revisione del processo e la liberazione (è poi morto in prigione).

Ma il capolavoro resta il delitto di Dallas, l’evento che ha fatto crollare il nostro mito della giustizia americana e dell’inflessibile capacità d’indagine del leggendario Fbi. Con il passaggio di Trump alla presidenza americana, abbiamo visto il Paese leader arrendersi alla prepotenza, alla violenza ma anche alla volgarità. E un fatto nuovo è emerso: i complici, ovvero la folla che si presta a sostenere il peggio, è invitata a venire allo scoperto, a tentare, a rischiare, in modo che gli eventi peggiori diventino irreversibili . Ora sappiamo che chi ha invaso il Campidoglio americano non ha alcuna ragione o ritegno per non rifarlo. Restano sommerse le ragioni della volontà di apparire peggiori e la persuasione di non avere alcuna reputazione da salvare, ma è evidente la certezza di avere un buon numero di complici fidati che, quando necessario, sosterranno il cattivo governo fino al punto da raccomandarlo come l’unica strada.

Berlusconi, quando ha licenziato in modo illegale e brutale il più grande giornalista del suo tempo, Enzo Biagi, ha avuto legioni di complici che hanno isolato Biagi e plaudito a Berlusconi.

Come vedete si può fare. Lo hanno fatto. Lo faranno.