Il disprezzo per le donne nella prosa di Feltri & C.

L’uso, anzi l’abuso politico, e morale e personale cui è stata sottoposta Silvia Romano al suo rientro in Italia ha come immediata spiegazione il disprezzo e l’oltraggio di chi è solito disprezzare e oltraggiare la femmina in quanto creatura limitata e scervellata. Reazioni incontrollate come nella teoria di Pavlov la salivazione del cane davanti a un osso succulento. Poi, se si riesce a fare a pezzi la credibilità di Conte e Di Maio, colpevoli non di aver salvato una giovane vita umana ma di aver pagato i terroristi islamici per ottenere in cambio una vispa teresa, islamica e magari pure ingravidata, beh è tutto odio che cola.

Questa volta non è la destra di partito ad essere andata sopra le righe. Matteo Salvini che si limita a criticare il governo “che doveva tenere il profilo basso”, preoccupato soltanto dai sondaggi favorevoli al premier. Da sottoscrivere il commento di Giorgia Meloni che, contenta per la “bella notizia”, spera che “il governo si prodighi per andare a stanare i suoi carcerieri e rapitori, per dare il segnale che non è affatto un buon affare rapire un’Italiana”. Per tornare al cane di Pavlov, ieri mattina ascoltando la consueta rassegna stampa di Radio Radicale

, avevamo come l’impressione che la brava Flavia Fratello avesse qualche difficoltà a leggere alcuni titoli e articoli. Infatti, a parte La Verità

che sulla linea dello sputtanamento perpetuo di Conte e Di Maio scrive di “uno spot e di un dono ai terroristi islamici”, la prosa dei coltelli fratelli, Libero

(“Abbiamo liberato un’islamica”), e Il Giornale

(“Islamica e felice Silvia l’ingrata”) equivaleva un gargarismo di lamette. Colpiva soprattutto il parallelismo di Alessandro Sallusti tra la Silvia velata e un internato nei campi tedeschi “che tornasse a casa indossando orgogliosamente la divisa nazista”. Ma è stato quando lui e Vittorio Feltri si sono detti “felici” per il ritorno della giovane volontaria che c’è sembrato veramente superato ogni limite.

Musei-bigiotteria, il falso mito

Da almeno vent’anni non si fa che discorrere di “museo come impresa”. Si è diffusa la favola di musei che si auto-sostengono grazie a introiti di biglietteria e bigiotteria, attirano investimenti produttivi, prosperano sul mercato rendendo superfluo ogni finanziamento pubblico.

Si esaltano i musei americani, dimenticando che lì i privati non investono ma fanno donazioni, premiate da cospicue esenzioni fiscali. Sotto l’assalto del virus, questa rozza mitologia all’italiana va in briciole e la fragilità dei bilanci museali viene allo scoperto. È dunque il momento di ricordarci che il museo pubblico come istituzione è un’invenzione assai recente (il primo caso al mondo sono i Musei Capitolini, fondati nel 1734 da Clemente XII). E che tutto ciò che ha una data di nascita ha anche una data di scadenza. Anche l’istituzione-museo può morire.

Per ora i nostri musei potranno aprire solo con precauzioni eccezionali e per un pubblico ridotto e guardingo. Un rapporto della Rete delle istituzioni museali europee (NEMO, Network of European Museum Organisations) consente uno sguardo d’insieme sugli effetti del CoViD-19. Dei 650 musei considerati, distribuiti in 41 Paesi, il 92% sono chiusi, ma nei pochi rimasti aperti il numero dei visitatori è cresciuto. I musei delle zone più turistizzate registrano un drammatico crollo degli introiti. Hanno chiuso tutte le mostre temporanee in corso, e si è sospesa la programmazione di quelle previste fino a un bel pezzo del 2021. Sono fermi molti progetti a lungo termine sulle collezioni permanenti, la manutenzione e aggiornamento delle architetture, le nuove infrastrutture. Il personale temporaneo è a rischio, i programmi gestiti da volontari sono sospesi. L’80% dello staff stabile svolge da casa una parte del lavoro, ma il limitato accesso alle collezioni incide negativamente sulla qualità della ricerca. In metà dei Paesi considerati è previsto un contributo pubblico straordinario per arginare l’emergenza, negli altri nulla. Il 70% dei musei si sono concentrati sulla presenza online e nei social, ma impegnandovi solo risorse esistenti, senza nuovi investimenti né staff dedicato; forte comunque la risposta del pubblico online, che in alcuni musei è cresciuto fino al 500%.

Per dirla in due parole: l’assenza, anche per pochi mesi, degli introiti di biglietteria genera una crisi fortissima anche nei musei più grandi e importanti. Da ogni parte si levano grida di disperazione: questo è a tutti gli effetti, ha detto il direttore di un grande museo, “un bagno di sangue”. Come lo si affronterà, secondo strategie diverse di Paese in Paese, vedremo. Ma è il caso di richiamare alcuni valori e problemi di fondo, che non sono polverose pignolerie d’archivio, anzi dovrebbero orientare l’analisi politica oggi e le azioni di rimedio domani.

Se oggi la caduta degli introiti mette in ginocchio un museo non ne siamo né sorpresi né scandalizzati. Lo consideriamo anzi normale, tanto è radicato il mito del museo-impresa che di introiti vive, puntando su caterve di turisti ed effimeri eventi blockbuster. Abbiamo dunque dimenticato un dato indubitabile di storia istituzionale: le collezioni museali non sono nate per vivere dei propri introiti. Altre crisi (pestilenze, guerre, disastri naturali) non ne hanno mai messo in dubbio, come oggi, la stessa esistenza. La più gran parte dei nostri musei nascono da collezioni sovrane (i papi, i re di Napoli e di Sardegna, il granduca di Toscana, i duchi di Modena e di Parma…), create e alimentate come poderosi status symbol in una competizione di orizzonte europeo che proprio in Italia ebbe la sua origine. O da collezioni private di ecclesiastici, eruditi, nobili, ricchi borghesi…., trasmesse di generazione in generazione e di famiglia in famiglia. Per secoli, a nessuno venne in mente che quelle raccolte dovessero essere (come si dice oggi, ma non si diceva allora) “aperte al pubblico”. Vi accedevano pochi privilegiati di alto rango, o anche artisti ed eruditi con le debite entrature. Quando nacquero i Musei Capitolini nel 1734 non c’era a Parigi nessun museo pubblico, e il British Museum sorse a Londra nel 1759 con raccolte insignificanti. Il passaggio dalle collezioni sovrane o private al museo pubblico fu l’effetto di un doppio processo: da un lato l’idea che la frequentazione delle opere d’arte avesse effetti benefici sulle manifatture e più in generale sulla cultura, dall’altro – dopo la Rivoluzione francese – il trasferimento della sovranità dal Re al popolo, che diventava l’erede del sovrano spodestato o affiancato dai Parlamenti. Nella stessa Roma il primo museo fu legato al Campidoglio, luogo di governo della città, e le enormi collezioni sovrane dei Papi al Vaticano cominciarono ad aprirsi al pubblico solo nel 1771. Comuni e Province, dopo l’Unità d’Italia, divennero i principali luoghi di aggregazione, accogliendo opere d’arte da enti ecclesiastici soppressi o famiglie locali di buon censo.

Nei governi e nei Parlamenti sempre si discusse e si combatté sul se, e come, e quanto lo Stato dovesse spendere per i musei, ma a nessuno venne mai in mente di subordinarne la stessa esistenza alla capacità di autofinanziarsi con un frenetico mostrismo e un numero sempre più alto di visitatori. Quando armate di invasori (i francesi a fine Settecento, i tedeschi nella Seconda guerra mondiale) depredarono i nostri musei, chi combatté per le restituzioni (per dire, Canova dopo il 1815) non lo fece in nome del museo-impresa, ma di un generale beneficio dei cittadini. Per questo, e non per amor di cassa, eroici Soprintendenti nascosero migliaia di opere d’arte durante la guerra sottraendole a bombe e razzie. Per questo, e non perché pensassero a sbigliettare, i Costituenti scolpirono tra i principi fondamentali dello Stato l’art. 9 (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”).

Fronteggiamo oggi un’eccezionale emergenza, e ogni idea per uscirne è benvenuta (anche usare i musei come aule scolastiche, come ha proposto in queste pagine Tomaso Montanari). Ma nulla salverà l’istituzione-museo da un fatale declino, che proprio come il virus ucciderà per primi i più deboli (i musei piccoli), se non sapremo gettare sul tavolo una domanda più radicale: a che cosa “serve” il museo del futuro? Dobbiamo investirvi in vista di un ritorno economico, o di un più vasto e vario beneficio della nostra comunità? Il “modello Italia” della tutela ha messo a punto nel corso dei secoli tre caratteristiche essenziali: la concezione del patrimonio culturale come un insieme organico legato al territorio e ai paesaggi; l’idea che il patrimonio nel suo complesso alimenta la coscienza civile, la solidarietà sociale e il concreto impegno produttivo dei cittadini; infine, la centralità del patrimonio artistico (non meno dell’istruzione, della sanità e della ricerca) nelle strategie di gestione dello Stato. Principi e temi, questi, che oggi più che mai dovrebbero ispirare non solo il governo, ma noi tutti. Tutti saremo infatti corresponsabili del disastro, se non riusciremo a provocare una riflessione istituzionale, un’inversione di tendenza.

AstroLinda: “Altro che stelle, al massimo esco per il pane”

Assolutamente serafica, senza grilli (o stelle) per la testa. Ma chiusa “diligentemente” in casa da fine febbraio. Lei è Linda Raimondo, un futuro da astronauta, un recente passato da scrittrice di libri per ragazzi.

Una come lei chiusa in casa…

Per fortuna vivo in campagna.

Usa la zappa?

No, mai! Mi piazzo sotto l’albero e studio.

Neanche una vanga?

Al massimo seguo le galline.

Cosa studia?

Fisica, adesso che sono ferma cerco di recuperare.

Si allena?

(Momento di incertezza) Qualche volta.

Appena?

(Ride) Non ne ho tanta voglia, questa situazione mi ha impigrita.

Vede film?

Neanche, mi annoiano.

È una tragedia.

Il problema è che ci provo, però mi addormento subito, quindi non arrivo mai al finale.

Legge?

Quasi solo libri scientifici.

Tipo?

Amo i testi scritti da Margherita Hack; (ci pensa) ogni tanto affronto pure dei romanzi.

Addirittura.

22/11/63 di Stephen King mi è piaciuto molto.

Esce?

Dal 24 febbraio appena tre volte, e in paese, solo per andare a comperare il pane.

E il “domani”?

Rivedere gli amici, mi mancano troppo.

Nel frattempo, dorme?

Mica tanto, ho il gatto che mi sveglia sempre all’alba.

Qui scatta l’amarezza.

Eh, un po’.

Bentornata Aisha: perdona la nostra destra peggiore

Se Dio è morto, come scriveva Guccini e cantavano i Nomadi, anche l’umanità non sta messa bene. Basta leggere buona parte dei commenti sui social riguardanti Silvia Romano, per capire che gli alieni esistono ma ci schifano. Giustamente. Un branco di disagiati neuronali all’ultimo stadio, che se fosse sequestrato se la farebbe sotto dopo due minuti, sta vomitando insulti della peggior fattura. Uomini e donne di smisurata ignoranza, e ancor più smisurata demenza, si improvvisano esperti di terrorismo, intelligence e sindrome di Stoccolma. Tutta gente che andrebbe sbattuta in galera per un bel po’, così magari la prossima volta ci pensa prima di augurare la morte a chi, la morte, l’ha appena scampata dopo 18 mesi di calvario.

Purtroppo tale discesa negli inferi morali non è appannaggio unicamente dell’hater medio, di per sé sottosviluppato, ma alligna anche in molta destra nostrana. Si sa che l’arteriosclerosi colpisce duramente, e se ci aggiungi pure un mix di alcol, cattiveria e qualunquismo, allora il cocktail diventa oltremodo mefitico. Breve miscellanea. Vittorio Feltri: “Siamo tutti contenti della liberazione di Silvia Romano. Lo saremmo di più se ci dicessero quanto s’è dovuto pagare di riscatto. Pagare il riscatto per Silvia significa finanziare i terroristi islamici. Che sono amici della ragazza diventata musulmana. Bella operazione”. A Littorio “Ginger Ale” Feltri basterebbe rispondere che il riscatto sarà probabilmente costato molto meno di quel che spende lui in shottini, e in ogni caso resta l’esortazione affettuosa di sempre: “Daje col vino Vitto’”!

Alessandro Sallusti: “Silvia è tornata, bene ma è stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai”. E in quel “non capisco” – gli va riconosciuto – c’è tutta la coraggiosa ammissione di quello stato esistenziale che da sempre caratterizza il direttore del Giornale: non capire. Maurizio Gasparri, col consueto sguardo da cernia depressa, da Giletti ha parlato sdegnato di un possibile riscatto di 4 milioni. E se l’ha detto lui, c’è da fidarsi di sicuro. Non potevano mancare le spoglie mortali di Vittorio Sgarbi, il cui calvario fisico-morale non smette di divertire grandi e piccini: “Se mafia e terrorismo sono analoghi, e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all’Islam, va arrestata (in Italia è comunque agli arresti domiciliari) per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi”. La speranza è che qualcuno arresti una volta per tutte lui: così, per reiterato vilipendio al livello minimo di cazzate.

Epocali anche i titoli di lunedì di Libero (“Abbiamo liberato un’islamica”) e Giornale (“Islamica e felice. Silvia l’ingrata”). Roba che, se l’Ordine dei giornalisti avesse realmente un potere, a quest’ora invaderebbe la Polonia dalla rabbia. Se a queste beccacce volessimo rispondere nel merito, e cioè sui contenuti, basterebbe citare Andrea Purgatori: “Abbiamo la squadra operativa che si occupa di ostaggi migliore del mondo. E quando altri Paesi dicono che non trattano, sono bugiardi perché lo fanno o si rivolgono a noi perché non sanno dove e con chi trattare. In Iraq è successo 15 volte. E se è questione di aiutare i terroristi, l’abbiamo già fatto anche per Piazza Fontana, Brescia e l’Italicus. Tanto per dire”. Ma sarebbe tempo perso, perché certa gente i contenuti non li ha proprio. Basti quindi dire due cose, le sole che contano. 1) Abbiamo uno dei peggiori centrodestra del mondo. 2) Bentornata, Aisha.

Stato e cittadini sono avversari (e il covid lo sa)

La politica italiana è piena di piaghe invitanti per un dito molesto che voglia intrufolarsi: quindi per un virus importuno e ficcanaso, la piaga purulenta del rapporto tra Stato e cittadini è stata una specie d’invito a nozze. In questi giorni si è sentito parlare di deriva autoritaria; lo spettro dei pieni poteri che dalla scorsa estate aleggia su di noi è stato di nuovo chiamato in causa; alcuni più prosaicamente hanno lamentato il sequestro delle proprie libertà personali. Io, personalmente, ritengo che l’idea che il governo se ne stia appostato dietro al Covid, puntando a fargli fare da battistrada verso i pieni poteri, sia una falsa pista, e che finisca per distrarre dal vero nodo della questione.

Il tema non è l’autoritarismo in agguato ma la sfiducia: quella sfiducia ostinata che nel nostro Paese cittadini e istituzioni nutrono gli uni verso le altre, e che non può che rendere irrisolto e meccanico un rapporto che per sua natura vorrebbe essere fiduciario. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un carnevale politico, in cui le istituzioni hanno sfilato sul carro dei cittadini, mascherate da dissidenti, nel tentativo di non farsi riconoscere: il ministro della porta accanto, il leader politico che è “uno come noi”, il cittadino comune al potere. La diretta facebook ha sostituito la conferenza stampa o l’intervista, e i politici hanno pensato, parlando con gli elettori dalla camera da letto o da sotto l’ombrellone, di averne vinto i sospetti e di esserseli fatti amici. Ma che quei gradi di separazione, o sfiducia che dir si voglia, che dividono cittadini e istituzioni, siano ancora tutti lì è apparso evidente non appena è arrivato il virus, che infatti su quella reciproca diffidenza si è subito avventato. Innanzitutto ha smantellato la mistica della politica acqua e sapone, facendo tornare in auge la figura dell’uomo di governo che si assume la responsabilità di guidare i cittadini, perché ne sa più di loro. Che a potenziare le terapie intensive o a convincere l’Europa ad allargare i cordoni della borsa, ci sia il ministro in ciabatte della porta accanto non va a genio a nessuno. Anzi l’auspicio è che la politica sappia dove mettere le mani, e non assomigli a noi che siamo incerti e disorientati. Non vogliamo un amico, vogliamo un governo. Il Covid ha reso chiara anche l’altra faccia di questa sfiducia incrociata: le istituzioni non si fidano dei cittadini. In Italia s’intende. E a questo va attribuito un Dpcm tanto didascalico nei divieti e nelle raccomandazioni da risultare pedante: l’utilizzo ricorrente di verbi come “permettere” e “consentire” non è l’indizio linguistico di velleità dittatoriali né la rivendicazione di una requisizione delle libertà individuali: si tratta invece del campo semantico in cui trova spazio lo scetticismo di un padre nei confronti di un figlio ancora troppo immaturo. È dunque giusto dire che il presidente del Consiglio ha utilizzato un tono paternalista, ma ricondurre la cosa all’indole autoritaria di Conte è una lettura decisamente miope della questione.

Lo Stato italiano non si fida dei propri cittadini, cosiccome i cittadini non si fidano dello Stato. E in questa reciprocità risiede il segreto della longevità di questo antico dis-accordo: ciascuno, dando per scontata a volte la malafede a volte l’inadeguatezza dell’altro, si organizza per cercare d’imbrogliarlo, convinto che si tratti di legittima difesa. Imposizione ed evasione delle tasse in Italia sono i passi alternati di una stessa coreografia, in cui i movimenti dell’uno esistono solo in funzione di quelli dell’altro. E lo stesso vale per abusi e condoni edilizi. Fatta la legge trovato l’inganno, e in base all’inganno fatta la legge successiva: in Italia lo Stato e i cittadini non sono alleati, sono ontologicamente avversari. È un copione che si ripete, e non c’è nessuna anomalia nel fatto che il premier abbia rispettato la tradizione. In stato di eccezione permettersi un’eccezione ulteriore sarebbe parso eccessivo.

Plusvalenze latenti, è ora di tassarle

Quando si parla di imposizione sul patrimonio un brivido scorre lungo la schiena degli italiani. Le ragioni sono varie: si va dall’idea che si tratti di ricchezza già tassata a quella, più prosaica, che sottrarsi al prelievo è obiettivamente più difficile (almeno per certe categorie di contribuenti) di quanto non lo sia quello sul reddito.

Se il secondo aspetto non merita attenzione, il primo ha un certo fondamento: è intuitivo che le somme depositate su un conto corrente possano derivare in tutto o in parte dalla patrimonializzazione di redditi già tassati e che, dunque, ci sia avversione all’idea che la stessa capacità contributiva sia soggetta a un ulteriore onere tributario. È in un certo senso la stessa critica che viene rivolta all’imposta di successione, anche se in questo caso il prelievo avviene nei confronti di soggetti diversi, ossia colui che l’ha creata e i suoi eredi. È però indubbio che vi sono due macroaree di intervento statale che richiedono immense risorse: la ricostruzione del Paese, da un lato, e la riduzione della scandalosa diseguaglianza tra la parte più ricca, il famoso 1 per cento, e quella più povera della popolazione, dall’altro; ed è altrettanto indubbio che tale storico sforzo dovrà essere finanziato con modalità innovative che non siano quella, miope, di aggravare ancora di più il peso del Fisco sui redditi dei lavoratori e delle imprese oppure quella, criminale, di introdurre un ennesimo condono.

Una via finora poco battuta, ma ampiamente discussa negli Stati Uniti dove ha trovato il sostegno di autorevoli economisti, è quella di considerare, come indice di contribuzione, le plusvalenze latenti, ovvero il delta tra quanto il contribuente abbia speso per acquistare, costruire e migliorare determinati beni e il loro valore commerciale al momento dell’applicazione dell’imposta. È noto che le plusvalenze sono già tassate in Italia. Ma ciò avviene solo al momento della loro monetizzazione in conseguenza, tipicamente, della vendita dei beni alle quali si riferiscono. Semplificando al massimo, questo avviene per le plusvalenze da chiunque realizzate in conseguenza della vendita di partecipazioni societarie, titoli mobiliari, fabbricati e terreni, ovvero realizzate da società ed enti per effetto del trasferimento di tutti i beni di proprietà diversi dalle merci. Al di fuori di tali ipotesi di realizzo, o come si è detto prima della monetizzazione, le plusvalenze sono considerate nella loro dimensione latente o potenziale in ipotesi limitatissime. Mi riferisco a quei casi nei quali la legge consente, normalmente per periodi limitati, di “affrancare” il valore di determinati beni corrispondendo un’imposta sostitutiva con un’aliquota sensibilmente inferiore. Per esempio, fino al 30 giugno i possessori di partecipazioni in società non quotate possono, mediante il pagamento di un’imposta dell’11 per cento da calcolarsi sul valore aggiornato di tali partecipazioni, affrancare le plusvalenze latenti ed evitare che esse siano tassate al 26 per cento al momento della loro vendita. Quindi il contribuente decide come comportarsi: è meglio corrispondere oggi l’11 per cento su tutto il valore attuale delle mie partecipazioni o corrispondere il 26 sulla plusvalenza al momento del suo realizzo?

L’ipotesi è quella di tassare le plusvalenze latenti a prescindere dal contribuente. Il tributo in questione – la cui aliquota dovrebbe essere fissata tenendo conto dell’amplissima base imponibile (ipotizzo un valore non superiore al 5 per cento) – avrebbe una serie di vantaggi ma anche delle, a mio avviso risolvibili, difficoltà. Il vantaggio, oltre al gettito, starebbe nel fatto che finalmente verrebbe presa in considerazione agli effetti del riparto delle spese pubbliche l’enorme ricchezza accumulata nei decenni grazie, spesso e volentieri, a posizioni monopolistiche o comunque di rendita: una ricchezza che la tassazione di tipo reddituale è in grado di intercettare in misura episodica e, comunque, assai superficiale, proprio perché la sua emersione è di fatto rimessa a una scelta del contribuente.

La difficoltà sta nell’esigenza di accertare il plusvalore latente a un dato momento storico. È evidente che il problema non si pone, ad esempio, per le partecipazioni in società quotate o per asset che hanno un valore ufficiale tipo l’oro; mentre sarà più problematico per beni quali gli immobili o le partecipazioni in società non quotate. Ma si tratta di ostacoli superabili introducendo criteri ragionevoli che aiutino i contribuenti e il Fisco a convergere su valori condivisi. Il contribuente dovrebbe digerire l’idea di vedersi tassata una ricchezza che non ha depositata sul conto corrente, ma d’altra parte avrebbe il vantaggio, pagando annualmente, di sterilizzare prelievi futuri di entità assai superiore. Quanto alle imprese, l’assoggettamento al nuovo tributo andrebbe a rafforzare quella patrimonializzazione di cui oggi hanno disperatamente bisogno.

Altro che dissuasori: non si fa cultura sulle spalle degli schiavi

Sono un giovane storico dell’arte, dipendente di Ales, la società strumentale del Mibact. Ho appena letto che il direttore generale dei Musei, Antonio Lampis, ha dichiarato che un dissuasore costa meno di un custode e che assumere giovani è costosissimo. Un pensiero atroce, ma in fondo veritiero. Ennesima dimostrazione di come viene valutato il nostro patrimonio culturale.

Prima della pandemia il nostro mestiere consisteva in mansioni relativamente semplici su turni lavorativi faticosi. Indicare bagni e uscite, controllare i biglietti all’entrata, sorvegliare sale museali e accompagnare gruppi di visitatori. Personalmente ho sempre considerato il mio lavoro come una fortuna e riuscivo a ingannare la frustrazione grazie alla consapevolezza di lavorare in un posto splendido. Il 18 maggio dovrebbe essere la data di riapertura dei musei, il tutto senza che siano state date indicazioni precise e con il personale ministeriale anziano e sott’organico.

La nostra società è ancora chiusa in un mutismo prevedibile, sia nei confronti dei lavoratori ancora sotto contratto sia di quelli a cui il contratto è scaduto. Noi unità funzionali alla fruizione del patrimonio culturale italiano, potremmo essere utilizzati in maniera differente da quella di ‘dissuasori che devono pagare l’affitto’: d’altronde l’importanza del mestiere di custode è implicita nel significato stesso del verbo custodire, un concetto complesso che fonde in una tre attività: la vigilanza, l’assistenza e la protezione. Il custode ha cura.

In un mondo che prospetta, almeno nel futuro prossimo, spazi privati sempre più pubblici (nel senso di condivisi virtualmente) e spazi pubblici sempre più privatizzati (in che modo vivremo le nostre piazze, i nostri musei e le nostre chiese?) il problema non è solo la frustrazione del singolo.

Il problema non riguarda solo il declassamento a dissuasore o la rivendicazione del ruolo di custode, o magari riuscire perfino a fare il nostro mestiere, quello dello storico dell’arte o archeologo.

Il problema è quello che tutti noi abbiamo da perdere.

Lettera firmata da un lavoratore che teme rappresaglie

 

Cosa dirle, se non che ha completamente ragione? Finché una politica del patrimonio non partirà dalla dignità dei suoi lavoratori, l’articolo 9 della Costituzione rimarrà inattuato. Perché non si fa cultura sulle spalle degli schiavi: non siamo nell’Egitto dei faraoni. Potrebbe essere questa la volta buona? Potrebbe, ma viste le scelte del governo (riaprire subito le mostre!), dubito che lo sarà.

Tomaso Montanari

Mail box

Grazie al “Fatto Quotidiano” da un infermiere del 118

Vi scrivo questa lettera perché voglio ringraziare ognuno di voi per gli articoli, per come mi avete fatto crescere e conoscere. L’arrivo di Luttazzi è la ciliegina sulla torta già squisita. Grazie, grazie, grazie. Non abbandonatemi.

Riccardo, infermiere del 118

 

Portiamo la scuola nei teatri: ha ragione la Guerritore

Ho letto con grande piacere il bellissimo articolo della signora Monica Guerritore, alla quale vorrei rivolgere un sentito ringraziamento. Sono un ex insegnante di Educazione artistica, da poco in pensione e posso dire con assoluta certezza, comprovata dalla mia quarantennale esperienza didattica, che l’idea della signora Guerritore, di cui ho sempre apprezzato l’intelligenza e la bravura, è certamente attuabile, oltre che auspicabile, e rispecchia in pieno quella che è la mia idea del teatro a scuola (o della scuola a teatro) come esperienza fondamentale, imprescindibile, per la formazione degli studenti di qualsiasi età.

Maurizio Zenga

 

Un grande Luttazzi: è davvero da prima pagina

Che bello vedere Luttazzi in prima pagina, il corsivo di domenica è bellissimo, stratosferico: grandeeeee!!!

Stefano Fenara

 

L’Europa rinunci subito ai suoi paradisi fiscali

Credo che il Fatto dovrebbe iniziare una campagna giornalistica per perorare la causa dell’unità fiscale di tutti i Paesi che fanno parte della Unione europea. Finché ci saranno paradisi fiscali non ci sarà una vera Ue.

Romano Lenzi

 

Cari Di Matteo e Bonafede: siete perbene, fate pace

In un periodo così complicato di pandemia in cui i cittadini stanno dando prova di consapevolezza e maturità non altrettanto si può dire di certa informazione e della politica… Ma non ci si sarebbe mai aspettati quel conflitto esploso in una sede impropria (la tv) tra il pm Antimafia Nino Di Matteo e il ministro Bonafede per la sua scelta relativa al Dap. Grazie, caro direttore, per come lei e il suo giornale vi state prodigando per una corretta e civile informazione. Significativo l’appello di Gian Carlo Caselli: “Cari Di Matteo e Bonafede siete persone perbene ora dovete fare pace!”.

Salvatore Giannetti

 

Fase 2: ripartono le vendite di moto, ma non di bici

Lunedì scorso sono riaperte alcune attività, tra cui le concessionarie di auto e moto:. Io invece noleggio biciclette e, pur nella Fase 2 – in cui si raccomanda l’uso della bici per non incidere sulla qualità dell’aria –, la mia attività non ha il permesso di ripartire e operare. Come spiegare questa situazione paradossale? Ma le moto sono più importanti delle bici?

Alessandro Marone

 

Un abbraccio alla Romano da un “fratello” volontario

Ho quasi 28 anni e sono un medico: sono stato per tre volte volontario in Kenya con un’associazione. Non sto qui a parlarvi di quello che significa questo percorso, dei sentimenti contrastanti, della frustrazione, dell’angoscia e della tristezza, della superficialità di alcune persone… Vi scrivo perché Silvia potrei essere io e al solo pensarci mi sento vuoto, fragile e piccolissimo… Non so cosa lei abbia dovuto patire in questo calvario: nessuno di noi può mettersi nei suoi panni perché non possiamo immaginare. Ciò che mi ha fatto male è stato l’odio verso questa liberazione, l’indignazione per l’aspetto economico: che pochezza… In questi anni ho visto che la vita può valere anche 50 scellini, o 40 centesimi di euro, per un fratello e una sorella del Terzo mondo che non possono portare la madre in ospedale e vederla così morire tra le braccia… Quanto a Silvia, non c’entrano la giovane età o la preparazione: se ti puntano una pistola non esiste nessuna “linea guida” al mondo… Cara Silvia, per un giorno avrei voluto che tutti quanti avessimo con commozione ed emozione seguito il tuo ritorno, vedere il tuo sorriso, il tuo abbraccio ai tuoi cari senza dover dire la nostra, senza sputare sentenze. Bentornata a casa, tuo fratello Bartolo.

Bartolomeo Ferrante

 

DIRITTO DI REPLICA

Segnaliamo che il titolo “C’è una montagna di amianto scavata col Tav”, relativo all’articolo di Luca Mercalli pubblicato ieri sul Fatto, e il suo richiamo in prima sono errati e fuorvianti. I materiali presenti a Salbertrand non provengono dagli scavi della Torino-Lione, ma sono stati depositati negli anni da diversi soggetti estranei ai lavori della nuova linea ferroviaria. Si ricorda che a oggi lo smarino scavato per la galleria di Chiomonte non è mai uscito dal cantiere e le migliaia di analisi dei monitoraggi ambientali, eseguiti sotto il controllo dell’Arpa, non hanno rilevato la presenza di amianto. La bomba ecologica di Salbertrand pur essendo sotto gli occhi di tutti è sempre stata ignorata. Oggi grazie ai lavori del tunnel di base del Moncenisio, il tema viene affrontato e Telt si sta adoperando per risolverlo a vantaggio di tutto il territorio.

Ufficio stampa TELT

 

Vero che l’amianto di Salbertrand non deriva dal cantiere Tav, è detto nel testo. Ma vogliamo mettere il danno ambientale che verrà in oltre dieci d’anni di lavori, sia pure consentito e compensato a norma di legge?

L. M.

Il riscatto di Silvia: tocca arrestare Sgarbi e Sallusti

Silvia Romano è stata liberata, e da destra sono subito arrivate le “felicitazioni, ma”. Maria Giovanna Maglie è trasecolata per via dell’abito tradizionale somalo indossato da Silvia, come se Silvia fosse una corrispondente Rai all’estero che poteva fare shopping compulsivo gonfiando la nota spese. Vittorio Feltri l’ha buttata sui soldi del riscatto, perché in questo modo lo Stato ha finanziato i terroristi. Ma se oggi Aldo Moro è vivo, è perché lo Stato pagò il riscatto. Scusate, esempio sbagliato. Ha ragione Feltri: non finanziando i terroristi di destra, lo Stato impedì le stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus e stazione di Bologna. Scusate, altro esempio sbagliato. Insomma, quanti soldi sono? 53 milioni? Ah no, quelli sono i soldi pubblici presi da Libero dal 2003 al 2017. 49 milioni? Ah, no, quelli deve restituirceli la Lega. 21 milioni? Ah no, quelli sono i soldi buttati dalla Regione Lombardia per l’inutile ospedale alla Fiera. Insomma, quanti? 4 milioni. Siamo 60 milioni di italiani, quindi 0,06 euro a testa. Vittorio, stacce. Per dirottare l’attenzione su di sé (ne era in astinenza, dato che tutti stavano parlando di Silvia e non di lui), Sgarbi ha proposto che Silvia venga arrestata perché complice dei terroristi, visto che si è convertita all’Islam. Ma l’equazione Islam = al Qaeda è islamofobia; ed è grazie all’islamofobia che al Qaeda fa proseliti. Ovvero, Sgarbi sta facendo il gioco dei terroristi: arrestiamo anche lui? Lo stilista Sallusti, buttandola sul vestito come la Maglie (“È stato come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista. Non capisco, non capirò mai”), non capisce neppure che sta facendo la stessa equazione di Sgarbi (Islam = al Qaeda), che fa il gioco dei terroristi. Arrestiamo pure Sallusti, Vittorio? Alessandro Meluzzi, psichiatra, sminuisce la conversione religiosa di Silvia parlando di “sindrome di Stoccolma”. Ma Meluzzi, che in gioventù ha militato nel Pci, poi nel Psi, poi è diventato parlamentare di Forza Italia, poi è entrato nell’Udr di Cossiga, poi in Rinnovamento Italiano, poi nei Verdi, poi ha fondato i Cristiano Democratici Europei aderendo all’Udeur di Mastella, infine è approdato a Fratelli d’Italia, ma ammira Putin, è stato massone e console onorario del Paraguay, s’è convertito al cristianesimo, è stato diacono cattolico di rito greco-melchita, poi presbitero della Chiesa ortodossa italiana autocefala, poi primate, metropolita e arcivescovo di tale Chiesa con il nome di Alessandro I, e quando va in tv tuona contro l’aborto, il matrimonio omosessuale e l’eutanasia, sostenendo pure che “certi pedofili non commettono reato e nemmeno peccato”, e che Bergoglio è promotore del piano Kalergi (sostituire gli europei con africani e asiatici); Meluzzi, dicevo, di che sindrome soffrirà?

Tuttolibri. Titolo: “Cara sinistra, smetti di deprimerti: per il capitalismo c’è un’alternativa”. Incipit: “Tre anni fa, a 49 anni, si ammazzava Mark Fisher, critico culturale, insegnante, teorico, attivista”.

Cronache dalla Fase 2. Mi sembra che la mia ragazza me lo succhi con più gusto, da quando le ho detto in quali culi famosi l’ho infilato.

Stato di panico social

Psicologi e sociologi dovrebbero, se ancora non lo fanno, cercare la causa di una sindrome che ormai si è diffusa in tutto il mondo, cioè la necessità di vivere in uno stato di panico sociale. Si percepisce sui social, ma anche parlando con la gente, una sorta di strisciante necessità di essere minacciati da catastrofi globali. Da qualche giorno, allo scemare dell’interesse Covid-19, stanno apparendo sui social nuovi tentativi di alimentazione del panico. L’ultimo è di quello dell’allerta “epatite E” trasmessa dai topi. “A Hong Hong l’epatite dei topi colpisce l’uomo. Altro salto di specie”. La notizia è riportata dalla Cnn ma, dopo il titolo allarmistico, viene spiegato come il primo caso risalga al 2018. Ora sembra che altre persone siano state infettate, ma non siamo assolutamente davanti a un’allerta . L’epatite E è una malattia del fegato che può causare febbre, ittero, ingrossamento dell’organo. A oggi sono conosciute 4 specie del virus, che circolano fra gli animali, una di esse anche sporadicamente nell’uomo. Non si conosce la modalità di trasmissione di questo patogeno recentemente apparso nella specie umana. È fondamentale perciò vietare “mercati umidi” con vendita di animali vivi, avere controlli veterinari dei prodotti animali, derattizzazione delle città (nel mondo vivono più topi che uomini!). Costoso? Difficile da imporre ? Basti pensare la spesa dovuta a una pandemia (oltre alle vite umane) e quanto sia avvenuto nel mondo che ha accettato un’inedita limitazione della libertà. Ci salveremo solo se cambierà la mentalità soprattutto delle istituzioni internazionali verso investimenti per la prevenzione.