Il dl Rilancio impantanato: l’ok forse slitta a mercoledì

Il tentativo di Giuseppe Conte di accelerare sembra naufragato del tutto. Il premier aveva provato già domenica a imporre un Consiglio dei ministri non stop in notturna per dare l’ok al decreto “Rilancio” (già “decreto Maggio” e prima ancora “decreto Aprile”). L’impegno era di approvarlo ieri, ma, di nuovo, niente da fare. È probabile che non ci si riuscirà neanche oggi; “si potrebbe arrivare anche a mercoledì”, spiegano sconsolati dal Tesoro.

Il testo – che, giova ricordarlo, secondo il governo avrebbe dovuto ricevere il via libera la scorsa settimana – non è ancora chiuso. Una sorta di maxi manovra finanziaria (55 miliardi i deficit, 150 di stanziamenti) addirittura lievitata: la bozza di ieri mattina segnava sempre 258 articoli, ma le modifiche hanno portato altre 30 pagine. “E mancano ancora molte norme”, ricordano al ministero. Ieri alle 14 avrebbe dovuto analizzarlo il “pre-Consiglio”, la riunione tecnica in cui si dovrebbe fare il cosiddetto drafting normativo (in sostanza, fare tutto per bene evitando furberie, ritardi, errori, effetti indesiderati). La riunione è slittata a sera inoltrata.

“Tutti i nodi politici sono stati risolti”, annuncia poco prima il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Il problema però paiono i nodi “tecnici”: da sciogliere ce ne sono ancora tantissimi, a partire da un capitolo di non poco conto come i soldi alle imprese e l’ultima novità, lo sconto sull’Irap, l’imposta sulle attività industriali aborrita dalla Confindustria di Carlo Bonomi (che ne chiede l’eliminazione). Nella bozza, per dire, viene eliminato l’obbligo del saldo 2019 e dell’acconto 2020 dell’imposta per le imprese con ricavi tra 5 e 250 milioni che ad aprile 2020 abbiano registrato un calo di due terzi del fatturato rispetto al 2019. Paletto, quest’ultimo, che è invece stato eliminato (con le restrizioni il capitolo sarebbe costato “solo” due miliardi e coperto 54 mila medie imprese su 1,8 milioni). Ieri Gualtieri ha confermato che lo conto sarà per tutte le aziende fino a 250 milioni di fatturato.

Di questo allentamento potrebbero farne le spese gli aiuti pubblici per le aziende tra i 5 e i 50 milioni di fatturato, non a fondo perduto (destinati solo a quelle sotto i 5 milioni): sul tema c’è un ritardo infinito, frutto anche di norme complesse e pasticciate (a non dire della mancanza di coperture). A causa della disperazione giallorosa l’ipotesi è di eliminare il capitolo e destinare le risorse al taglio dell’Irap.

L’altro aspetto incredibile è che mancano ancora molte norme, a partire da quelle del ministero dei Trasporti, che è in ritardo. E quelle che ci sono, a decine, attendono la verifica della Ragioneria generale e/o del Dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi. Altre, invece, nel frattempo sono state eliminate: è toccato ad alcune proposte del ministero dell’Ambiente.

Non solo. Come prevedibile, per un testo che coinvolge quasi tutti i ministeri ed è lungo come una legge di Bilancio, sono comparse anche norme che con l’emergenza Covid non c’entrano nulla. È il caso di un paio di articoli micro-settoriali che stanziano 200 milioni al Comune di Taranto a guida Pd per rinnovare il parco dei mezzi di trasporto pubblici (con annesso sistema innovativo di autobus). Norme che stanno creando non pochi malumori in maggioranza. “Eliminarle sarebbe uno scippo alla città”, si dolevano ieri alcuni assessori appellandosi a Nicola Zingaretti.

Solo se ogni casella verrà messa al suo posto oggi il testo potrebbe andare in Cdm, ipotesi che nessuno si sente di confermare. Al ministero dello Sviluppo ritengono perfino che sugli aiuti alle imprese (il capitolo vale 10 miliardi) non si trovi la quadra almeno fino a mercoledì. Parliamo di un testo che vale quasi 20 miliardi solo per le misure sul lavoro: Cassa integrazione, mille euro agli autonomi, aiuti a colf e badanti, Reddito di emergenza. Quest’ultimo copre milioni di persone tagliate fuori da ogni sussidio (vedranno i soldi, se va bene, verso fine giugno).

Cassa in deroga. Si tratta per togliere l’iter alle Regioni

Semplificare, contingentare e accelerare le procedure di erogazione della cassa integrazione in deroga pagata solo al 20% dei lavoratori che l’hanno richiesta e uscire così fuori da uno stallo che imbarazza governo, Inps e Regioni. Sono tutti sotto accusa per l’attuazione di uno strumento ordinario che fin da subito si è rivelato sbagliato per il suo scopo: dare il prima possibile i soldi ai dipendenti delle piccole imprese che da marzo sono senza entrate. Ma se è chiaro dove arrivare, è la procedura da seguire che va ancora chiarita. E proprio da questo flop che in mattinata ripartiranno a discuterne la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo e una delegazione dei presidenti di Regione per trovare la soluzione migliore per accelerare l’erogazione dei soldi. La strada più veloce passa per l’affidamento totale all’Inps della procedura, proprio come avviene con la cassa integrazione ordinaria. Dovrebbe, quindi, essere l’Istituto guidato da Pasquale Tridico a gestirla interamente, senza più doversi interfacciare con le Regioni che fino a oggi hanno accusato la stessa Inps dei clamorosi ritardi. Agli enti, infatti, spetta, il compito di decretare, cioè approvare, le domande delle micro imprese per la Cig in deroga e poi girarle all’Istituto. Ma una procedura tortuosa e svariati passaggi amministrativi tra le Regioni e l’Inps l’hanno trasformata in una via crucis tra 21 diverse procedure regionali.

La Conferenza delle Regioni ha già approvato un documento sulla Cig in deroga nel quale ha ribadito le difficoltà dovute “in gran parte a problemi tecnici” e spiegando di non voler fare barricate se il governo decidesse di torglierli la gestione delle Cig in deroga. La guerra con l’Inps l’hanno già vinta quando l’istituto negli scorsi giorni è stato costretto ad aggiornare i dati sulle domande che hanno presentato: un numero decisamente maggiore rispetto a quello che pubblicava l’istituto. Insomma, una completa disponibilità delle Regioni a proseguire nella collaborazione con il ministero del Lavoro e con l’Inps per la semplificazione delle procedure, che però ha una grande ostacolo: la stessa ministra Catalfo che non vorrebbe appesantire il lavoro dell’Inps già sotto pressione tra l’erogazione del bonus di 600 euro, la cassa ordinaria, i congedi parentali e la richiesta del bonus per la baby sitter. Un peso che la Catalfo considera eccessivo, timore che invece non pare avrebbe il presidente dell’Inps Tridico, desideroso di sbloccare velocemente i pagamenti per 4 lavoratori su 5. Su 305.434 domande di Cig in deroga decretate dalle Regioni e arrivate all’Inps, quelle autorizzate fino al 7 maggio (ultimo dato disponibile) sono 207 mila ma quelle pagate solo 57.833 a 121.756 beneficiari su una platea che secondo l’Inps è composta da oltre 640 mila, ma che per la Uil arriva a 1,3 milioni di lavoratori.

Tridico è consapevole che il più grande ostacolo non è la mole di lavoro ma la stessa procedura della Cig in deroga su cui si è incastrato il meccanismo del pagamento che passa per il modello Sr41 (che riporta il numero di lavoratori effettivamente in cassa e non solo di quelli presunti) e per l’invio degli Iban dei lavoratori che vengono riportati in modo errato dalle aziende e che l’Inps è costretta a correggere perdendo tempo. Negli scorsi giorni, Tridico ha già spiegato che la procedura si sarebbe già potuta semplificare inserendo il modello Sr41 in modo automatico nel flusso di informazioni e di dati retributivi che normalmente il datore di lavoro invia all’Inps.

Proposte che oggi si dovranno trasformare in un accordo per semplificare l’iter della Cig in deroga e mettere in pagamento le domande. Dubbi della ministra permettendo.

Migranti, il M5S fa marcia indietro “No al condono”

L’ordigno che la notte pareva sminato riesplode all’ora di pranzo. E a farlo brillare sono i Cinque Stelle. Ma quale accordo sui migranti, ma quale provvedimento chiuso: “Sui lavoratori stagionali rimaniamo fortemente contrari rispetto a qualunque intervento che si configuri come una regolarizzazione indiscriminata e una sanatoria” morde il M5S. E tutti gli altri, i partiti di maggioranza Pd e Italia Viva, ma anche il Viminale strabuzzano gli occhi. Sul piede di guerra, il ministro dell’Agricoltura, la renziana Teresa Bellanova. “Non ci sono alternative all’inserimento delle norme nel decreto rilancio”.

Perché poco prima dell’una di domenica notte i capidelegazione di maggioranza e i ministri competenti avevano lasciato la videoconferenza di governo con l’idea che le nuove norme sui permessi per i migranti e sulla sanatoria per i datori di lavoro fossero ormai definite. “Aveva apprezzato anche il premier Giuseppe Conte” giurano. D’altra parte, il lavoro dei ministri (Bellanova, Provenzano e la 5Stelle Nunzia Catalfo, titolare del Lavoro) era durato settimane, con la mediazione di Luciana Lamorgese. Sull’impianto politico di fondo, ovvero l’emersione del lavoro nero, erano tutti d’accordo, raccontano dal Viminale.

La norma su cui sembrava esserci l’intesa riguarda braccianti agricoli, colf e badanti, italiani e stranieri. Per una platea di circa 500mila persone. Si delinea un doppio binario nelle regolarizzazioni. Il primo: il datore di lavoro denuncia un lavoratore in nero lo fa emergere, con una sanatoria di tutte le irregolarità penali e il pagamento all’Inps di un forfait (circa 400 euro). La possibilità si applica anche agli stranieri che non abbiano mai avuto un contratto di lavoro in Italia ma dimostrano di essere stati fotosegnalati fino all’8 marzo 2020. A costoro viene dato un permesso di soggiorno di lavoro per sei mesi e viene fatto un contratto di lavoro subordinato. Il secondo binario stabilisce che è il lavoratore a poter chiedere un permesso temporaneo di soggiorno di sei mesi per cercare lavoro. Lo può fare chiunque abbia avuto un permesso di lavoro precedente, scaduto dal 31 ottobre 2019. Per mettersi in regola, il lavoratore deve pagare all’Inps una somma che si ipotizza attorno ai 100 euro. La durata di sei mesi era stata l’ipotesi originaria del tavolo. Contraria dall’inizio la Catalfo. Ma nel tavolo notturno il M5S aveva fatto inserire “in cambio”. il controllo dell’ispettorato del lavoro. Ieri mattina però i 5Stelle ci ripensano. “Era solo un compromesso di massima” è la giustificazione. Ma la verità è che nelle chat esplode la rivolta di ministri e sottosegretari. A guidarla sono il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia e quello alle Politiche agricole Giuseppe L’Abbate, “i più attenti alla materia” come riassume un big. Ma s’infuria anche il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. “Io sono un carabiniere, non potrò mai accettare una sanatoria per chi sfrutta i lavoratori”. Sibilia invece pubblica sulla chat un articolo di un datore di lavoro condannato proprio per un grave caso di caporalato: “Dovremmo salvare gente così?”. Poi ribadisce: “Il M5S non può accettare un condono penale”.

Sbotta anche il capo politico reggente, Vito Crimi, che però domenica si era collegato al vertice dando il via libera, sotto gli occhi del l capodelegazione Alfonso Bonafede (concentrato in queste ore sull’informativa che farà oggi in Parlamento sulle scarcerazioni dei boss) e dagli altri 5Stelle al tavolo, Catalfo e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro. Ma ieri il quadro cambia: perché “la gran parte del gruppo parlamentare ribolle” come dicono più fonti. E perché arriva anche il no dell’ex capo ma leader di fatto Luigi Di Maio, che domenica era intento a gestire il rientro in Italia di Silvia Romano. Ma di lunedì mattina consulta i suoi, e riflette subito sul rischio di aprire un’autostrada a Lega e Fratelli d’Italia, pronti ad attaccare urlando al “liberi tutti” per i migranti.

Così ora la linea del M5S è bloccare la normativa sui migranti e inserirla in un decreto ad hoc, “limitando di molto le regolarizzazioni e inserendo sgravi fiscali per gli imprenditori” spiegano. Considerazioni che non tornano a chi ha lavorato alla mediazione. Perché per indurre un datore di lavoro a regolarizzare una persona, gli si deve dare la garanzia che non avrà conseguenze penali. E il nodo è ovviamente anche politico. Con il dem Peppe Provenzano, ministro del Mezzogiorno, che chiede quale sia la legittimità di “una chat” per far saltare un accordo chiuso . E l’idea che si lavori su un testo che non entri nel decreto rilancio a molti sembra solo un modo per affossare il provvedimento. In serata, viene fatta circolare una bozza del decreto, che contrasta con l’interpretazione del M5S.

Le istanze di regolarizzazione per avere il permesso di soggiorno per lavoro vengono rigettate se il datore di lavoro negli ultimi 5 anni è stato condannato anche in via non definitiva per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o per sfruttamento della prostituzione o di minori, per il reato di caporalato o reati legati alla legge sull’immigrazione. Si tratta ancora. Tra oggi e domani ci dovrebbe essere un Consiglio dei ministri, quello saltato ieri. Nel caos.

Sigarette e Cialis con i fondi per la Libia

Il denaro per contrastare il traffico di essere umani dalla Libia utilizzato per acquistare sigarette di contrabbando e persino confezioni di “Cialis” che viaggiavano a bordo delle navi della Marina militare italiana da Tripoli fino a Brindisi. Sono le accuse mosse nei confronti di quattro militari italiani e un ufficiale della Guardia costiera libica arrestati ieri mattina.

Sarebbero oltre 7 i quintali di “bionde” nascoste a bordo di nave Caprera e poi scoperti dall’equipaggio durante le operazioni di sbarco ed è stata proprio la denuncia del comandante di nave Caprera a far partire l’indagine che portato in carcere il Tenente di Vascello Marco Corbisiero che per l’accusa ha rivestito il ruolo chiave nella vicenda: l’ufficiale tecnico della Marina è inoltre accusato anche di aver provato a comprare il silenzio dei colleghi. Gli arresti domiciliari sono invece stati ordinati per l’ufficiale libicoMohamed Hamza Ben Abulad, per gli italiani Roberto Castiglione, Antonio Filogamo e Antonio Mosca. Per Mario Ortelli disposto l’obbligo di dimora.

Nell’ordinanza Corbisiero è dipinto dal gip Vittorio Testi come l’artefice una operazione senza scrupoli che avrebbe sfregiato “una nobile missione internazionale” tra le più “prestigiose e vitali dello Stato”. L’ufficiale per acquistare i beni di contrabbando “si appropriò del denaro dei contribuenti italiani”, destinato “a potenziare” la Guardia costiera libica contro il “turpe traffico di minori, donne, anziani” violentando il “prestigio della Marina, dello Stato e di ogni cittadino che, con le tasse, contribuisce nel tentativo di contenere” il traffico di vite umane.

Corbisiero avrebbe intrattenuto rapporti stretti con Hamza a cui era riconducibile una fantomatica società diventata, grazie all’intervento del militare italiano, unica interlocutrice per la forza armata. E così dall’impresa di Hamza, la Marina acquista pezzi del motore delle motovedette libiche, materiale elettrico, informatico, edile ed idraulico, ma anche sigarette, ciabatte, dentifrici, spazzolini e persino pillole di “Cialis”. I veri acquisti erano mascherati da fatture gonfiate e con causali chiaramente differenti. La società libica, in pochi mesi, incassa 123mila euro spazzando via gli oltre quaranta fornitori che fino a gennaio 2018 avevano lavorato con la Marina militare

Per il giudice Corbisiero agì “perché travolto dalla smania di accumulare denaro” fino alla “evidente e incontenibile esplosione di boria” con cui si vantò della ricchezza accumulata illecitamente. Quando però i colleghi bloccarono le sue operazioni di sbarco, Corbisiero provò a comprare “il silenzio e la complicità” di un commilitone “offrendogli in cambio” una parte del carico. Ma il carico fu sequestrato e furono avviate le indagini della procura e le inchieste interne della Marina che ieri mattina sono giunte alla prima clamorosa conclusione.

In Laguna non c’è solo il Mose “No all’inceneritore a Fusina”

C’è un campeggio, a Fusina, “questo clone di spiaggia o spiaggia virtuale o simil-spiaggia di città” (R. Ferrucci); ci sono le zanzare, nelle scampagnate di Ferragosto, ma si vede Venezia a un palmo. Incombe, alle spalle, la grande centrale Enel a carbone che chiuderà (lo chiede l’Europa) fra tre o quattro anni; poco più in giù l’impianto di Termodistruzione rifiuti attivo dal 1998 al 2014, quando – tra promesse di palingenesi “verde” – il sindaco Orsoni lo spense, pochi mesi prima del suo arresto. Partito un anno fa, il nuovo progetto della municipalizzata Veritas spa prevede di trasformare l’impianto di Fusina in un potente inceneritore destinato a bruciare potenzialmente fino a 300 mila tonnellate di rifiuti (ramaglie e materiali legnosi, Combustibile solido secondario, fanghi e percolati essiccati) per una potenza termica massima di 67,9 megawatt. L’iter decisionale e informativo è stato in parte evasivo, sporadico il confronto critico con i comitati dei territori (i sindaci sono per la gran parte d’accordo): discussioni rinviate nel Consiglio comunale di Venezia, addirittura l’arresto (!) dell’attivista Mattia Donadel durante un contraddittorio al Consiglio di Mira tre mesi fa. Alla campagna “no inceneritore” promossa da associazioni, medici ed esperti, hanno fatto riscontro gli sms di Veritas, che ha raggiunto i cellulari dei suoi clienti non con una comunicazione di servizio ma con propaganda a sostegno dell’operazione.

Le obiezioni, ora in parte recepite da una seria interrogazione parlamentare di Orietta Vanin e altri deputati del M5S, sono sostanzialmente quattro: a) con la potenza termica nominale di 67,9 megawatt la legge imporrebbe una Via nazionale, ed è solo con lo scorporo dei 20 mw derivanti dalla terza linea (che Veritas afferma di tenere come “riserva” in caso di guasto) che si cade appena sotto la soglia dei 50 mw approdando così a una – forse più “morbida”? – Via regionale, attesa a breve; b) l’aumento di capacità di combustione, a fronte di una produzione di rifiuti che rimane stabile, sarebbe un incentivo a importare materiali da altre regioni (un’intenzione sempre negata da Veritas; ma i rifiuti in arrivo per trattamento passerebbero dalle attuali 160 mila tonnellate annue a 450 mila); c) tra i fanghi contaminati da smaltire ci sarebbero anche quelli intrisi di Pfas (i letali composti chimici che hanno avvelenato le acque di mezzo Veneto), la cui combustione sprigionerebbe conseguenze imprevedibili (Veritas ribatte che anche in Svizzera i fanghi si bruciano correntemente); d) la cosa più importante: oltre al pestifero viavai dei camion che conferiranno i rifiuti, l’incinerimento stesso scaricherà nell’aria polveri, diossine, furani etc. (Veritas vanta verifiche con gli enti pubblici di controllo, e promette efficientissimi filtri), oltre a generare sovvalli, scorie e ceneri tossiche, per le quali si richiede l’autorizzazione al conferimento in discarica nella misura di 72 mila ton/anno.

A tutto ciò si aggiungono, fuori verbale, i maldipancia sul socio privato che in società con Veritas controlla la “Ecoprogetto srl” preposta alla realizzazione dell’impianto: la Finam dell’imprenditore Angelo Mandato, socio al 49% della Sesa spa, municipalizzata di Este che smaltisce anche rifiuti provenienti dal Sud e che secondo un’inchiesta di Fanpage avrebbe sversato compost inquinato nei campi della Bassa Padovana (nulla importa qui che l’antico socio Sandro Rossato, scomparso nel 2015, fosse per altro verso in affari con la ‘ndrangheta).

Al fondo di tutto, c’è una scelta filosofica, che richiama le origini stesse del M5S (la battaglia di Pizzarotti a Parma, per dirne una): qui s’intende incenerire molte tonnellate di rifiuti e fanghi, argomentando che solo così si può raggiungere l’autonomia nella gestione del ciclo a livello locale. I comitati propongono invece di aumentare la differenziata all’80% (è ora attorno al 63, con picchi negativi nella città storica, e un indice di recupero effettivo tra i più bassi della regione) e di ridurre del 15% i rifiuti prodotti, sviluppando le filiere di recupero.

Infine, di inertizzare e confinare i fanghi e percolati contaminati da Pfas. Il tutto per allentare le emissioni da effetto serra (quelle dirette e quelle indirette) e soprattutto salvaguardare un’area che sorge letteralmente accanto al mefitico Sin di Porto Marghera, e che ha già pagato un prezzo altissimo all’inquinamento (i pediatri lamentano alti livelli di diossina nel latte materno, e scongiurano di evitare ogni ulteriore aumento delle polveri).

In tempi in cui gli sguardi sono volti altrove, ma in cui tanti immaginano un futuro diverso anche per Venezia, si gioca a Fusina una partita importante: c’è da sperare che questa punta di Laguna non svanisca nella nebbia, come in fondo a una magica veduta di William Turner (San Benedetto verso Fusina, Tate Britain, 1843).

Ma Meloni e Storace la difendono

C’è una destra che si dissocia dal mainstream di destra nei confronti della liberazione di Silvia Romano. Ieri, infatti, i giornali destrorsi e i loro fan sui social grondavano veleno contro la cooperante italiana e la sua conversione. “Abbiamo liberato un’islamica”, titolava Libero. “Islamica e felice. Silvia l’ingrata”, gli faceva eco il Giornale. Con Alessandro Sallusti che su Twitter scriveva: “È come vedere tornare un prigioniero dai campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista…”. La notizia, però, è che non tutti, a destra, hanno la stessa opinione. Francesco Storace, in una lunga intervista all’HuffPost, ha detto: “Facile darle addosso, ma lei ha visione e coraggio. Il velo? Concentriamoci sul suo sorriso. La volevamo veder tornare in una bara? Non dico che sia contento della sua conversione, ma non m’interessa. È tornata viva, questo è il punto. Provo la stessa gioia di Pippo Civati…”.

Parole non affatto scontate per l’ex leader della destra sociale ora direttore del Secolo d’Italia. E proprio l’apertura del suo giornale online ieri erano le parole con cui Fabio Rampelli, FdI, braccio destro di Giorgia Meloni, faceva l’elogio della cooperante italiana. “Silvia è una giovane donna che con coraggio ha deciso di non fare una vita comoda ma di andare a portare il suo aiuto a chi soffre ed è più debole in un luogo difficile. È un esempio per i nostri ragazzi… Non m’interessano le sue idee politiche, né la sua fede religiosa e lo Stato italiano ha fatto bene a lavorare per liberarla”, ha spiegato di Rampelli, con un post su Facebook, con oltre 300 like.

Stessi pensieri appartengono a Guido Crosetto, ex deputato di Fi e fondatore di FdI. Che prima la butta a ridere: “Pensate se fosse tornata interista…”. E poi, sempre su Twitter, si fa serio. “Se diciamo, convinti, che vanno aiutati a casa loro (Meloni & Salvini dixit, ndr), che senso ha insultare una ragazza che ha fatto proprio questo? Certamente non pensava di essere rapita e venduta. Lasciate stare quella ragazza e i 4 milioni…”, ha scritto l’ex sottosegretario alla Difesa. Si potrebbe pensare che questi possano essere tentativi per non lasciare Silvia Romano alla sinistra e al governo. Sta di fatto che le prese di posizione in sua difesa e le argomentazioni appaiono solide. Su Romano a destra c’è eterogeneità di vedute.

Salvini fa lo sciacallo: “Spot per gli jihadisti, serviva più sobrietà”

Ora Matteo Salvini chiede “sobrietà”. Il politico che balla con la cubista, il ministro che citofona per accusare di spaccio in diretta su Facebook, il leader di partito che occupa le Camere con la mascherina nera e la fascia tricolore, vuole dagli altri “un profilo basso”.

Sabato Salvini aveva esultato per la liberazione di Silvia Romano. Domenica deve aver tastato il polso del suo elettorato perché come spesso gli accade, specie in questo periodo, ha cambiato idea. Così ieri ha guidato l’attacco della destra contro la cooperante milanese (e contro il governo che l’ha riportata in libertà).

Salvini ha cambiato linea con un’intervista su radio Rtl 102.5: “Mettetevi nei panni di quei terroristi maledetti che hanno rapito una splendida ragazza: l’hanno vista scendere con un velo islamico, ha detto di essere stata trattata bene e che si è convertita all’Islam, in più hanno preso dei soldi. Penso che un ritorno più sobrio e riservato avrebbe evitato pubblicità gratuita a livello mondiale a questi infami”. Lui avrebbe quindi evitato la presenza del governo (il premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio) all’atterraggio della ragazza: “Se mi chiedete come mi sarei comportato se fossi stato al governo – ha detto Salvini – avrei tenuto al ritorno un atteggiamento da parte delle istituzioni un profilo più sobrio e basso”.

L’uomo che invoca riservatezza, sobrietà e basso profilo è lo stesso, per fare un esempio, che ha montato un clamoroso carrozzone mediatico, quando era ministro, per festeggiare la cattura di Cesare Battisti. Era il 14 gennaio 2019, Salvini andò sobriamente a “prendere” Battisti indossando la giacca della polizia (insieme al Guardasigilli Alfonso Bonafede) e testimoniò l’evento con una trasmissione sulla sua pagina Facebook: “In diretta dall’aeroporto di Ciampino, finalmente l’assassino comunista Cesare Battisti torna nelle patrie galere. Giornata storica per l’Italia, state con noi. LIVE”.

Sempre a proposito di senso dello Stato: quanto ne aveva Salvini quando rischiò di far saltare un’operazione di polizia perché aveva fretta di prendersi il merito? Era il 4 dicembre 2018, l’allora ministrò twittò esultante su “15 mafiosi nigeriani” arrestati a Torino. Solo che dovevano ancora essere fermati. Gli rispose l’ex procuratore Armando Spataro: “Ci si augura che, per il futuro, il ministro dell’Interno voglia quanto meno informarsi sulla tempistica, al fine di evitare rischi di danni alle indagini in corso”. È lo stesso Salvini che parla di eleganza, sobrietà, profilo istituzionale. Saranno gli occhiali nuovi.

Silvia, depistaggi e droni Il giallo del giubbotto turco

Ci sono stati depistaggi, piste ingannevoli e ritardi delle autorità keniote nella vicenda di Silvia Romano, la volontaria rilasciata dopo un rapimento durato 18 lunghi mesi. Ma c’è stata pure una nuova tecnologia messa in campo fin dall’inizio dall’intelligence italiana: ricerche effettuate con droni dotati di raggi infrarossi. Ieri la 25enne è arrivata a Milano, accolta tra gli applausi e i cartelli di bentornata nel proprio quartiere. Ora Silvia Romano chiede solo una cosa: “Rispettate questo momento” ha ripetuto.

Intanto gli investigatori, che domenica l’hanno interrogata, stanno ricomponendo i pezzi di questa vicenda. In quattro ore, davanti al pm romano Sergio Colaiocco, la 25enne ha ricostruito i giorni della prigionia. A partire dal 20 novembre 2018 quando è stata rapita in un villaggio a 80 chilometri da Malindi, dove si trovava per la onlus Africa Milele. Il sospetto è che qualcuno l’abbia tradita per poi consegnarla a una banda di criminali che a loro volta l’hanno venduta al gruppo jihadista Al-Shabaab, un’organizzazione somala affiliata ai terroristi di al Qaeda. Su questo ci sono verifiche in corso. Probabilmente Silvia, prima del rapimento, era spiata da giorni. Lo sostiene anche Liliana Sore, fondatrice di Africa Milele onlus, interrogata dal Ros dei carabinieri nei mesi scorsi. “Silvia era controllata”, dice la Sore, la quale sospetta anche “che alcuni componenti del commando abbiano dormito vicino a casa nostra prima del rapimento”. A proteggerla, aggiunge, c’erano però “due masai armati di machete”. Uno, durante il rapimento, era andato al fiume. Anche questo aspetto è al vaglio degli investigatori

Quel 20 novembre 2018 quindi un commando di otto persone rapisce Silvia Romano. Di lì a poco la consegnano a un altro gruppo di tre persone, jihadisti di Al Shabaab, che parte per la Somalia. Qui si registra il primo ritardo, forse decisivo: le autorità locali, secondo quanto riportato da fonti di stampa keniote, arrivano sul posto del rapimento dopo due ore, consentendo ai sequestratori “di portarsi a Garissa prima di passare in Somalia”. Inoltre un veicolo militare sarebbe stato dislocato in aiuto alle ricerche solo “il giorno dopo a mezzogiorno”. Quarantotto ore dopo il rapimento arrivano in Kenya anche gli uomini dell’intelligence italiana, che iniziano a condurre le ricerche con l’ausilio di droni di nuova tecnologia dotati di telecamere ad alta risoluzione con infrarossi, utilizzati anche durante la notte. Intanto però la giovane veniva spostata da un covo all’altro, affrontando lunghi viaggi, spesso a piedi.

Nel frattempo gli uomini dell’Aise, guidati dal generale Luciano Carta, si mettono sulle sue tracce e individuano il gruppo di Al-Shabaab. Per evitare millantatori e depistaggi, gli 007 chiedono prove che Silvia Romano sia viva. Il mezzo sono i video: la giovane ne avrebbe girati tre. Uno ad agosto del 2019, quando per la prima volta ci si rende conto che una speranza ancora c’è.

Sarebbero stati registrati poi altri due video, uno a novembre e un altro il 17 gennaio 2020. Silvia Romano nel frattempo è cambiata: si è convertita all’Islam e ha scelto come nome da prigioniera Aisha, come la terza sposa del profeta Maometto. Il rito di conversione sarebbe stato fatto davanti ai suoi rapitori, ma nonostante ciò, racconta al pm, la sua è stata una scelta libera. L’ultimo video arriva nelle mani degli 007 ad aprile, e sarà quello della liberazione, che avviene, dietro riscatto, l’8 maggio.

“L’intelligence turca ha contribuito a salvare” la volontaria, ha voluto sottolineare l’agenzia di stampa turca Anadolu, diffondendo una fotografia della volontaria che indossa un giubbotto ritraente la mezzaluna. Ma gli 007 italiani precisano: “É stata recuperata dagli uomini dell’intelligence italiana con quello stesso giubbetto che si vede nella foto che è dotazione rigorosamente italiana e che le è stato fornito senza alcun simbolo”. Insomma, spiegano, “non è da escludersi che la foto sia un fake”.

Tim chiede di tornare in ufficio: petizione per continuare da casa

Dopo due mesi passati a lavorare dalla scrivania di casa, il posto migliore per proteggersi dal Covid-19, è quasi tempo di tornare in sede per 8 mila dipendenti di Tim. Per due settimane al mese, ma questo ha generato malumore tra chi si sentiva più tranquillo continuando a operare stabilmente dalla propria abitazione. Obiettivo iniziale del primo step di ripartenza è il 25 maggio, con rotazione del 25% degli addetti, ma sembra che il pressing sindacale stia portando a un posticipo.

Il colosso delle tlc ha finora usato in smartworking oltre due terzi del suo personale, 36 mila su un totale di 45 mila, ma ora vuole passare alla fase 2. Quindi un nuovo contingente di 8 mila persone è pronto, alternandosi, a ripopolare gli uffici. L’ipotesi, come detto, è iniziare tra due settimane con le sedi piene massimo per un quarto della capienza, per poi arrivare al 50% già dal 4 giugno. Un cronoprogramma giudicato troppo frettoloso, anche perché imprese concorrenti hanno previsto tempi più dilatati. Quindi si ragiona su nuove tappe.

Il sindacato di base Usb ha lanciato una petizione online che in alcuni giorni ha raggiunto 1.500 firme. “In questi mesi difficili – dicono – abbiamo assicurato continuità produttiva, grazie anche agli sforzi tecnologici e organizzativi del gruppo Tim. Il perdurare della diffusione del virus tuttavia costituisce ancora un pericolo, tanto che anche il governo ha invitato le aziende alla massima prudenza. Ci piacerebbe tornare a incontrare i colleghi, ma pensiamo che sia ancora troppo rischioso in questo momento”. Insomma, è vero che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha da una settimana allentato le maglie del lockdown, favorendo una ripresa delle attività economiche, ma l’emergenza sanitaria non è alle spalle. Quindi, nel momento in cui si può continuare a operare solo in tele-lavoro, come fatto finora, perché accelerare la riapertura, seppur graduale, delle sedi? Questo si chiede Riccardo Lorenzi, rappresentante Usb, e diversi lavoratori.

Tim assicura che rimetterà in funzione gli uffici assicurando il rispetto dei protocolli, la misurazione della temperatura all’ingresso, il distanziamento tra le postazioni e negli spazi comuni, le sanificazioni periodiche e gli screening sierologici volontari. Ma i dipendenti sono preoccupati anche per quello che comporta dover raggiungere il posto di lavoro, sui mezzi pubblici per esempio. Particolare apprensione tra i romani: è previsto il ritorno per 4.300, questo significa che l’alternanza ne coinvolgerà 2.150 a settimana. “L’uso del lavoro da remoto continuerà per la stragrande maggioranza del personale – spiega Tim al Fatto – compresi i call center e i centri di supervisione”. L’azienda non si sbilancia sulle date: “Nei prossimi mesi – aggiunge – rientreranno gradualmente in ufficio, per sole due settimane al mese a rotazione, i lavoratori che svolgono attività di governo, indirizzo e controllo in alcune regioni d’Italia. Per tutti i colleghi sul territorio nazionale con particolari esigenze, come la tutela della legge 104, genitori con figli fino a 14 anni , donne in gravidanza, potranno continuare a lavorare da remoto”.

“Assurdo lo scudo alle aziende per i contagi da Covid al lavoro”

“Per carità, il legislatore è sovrano, ma a me interessano le norme vigenti. Per escludere il contagio da Covid-19 dalla casistica degli infortuni sul lavoro andrebbero aboliti, in rapporto al caso di specie, gli articoli 589 e 590 del codice penale, con le conseguenze che possiamo immaginare…”. Raffaele Guariniello, ex procuratore aggiunto di Torino, una vita professionale dedicata alla sicurezza sul lavoro, ha pochi dubbi sulla richiesta avanzata da Confindustria e da settori della politica, di prevedere uno scudo “emergenziale” per i datori.

Dottor Guariniello, gli industriali parlano di “fatto gravissimo” e di “sentimenti anti-impresa”…

In base al decreto Cura Italia, peraltro già convertito in legge, le infezioni da Covid-19 sono indennizzabili da parte dell’Inail come ogni altro infortunio sul lavoro, come già previsto dall’Inail stessa prima ancora del decreto. Da questa indicazione legislativa segue un’ovvia implicazione: un’infezione da Covid-19, oltre a essere indennizzabile, può essere un reato, una lesione personale colposa come qualsiasi infortunio. Il medico che svolge la propria opera ha l’obbligo di fare il referto all’autorità giudiziaria, il che non implica necessariamente una condanna. L’autorità giudiziaria svolgerà i dovuti accertamenti, in caso di processo andranno dimostrati condotta colposa e nesso causale. Per quale motivo per un mesotelioma da amianto si dovrebbe procedere in un modo e per un’infezione Covid-19 in un altro?

Forse perché il virus si può prendere dovunque oltre che sul luogo di lavoro?

Il lavoratore vive in azienda, ma anche fuori dall’azienda. L’Inail parla di infortunio “in occasione” di lavoro, non necessariamente “a causa”, come del resto il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro. C’è un caso, per esempio, a cui nessuno pensa: se io imprenditore mando un mio dipendente a lavorare in un’altra impresa, ho l’obbligo di preoccuparmi che la salute del lavoratore, in questo caso la protezione dal contagio Covid-19, venga garantita come nella mia azienda. Aggiungo che le norme che tutelano la sicurezza sul lavoro tutelano anche i terzi che si trovino legittimamente in quei luoghi. È pacifico nella giurisprudenza.

Rimane il fatto che stabilire come e dove sia avvenuto il contagio potrebbe non essere agevolissimo…

Se dopo aver valutato l’esistenza delle necessarie misure anti-contagio e aver fatto tutti gli accertamenti del caso, non si dimostra una condotta colposa, si archivia. A maggior ragione in situazioni così complesse. Abbiamo un’architettura normativa molto ricca in grado di prevedere uno spettro assai ampio di situazione, tutto sta nell’individuare con rigore la casella in cui inserire il caso specifico.

Quindi, prevedere uno scudo penale significa porsi al di fuori dell’ordinamento?

Mi pare francamente un discorso elementare, da secondo o terzo anno di università al massimo. Che però colpisce l’attenzione, anche di alcuni settori della politica. Si invoca l’opportunità di limitare l’equiparazione del contagio agli infortuni sul lavoro, di escludere la responsabilità penale nel caso di malattia contratta in occasione del lavoro. Ma come si fa? Bisognerebbe stabilire che in questi casi non c’è reato, introdurre una deroga esplicita agli articoli 590 e 589 codice penale. È pensabile? E non dimentichiamo che il codice prevede anche l’omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, indipendentemente dall’infortunio (in questo caso dal contagio). Anche questa fattispecie va messa in conto.

A Torino è già al lavoro un pool di magistrati per valutare le decine e decine di esposti già esistenti. C’è chi sostiene che la magistratura dovrebbe attendere la fine dell’emergenza prima di procedere.

Di nuovo non mi pare che sia previsto dalla legge. E poi, più gli accertamenti sono immediati, più sono efficaci. Agli imprenditori però va fatta una concessione.

Quale?

Ricevono messaggi contraddittori. In stato di emergenza si applica il Testo unico sulla sicurezza oppure le norme emergenziali e i protocolli con le parti sociali? Ci sono state risposte autorevoli secondo cui il Testo unico non si applica in emergenza Covid-19, ma non è così per il nostro ordinamento. Il datore di lavoro ha l’obbligo di valutazione del rischio e nel documento di valutazione del rischio deve indicare quali misure ha effettivamente adottato, non solo previsto. Su questo punto credo si necessario fare chiarezza anche da parte delle istituzioni.