L’incontro tra il sindaco in bici “Gilu” e Conte

Sarà che si ritiene soddisfatto o forse, come in un noto film, inizia a sentirsi un po’ stanchino. In ogni caso, oggi giura che con la bici ha chiuso “almeno per dieci anni”. Difficile pensare che non si sia tolto la voglia: Gianluca Bacchetta, per tutti Gilu, ristoratore e sindaco di Divignano (Novara), è partito dal suo Comune il primo maggio e ha pedalato fino a Roma, dove domenica è stato ricevuto dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Quasi 650 chilometri di bicicletta in polo, infradito e fascia tricolore per farsi simbolo di una protesta e per incontrare diversi colleghi in Emilia, poi giù per il Passo della Cisa fino alla Versilia e di lì alla Capitale passando per l’Aurelia: “Sono titolare di un ristorante con 5 dipendenti – si sfoga il sindaco – e a due mesi dalla chiusura non è arrivato ancora un euro di cassa integrazione in deroga”. Con la rabbia per questi ritardi era partito verso Roma, giurando di voler riconsegnare al premier i 600 euro (pari al bonus per autonomi e partite Iva) considerati “un’elemosina”. Promessa mantenuta, ma senza più la frustrazione della partenza, ma semmai con la consapevolezza di un incontro utile: “Ho parlato più di un’ora con Conte, che ha interrotto un vertice con i partiti per ricevermi. Ho spiegato le mie ragioni e, quando ho restituito i soldi, lui ha deciso di mettercene altrettanti: così doneremo 1.200 euro alla Croce Rossa di Oleggio”.

I problemi, però, restano. A partire dalla cassa integrazione in deroga, le cui pratiche vanno ancora a rilento: prima di arrivare all’Inps, ogni domanda deve passare dalla Regione, che poi invia all’ente le migliaia di richieste ricevute dalle proprie aziende.

Questi passaggi allungano l’iter e così i lavoratori aspettano per mesi l’erogazione dei soldi, come nel caso di Bacchetta. Che durante l’incontro con Conte ha scoperto che la sua pratica si era arenata proprio nel passaggio tra la Regione Piemonte e l’Inps: “Conte ha chiamato il presidente dell’Inps Pasquale Tridico mentre eravamo insieme e gli ha spiegato la mia situazione. Dopo circa un’ora ha richiamato e pensavo ne avessi combinata una delle mie, invece all’Inps avevano verificato la mia domanda e così mi hanno confermato che si era bloccata in questi passaggi burocratici”. Fallito, a quel punto, il tentativo di contattare anche il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, che era impegnato in una video-conferenza. A tranquillizzare il sindaco ci ha poi pensato pure Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, anche lui chiamato in vivavoce durante la visita a Palazzo Chigi per un chiarimento sulle condizioni per riaprire i ristoranti e in particolare il distanziamento tra i tavoli: non uno ogni 4 metri, come sembrava, ma quattro metri quadri di spazio per ogni cliente.

Adesso Gilu prepara il rientro. Tornerà a Divignano domani, questa volta con un passaggio in macchina. E l’autocertificazione? Stavolta basterà attestare il ritorno alla residenza, mica come all’andata: “A Roma sono sceso con una birra da consegnare a un mio cliente nella Capitale. Erano comprovate esigenze lavorative”. Ai posti di blocco, nessuno ha saputo come contraddirlo.

Tirrenia, il governo ridà 73 milioni al debitore Onorato

Da quattro anni deve 55 milioni di euro allo Stato e da un anno altri 65 che continua a non saldare. Eppure, è scritto nella bozza del decreto “rilancio”, il governo vuole rinnovargli il contratto per il servizio di continuità territoriale marittima da 73 milioni di euro all’anno, in scadenza a luglio. Stiamo parlando di Cin, società controllata dalla Moby di Vincenzo Onorato, già finanziatore della fondazione Open, di quella di Giovanni Toti e poi cliente di Beppe Grillo Srl (che gestisce il blog del fondatore del M5S) e della Casaleggio Associati.

Cin nel 2012 rilevò gli asset della Tirrenia in via di privatizzazione e si assicurò 8 anni di convenzione. I 380 milioni del prezzo sarebbero dovuti servire a coprire in parte i circa 700 milioni di euro di debiti lasciati a una bad company statale facente capo al ministero dello Sviluppo economico. Ne vennero pagati subito 200, gli altri furono rateizzati con versamenti nel 2016, 2019 e 2021. Ma mentre il debito contratto per l’operazione cominciava a rivelarsi insostenibile – tanto che oggi l’intero gruppo Moby è in gravi difficoltà e ha già sventato un’istanza di fallimento –, Cin non ha pagato le prime due rate, adducendo una controversa clausola della privatizzazione legata alle procedure di Bruxelles sulla gestione pubblica di Tirrenia. La clausola è intanto decaduta per la conclusione di quelle indagini, ma lo Stato continua a mostrarsi accomodante.

A dispetto di questa situazione, pochi giorni fa il ministero dei Trasporti ha aggiudicato a Moby l’appalto da 1,2 milioni per la fornitura di un traghetto da usare come alloggio per la quarantena dei migranti salvati nelle nostre acque. Quanto a Cin, solo nell’autunno 2018 la bad company – alla cui guida il governo Renzi aveva posto all’inizio del 2016 Beniamino Caravita, già avvocato di Onorato – si è decisa a portarla in Tribunale per il mancato pagamento della prima e poi della seconda.

Partito il contenzioso, a fine 2018 Moby ha prelevato da Cin 85 milioni di euro fra riserve e dividendi, senza che il Mise ha eccepito. Nei primi mesi di quest’anno il Tribunale di Roma ha spiccato i provvedimenti di sequestro per l’equivalente delle due rate saltate (120 milioni), ma la bad company, d’accordo con Mit e Mise, non ne ha chiesto l’esecuzione, cioè non ha bloccato i conti correnti né fatto mettere all’incanto le navi. In proposito i ministeri non hanno risposto alle domande del Fatto. Secondo indiscrezioni la bad company si è accontentata del riconoscimento da parte di Cin del debito (e quindi della rinuncia a impugnare i provvedimenti) e dell’iscrizione di ipoteche non di primo grado. La bad company vi ha rinunciato nel 2016 e Onorato ha potuto utilizzare la flotta come garanzia per rifinanziarsi su quelle navi per cui il debito esiste.

Le casse di Cin sarebbero vuote. Ma dove è finito il 70% della convenzione che il Mit paga entro la fine di marzo? Se Cin lo ha ceduto a sconto, rendendo così insequestrabile il suo credito, perché il Mit non s’è opposto? Non sono le uniche domande senza risposta. Che la convenzione sia in scadenza lo si sa da 8 anni. A marzo 2019 Antitrust e Authority dei Trasporti, evidenziando l’illegittimità (rispetto alle norme Ue) di una proroga, hanno messo a punto ogni dettaglio della gara che hanno invitato il Mit ad avviare a breve. La ministra Paola De Micheli ha sempre soprasseduto e mercoledì in audizione alla Camera e poi nella relazione tecnica al decreto ha spiegato che la convenzione sarà prorogata a causa del Covid-19, “perché la necessaria analisi di mercato sarebbe falsata dal contesto”. Un contesto di servizi ridotti, non fosse altro per lo stop al traffico passeggeri, per cui lo Stato, Bruxelles permettendo, decide di pagare (per almeno un anno) altri 73 milioni. In 9 anni solo dallo Stato Cin incasserà così 650 milioni per navi avute dallo Stato e mai finite di pagare.

Il ministero: “I test: buco nero per efficacia”

L’ultimo flop della battaglia contro il Covid-19 sono i tanto sbandierati test sierologici. Non offrono alcun patentino di immunità, sono soggetti a errori e non hanno rilevanza diagnostica. La bocciatura arriva dal ministero della Salute attraverso una circolare di quattro pagine del 9 maggio firmata anche dal Direttore generale della Prevenzione sanitaria Giovanni Rezza. A pagina due si legge: “Le attuali conoscenze scientifiche relative ai test sierologici per il Covid-19 sono lacunose relativamente alla capacità di fornire informazioni sulla presenza di anticorpi neutralizzanti in grado di proteggere dall’infezione e sulla persistenza degli anticorpi a lungo termine”. Insomma, buco nero sia sulla durata sia sull’efficace.

Rezza riprende le linee dell’Organizzazione mondiale della sanità. Tanto chiare quanto sconfortanti. “Secondo l’Oms, sebbene l’impiego di kit di più semplice esecuzione rappresenti un’esigenza in situazioni di emergenza come quella attuale, gli approcci al momento tecnicamente più vantaggiosi e attendibili per una diagnosi d’infezione da SarsCov2 rimangano quelli basati sul rilevamento del virus in secrezioni respiratorie”. Tradotto: i tamponi nasofaringei, la “cui diagnosi molecolare va eseguita presso laboratori di riferimento regionali”. E non in laboratori privati come si sta ipotizzando per i test sierologici. Il documento diventa di una chiarezza cristallina a pagina tre. Qui Rezza scrive: “I test basati sull’identificazione di anticorpi IgM e IgG per la diagnosi di infezione da SarsCov2, secondo il parere espresso dal Comitato tecnico scientifico istituti presso il Dipartimento di Protezione Civile, non possono sostituire il test molecolare basato sull’identificazione di Rna virale dai tamponi nasofaringei”.

C’è di più. La presenza o meno di anticorpi, secondo il ministero, “non è indicativa di una infezione acuta in atto e quindi della presenza del virus nel paziente”. Fosse solo questo. Questi test possono rilevare sì un coronavirus, ma non quello che produce il Covid-19.

Si prenda ad esempio il test acquistato dalla Regione Lombardia. Circa 2,5 milioni di kit della ditta Diasorin. Questi rilevano gli anticorpi IgG, che indicano un’infezione datata e non in corso (IgM). Dopodiché intercettano due parti del virus, S1 e S2, che altro non sono che le famose Spikes, chiavi di accesso del virus nelle cellule umane. “Queste due parti – spiega la professoressa Maria Rita Gismondo dell’ospedale Sacco di Milano – sono crociate, il che significa che possono riferirsi a un altro tipo di coronavirus, come ad esempio il raffreddore”. Particolare fondamentale rilevato anche dal professor Rezza nella sua circolare. “Per ragioni di cross-reattività – si legge nel documento – con differenti patogeni affini, quali altri coronavirus umani, il rilevamento degli anticorpi potrebbe non essere specifico dell’infezione da SarsCov2”.

Quindi gli anticorpi se ci sono possono indicare anche un banale raffreddore, e se non ci sono non escludono il virus. “L’assenza di rilevamento di anticorpi – prosegue il documento del governo – non esclude la possibilità di un’infezione in atto in fase precoce o asintomatica e il relativo rischio di contagiosità dell’individuo”. Non solo: se il test sierologico è negativo questo non esclude affatto il contagio che può essere appena iniziato e non rilevato dagli anticorpi prodotti in minima quantità, tanto da non essere rilevati dai test. Insomma, secondo il ministero della Salute il test sierologico non è l’arma giusta per proseguire la ase 2.

Il ministero: “I test: buco nero per efficacia”

L’ultimo flop della battaglia contro il Covid-19 sono i tanto sbandierati test sierolgici. Non offrono alcun patentino di immunità, sono soggetti a errori e non hanno la minima rilevanza diagnostica. Ogni test si badi. Sia quelli più complessi mirati a individuare anticorpi neutralizzanti sia quelli rapidi che segnalano una risposta immunitaria.

La bocciatura arriva dal ministero della Salute attraverso una circolare di quattro pagine del 9 maggio firmata anche dal Direttore generale della Prevenzione sanitaria Giovanni Rezza. A pagina due si legge: “Le attuali conoscenze scientifiche relative ai test sierologici per il Covid-19 sono lacunose relativamente alla capacità di fornire informazioni sulla presenza di anticorpi neutralizzanti in grado di proteggere dall’infezione e sulla persistenza degli anticorpi a lungo termine”. Insomma, buco nero sia sulla durata sia sull’efficace. E già questo basterebbe a indicare via diverse che poi è sempre la stessa: più tamponi. Rezza riprende le linee dell’Organizzazione mondiale della sanità. Tanto chiare quanto sconfortanti. “Secondo l’Oms, sebbene l’impiego di kit di più semplice esecuzione rappresenti un’esigenza in situazioni di emergenza come quella attuale, gli approcci al momento tecnicamente più vantaggiosi e attendibili per una diagnosi d’infezione da SarsCov2 rimangano quelli basati sul rilevamento del virus in secrezioni respiratorie”. Tradotto: i tamponi nasofaringei, la “cui diagnosi molecolare va eseguita presso laboratori di riferimento regionali”. E non in laboratori privati come si sta ipotizzando per i test sierologici. Il documento diventa di una chiarezza cristallina a pagina tre.

Qui Rezza scrive: “I test basati sull’identificazione di anticorpi IgM e IgG specifici per la diagnosi di infezione da SarsCov2, secondo il parere espresso dal Comitato tecnico scientifico istituti presso il Dipartimento di Protezione Civile, non possono, allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica, sostituire il test molecolare basato sull’identificazione di Rna virale dai tamponi nasofaringei”. Passaggio lungo ma nemmeno tanto complicato da capire. C’è di più. La presenza o meno di anticorpi, secondo il ministero, “non è indicativa di una infezione acuta in atto e quindi della presenza del virus nel paziente e del rischio associato a una sua diffusione nella comunità”. Fosse solo questo. C’è ancora altro. Questi test possono rilevare sì un coronavirus ma non quello che produce il Covid-19. Si prenda ad esempio il test acquistato dalla Regione Lombardia. Circa 2,5 milioni di kit della ditta Diasorin. Questi rilevano gli anticorpi IgG, che indicano un’infezione datata e non in corso (IgM). Dopodiché intercettano due parti del virus, S1 e S2, che altro non sono che le famose Spikes, chiavi di accesso del virus nelle cellule umane. “Queste due parti – spiega la professoressa Rita Gismondo dell’ospedale Sacco di Milano – sono crociate, il che significa che possono riferirsi a un altro tipo di coronavirus, come ad esempio il raffreddore”. Particolare fondamentale rilevato anche dal professor Rezza nella sua circolare. “Per ragioni di cross-reattività – si legge nel documento – con differenti patogeni affini, quali altri coronavirus umani, il rilevamento degli anticorpi potrebbe non essere specifico dell’infezione da SarsCov2”. Quindi gli anticorpi se ci sono possono indicare anche un banale raffreddore e se non ci sono non escludono il virus. “L’assenza di rilevamento di anticorpi – prosegue il documento del governo – non esclude la possibilità di un’infezione in atto in fase precoce o asintomatica e il relativo rischio di contagiosità dell’individuo”. Insomma, il test sierologico non è esattamente l’arma giusta per proseguire la fase due. Lo è, invece, per tracciare un quadro epidemiologico di come ha circolato il virus, come ha spiegato ieri l’immunologo Alberto Mantovani. Sul fronte della sorveglianza attiva (la vera arma per non ricadere nell’emergenza) l’unica soluzione è il tampone. Anche perché se il test sierologico è negativo questo non esclude affatto il contagio che può essere appena iniziato oppure il livello di anticorpi sviluppati è sotto la linea rilevata dai test.

Lo studio di Pavia “Con il plasma mortalità ridotta”

La pubblicazione scientifica ancora non c’è. Ma la Regione Lombardia annuncia la conclusione del primo studio su 49 pazienti Covid trattati con il plasma iperimmune, la terapia a base di anticorpi neutralizzanti per il virus Sars-Cov2 donati dai pazienti guariti, condotta dal Policlinico San Matteo di Pavia e dal Carlo Poma di Mantova. “Non possiamo rilasciare i dati dei risultati,” spiega al Fatto Raffaele Bruno, professore di Malattie infettive all’Università di Pavia, co-autore dello studio. Prima bisogna attendere la valutazione degli esperti della rivista scientifica a cui il gruppo ha sottoposto i risultati. “All’inizio la mortalità nei pazienti in ventilazione assistita ricoverati in terapia intensiva era tra il 13 e il 20%, circa il 15% di media, mentre con la cura con il plasma iperimmune è scesa al 6%. Da un decesso atteso ogni 6 pazienti, si è verificato un decesso ogni 16”, ha spiegato Fausto Baldanti, direttore unita virologia del San Matteo di Pavia. La viremia, cioè la quantità di virus nell’organismo dei malati, sembra ridursi significativamente dopo l’infusione del plasma iperimmune.

Lo studio ha stabilito anche la quantità minima di anticorpi necessaria affinché la terapia risulti efficace, un numero che i medici chiamano titolo anticorpale. “Anche con un titolo non altissimo, solo medio, la terapia sortisce buoni risultati”. L’indicazione del numero minimo di anticorpi necessari è importante perché non è ancora chiaro per quanto tempo gli anticorpi persistono nel sangue dei guarito. Ed è anche il motivo per cui bisogna prelevare il plasma il prima possibile. “È uno studio cosiddetto di proof of concept, cioè è servito a testare un’idea per vedere se effettivamente avrebbe offerto un’indicazione di efficacia, e valutarne la sicurezza, prima di passare a uno studio più ampio e randomizzato”. Gli effetti collaterali, cioè, che potrebbe causare. “Abbiamo avuto solo 4 casi di reazioni avverse, come il rush cutaneo (arrossamento della pelle, ndr), questo indica che la terapia non sembra rappresentare un rischio per i pazienti”. La sicurezza è forse il dato più significativo che uno studio con un solo gruppo di pazienti, tutti trattati con la stessa terapia, può dare. Non c’è stato ancora il confronto con un altro gruppo di malati Covid sottoposti a un trattamento diverso, in modo da poter valutare davvero l’efficacia del plasma rispetto all’alternativa. È il principio degli studi randomizzati, che offrono maggiore possibilità di eliminare i fattori confondenti e portare alla luce la reale efficacia di una terapia o di un farmaco nuovo. Ora il gruppo lombardo è già al lavoro sul disegno di uno studio molto più ampio, randomizzato e multicentrico, che coinvolgerà tutti gli ospedali Covid della Regione Lombardia.

Pochi giorni fa, l’Agenzia del farmaco (AIfa), l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), il Comitato etico dello Spallanzani di Roma e il Centro nazionale sangue hanno approvato un protocollo nazionale per trattare i pazienti Covid con il plasma iperimmune in tutta Italia e in modo uniforme. Guideranno lo studio Cesare Perotti, dirigente di immunoematologia del San Matteo di Pavia (responsabile dello studio lombardo sui 49 pazienti) e Francesco Menichetti, direttore dell’Unità operativa di malattie infettive dell’Azienda ospedaliero-universitaria pisana. Sorprende che il modello di riferimento per la sperimentazione nazionale non sia il protocollo dello studio già concluso di Pavia e Mantova, ma è lo studio multicentrico randomizzato disegnato da Pisa. Quello studio è stato annunciato ai primi di aprile, ma di fatto non è mai partito. Menichetti spiega al Fatto che solo un paziente è stato trattato nell’ambito di quel protocollo sperimentale e altri 4 fuori dal protocollo. Come mai non puntare sul cavallo che al momento, appare non solo vincente (sebbene saranno i risultati della pubblicazione scientifica a dirlo), ma di certo più avanti, con un’esperienza già di 49 pazienti e altri 50 fuori dal protocollo, in uso cosiddetto compassionevole? Aifa non ha risposto alla richiesta di chiarimenti del Fatto.

Lombardia ancora in ritardo Mappati solo 2 per un infetto

Caccia al virus e sorveglianza sui nuovi positivi. La ricetta per ripartire appare semplice, ma solo sulla carta. Nella pratica la nuova strada varata dalla Regione Lombardia è già piena di buche. A partire dai test sierologici, proseguendo poi con i tamponi per finire con la mappa dei contatti. Ripartiamo da questi per scoprire che la regione guidata dal governatore Fontana in quasi tre mesi d’emergenza ha seguito ben poco i contatti delle persone risultate positive. Meglio hanno fatto quasi tutte le altre regioni e soprattutto quelle del Nord come il Veneto. Il rapporto è senza gara.

Se il Veneto per ogni positivo al Covid-19 segue fino a 12 contatti, la Lombardia si ferma a 2. Il calcolo è stato fatto dal consigliere regionale del Pd Samuele Astuti che spiega: “Regione Lombardia sta guidando la Fase Due alla cieca. E il quadro che emerge analizzando i dati forniti dalla Protezione Civile (aggiornati al 7 maggio) è disarmante: in Lombardia sono state sottoposte a tampone diagnostico 262.964 persone dall’inizio dell’emergenza e sono emersi 80.089 casi positivi. Nello stesso arco temporale, in Veneto, i tamponati sono stati 236.281 individuando 18.530 positivi. Il dato più rappresentativo della distanza tra il modello lombardo e quello veneto sta nel rapporto tra questi due fattori. In Lombardia vengono testate 3 persone per trovare un positivo, mentre in Veneto il rapporto è, addirittura, di uno su 13”.

Il dato principale di questo calcolo è che ancora oggi in Lombardia si stanno facendo pochi tamponi, tanto più che la cifra media di 13mila è divisa a metà tra persone testate per la prima volta e persone che hanno avuto già diversi tamponi. Il tema dei contatti resta però decisivo. È una battaglia che fin dalle prime settimane del contagio è stata sostenuta dal professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano, il quale sostiene che l’ipotetica prossima ondata sarà scoperta seguendo la provenienza dei tamponi positivi e quindi tenendo sotto controllo i focolai e non tanto la crescita dei numeri in assoluto.

Appare così clamorosa la storia del Comune di Cisliano, in provincia di Milano, che dimostra l’assenza sul territorio degli esperti della Regione. Il sindaco Luca Durè ieri ha depositato un esposto alla procura di Pavia segnalando “le omissioni” della Regione e dell’Ats. Il motivo è questo: a metà aprile il primo cittadino decide autonomamente di testare circa mille persone tra impiegati pubblici e volontari. I test sierologici del tipo ELISA (i più attendibili) confermano la positività agli anticorpi per 45 persone. Non sono però i test della ditta Diasorin, unico fornitore ufficiale della Regione. Il sindaco indica per queste 45 persone la quarantena volontaria. Il 24 aprile una mail segnala all’Ats il caso che di per sé potrebbe rappresentare un focolaio visto che non si sanno i contatti di queste persone. Si chiede di intervenire per fare i tamponi. La risposta non arriva. Una seconda e una terza mail segnalano la situazione anche al governatore Fontana, all’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera e al ministero. Che succede? Nulla.

Non è finita. A Robbio, in provincia di Pavia, dopo i test sierologici fatti fare dal sindaco Roberto Francese a metà aprile, 400 persone sono risultate positive agli IgG. L’informazione è arrivata all’Ats di Milano e al vicepresidente della Regione Fabrizio Sala. A ieri, nessuno ha provveduto a fare i tamponi, lasciando scoperto l’ennesimo possibile focolaio. La riprova del rischio, a un mese da quei test, è data dal fatto che una signora incinta (positiva a IgG) ha fatto il tampone ed è risultata positiva. Eppure la Regione non è mai intervenuta, negando anche la possibilità di donare il sangue immune perché i test non erano quelli della Diasorin. Piccole storie che descrivono la situazione generale. Con la Regione che stenta a ingranare sui test sierologici. La delibera che dovrebbe permettere di effettuarli anche ai laboratori privati è ferma. E dei 500mila test previsti ne sono stati eseguiti a oggi solo 33mila. Non in un giorno, ma dal 23 aprile al 6 maggio. Di questi 25.331 sono stati effettuati su operatori sanitari. Appena 3.516 (13%) sono risultati positivi agli anticorpi. I restanti 7.975 sono stati effettuati su soggetti in quarantena fiduciaria e mai sottoposti a tampone. Di questi 4.040, circa il 50%, è risultato positivo agli IgG. Su 33.306 test totali, 7.556 sono risultati positivi e testati con il tampone. Al momento non è chiaro quanti siano risultati positivi al test molecolare. Insomma, la situazione non migliora. Ieri i tamponi sono stati 7.508 con 364 casi positivi in più.

“La parola d’ordine era risparmiare, i tagli hanno smantellato la Prevenzione”

Pubblichiamo uno stralcio di “Il sistema sanitario nei giorni del Covid-19”, edito da Piemme.

A fine marzo del 2020, grazie alle inchieste dei giornalisti, scopriamo dell’esistenza di un “Piano pandemico nazionale”, ma questa parola prima non era mai circolata da nessuna parte. Basta fare una semplice ricerca su tutte le agenzie nazionali, e battere “piano pandemico nazionale” nell’arco temporale tra il 15 gennaio e il 25 febbraio del 2020, quando si scopre il primo caso italiano, e non esce fuori alcuna occorrenza. (…) È stato approvato dalla Conferenza stato-regioni nel 2006 ed è stato aggiornato l’ultima volta nel 2010. Con questo documento l’Italia si era allineata alle prescrizioni dell’Oms, che invitava tutte le nazioni a dotarsi di questo strumento già dal 2003, a seguito dell’epidemia della Sars e di aggiornarlo ogni 3 anni. Il Piano è costruito per rispondere alle sei fasi pandemiche eventualmente dichiarate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (…).

Americo Cicchetti dirige l’Alta scuola di Economia e Management dei sistemi sanitari dell’Università Cattolica. Tra i 300 studenti che la frequentano ci sono molti professionisti della Sanità pubblica, direttori sanitari e direttori generali. Nata dalla collaborazione tra la facoltà di Economia e quella di Medicina e Chirurgia, ha come obiettivo quello di formare al più alto livello il management del Servizio sanitario nazionale. Cicchetti è stato nel Consiglio di amministrazione dell’Istituto Superiore di Sanità e per sei anni ha lavorato nel Comitato prezzi e rimborsi dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco; insomma, è un profondo conoscitore di come funziona la macchina della Sanità anche ai livelli istituzionali più alti. E mi conferma che il Piano pandemico nazionale in quelle settimane non era nell’agenda del governo: “Nel mese che va dal 31 dicembre, quando è nata la task force, fino al 22 febbraio, non si è mai parlato del Piano pandemico. E neanche si è pensato di riprenderlo in mano e magari di aggiornarlo; avevamo un mesetto di tempo, ma nessuno ci ha pensato”. “Perché, secondo lei?”, domando.

“Secondo me è dipeso dal momento di debolezza che aveva il dipartimento della Prevenzione al ministero della Salute, da cui dipendeva il Ccm, il Centro per il controllo delle malattie che è proprio la struttura ministeriale dedicata al controllo delle epidemie. Una struttura importante, che negli ultimi anni è stata sottofinanziata. Io sfido tutti in questi giorni a dirmi il nome del direttore del dipartimento della direzione della Prevenzione al ministero della Salute. E sa perché? – continua Cicchetti – Perché il direttore generale di quella struttura era a fine mandato, doveva tornare in Regione Abruzzo perché è un dirigente, e non è stato sostituito.

Ma di fatto quel dipartimento era in fase di smantellamento. La struttura teoricamente c’era, ma ne erano stati ridotti di molto i finanziamenti. Questo è stato un problema enorme, perché quella struttura, che aveva la responsabilità di riprendere in mano il Piano pandemico nazionale per aggiornarlo nell’arco di un mese, alla fine non l’ha fatto. Quindi il Piano è rimasto sulla carta, ma sarebbe stato utilissimo – conclude Cicchetti – perché prevede tutte le possibili fasi dell’epidemia. C’è tutto lì dentro, anche come formare le persone che avrebbero dovuto affrontare in prima linea il contagio”.

Chiedo anche al prof. Giovanni Rezza (da pochi giorni nominato proprio alla Prevenzione del ministero, ndr) di parlarmi del Piano pandemico nazionale e il suo commento è lapidario: “Uno può fare i piani pandemici più belli del mondo, ma poi bisogna applicarli. C’è da capire tra Ministero e Regioni chi, durante questi anni, avrebbe dovuto renderli operativi. Certamente il Ccm, il Centro per il controllo delle malattie presso il ministero, è stato definanziato nel corso degli anni”. “Perché? Non era considerato importante?”, domando. “Perché la parola d’ordine è stata ‘risparmiare’, e alla fine si taglia dove si pensa che faccia meno male tagliare. Poi scoppia una pandemia e ci si rende conto di quanto quei tagli siano stati poco lungimiranti”.

Piano pandemico, ora lo scaricabarile. E ombre sull’Oms

L’Italia, come rivelato a marzo dal Fatto, aveva un Piano pandemico. È un documento che viene compilato dai Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità fin dall’epidemia di influenza aviaria del 2003 e riporta le azioni e le contromisure da mettere in atto in caso di eventi epidemici su larga scala. “Esso – si legge sul sito del ministero della Salute – rappresenta il riferimento nazionale in base al quale saranno messi a punto i Piani operativi regionali” e l’Oms “ha raccomandato “a tutti gli Stati “di aggiornarlo costantemente seguendo linee guida concordate”. Al di qua delle Alpi il compito spetta al Dipartimento Prevenzione del ministero. Tra il 2014 e il 2017, ha raccontato Report nella puntata di ieri, a guidarlo c’era Ranieri Guerra, oggi direttore aggiunto dell’Oms e a inizio marzo inviato a Roma per volere del direttore generale Tedros Adhamon Ghebreyesus in supporto al governo contro l’emergenza Covid-19. Sotto la sua direzione i Piani non sono stati aggiornati né le autorità sanitarie hanno pensato di fare stock di mascherine e altri Dpi per fronteggiare l’epidemia.

Interpellato sull’argomento, racconta il programma di Sigfrido Ranucci, Guerra preferisce non rispondere. Non lo fa neanche quando Serena Bortone durante la puntata di Agorà del 31 marzo gli fa notare che “il piano pandemico italiano non è stato aggiornato dal 2010”. “Non è così – si schermisce il professore – ci sono dei livelli di confidenzialità che devono essere rispettati”. Raggiunto poi dal cronista di Report Giulio Valesini, l’esponente dell’Oms scarica tutto su chi è venuto dopo di lui: “Non so nulla di quello che il governo italiano ha fatto negli ultimi tre anni”. Ma lo sapeva o no che l’Italia non aveva stoccato mascherine e non era pronta rispetto ai piani pandemici? “Non lo so, io non sono parte del governo”. Non lo è, ma il Piano pandemico è fermo dal 2010 e tra il 2014 e il 2017 a guidare il Dipartimento di Lungotevere Ripa che avrebbe dovuto aggiornarlo sedeva proprio lui, l’uomo inviato a Roma dal direttore generale Ghebreyesus. Sul cui operato aleggiano ormai da tempo diversi dubbi.

Ex ministro della Salute e degli Esteri dell’Etiopia, , ricorda Report, è uno dei leader del partito il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, è legato a doppio filo con il Partito comunista cinese e oggi ancora di più al presidente Xi Jinping per via dei pesanti investimenti fatti da Pechino nel Paese africano, in particolare nel settore delle infrastrutture. Primo africano a salire ai vertici dell’Oms, fin dall’inizio dell’emergenza Tedros ha lodato la gestione dell’epidemia messa in atto dal governo cinese e ha chiuso gli occhi sui ritardi delle comunicazioni diramate da Pechino sulla sua diffusione. Riavvolgendo il nastro: l’8 dicembre si ha la notizia del primo contagio (poi fatto risalire al 17 novembre) ma solo il 23 le autorità cinesi annunciano il lockdown di Wuhan. Eppure l’Oms non si scompone. Solo il 30 gennaio per Ginevra il covid-19 diventa “emergenza sanitaria globale”. Ancora: è il 14 gennaio quando l’Oms dal suo account ufficiale twitta che “dalle indagini condotte dalle autorità cinesi non emergono evidenze di una trasmissione da uomo a uomo del virus”. Le prime ammissioni arrivano il 22 gennaio, quando si contano già migliaia di contagiati.

I dubbi si estendono anche ai finanziatori dell’agenzia Onu. Il suobilancio è stato di 5,6 miliardi di dollari lo scorso biennio, ma neanche il 20% di questi sono fondi pubblici. L’80% arriva da privati come Bill Gates la cui fondazione versa più mezzo miliardo di dollari ogni biennio e decide le priorità dell’agenzia. Ora il magnate ha annunciato di voler contribuire alla ricerca di un vaccino anti-Covid-19 ma i fondi che dà all’Oms provengono dal trust di famiglia, che investe centinaia di milioni (323 nel 2018) nelle case farmaceutiche, da Novartis a Pfizer. Ha anche investito 237 milioni solo nella Walgreen Boots Alliance società che distribuisce farmaci in mezzo mondo.

Le mascherine introvabili e Arcuri a caccia di reagenti

Il prezzo è calmierato, massimo 50 centesimi a mascherina come voluto dal commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri, per evitare sciacallaggi. 61 centesimi se si considera l’Iva ancora applicata. Il problema è che queste mascherine non si trovano, lo ha denunciato Federfarma in un comunicato, ieri, ma abbiamo verificato chiamando direttamente le farmacie.

Non ce ne sono nel centro di Codogno (Lodi), dove – ci spiegano – per fortuna il Comune le sta distribuendo gratuitamente. Non riescono a ordinarle, hanno solo le Ffp2 a prezzi molto più alti. “Abbiamo chiamato i grossisti – spiegano dalla farmacia Navilli – ma c’è difficoltà a reperirle”. A Milano, la farmacia Boccaccio le ha anche se con difficoltà: “Le vendiamo in pacchi da 10 a 6,1 euro, ma c’è molto da trattare con i fornitori. Prima del prezzo fisso ricevevamo molte offerte, ora molte meno. E c’è tanto da trattare prima di arrivare alla chiusura di un ordine”. Niente alla Lloyds: “Sono finite, non sappiamo quando le riavremo”. A Roma, la Farmacia Angelini le ha: “Siamo abbastanza fortunati sulle forniture – spiegano – certo, non riusciamo a reperirle in giornata ma man mano che passano i giorni va meglio”. Ne ordinano circa mille a settimana. A mancare, da tempo, guanti di lattice e l’alcool. “Chi riesce ad averle probabilmente ha ordinato molto tempo fa – spiega Jessica Mele della farmacia della Serenissima –.Ogni giorno discutiamo con i clienti, pensano che noi non vogliamo venderle a prezzo ribassato. La verità è che sabato ce ne sono arrivate 200, le abbiamo finite in un paio di ore e non sappiamo quando arriveranno di nuovo”. Anche in questo caso ci sono problemi con i fornitori: “Bisogna trovare un accordo: se le dobbiamo vendere a 50 cent, dobbiamo acquistarle a meno. E la domanda sta superando la produzione: all’inizio si commercializzavano soprattutto le Ffp2 e Ffp3, ora si sono tutti orientati alle chirurgiche”. Alla farmacia De Remigis mancano da due settimane, a Reggio Calabria, dalla farmacia Staropoli, non sanno dirci quando arriveranno. Ad Ariano Irpino, ex zona rossa della Campania, alla farmacia del Tricolle ridono: “Quelle? Stanno solo sulla scrivania di Conte e Arcuri”.

Salvatore Russo è il titolare della farmacia Filangeri di Napoli: “Le avevamo fino a due settimane fa. Le avevamo pagate di più, ma le avevamo messe comunque a disposizione dei cittadini a 61 centesimi. Poi, una volta finite, sono iniziati i problemi di rifornimento. Oggi ho avuto un messaggio da un fornitore che mi ha detto che sono arrivate le chirurgiche della Protezione Civile e che ne consegnerà due confezioni a farmacia. Sono cento pezzi in tutto”. La domanda? “Dal 4 maggio è aumentata”. Nonostante la possibilità di utilizzare le mascherine fai da te? “Sì. La loro efficacia è e dubbia e a 50 cent in molti chiaramente preferiscono la chirurgica”.

Intanto, a ridosso della campagna nazionale per i test ematici (il decreto pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale) sul fronte tamponi ci sono altre difficoltà, a partire dalla carenza dei reagenti. Il commissario Domenico Arcuri ha lanciato infatti una richiesta alle imprese italiane e internazionali per la fornitura di reagenti che servono a fare 5 milioni di tamponi, già acquisiti. “La situazione – spiega il sottosegretario alla Salute Sandra Zampa – è complessa. Esistono molti tipi di reagenti e le Regioni ne stanno utilizzando tipi diversi, quindi ci sono reagenti e macchinari diversi”. Una carenza che se nell’immediato (a quanto spiega l’epidemiologo Pierluigi Lopalco) è tollerabile, visto che il tampone dovrebbe essere effettuato solo in caso di positività del test ematico, non lo sarà più in autunno quando sarà maggiore il rischio di una nuova ondata pandemica e bisognerà essere pronti a numeri molto più grandi.

“Stop al calcio al primo caso positivo”

Tutti in ritiro: il governo mette il pallone in quarantena. Alla Serie A che smania per giocare (cioè per incassare i soldi dei diritti tv), alla Figc che si agita per trovare una soluzione tra protocolli zoppicanti e formule stravaganti, il ministro Vincenzo Spadafora risponde con la più classica melina: via libera dal Comitato tecnico scientifico, ma solo per gli allenamenti, non per le partite su cui se ne riparlerà “almeno fra una settimana”. E comunque a condizioni così severe (isolamento per tutti al primo contagiato, responsabilità a carico dei medici dei club) che riprendere il campionato appare un’utopia.

In teoria è una buona notizia: il parere “non ostativo” degli scienziati è arrivato, dal 18 la Serie A comincia a scaldare i motori. Il diavolo, però, si nasconde nei dettagli. O negli aggettivi: il verbale del Cts definisce “largamente lacunosa e imperfetta” la documentazione fornita dalla Figc, e aggiunge che “non si sono avuti riscontri adeguati ai rilievi sollevati”. Insomma, il protocollo con cui la FederCalcio pensava di azzerare i rischi e far ricominciare la Serie A proprio non stava in piedi: bisognerà riscriverlo. I tecnici spiegano pure come.

Bastano una o due prescrizioni, infilate nei punti deboli di quel documento, per complicare i piani di ripartenza. La Figc contava di chiudere i calciatori in ritiro, fare esami in continuazione e trattare gli eventuali contagiati come semplici “infortunati”. Non andrà così: il Comitato pretende che “per ovvie ragioni di prevenzione” in caso di contagio anche di un solo membro l’intera equipe dovrà fare 14 giorni di quarantena. Significa che, al primo caso, il “countdown” delle due settimane iniziato il 18 maggio ripartirà da zero: adesso parliamo di allenamenti, ma se dovesse ricominciare il campionato, con partite ogni 72 ore per finire entro agosto, con questa regola un positivo farebbe saltare tutto il calendario.

Basterebbe ciò per far crollare le speranze di Lotito &C. Ma c’è altro. I tamponi non dovranno “minimamente impattare” sulla disponibilità dei reagenti, che però scarseggia in alcune Regioni. Il ritiro – quasi un sequestro di persona, visto che i tesserati non potranno uscire neanche per una passeggiata – non potrà limitarsi solo ai calciatori e ai tecnici come ipotizzato dalla Figc (che distingueva fra un gruppo interno e uno esterno con norme più blande), ma riguarderà tutti: dirigenti, assistenti, maestranze, lavoratori, chiusi per settimane. E la responsabilità ricadrà tutta sul pallone, cioè sui medici sociali, proprio mentre gli specialisti dei club erano già in rivolta e chiedevano una depenalizzazione.

Adesso la Figc si affannerà a riscrivere il protocollo, a mettere toppe ai buchi (si parla di una polizza per coprire i rischi sanitari), ma dai medici ai calciatori non mancheranno i malumori per queste condizioni (quasi) impossibili. Tornare ad allenarsi, spendere soldi per poi non giocare sarebbe una doppia beffa, che i club non possono permettersi: infatti adesso il calcio andrà in pressing sul premier Conte per ottenere certezze sulla data di ripresa della Serie A.

Non sembra una preoccupazione di Spadafora, ministro dello sport e non del calcio, come ricorda lui: “La prudenza è la linea giusta da seguire, avremo bisogno almeno di un’altra settimana per vedere la curva dei contagi e poter poi decidere sul campionato”, ha tagliato corto, prima di cambiare argomento e annunciare le linee guida per riaprire entro maggio palestre e impianti. Altro che Serie A.