Dalle Regioni dati mancanti o parziali: la Fase2 sarà al buio

Dopodomani il governo dovrebbe avere in mano tutti i dati sull’epidemia da Covid-19 della prima settimana di “fase 2” con cui programmare le nuove riaperture a partire da lunedì. Allora è utile chiedersi: com’era l’Italia che, con tutte le limitazioni che conosciamo, è tornata in strada il 4 maggio? A stare alle schede, regione per regione, del ministero della Salute – che Il Fatto ha potuto visionare – sicuramente l’epidemia era in forte contrazione, merito soprattutto dei cittadini che hanno rispettato i divieti nel corso di due mesi, con un indice di riproduzione dei contagi mediamente attorno allo 0,5 (due malati contagiano in media una persona). Il sistema istituzionale, invece, non pare essersi organizzato per tornare alla normalità.

In soldoni, nella fase 2 entreremo al buio: quasi tutte le Regioni (fanno parziale eccezione Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Provincia di Bolzano) non paiono in grado di fornire dati di sorveglianza epidemiologica completi, né di accorciare i tempi tra rilevazione dei sintomi e diagnosi della malattia nei 5 giorni limite individuati dal ministero (e, spesso, nemmeno di fornire informazioni in materia). Ovviamente quest’ultima mancanza è tanto più preoccupante quanto più sono alti i contagi: velocizzare la scoperta dei malati (e testarne i contatti) è fondamentale per bloccare nuovi focolai. E invece “non è possibile valutare” e “non disponibile” sono le due dizioni ricorrenti per tutti.

Al momento, insomma, il parametro più sicuro a disposizione pare l’impatto del virus sugli ospedali: situazione in miglioramento ovunque, anche in Lombardia, che però continua a presentare numeri oltre le soglie d’allarme, motivo per cui è l’unica Regione al 4 maggio a essere considerata a “rischio moderato”, livello a partire dal quale è consigliato andarci piano con le riaperture (tutte le altre Regioni sono ritenute a “rischio basso”). Problema: gli ospedali sono, per così dire, gli ultimi a sapere che la malattia si sta diffondendo, nel senso che ci si arriva molto dopo averla contratta.

Le schede coi dati aggiornati alla settimana tra 4 e 10 maggio decideranno, come detto, chi e come potrà anticipare le riaperture. Allora, escluso il non sorprendente giudizio sulla Lombardia, vediamo quali sono le situazioni più a rischio. Un occhio di riguardo verrà dato al Piemonte, che finora sembra seguire la dinamica lombarda con 7-10 giorni di ritardo. La regione, dice il ministero, “mostra un livello di completezza nei dati di sorveglianza non in linea con le soglie previste per la fase di valutazione” (come la Lombardia, d’altra parte). Incompleti pure i numeri sulla tempistica sintomi/tampone, che pur parziali riportano tempi tre volte più alti della soglia limite di 5 giorni (ma la Calabria ce ne mette 24). Alta, anche se sotto-soglia, pure l’occupazione dei posti letto dopo due mesi di lockdown: il 19% di quelli in terapia intensiva (limite al 30%) e il 32% dei cosiddetti “posti Covid” (limite al 40). Anche per questo i rumors indicano che il governatore Cirio procederà assai cauto nella “fase 2”.

Situazione più tranquilla, ma sempre da monitorare, è quella della Liguria, che non riesce a fornire “dati di sorveglianza” di qualità e in media (ma anche qui mancano molti numeri) riesce a fare il tampone ai sintomatici solo dopo 13 giorni: per di più la Regione di Giovanni Toti ha un indice Rt di riproduzione del virus nella parte alta della media (0,65). Questo stesso indice è invece molto basso (0,29) nelle Marche, che però ha più pazienti negli ospedali (il 22% dei posti in intensiva e il 29% di quelli Covid) ed è persino più carente nel fornire dati al ministero (“non disponibile”, ad esempio, quello sui tempi medi tra i sintomi e il test col tampone).

Un alto livello di attenzione in questa fase è necessaria anche per Toscana e Veneto, che pure sono assai più efficienti quanto a controllo e gestione dell’evoluzione dei casi sul territorio. Anche l’Emilia-Romagna pare cavarsela bene da questo punto di vista, ma al 4 maggio aveva numeri assai più alti negli ospedali: il 27% dei posti in terapia intensiva (vicina alla soglia del 30) e il 33% dei posti Covid (soglia al 40).

Fin qui i territori su cui l’impatto del virus è stato maggiore, ma non mancano situazioni a rischio anche nel Centro-Sud, dove in generale la sorveglianza epidemiologica è più carente della media. Il Lazio, ad esempio, presenta come tutte le regioni un trend in discesa e ha pochi “positivi” in terapia intensiva (l’11% dei posti totali), ma parecchi nei “letti Covid” (il 29% del totale) e soprattutto – anche se “il dato non è validato” – “sono stati captati tre focolai dal sistema di epidemic intelligence (a inizio maggio, ndr): in una casa di cura, presso una Irccs di neuroscienze e riabilitazione e in un ospedale”. Cioè i posti più pericolosi per avere un focolaio. Stessa situazione della Campania, dove il sistema ha “captato un focolaio domiciliare e uno in una Rsa”: la regione, che è inadempiente su tutti dati rilevanti, ha comunque una buona situazione negli ospedali. Vanno segnalati, infine, anche in una situazione relativamente tranquilla, gli indici di riproduzione del virus al 4 maggio in Puglia e Sicilia: 0,96 la prima e addirittura 1,12 la seconda, il più alto tra le regioni italiane.

Lunedì via a ristoranti e bar “Ma se va male si richiude”

Il fuggi fuggi non poteva certamente essere fermato a colpi di impugnative in tribunale. E al governo era ormai chiaro che la tabella di marcia che vedeva bar, ristoranti, parrucchieri e centri estetici rimanere chiusi per altre due settimane non sarebbe stata rispettata. Tanto più che i dati sui contagi sembrano confortanti, pur con le gigantesche incognite su tamponi e tracciamenti. Così, ieri sera, Giuseppe Conte ha detto ai governatori quello che volevano sentirsi dire da un po’: fate voi. O meglio: questo è quello che avverrà nel concreto, anche se Palazzo Chigi ha comunque deciso di annunciare in prima persona le riaperture di lunedì prossimo. Probabilmente tra giovedì e venerdì, quando arriveranno i dati sull’andamento della curva epidemiologica e si potranno confrontare con quelli fermi alla fine del lockdown di dieci giorni fa (li trovate qui a fianco, ndr).

Inizia così, per dirla con il ministro Francesco Boccia, la “fase della responsabilità”. Che tradotto significa che chi ha fretta deve aspettarsi un discreto boomerang se qualcosa dovesse andare storto. Un avvertimento che i governatori devono aver bene inteso se, appena uscito dall’incontro con il premier, il presidente della Liguria Giovanni Toti ha subito detto che “serve che nei prossimi provvedimenti che il governo assumerà si distingua bene tra responsabilità nazionali e locali proprio per disinnescare ogni attrito” .

Durante la videoconferenza con i presidenti di regione, ieri sera, Conte ha infatti chiarito che lascerà sì “la possibilità di integrare la nostra proposta con ulteriori riaperture” (palestre, spiagge, etc) ma anche che interverrà con “chiusure territoriali circoscritte” se i parametri anti-focolaio dovessero venire superati.

Un doppio binario, quindi, che risponde al pressing del territorio e al profluvio di ordinanze emanate in contrasto con il Dpcm tuttora in vigore, ma che ovviamente tiene conto delle indicazioni del Comitato tecnico scientifico.

D’altronde era stata una delle critiche a Conte che erano arrivate anche dai governatori più “responsabili”: annunciare fin dall’inizio della fase 2 che la riapertura di bar, ristoranti e parrucchieri sarebbe stata posticipata al primo giugno era parso un po’ troppo prudente, perché non considerava l’evoluzione della situazione dopo settimane di chiusura. Ma è ovvio che vale anche il contrario: se i contagi sono scesi è perché le situazioni di socialità sono state ridotte ai minimi termini. E non a caso, da alcuni governatori trapela una certa cautela sul “liberi tutti” in arrivo, perché sono preoccupati di non essere in grado di gestire l’eventuale ricaduta.

Per questo molto dipenderà dal rispetto delle linee guida che l’Inail ha scritto in queste ore, ovvero i protocolli per la sicurezza delle attività che devono riaprire. Centri estetici e barbieri, ma soprattutto i luoghi della socialità per antonomasia, quelli in cui si va a prendere una birra o a mangiare una pizza in compagnia. Ecco, su questo l’allarme è già alle stelle. Perché secondo la Federazione dei pubblici esercizi, garantire – come dicono le indiscrezioni – 4 metri quadri per ogni tavolo significa ridurre del 60 per cento la capacità di ospitare clienti di bar e ristoranti. A meno che non siano persone già conviventi: secondo quanto anticipato ieri dal Corriere sarà previsto un apposito modulo del Viminale con cui le famiglie potranno autocertificare di potersi sedere a distanza ravvicinata, esonerando così il ristoratore da ogni responsabilità. Nessun riferimento, per ora, ai celeberrimi congiunti che abbiamo scoperto nella fase 2.

Identiche perplessità per il settore balneare: anche qui il rispetto del distanziamento impone una riduzione drastica del numero di ombrelloni, visto che secondo le bozze circolate ce ne sarà uno ogni 6-9 metri. La presidente della Calabria Jole Santelli, fresca di sconfitta al Tar (aveva permesso ai bar di fare servizio all’aperto), già tuona: “Invito il Governo a spiegarmi come sia possibile farlo in Calabria, con una costa in gran parte erosa e frazionata, soprattutto in quelle aree dove il turismo è attività vitale e primaria”. La battaglia, insomma, è appena ricominciata.

I senzavergogna

Era un bel po’ che non ci vergognavamo di essere italiani per colpa di nostri connazionali, a parte qualche politico senza vergogna che ci fa vergognare in permanenza da quando è nato. Ieri, a leggere dichiarazioni leghiste e deliri social di conigli da tastiera sulla liberazione di Silvia Romano, la vergogna è tornata. Perché c’è chi è riuscito a sporcare una notizia che tutti avrebbero dovuto salutare con gioia e anche con un pizzico di orgoglio nazionale. Se la nostra cooperante si è convertita all’Islam sono fatti suoi. Se l’ha fatto per costrizione, se non fisica, almeno psicologica, oppure per una scelta “autoprotettiva” come dice il primo referto psicologico, sono ancora fatti suoi. Se resterà per sempre Aisha o un giorno tornerà Silvia sono sempre fatti suoi. Nessuno ha il diritto di intrufolarsi nella sua psiche: per farlo bisognerebbe aver vissuto un anno a mezzo in mezzo alla foresta nelle grinfie di feroci terroristi. Chi non ha subìto quell’atroce esperienza, cioè tutti, dovrebbe solo tacere.

Poi c’è la questione del riscatto, probabilmente pagato dai nostri servizi segreti con fondi riservati (che servono anche a questo) dietro autorizzazione del delegato del governo agli 007: il premier Conte. Su questo ogni opinione è legittima, anche se il dibattito si ripropone sempre uguale dai tempi dei sequestri anni 70 e 80 a opera dei terroristi rossi e delle Anonime calabrese e sarda e di nuovo dopo il 2001, quando ci imbarcammo con Usa e altri alleati nelle guerre in Afghanistan e in Iraq. Ai tempi del terrorismo, lo Stato decise quasi sempre di “pagare”, fuorché per Aldo Moro (ma, quando fu ucciso, il presidente Leone era pronto a liberare una brigatista malata e il Vaticano a versare una grossa somma). E proprio il contraccolpo del suo cadavere segnò l’inizio della fine delle Br. Nel caso delle Anonime Sequestri, erano i famigliari, spesso aiutati da servizi e faccendieri vari, a pagare i riscatti. Poi la legge sul sequestro dei beni e la linea dura di certe Procure, come quella di Palermo in Sardegna (dov’era coinvolto un pm, che poi si suicidò), resero improduttiva quell’attività criminale, che si esaurì. Poi iniziarono i sequestri di nostri contractor, giornalisti e cooperanti in Iraq e Afghanistan e anche allora i nostri governi (il Berlusconi-2 con FI-Lega-An-Udc e il sottosegretario Gianni Letta delegato ai servizi, e poi anche il Prodi-2) decisero di pagare sempre i riscatti. Ma non sempre riuscirono a salvare la vita agli italiani rapiti (il reporter Baldoni e il contractor Quattrocchi furono uccisi, altri come i giornalisti Sgrena e Mastrogiacomo tornarono illesi).

La cosa creò furibonde frizioni con gli alleati americani e inglesi, che invece non pagavano riscatti e sacrificavano i propri ostaggi (ci andò di mezzo il dirigente del Sismi Nicola Calipari, ucciso dal fuoco “amico” made in Usa dopo il riscatto per la Sgrena). Quando a pagare i riscatti era il centrodestra, per non discutere la scelta incoerente e paradossale di B.&C. di entrare in guerra contro il terrorismo e poi di foraggiare i terroristi che si diceva di combattere mettendo vieppiù in pericolo i nostri uomini sul campo, i partiti e i giornali di destra riempivano di insulti gli ostaggi (a parte i contractor) perché “se l’erano cercata”, erano “vispe terese” (le due Simona) e “pirlacchioni in vacanza” (Baldoni). Ora il caso di Silvia Romano, come quelli degli altri ostaggi sequestrati in guerre per bande che non ci riguardano, è totalmente diverso sia da quelli dell’Iraq e dell’Afghanistan, sia da quelli del brigatismo e delle Anonime. Stavolta le ragioni umanitarie non confliggono con gli interessi nazionali. I terroristi islamisti somali di al-Shabaab, impegnati nell’eterna guerra civile del Corno d’Africa, sequestrano occidentali per legittimarsi e arricchirsi, ma non sono una minaccia diretta per l’Italia, come invece lo erano le Br che avevano dichiarato guerra allo Stato, le Anonime Sequestri che esistevano proprio grazie ai riscatti pagati e anche gli islamisti di al Qaeda e delle altre sigle mediorientali che avevano esportato in Occidente la loro folle guerra santa. Dunque pagare un riscatto, come peraltro sempre si è fatto anche nei confronti di nemici diretti e dichiarati, era doveroso.

Ma su questo le opposizioni, se non avessero fatto lo stesso in circostanze molto diverse, sarebbero libere di polemizzare quanto vogliono. Anche di accusare Conte di non aver condannato a morte una ragazza di 20 anni. Purché non mentano. Le polemiche sul ruolo della Turchia, che ha aiutato nelle indagini l’Aise con i suoi servizi molto presenti in Somalia, fanno ridere, visto che è nostra alleata nella Nato. E quelle sulla “passerella” di Conte e Di Maio denotano un tragicomico crollo della memoria. Il 5 marzo 2005, quando a Ciampino atterrò la Sgrena, trovò ad attenderla una delegazione politica ben più pletorica del duo Conte-Di Maio domenica accanto a Silvia: c’erano Berlusconi, Letta, il presidente della Camera Casini, il sindaco Veltroni, il segretario del Quirinale Gifuni e il direttore del Sismi Pollari. Mancava solo Salvini, che si rifece con gl’interessi all’arrivo di Cesare Battisti. E ora chiede “sobrietà” agli altri. Ma va a ciapà i ratt.

Fagioli, spatole e specchietti: ceretta fai-da-te? Ahi ahi ahi…

A quindici giorni dall’inizio dell’isolamento, ho mandato una foto alla mia estetista, che mi ha risposto sarcastica: “Pensavo stessi andando di lametta”. E invece no: in preda al panico da ricrescita selvaggia, mi ero addirittura comprata il rullo, quella sorta di parallelepipedo rettangolo che, una volta caldo, stende la ceretta sulla parte interessata quasi come una schiacciasassi sulla superficie lunare. Simpaticissimo.

Ho costretto mia figlia a un’esilarante seduta nel bagno di casa, condannata a ricevere la sua vendetta da adolescente – sapeste la foga del suo strappo… – pur di vincere la mia battaglia contro il pelo. È durato poco, roba da ’na botta e via. Il rullo non mi bastava più. “Del resto – pensavo, sprezzante del pericolo – se sono trent’anni che faccio la ceretta qualcosa avrò pure imparato, no?”. E così all’inizio di aprile ho cercato su Amazon “kit scaldacera”. Ovviamente mi si è aperto un mondo: da quelli super professionali con termostato regolabile a quelli che, al posto del barattolino, ti forniscono i “fagioli di cera” di tanti colori, dal “bagno di paraffina per mani, piedi e gomiti morbidi” allo “scaldacera portatile per epilatore per capelli” (sic). Ne ho ordinato uno non troppo pretenzioso (i prezzi variano dai 15 euro, per la cera che si scalda nel microonde ma che trovi pure al supermercato, ai 120) e subito dopo mi è preso il panico: “Sei sicura di ricordarti in quale verso va spalmata la cera e in quale, invece, si strappa?”. Purtroppo la quarantena incide, eccome, sullo stato di salute mentale. Ma per tutto c’è un rimedio, e si chiama Youtube.

Un mondo pieno di tutorial che vanno dal semplice “Scuola di ceretta, tecniche e regole” al complesso “Ceretta brasiliana per peli corti e duri” (maschili) fino all’ambiguità di titoli che ti fanno credere di aver sbagliato suffisso al sito cercato: “La mia ragazza mi fa la ceretta per punizione”. C’è un universo fetish anche tra le spatole. Dovendo portare a termine la mia missione, mi affido a colei che sembra una professionista, almeno stando alle oltre 400 mila visualizzazioni. Undici minuti di video per imparare a depilarsi gambe e “zona bikini” (che in vista di quest’estate sembra quasi un oltraggio). Dopo le prime spiegazioni sull’occorrente, compreso l’olio alle mandorle nella bottiglietta d’acqua vuota e uno specchietto che ha il lato “ingrandimento”, la gentile signorina inizia a mostrare come spalmare correttamente la sostanza, come sistemare la striscia e come strappare. E così la mia incertezza sul verso trova conforto. Il problema – si fa per dire – arriva quando tocca alla suddetta zona bikini. Raffreddate gli spiriti bollenti: la signorina rimane in shorts, il che però rende ancora più surreale l’immagine dello specchietto posato sul pavimento, in vista – parola opportuna – della posizione modello bagno alla turca che l’esperta deve assumere. E qui ci fermiamo, per decenza. Anche perché hanno appena citofonato: sono arrivati i rasoi nuovi.

Quarto Oggiaro, Bronx di Milano: ecco la scuola alfiere della Repubblica

Mentre il Paese appare in debito di buon senso, il messaggio di serietà e di spirito costituzionale viene da un quartiere di periferia detto un giorno “il Bronx di Milano”. Ecco dunque a voi Quarto Oggiaro che si fa Stato. Con i suoi insegnanti pionieri, la sua gloriosa biblioteca di quartiere e le sue famiglie di gente qualunque, magari appena giunta in Italia. È la storia di una scuola elementare, la “Gherardini”, diventata esempio di pedagogia e di cultura civile. Che il capo dello Stato Sergio Mattarella ha recentemente incluso tra gli “alfieri della Repubblica”, facendone di colpo una delle migliori scuole italiane.

Tutto è nato dall’incontro fra la bibliotecaria Gisa Bianchi e la maestra Carmen Migliorini. La prima promuove ogni anno spettacoli e giochi per i bambini delle elementari e i ragazzini delle medie. Teatro dei burattini (“Una storia partigiana”) per i più piccini, giochi “memory” e tombole per i più grandi. Sempre ispirati agli ideali della Resistenza. Senza retorica, ma con originalità e la partecipazione diretta degli alunni. E in più offrendo, in collaborazione con l’Anpi, le testimonianze dirette dei partigiani Giovanni Marzona e Lena D’Ambrosio.

Succede dunque 2 anni fa che la maestra porti gli scolari della III C a vedere i burattini, e poi ci lavori sopra, progetti anche di fare scrivere loro un libriccino. E che, di fronte a tanto interesse, la bibliotecaria proponga per l’anno successivo anche lo svolgimento dei giochi immaginati per i più grandi. “Un programma bello corposo”, lo definisce. Si unisce un’altra maestra generosa, Silvia Di Paola. Una tombola (in ricordo dell’“Operazione tombola” sferrata contro i nazisti dalla Brigata Garibaldi e dai paracadutisti britannici) costruita con alcune date significative dell’epopea della Resistenza, dal giorno dello sciopero delle mondine alla liberazione del grande quartiere milanese di Niguarda.

E un gioco dell’oca, con le caselle della paura (Gestapo), della speranza (Radio Londra o le biciclette) e della vittoria (25 aprile, ovvio). I bambini giocano attivamente. Partecipano scegliendosi la squadra, brigate Garibaldi, Giustizia e Libertà, Osoppo, i badogliani, si scelgono il comandante e pure i nomi di battaglia, che spesso coincidono con i loro eroi del bene, tipo Mazinga o Power Rangers. Si entusiasmano per una vicenda storica che nei programmi di scuola nessuno racconterà loro.

Ma il momento più coinvolgente giunge quando Gisa Bianchi, d’accordo con le maestre, decide di raccontare loro le leggi razziali utilizzando l’espediente della messinscena. Un mattino, appena i bambini della IV C arrivano in biblioteca, dice loro che non vuole stranieri nei “suoi” locali. Un bambino allora piange. Gli altri restano interdetti e guardano le maestre per essere difesi dall’ingiustizia. Ma gli adulti sembrano tutti d’accordo. Allora esplode la protesta. La più vigorosa viene da una bambina italiana, “non puoi dirlo, siamo tutti uguali”. Finché arriva la spiegazione. È tutto uno scherzo, ma in Italia una volta è successo davvero. E si leggono alcuni articoli della legge del ’38. “Guardi, dopo quell’esperienza, credo che nessuno di loro diventerà fascista”. Dopo un po’ hanno fatto il libriccino, un centinaio di copie con l’aiuto delle maestre e del Municipio 8, quello di Quarto Oggiaro. E la maestra Migliorini era così orgogliosa del lavoro dei suoi alunni che, quando ha letto del progetto degli “alfieri della Repubblica”, ha spedito tutto al Quirinale. Senza passare per l’Anpi, né per il comune di Milano, né per la preside. Da semplice maestra elementare.

Finché un giorno, nell’incredulità generale, è arrivata la comunicazione ufficiale, “siete tra i vincitori”. Targa dedicata “ai piccoli studiosi della nostra democrazia”. Ed è stata festa grande. Così l’ex Bronx si è rivelato avanguardia della Repubblica. I bambini, oggi prossimi alla fatidica licenza elementare, “sono gasatissimi” assicura Gisa. Si sono fatti autografare i libretti da Giovanni, uno dei due partigiani (“e questo per loro è stato uno dei fatti più importanti”), Lena nel frattempo se n’è andata. Si porteranno il ricordo di quando hanno mescolato con innocenza miti della Resistenza e cartoni animati, e con innocenza hanno scoperto lo sfregio del razzismo. Con questa specie di 8 settembre che striscia lungo le trincee delle istituzioni, vedere che nel quartiere già chiamato “del degrado e dello spaccio” c’è una bella trincea che funziona, è una consolazione. Credetemi.

L’imprevisto sulla strada del lockdown

Amiche e amici del lunedì, affezionati o casuali, permettetemi una digressione. Nel leggermi in questi quasi 5 anni avete fatto finta di credere alle vicende d’una bambina, poi d’una ragazza, che racconta di tempi, di luoghi, di temi e di persone di ieri che in realtà sopravvivono solo nelle mie memorie di donna. Io ho fatto finta di scrivere il diario di un’adolescente, come se i fatti non appartenessero al passato, ma fossero accaduti oggi. Abbiamo fatto finta nella più totale sincerità, come accade nei romanzi, nei film, o in qualche bello spettacolo. I ricordi che è valso la pena trasmettervi sono quelli di tutti, attinti in una memoria che non è solo mia. Ma una cosa così, come quella che tutti viviamo ora, che ci impaurisce e ci affratella, e che se non stiamo bene attenti può rischiare di dividerci, io, voi, noi tutti, non possiamo ricordarla, possiamo solo viverla. Perciò vorrei che mi permetteste di riflettere sull’adesso, lasciando da parte per un momento le mie piccole cronache degli anni ’90. Finalmente sono andata a trovare mia madre. Lei vive in campagna lungo una strada stretta e tortuosa che s’insinua nei boschi. Mi è sempre piaciuto percorrerla, fin da bambina, specie nei tratti in cui il cartello stradale, quello col cervo disegnato che salta, avvisa della presenza di animali selvatici. Di animali non ne avevo mai visti prima d’ora, ma oggi, come d’incanto, non un cervo, ma un’orsa mi ha attraversato la strada, e poi dietro di lei i suoi cuccioli. Mi sono fermata a osservarli, a respirare la natura. Noi stiamo lì, a guardarli come fossero degli invasori, in realtà sono loro che avrebbero tutto il diritto di stupirsi della nostra presenza, loro c’erano da prima. E per la prima volta ho sentito, al di là dei cartelli e delle norme umane, che eravamo io e la strada ad attraversare quel bosco…

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Nelo Risi, poeta per dovere che mette il cinema in versi

Una poesia può essere una parola, una riga, il sovrapporsi di pochi versi, un poema. Capisci subito che è inevitabile (un poeta non ordina, riceve): per ragioni che non conosciamo, la poesia si presenta al lettore persino se l’autore non lo ha deciso. Nella vita di certi autori sgorga poesia. Detta così la frase è bella, ma suona celebrazione, e non spiega. La poesia di Nelo Risi è un fatto, prima di essere un dono, un complimento o un tributo. La poesia è il suo modo di andare, accurato e trasandato, è il suo dovere con la vita. Perchè dovrebbe dirci altre cose, oltre quelle che vede, che sa e che intende comunicarci non per uso felice del tempo libero, ma per necessità?

Molti libri di poesia sono come mostre d’arte. Il poeta ha disposto su pareti ideali di mondo interiore le sue opere e ti accompagna nella visita. Nelo Risi è un ufficiale in servizio, consegna il dovuto e si ritira. Senti subito che c’è una distanza fra la sua vita e la sua voce; e che la sua voce è comandata da quell’obbligo di servizio poetico di cui abbiamo parlato. Non c’è il minimo spunto di vanità o di compiacimento, neppure quando il formarsi della poesia-racconto ti aggancia come un thriller, non quando ti dà (non sempre) la parola finale di una sua spiegazione. Nello scrivere di Nelo Risi, parole consuete fanno luce su altro e spostano luogo e tempo. Il suono della sua voce lo conosciamo. Ma le sequenze di parole che creano poesia sono come i tasti di un pianoforte. Aspettano di essere toccati per comporre altra musica.

In questo modo Nelo Risi comunica. Ora Mondadori ha pubblicato Nelo Risi, tutte le Poesie. Non è una galleria d’arte con la sue opere in ordine e secondo un criterio critico, ma un camminare allo stesso tempo dimesso e orgoglioso; incontro completo e ravvicinato, racconto di un vita quotidiana, uguale alla nostra (a volte stesse parole, linguaggio comune, ma spostate in una sua visione diversa del senso e del tempo). Molti aspettavano che questo libro finale (così l’autore stesso sembrava interpretare il compiersi del tempo) incoronasse se stesso, lui, “poeta minore” con quella dote strana di far diventare poesia il linguaggio comune, nella dimensione che gli spetta.

Ma questa raccolta postuma e finale è il grande film che il regista, figlio e fratello di registi, nel suo clan, ha sempre saputo e visto e osservato fino ai dettagli, ma non ha mai girato. È una scena che appare improvvisa e istantanea, la poesia di Nelo. Proprio perché conosce così bene il cinema, il suo scrivere è soliloquio, con voce sommessa e fermissima. Ma ogni verso taglia esattamente, come una lama, l’immagine, la scena, il suono, il senso, e si ferma accanto al lettore come un atleta che ha compiuto il salto perfetto. Tutto avviene dentro una sua visione molto più grande, che non rivelerà.

Party Ferragni, alla faccia dell’appello per il “basta consumismo dopo il virus”

Da rapida e libera dea della frivolezza qual è, Chiara Ferragni non si lascia irretire dall’impostura del pandemicamente corretto. Per dirla con Gianluca Veneziani non fa mai la povera con la povertà degli altri. Tanto è vero che la fashion blogger di Cremona non figura su Le Monde nell’appello di Juliette Binoche e dell’astrofisico Aurelién Barrau contro il ritorno alla normalità dopo la fine del lockdown.

A dispetto di Madonna, di Paolo Sorrentino, di Monica Bellucci o Robert De Niro – tra gli altri, c’è perfino Cate Blanchett – giustamente lei non firma. Come tutti quelli Ferragni ha sì un solido patrimonio, come tutti loro lei è una celebrità internazionale – ha quasi venti milioni di follower su Instagram – ma col consumismo, in difformità con la moraloide degli appellisti, lei fa le cose. Ed ecco la sua raccolta milionaria: fondi per la costruzione di un reparto di terapia intensiva per far fronte alla tragedia del Covid-19. Ed ecco – insieme ai volontari – che va a fare la raccolta di frutta e verdura all’Ortomercato di Milano per distribuire sacchetti della spesa agli indigenti. E poi, certo, ecco che con altri soldi – sono sempre i suoi – la bella e solare Chiara fa la festa a se stessa.

Ha appena compiuto trentatré anni, li ha festeggiati in casa propria con il marito Fedez e quella birba di Leone, il loro bambino di due anni, ma a differenze dei suddetti – tutti col culo nel burro – lei non se ne vergogna, non va a sgattaiolare nella tana del moralismo. Sazia di tutti gli agi sociali, insomma, Ferragni non predica la decrescita a chi per mangiare deve uscire di casa per procurarsi il pane. Non sproloquia in tema di riscaldamento globale, revisione di obiettivi, valori e risparmi per impedire alla gente di godersela dopo una lunga quarantena. Anzi, tutto il contrario: elargisce il proprio album squillante di carinerie e sorrisi. Il suo quadro familiare è un ininterrotto apologo dell’armonia, una sorta di Mulino Bianco e però questa volta autentico perché perfino il marito, il comunista Fedez, pur con tutti i suoi cupi tatuaggi, grazie al Rolex da cui non si stacca mai, in tutta quell’ovatta di occhi azzurri – così profondamente azzurri (quelli di lei e quelli di Leone, la birba) – è un batuffolo di beatitudine.

Non sia mai torni il consumismo, strillano gli appellanti del poveraccismo altrui su Le Monde e invece, lei, in quest’apnea di mascherine, gel igienizzanti e respiratori – consapevole di vivere in uno stato di fiammeggiante grazia – tiene il punto della propria natura pubblica: “Felice e serena come non mai, circondata dall’amore, dalla mia famiglia, dai miei amici, e da voi ragazzi, la mia incredibile comunità online che non mi fa mai sentire sola”.

Nei giorni dello psicotico #restateacasa, Ferragni porge ai suoi follower la fiaccola dell’insolente sprezzatura – tutta di libertà mentale – del futile: l’aperitivo in terrazza col Galbanetto, i petali disseminati sul parquet del terrazzo e la fascia da starlette ricavata da un rotolo di carta igienica. Eccola, lei: miss Bathroom!

Nella verità del pop, c’è il suo contrassegno: il canto della sirena consumistica contro la cera del pandemicamente corretto. Nel tempo compiuto delle ricrescite, delle ciabatte a metro di misura dell’esistenza lei è quella che fa del consumo un uso da favola. La fiaba sua, infatti, ha sempre più filo da svolgere. Non sia mai che finisca il consumismo lei, comunque, sa come fare. Fa la ricca con tutto ciò che le capita nella vita.

Emergenza, la Fase 2 sarà “’a livella” per un’economia ormai globale

C’era una volta il mondo semplice degli anni ‘50 e ‘60. Le aziende, tendenzialmente espletavano quasi tutte le fasi della loro produzione di beni o macchinari. Negli anni ‘70 il ciclo di lavorazione iniziò a disaggregarsi. Le grandi aziende si accorsero che era più conveniente acquisire semilavorati e componenti da fornitori specializzati e quindi estremamente efficienti. Ricordate la Fiat che creava l’indotto dei padroncini? La parcellizzazione divenne un fiume in piena con la globalizzazione. Ad esempio molte componenti di un’auto passano il confine tra Messico e USA sette o otto volte prima di essere finalmente assemblate. Un sempliciotto alla Trump riterrebbe erroneamente americano il veicolo che le monta. Invece i concetti di importazione, esportazione o made in Italy sono le vestigia di un passato sepolto. Le industrie, il commercio e gli investimenti sono organizzati in catene del valore globali, geograficamente disperse.

Per le imprese posizionarsi nell’ambito di queste filiere costituisce l’essenza della propria attività. Entrarci è immensamente complesso: bisogna essere competitivi a livello globale, avere una logistica da orologio svizzero, assicurare un polmone finanziario al cliente, essere flessibili sui ritmi di produzione, investire ingenti risorse in ricerca, certificare la qualità secondo rigorosi standard internazionali. Acquisire commesse è una fatica improba che richiede anni di tribolazioni e, spesso, umiliazioni. Le aziende innovative con una storia illustre alle spalle e che sfornano il top di gamma, strappano commesse a lungo termine e assumono maestranze e tecnici a tempo indeterminato. Al contrario alla base della piramide ristagnano i terzisti con tecnologie obsolete, personale mal pagato e margini irrisori, tenuti in vita da commesse saltuarie.

La pandemia inevitabilmente porterà a ridefinire i perimetri delle filiere. I fornitori cinesi ad esempio dovranno prodursi in acrobazie per mantenere i contratti. Ma ciascuna azienda verrà scrutinata impietosamente per valutare se il sistema paese dove opera è affidabile nella nuova realtà. Ad esempio la Sanità è in grado di gestire senza isterie l’inevitabile ripresa dei focolai infettivi? Il sistema bancario è abbastanza solido da sostenere l’accresciuto rischio di default? Il mercato del lavoro è efficiente? Le frontiere resteranno aperte al commercio? Il governo ha impostato una strategia di contenimento del danno?

Chi non supera l’esame o non si adatta alla nuova normalità verrà scalzato dai concorrenti nonostante abbia impiegato anni a costruire la rete di relazioni. Per questo la Fase 2 a livello globale non sarà un tranquillo ritorno al tran tran. Sarà, ‘a Livella, come nella poesia di Totò. Di blasoni lucidati, posizioni acquisite o meriti ereditati, non si potrà far sfoggio.

Il tampone immaginario. “Io, 30 giorni positiva, e il mio ragazzo al lavoro senza test”

Cara Selvaggia, sono un’infermiera di pronto soccorso presso un ospedale in provincia di Milano, positiva al Covid ormai dal 17 marzo. Non ti scrivo per lamentarmi del mio caso. Rispetto a tante altre persone che stanno peggio (anche dal punto di vista economico) posso dire che, pure nella sfortuna, io sia stata piuttosto fortunata. Dipendente statale, a casa come infortunio e non in malattia: fisicamente in salute, a parte il Covid. Ti scrivo invece per lanciare un monito, per far sapere che io (e chissà quanti altri come me) dopo 30 giorni di quarantena risulto ancora positiva al virus, e chissà per quanto tempo ancora. Questo dimostra che i cittadini devono essere “tamponati” prima di rientrare in sicurezza al proprio posto di lavoro!

Convivo col mio ragazzo, anche lui in isolamento per aver avuto contatti con me. Giovedì è terminata la sua seconda quarantena e l’Ats gli ha dato il permesso di rientrare al lavoro. Lui si occupa di impianti di riscaldamento e, fortunatamente, quella che deve svolgere in questi giorni è una mansione che non prevede contatti con i clienti. Ma com’è possibile che lui possa tornare al lavoro dopo un così prolungato contatto con una positiva senza effettuare nessun controllo? Ho cercato di andare a fondo alla cosa, consultandomi con diversi colleghi medici, e sono stata invitata a sollecitare l’Ats affinché non permettesse il rientro al lavoro del mio compagno. Dopo diverse chiamate riesco finalmente a confrontarmi con una dottoressa, la quale sostiene che il mio ragazzo avrebbe invece dovuto proseguire la quarantena, e così dispone. Com’è possibile, quindi, che anche questa scelta sia lasciata alla discrezione di un singolo operatore? È la stessa storia di un nostro amico, positivo al Covid (diagnosticato con esecuzione di Tac al torace), a cui dopo soli 15 giorni di quarantena hanno dato la possibilità di tornare a lavorare. Ma di cosa stiamo parlando? in questa maniera non ne usciremo mai!

Sulla base di che cosa queste persone vengono considerate non contagiose e quindi possono uscire di casa, andare a far la spesa, al lavoro? Non è che pure loro sono ancora positive esattamente come me? Una storia poco raccontata ma da prendere in grande considerazione, al fine di non rendere vani i tanti sacrifici che il popolo italiano continua faticosamente a sostenere.

Cordiali Saluti
Elisa

 

Cara Elisa, sulla disastrosa gestione delle diagnosi in Lombardia potremmo scrivere un tomo degno di Guerra e Pace. Purtroppo, visto che la regione non ha una linea, temo che dovremo farci tutti un tampone immaginario e dichiararci positivi fino a data da destinarsi.

 

“Aiuto, la quarantena uccide il futuro. Ma io, senza scopo, rifiuto il presente”

Ciao Selvaggia, ti scrivo in un giorno qualunque, credo sia martedì, per dare un senso al tempo. Per poter dire, domani, che “ieri ho scritto a Selvaggia”. Fare un cerchio rosso sul calendario, per non lasciare morire l’ennesima giornata senza nota. Non ricordo quello che ho fatto ieri, nemmeno ieri l’altro. Dall’inizio della quarantena non c’è giorno che mi ricordi per un motivo che non sia, semplicemente, il fatto di restare in vita. È una fortuna, a differenza di altri che purtroppo la vita l’hanno persa per errore, o sfortuna, in questa tragedia collettiva. Io non ho una compagna, sono a casa dal lavoro (ero receptionist in uno di quegli enormi hotel per viaggi d’affari, ti lascio immaginare) e non so quando ci tornerò, mia madre è in salute ma distante, i miei amici chiusi in casa. Una storia comune. Quindi perché ti scrivo? Perché questo sarà il giorno in cui ti ho scritto. Perché aspetterò una risposta, anche se non arriverà. Poco male, anzi meglio. Aspetterò, così i miei pensieri voleranno finalmente verso un punto lontano, nel futuro. Mi manca il futuro. Mi manca scriverlo: domani andrò a cena fuori, fra un mese sarò in vacanza, venerdì piega e colore. Invece, per la prima volta il futuro è precluso: la mia vita è sempre stata una rincorsa al futuro. Non vedevo l’ora di compiere 18 anni per andarmene da casa, lontana da un padre cattivo, che non mi ha mai accettata, morto senza rimpianti. Non vedevo l’ora di laurearmi e lavorare, anche se ora ho (avevo?) un impiego di rincalzo; ma c’era il futuro, per le ambizioni. Non vedevo l’ora di trovare la persona con cui condividere libertà, denaro e sogni. Non l’ho trovata, eppure fino a febbraio c’era, ben salda nel mio futuro. Il futuro è stata la molla, benzina e motore: ora non c’è più. “Tanta gente comunque ci sarà, che si accontenterà”, cantava Vasco. Vedo gente felice, di vivere questo presente continuo, una quarantena dei sogni e delle ambizioni, più che del corpo. Io no, il presente non l’ho mai abitato, è sempre stato un acquario piccolo: il futuro era la mia bombola d’ossigeno. Adesso mi sento annegare.
Simona

 

Cara Simona, non credo che il futuro sia sparito, non l’ha scalfito la peste e nemmeno l’esplosione di Hiroshima, non lo farà nemmeno questo virus. È soltanto sospeso, come un caffè che torneremo a bere al bancone del bar. Tieni duro.