Addio Valerio, il vero Casalese che seguì sempre Don Peppe Diana

La vita di Valerio Taglione cambiò all’improvviso una mattina alle 7,30. E da allora fu una vita straordinaria. Quel giorno, il 19 marzo 1994, un tizio entra nella chiesa di San Nicola a Casal di Principe, chiede del prete. “Chi è don Peppe?”, i pochi parrocchiani presenti indicano la sagrestia. Il prete è lì. Il tizio entra e spara. Cinque colpi. Mortali. Uccide Don Peppe Diana, il prete ostinato, un angelo per la sua gente, il diavolo in persona per i boss che in quegli anni dominavano incontrastati a Casale e nell’Agro aversano. “In nome del mio popolo non tacerò”, diceva don Peppe. Ed accendeva cervello e anima dei giovani. Di Valerio, cattolico e scout, che credeva nel riscatto della sua terra e che in don Peppe vedeva uno straordinario punto di riferimento. Quante riunioni, quanto incontri, anche con gente che aveva pensieri e idee diversi. Con Renato, medico per passione e professione, comunista e cattolico, con i vecchi braccianti che di lotte per la dignità ne avevano fatte, con altri preti giovani e scout. Di don Peppe i boss spensero la voce, ma lui continuò a parlare. Perché dal giorno del suo omicidio in tantissimi, e Valerio Taglione non si fermò mai, decisero di non “tacere”, di parlare in nome del popolo di don Peppe Diana. Furono venticinque anni di lotte, paure, sacrifici, vite dedicate. Per arrivare a costruire la Casal di Principe di oggi. Con le ville e i terreni dei boss confiscati e diventati occasione di socialità e lavoro, i grandi capi in galera e per sempre. La riconquista della libertà. Valerio Taglione è morto venerdì scorso, sconfitto da un tumore. È stato un “partigiano del bene”. Uno dei tanti eroi civili partoriti dalle terre del Sud. “Non siamo Gomorra, siamo la terra di don Peppe”, diceva. E non si accontentava mai: “Dobbiamo fare ancora di più, dobbiamo battere strade, inseguire nuovi sogni, dobbiamo risalire sui tetti e annunciare parole di vita”. Valerio era un Casalese vero e onorato.

La Milano da bere riempie i Navigli di baci e abbracci. E Sala s’incazza

Dicono che dal caos virale possa emergere una nuova normalità, basata sul principio della precauzione. E del rispetto altrui. Balle. Giovedì 7 maggio, lungo i Navigli di Milano, è tornata la movida per l’apericena di rito ambrosiano. Come prima. Anzi, peggio di prima: perché il Covid-19 è ben lontano dall’essere debellato. Pochissime mascherine, ancor meno guanti. Mani nelle mani. Abbracci. Birre a go-go. Il trionfo dell’irresponsabilità. E del menefreghismo. Ma forse non era proprio spontaneo tutto ciò. C’erano già piazzate le telecamere di Sky. E c’era stato il passaparola in rete. Il burattinaio di questo flash mob occulto voleva mettere in imbarazzo il sindaco Sala. Il quale ha fiutato la trappola. Se avesse multato la gente (sarebbero bastate per coprire l’addizionale regionale dei milanesi) le destre sarebbero insorte. Non l’ha fatto. Indignando chi ha sempre mantenuto un comportamento virtuoso. Poi Sala ci ha messo del suo. La replica infatti è arrivata il giorno dopo. Per alcuni, troppo “bonaria”. In realtà è stata tardiva. Comunque, dura: “Ci sono dei momenti in cui c’è da incazzarsi. Questo è uno di quelli: le immagini lungo i Navigli sono vergognose. O si cambia, o chiudo. I gestori dei locali sapranno con chi prendersela”. Non è una questione lessicale, bensì politica. Quella di Sala è stata la mossa dell’arrocco. Negli scacchi, spesso il miglior attacco è la difesa. Obblighi l’avversario ad esporsi. Il che è avvenuto puntualmente. Sui social network si è infatti scatenata una grandinata di post per mettere in croce sindaco e giunta. Oh, caro Fierro, il Covid è un pretesto. Il vero virus è quello a cinque cerchi. Il futuro di Palazzo Marino contempla la grossa torta dei Giochi 2026. Il massacro lombardo penalizza Lega e Forza Italia che guidano la Regione, non le sue grandi città. La vera Fase-2 sarà, a Milano, Bergamo e Brescia una guerra senza quartiere. Venerdì, per esempio, Navigli quieti, mentre corso Buenos Aires, la più estesa arteria commerciale milanese, brulicava di gente. Non di mascherine. Tutti insieme, coronavirosamente.

Cattolico, ortodosso o protestante: il populismo cristiano senza fede

Per dare l’idea, è utile rievocare il grido di Giorgia Meloni, nello scorso autunno in piazza del Popolo, e poi diventato persino una hit: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”. Cristiana, dunque. Non cattolica. Più identità che fede. “Esplicita il riferimento non tanto al cristianesimo, la religione dei seguaci di Gesù Cristo, ma alla cristianità, la civiltà costantiniana che ha governato grazie all’alleanza fra trono e altare. Essere cristiana è un marcatore identitario, non fede”.

E cristiani – cattolici, ortodossi o protestanti – si sono improvvisati anche gli altri leader della destra che sta plasmando il mito populista in questo inizio degli anni Venti: Trump, Bolsonaro, Putin, Orbán, Salvini ovviamente. Poco importa che la loro vita privata sia disordinata secondo i canoni della fede (la stessa Meloni è madre ma non moglie), ciò che conta non è “la personalità del guerriero” ma il fatto che “vinca la guerra”.

S’intitola provocatoriamente Dio? In fondo a destra. Perché i populismi sfruttano il cristianesimo l’acuto saggio del giornalista Iacopo Scaramuzzi pubblicato da Emi con la prefazione di Gad Lerner (143 pagine, 13 euro). Scaramuzzi ricostruisce e analizza l’avvento dei vari leader della destra nei loro Paesi con il filo comune dell’abuso dei simboli cristiani.

Un abuso che trova un’altra foto simbolo nel Salvini che ostenta crocifisso e rosario. E che lo studioso e teologo domenicano Timothy Radcliffe spiega anche così: “I partiti sono diventati più esperti di tecnica politica che portatori di un sogno del futuro. Per alcuni il populismo rappresenta il recupero dell’entusiasmo”. Un sogno nero, se non un incubo, in cui “il recupero dell’entusiasmo” è all’insegna del nazionalismo: odio per l’Islam, società chiusa, razzismo, omofobia. Dio, patria e famiglia, secondo una formula classica.

Ovviamente Scaramuzzi non identifica tout court con una massa di ignoranti gli elettori di questa destra. La sua analisi scava fino alle radici di questo consenso. E si conclude con l’unico argine universale a questa marea inquietante. Un altro cristiano, ma decisamente diverso: papa Bergoglio.

E Bobo si mangiò Pardo e Caressa

Se è vero che il Covid-19 ha portato morte, rovina e disperazione in molte vite e in ogni settore delle attività umane, nell’orticello del calcio italico, dove lo sconquasso pende sul capo di tutti, dai club alle pay tv, dai calciatori ai giornali specializzati, un piccolo squarcio di luce il maledetto virus lo ha portato. Se nella vita quotidiana abbiamo imparato a fare a meno di cose che ritenevamo essenziali scoprendone la sostanziale inutilità, per non dire fatuità, gli appassionati di calcio hanno di colpo preso atto di un’inattesa e spiazzante verità: e cioè che in confronto alle fresche, spontanee e godibilissime videochiamate via web da calciatore a calciatore (o da ex a ex), ultima moda del pallone in streaming, i programmi tv che da anni vengono ammanniti al povero teleutente sembrano la Corazzata Potemkin: una cagata pazzesca, per dirla col rag. Fantozzi.

Con tutto il rispetto per i Caressa, i Pardo e le D’Amico, scegliere tra il loro caravanserraglio di Mughini-Cruciani-Zampini / Marocchi-Marchegiani-Bergomi e i tête-à-tête tra Bobo Vieri e Totti (o Inzaghi, o Del Piero, o Ronaldo, quello doc) o tra Cannavaro e Materazzi (o Lippi, o Gattuso, o Pirlo) è come scegliere tra un concerto di Povia e uno di Mick Jagger. Non c’è gara. L’astro nascente, non c’è dubbio, è Bobo Vieri; che normalmente è ospite di Pardo a Tiki Taka ma che sul web, da battitore libero, batte Pardo 3-0 e senza bisogno di nani e ballerine.

Bobo si avvale di una ricetta semplice: annuncia l’ospite un’ora prima del collegamento, raduna un pubblico di decine di migliaia di aficionados che gli suggeriscono, anche in diretta, le domande più stuzzicanti, dopodiché pigia il tasto chiamata e fa quello che faceva in campo: si scatena, e scatena. Andando a braccio, impertinente ma mai invadente, sempre sorridendo, sempre facendo leva sull’amicizia o la frequentazione maturate in campo. E così, a una domanda cui nessun calciatore risponderebbe mai se posta da un giornalista, non c’è ospite che davanti a Bobo si tiri indietro. E lo stesso succede se a chiamare è Cannavaro o magari Luca Toni, quello che giorni fa fece dire a Totti: “Ogni volta che porto Christian agli allenamenti rimango fuori Trigoria, fuori dai cancelli. Ti giuro su Dio: non ho mai più messo un piede a Trigoria. Certe volte rimango in macchina e mi viene da piangere, ci credi?”.

A Marcello Lippi, Cannavaro ha fatto raccontare come scelse i 5 rigoristi della finale mondiale facendogli dire (noi lo scrivemmo al tempo) come l’unico a creargli problemi fosse stato Del Piero. “Io sono sempre stato convinto che i più bravi devono tirare i primi. Alessandro invece venne da me e mi disse: mister, io batto l’ultimo. Come l’ultimo? Sì, mi disse, come ho fatto nella finale di Champions; che non aveva nemmeno tirato perché la Champions la vincemmo col quarto di Jugovic. E perciò: Pirlo, Materazzi che è un ottimo rigorista e poi volevo che Del Piero tirasse il terzo; lui invece mi disse no, guarda che io… c’era lì De Rossi e disse: il terzo lo tiro io. E tu tirerai il quarto, dissi a Del Piero”. I retroscena raccontati senza veli, i campioni che ti conducono dentro la loro reale esperienza. Andatevi a vedere Bobo che intervista Nesta, Inzaghi, Totti, Ronaldo il Fenomeno. Poi ripensate a Tiki Taka. E decidete di che morte volete morire.

Dichiarazione precompilata, le novità tra spese e risparmi

Quando arriva il momento di pagare le tasse, non c’è dichiarazione dei redditi semplificata che regga. Hai voglia a rasserenare gli animi di 30 milioni di italiani illustrando le facilitazioni dei modelli precompilati. I contribuenti preferiscono pagare commercialisti e Caf per non avere problemi piuttosto che sfruttare il 730 con i dati già caricati che quest’anno sono arrivati a superare quota 991 milioni. La parte da leone continuano a farla le spese sanitarie che quest’anno fanno un balzo da 754 a 790 milioni, 36 milioni in più rispetto al 2019. Al secondo posto i premi assicurativi che superano quota 94 milioni con un incremento di 2 milioni rispetto allo scorso anno e quelli sulle certificazioni uniche che si attestano a quota 62,5 milioni (cioè 1 in più rispetto al 2019). Crescono, inoltre, fino a toccare il tetto dei 5 milioni, i numeri relativi ai rimborsi delle spese sanitarie.

Da quest’anno, i contribuenti potranno consultare ancora più dati, oltre alle consuete informazioni presenti nelle dichiarazioni degli anni scorsi. Infatti, entrano in scena nella precompilata le spese per le prestazioni sanitarie dei dietisti, dei fisioterapisti, dei logopedisti, degli igienisti dentali, dei tecnici ortopedici e di tante altre categorie di professionisti sanitari, e anche le spese sanitarie per le prestazioni erogate dalle strutture sanitarie militari, i contributi previdenziali versati all’Inps per i lavoratori domestici, tramite il “Libretto di famiglia”. Un’altra novità è la possibilità per l’erede di utilizzare il 730, oltre che il modello Redditi (l’ex Unico) per la presentazione della dichiarazione dei redditi per conto del contribuente deceduto. Per l’utilizzo del modello 730 è necessario che la persona deceduta abbia percepito nel 2019 redditi dichiarabili con tale modello (da lavoro dipendente, pensione e alcuni redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente).

Il 730 precompilato lo scorso anno è stato scelto da 3,3 milione di persone, in crescita di 570mila rispetto al 2018, su un totale di 20 milioni. Numeri al lumicino per il modello precompilato Redditi con Caf e commercialisti che continuano a gestire i 10 milioni di contribuenti che lo presentano. Eppure si tratta di un’operazione che, arrivata al suo sesto anno, è sempre meno complicata e che, quest’anno, concede molto più tempo complice l’emergenza coronavirus. A partire dal 14 maggio, e fino al 30 settembre, si potrà infatti accettare, modificare e inviare il 730 oppure modificare il modello Redditi che, invece, potrà essere trasmesso dal 19 maggio al 30 novembre. Chi, però, volesse continuare a ricevere i rimborsi con le solite tempistiche (nella busta paga di luglio o nella pensione di agosto) deve muoversi entro metà giugno. E la corsa sarebbe tutt’altro che sprecata: lo scorso anno il peso delle detrazioni fiscali (come le spese sanitarie, gli interessi passivi dei mutui, i contributi previdenziali e assistenziali, le spese universitarie o quelle per la frequenza degli asili nido) è arrivato a un miliardo di euro. Un’altra novità di quest’anno è la possibilità per l’erede di utilizzare il 730, oltre che il modello Redditi, per la presentazione della dichiarazione dei redditi per conto del contribuente deceduto.

Fin qui la teoria. Ora la pratica: come si fa per accedere al sito delle Entrate e scaricare la propria dichiarazione dei redditi? Si deve usare il Pin dispositivo dell’Inps, del NoiPa, la smart card Cns e lo Spid. Se ancora non si è in possesso del Pin, se ne può far richiesta registrandosi al servizio Fisconline, non prima di aver scritto il reddito dichiarato lo scorso anno. Solo dopo che il sistema si è accertato che il contribuente sia in regola con le tasse, viene fornita la prima parte del Pin (4 cifre). Ma per ottenere la chiave completa bisogna aspettare due settimane, quando si riceverà a casa una lettera contenente le ultime 6 cifre del Pin e la password di primo accesso. È anche possibile ottenere il Pin per telefono al numero verde 848.800.444. Gli uffici delle Entrate restano operativi in smartworking.

Pin alla mano, si può quindi accedere alla propria dichiarazione precompilata. E da lì, con una serie di menu a tendina, è possibile rintracciare tutti i dati. Certo, il procedimento non è dei più semplici, ma comunque ha un vantaggio: chi presenta il 730 precompilato, direttamente o tramite il sostituto d’imposta, senza modifiche o con alcuni cambiamenti che non incidono sulla determinazione del reddito o dell’imposta, non sarà sottoposto al controllo formale da parte dell’Agenzia delle Entrate. Il vantaggio spingerà gli italiani a percorrere la strada del fai da te? Le resistenze alla dichiarazione precompilata restano altissime, così come le difficoltà riscontrate dai contribuenti che potrebbero scoraggiarsi già nei primi passaggi per richiedere il Pin.

Mes: effetto a cascata, può salvare l’automotive

La filiera automotive in Italia dà lavoro a 160 mila persone in 1.400 aziende. Sono 160 mila famiglie a rischio, perché dipendono da entrate che da due mesi sono ridotte al lumicino, o non ci sono più: il mercato italiano ha infatti perso il 98% ad aprile, e nel primo quadrimestre risulta dimezzato, con prospettive altrettanto buie almeno fino a metà anno. Fin qui i fatti, ma ora c’è bisogno di azioni concrete in favore di un comparto che ogni anno frutta alle casse dello Stato 80 miliardi di euro. Per non parlare degli effetti moltiplicativi sull’economia e dei su citati posti di lavoro, che vanno tutelati. Solo il governo, con l’aiuto degli istituti finanziari, può al tempo stesso sostenere e rilanciare l’auto. I soldi ci sono, o meglio ci saranno. L’Europa ha messo nero su bianco che l’accesso ai fondi anticrisi del Mes, in caso di attivazione, non saranno soggetti ad alcuna condizione. E che solo passata l’emergenza Covid 19 si tornerà al Patto di Stabilità. Quando i governi dell’Eurozona daranno luce verde ufficialmente, potremo avere un finanziamento pari al 2% del Pil, ovvero qualcosa come 36-37 miliardi di euro destinati a spese sanitarie. Facendo scattare un effetto domino che libererà risorse statali verso altre destinazioni. Tra queste, ci sarà anche l’auto? Quando al ministero dell’Economia faranno i conti, sappiano che per salvare la baracca secondo i piani presentati dalle associazioni di categoria, servono tre miliardi in due anni. Se la matematica non è un’opinione, il gioco vale la candela. Sia per l’economia che per la società.

Noleggio con conducente: in Usa domanda a zero

Si sapeva che uno tra i settori più colpiti dalle conseguenze della pandemia sarebbe stato quello della sharing economy. È così per Airbnb ad esempio, che sta perdendo decine di milioni di dollari, ed è così per l’auto, con le misure restrittive che hanno tolto dalle strade i professionisti della mobilità ormai senza clienti. Troppa, oltre alle proibizioni varie, la paura di contrarre il Covid 19, in ambienti ristretti come l’abitacolo di una vettura, dove transitano decine di persone al giorno. Dunque l’utilizzo di veicoli con conducente (prenotabili via app) e quello delle corse condivise, è stato praticamente azzerato specie negli Stati Uniti. Dove il lockdown, partito in anticipo da Seattle, si è poi esteso in tutta la nazione, ad aprile. Così i colossi del settore sono stati costretti a prendere provvedimenti. La scorsa settimana Lyft ha tagliato il 17% della sua forza lavoro. Uber ha seguito la stessa strada mandando a casa il 14% dei suoi dipendenti: 982 e 3.700 persone, rispettivamente, senza più un’occupazione. Provvedimenti che hanno avuto un costo: Uber, che già da tempo aveva bloccato le assunzioni, spenderà 20 milioni di dollari tra licenziamenti e allontanamenti. Anche perché, eventuali cause di lavoro a parte, ha deciso di sostenere economicamente i suoi (ex) driver per un paio di settimane. Il problema, comunque, è ripartire. E i manager stanno studiando come. Una prima soluzione si chiama diversificazione: passare cioè dal trasporto delle persone alle consegne di beni e merci, tra cui anche cibo. Non è un caso che Uber abbia in animo di estendere il sue servizio Eats a ulteriori 20 Paesi. Nella speranza che il business dell’auto riparta.

Covid farà bene all’auto. Sale la paura dei mezzi pubblici

A causa del Covid-19, nel primo trimestre 2020 le auto vendute in Europa sono state poco più di tre milioni, il 26% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Eppure, potrebbe essere proprio la pandemia a far ripartire il mercato dell’auto: infatti, la paura del contagio potrebbe spingere le persone, specie i giovani, ad abbandonare il trasporto pubblico e la mobilità condivisa, preferendogli l’acquisto del veicolo.

Lo dice un’indagine della società di consulenza Capgemini, pubblicata da Bloomberg e condotta nella prima settimana di aprile su un campione di 11 mila persone di 11 paesi, tra cui Cina, Germania, India, Regno Unito e Stati Uniti: mercati che rappresentano il 62% delle vendite globali. In pratica il desiderio di evitare bus, metro e car-sharing farà crescere la domanda per i veicoli privati, specie nella generazione dei nativi digitali. Anche se l’aumento dello smart working potrebbe, al contempo, coincidere con una riduzione del pendolarismo casa-lavoro.

Preoccupati di eventuali contagi, il 44% degli intervistati ha dichiarato che adopererà più spesso la propria auto nel 2020, mentre il 40% utilizzerà meno i servizi di trasporto pubblico e condiviso. Dati che, secondo la ricerca, sono destinati a consolidarsi ulteriormente nel futuro prossimo. Tanto che il sondaggio ha rilevato che il 35% degli intervistati prevede di comprare un’auto nuova nel 2020, percentuale che sale al 45% per gli under 35 anni. Tuttavia va chiarito che, in virtù dell’impatto economico della pandemia, la finalizzazione della compravendita dipenderà da incentivi, formule di acquisto e modalità di interfaccia con i concessionari (non a caso è previsto un aumento delle vendite online).

In Europa il mercato ripartirà da dove si era fermato, ovvero dai suv (sport utility vehicle) di taglia compatta: un segmento che, negli ultimi anni, è cresciuto esponenzialmente grazie a modelli come Renault Captur, VW T-Roc, Dacia Duster, Nissan Juke e Peugeot 2008. Più recentemente si sono unite alla festa nuove sfidanti, come Hyundai Kona e Ford Puma. Mentre fra qualche mese sarà la volta dell’ibrida Toyota Yaris Cross.

Con oltre 2 milioni di unità immatricolate, gli sport utility di piccole dimensioni rappresentano il terzo segmento in assoluto in Europa, a un’incollatura da quello delle berline compatte, come la VW Golf. La categoria delle auto piccole è rimasta in cima alla lista, con 2,68 milioni di unità immatricolate, ma la domanda è diminuita del 5,4%, con molti clienti che sono passati agli sport utility di taglia urbana. Quest’anno ci si attende una contrazione delle vendite di B-Suv a 1,75 milioni, ma già nel 2021 si tonerà ai 2 milioni, per poi salire a 2,5 nel 2022 e a 2,7 entro il 2025.

Scoprì le fosse di Stalin: ora marcisce in carcere

Nei gelidi boschi della Karelia, al confine con la Finlandia: le memorie più oscure della Russia sono state nascoste dove il mondo appare più candido. Dove bianca è la neve, bianchi i tronchi di betulla, bianco il cielo ci sono migliaia di fantasmi: quelli delle vittime dimenticate del regime sovietico. Sotto la terra innevata dell’nord-ovest sono stati seppelliti quasi 10mila cadaveri nelle fosse comuni. Lo storico Yuri Dimitrev li ha ritrovati e, un teschio dopo l’altro, dopo decenni di ricerche e lavoro, ha risposto al richiamo di quelle ombre, dandogli nome e cognome. Ora la Russia ha chiuso nel ventre delle sue celle il custode di quella scoperta.

Un tenace archeologo di ossa e dolore. Dimitrev ha cominciato negli anni Ottanta a ricostruire le biografie dei prigionieri dei campi di lavori forzati, ha compilato martirologi, archivi di informazioni e documenti. Si è spinto nei decenni sempre più oltre, cercando sulle mappe i luoghi di sepoltura delle vittime dei gulag insieme ai membri del Memorial, organizzazione per i diritti umani vessata dalle autorità di Mosca. Nel 1997 ha scoperto Sandarmoch, un buco nero della storia nascosto nella foresta bianca, una fossa comune di circa settemila vittime fucilate cinquant’anni prima dagli uomini del regime di Stalin. Nei boschi in cui lei vite dei cari si sono spezzate, negli anni, i parenti hanno cominciato a riunirsi sempre nello stesso giorno, il 5 agosto, data in cui nel 1937 cominciò la repressione filospinata e mortale dei soviet. Sandarmoch è diventato un “cimitero pubblico”, non riconosciuto ufficialmente dalle autorità, dove le foglie delle betulle bevono lacrime di tristezza dei parenti ogni estate.

Poi è stato Dimitrev a diventare un protokol(protocollo) dello Stato, non di quello dell’Unione Sovietica che investigava, ma del Cremlino del presente: lo storico è stato trascinato in tribunale, trafitto dall’onta più vergognosa. È stato accusato di “produzione di materiale pedopornografico”. L’alibi per perseguirlo dalle istituzioni è stato trovato in un mazzo digitale di nove fotografie: quelle che Dimitrev ha scattato alla sua figlia adottiva per documentare la pesante malnutrizione subita in orfanotrofio.

Ha affrontato un processo farsa dopo l’altro, fino alle sbarre del centro di detenzione di Petrozavodsk. Già arrestato nel dicembre 2016 e poi assolto due anni dopo con formula piena per numerose testimonianze di esperti in suo favore, Dimitrev è finito di nuovo nel mirino della Corte Suprema della sua Karelia natia, che ha annullato il primo verdetto e dato avvio ad un secondo processo nel 2018. Nelle celle russe, promiscue di miseria e ora anche di Covid-19, ha compiuto adesso 64 anni. Implacabile contro di lui, già debilitato, la pialla repressiva della Corte russa è tornata a pronunciarsi pochi giorni fa, chiosando un nuovo netper(no) gli arresti domiciliari richiesti dal suo avvocato, a causa dell’alto rischio di contrarre il virus in cella.

Come all’inizio del secolo scorso, oggi un’altra voina, guerra è in corso: quella della memoria. A chiamarla così è Andrea Gullotta, docente all’Università di Glasgow, autore di un libro e decine di articoli sul gulag sovietico: “La guerra della memoria è combattuta prevalentemente all’interno della Russia, vede da un lato istituzioni statali e religiose, dall’altro Ong, associazioni e singoli ricercatori. La memoria del gulag è un trauma profondo nato da atti efferati, perpetrato in vasta parte da cittadini sovietici contro cittadini sovietici”. Autore di una petizione per la liberazione dello storico, firmata da oltre 300 attivisti, accademici e dal premio Nobel per la letteratura J.M.Coetzee, Gullotta spiega: “Le istituzioni stanno cercando di “invadere” lo spazio del racconto della storia, sottraendolo a ricercatori indipendenti, parallelamente al tentativo di liberarsene. Mentre Dmitriev veniva ingiustamente detenuto, l’esercito scavava le fosse comuni di Sandormoch per cambiare i connotati ai cadaveri”.

Tra quei boschi remoti ora la Federazione combatte la battaglia del ricordo e del passato, con un gioco di sponda tra oblio e propaganda: per addossare i crimini ad un aggressore sempre straniero, le mimetiche di Mosca hanno tentato di provare che quei corpi fossero non di innocenti ammazzati dai sovietici, ma di soldati dell’Armata Rossa uccisi dall’esercito finlandese durante la Seconda Guerra Mondiale.

Mentre la narrazione statale, ibrida come le sue ultime guerre, continua a dominare, rimane la storia di uomini morti sotto terra e uomini ancora in piedi sopra di essa che tentano di raccontarla. Tra loro c’è Dimitrev, che ha provato a contrastare il silenzio di chi ha taciuto la verità, quella che se definitivamente perduta, rende fantasmi anche i vivi.

“Una svolta verde: La Bce cancelli i debiti degli Stati”

E se la Banca centrale europea accettasse di cancellare il debito degli Stati per dar loro più ampi margini di manovra e aiutarli a finanziare la transizione ecologica? È la proposta avanzata da Laurence Scialom e Baptiste Bridonneau, rispettivamente docente di Economia e dottorando all’università Paris-Nanterre.

Dottor Scialom, questa crisi sanitaria e economica rimette in discussione tutte le regole finora condivise.

Già prima della crisi del Covid-19 molte convinzioni legate al nostro modello di sviluppo stavano vacillando. Ma bisogna restare cauti. Anche durante la crisi del 2007-2008 si diceva: niente sarà più come prima. Detto questo, mi sembra che oggi si sia più consapevoli del carattere vulnerabile delle nostre economie. Emergono dibattiti sulla necessità di trasformare i modelli di produzione e di consumo per far fronte all’emergenza climatica e per combattere le disuguaglianze. Questa crisi sta riattivando le forze centrifughe in Europa, perché i paesi più colpiti dall’epidemia sono anche i più fragili sul piano economico. Il neoliberismo ha alimentato a oltranza il processo di globalizzazione, contribuendo ad accelerare la crisi ecologica e causando oggi gravi interruzioni di forniture di prodotti strategici, come le mascherine e i farmaci. Questa crisi è forse il punto di svolta e posso sperare questa volta che alle parole seguiranno i fatti. Tutti abbiamo visto che coloro che oggi si ritrovano “in prima linea” tutti i giorni, infermieri, cassieri, rider, gli “invisibili” del sistema neoliberista, rappresentano un ingranaggio indispensabile dell’economia.

In un vostro lavoro, proponete che la Bce cancelli i debiti degli Stati della zona euro. Come è nata questa idea?Baptiste Bridonneau: da una considerazione, i livelli di debito pubblico oggi sono così elevati che vincolano ogni investimento futuro. Di qui la necessità di lavorare sulla ristrutturazione del debito pubblico. La storia ci offre molti esempi: il caso dell’America Latina negli anni 1980-90, l’Argentina nel 2001 e quindi la Grecia. Sfortunatamente, le ristrutturazioni, con il loro impatto disordinato sul sistema bancario, possono causare più danni che benefici. Si dà il caso che la Bce presti agli Stati anche riacquistando il loro debito. In questo modo si riducono i tassi dei debiti sovrani. Ormai la Bce ridistribuisce gli interessi, ma gli Stati devono comunque rimborsare l’essenziale del loro debito! Cosa accadrebbe invece se la Bce rinunciasse al denaro che gli Stati le devono e dicesse loro di usarlo per gli investimenti? Da una parte si potrebbero finanziare i servizi pubblici e la transizione ecologica. Dall’altro si risponderebbe alla lentezza economica: dal momento che la domanda privata è debole, l’unico modo per rilanciare l’economia è giocare sulla domanda pubblica. Ma la politica monetaria, con i tassi già a zero, sta incontrando enormi difficoltà a rilanciare la domanda. Di fronte a questa impasse, la spesa pubblica è necessaria ed anzi è un bene, talmente è grande la necessità di investire in certi settori. Si risolverebbe un doppio problema, economico da un lato e ecologico-sociale dall’altro.

Perché la cancellazione dei debiti sarebbe più efficace della monetizzazione o dei riacquisti di quote nell’ambito della politica di alleggerimento monetario quantitativo?B.B.: la Bce potrebbe rinnovare in modo costante la quota di debito che detiene degli Stati. In poche parole: potrebbe accordare nuovi prestiti quando maturano quelli vecchi. Ciò ritarda il rimborso e non aggiunge interessi. Ma condizionare le cancellazioni dei debiti agli investimenti pubblici è meglio. Si rilancia la domanda pubblica: quale governo non avrebbe voglia di investire a fronte di una cancellazione del debito per lo stesso ammontare?

Pensate che si debba applicare la regola dell’uguaglianza tra i paesi membri?B.B.: Non necessariamente. La cancellazione dei debiti potrebbe servire anche a risolvere un altro problema della zona euro: gli shock asimmetrici. Oggi, in una zona euro eterogenea, esiste un’unica politica monetaria. Il meccanismo di cancellazione renderebbe possibile una politica monetaria differenziata. In certi Stati ci potrebbero essere più investimenti condizionati alla cancellazione dei debiti. Possiamo immaginare la riluttanza di alcuni. Che vantaggio trarrebbe la Germania se il suo debito non fosse cancellato, mentre quello dell’Italia sì? Il Parlamento europeo potrebbe stabilire dei settori prioritari in cui investire perché, anche quando a investire sono solo i paesi che beneficiano della cancellazione del debito, tutti ne traggano beneficio. Settori come le energie rinnovabili e la ricerca sui vaccini. Si aggirerebbe il problema della mancanza di un vero bilancio comune, che mina l’unione monetaria da sempre.

Ma dei paesi della zona euro potrebbero opporsi al principio di cancellazione, contrario ai trattati europei…B.B.: Da un punto di vista teleologico, il divieto di finanziamento degli Stati da parte della Bce ha l’obiettivo di evitare la deriva inflazionistica. Nelle circostanze attuali, mentre l’economia europea è minacciata dalla deflazione, queste regole non hanno più motivo di esistere. È necessaria una seria discussione sui trattati, e forse non è nemmeno necessario modificarli. È dunque solo una questione di rapporti di potere. Al Consiglio europeo ogni modifica richiede l’accordo di tutti gli Stati. Ma la discussione sugli eurobond mostra che l’unanimità è impossibile. Alla Bce è richiesta invece la maggioranza qualificata dei due terzi ed esiste un sistema di voto a rotazione: ogni mese quattro paesi sono privati del diritto di voto. Ciò vuol dire che per almeno due mesi all’anno il governatore tedesco non può votare. Sono i momenti per far passare le misure più delicate. Lo fece anche Mario Draghi nel 2012 quando furono instaurate le Omt (Outright monetary transactions: le Operazioni che permettono alla Bce l’acquisto diretto di titoli di Stato emessi da paesi in grave difficoltà economica. Fu il momento in cui Draghi pronunciò il famoso “whatever it takes”, ndt.). Il presidente della Bundesbank era contrario a questa misura, ma il meccanismo fu comunque adottato, anche se nella pratica non è mai stato utilizzato. Non varrebbe la pena ricorrere di nuovo ad una politica senza consenso ma che potenzialmente potrebbe salvare la zona euro?

Fino a che punto la Bce, un’istituzione non democratica, potrebbe spingersi in una politica europea senza consenso?L. S.: È in effetti un paradosso. Se la Bce accettasse di cancellare i debiti, sarebbe la seconda volta che, in un periodo piuttosto breve, questa istituzione compenserebbe la negligenza dei governi e la mancanza di una visione politica comune per salvare la zona euro. In cambio della cancellazione, bisogna mettere sul piatto gli investimenti per la riconversione ecologica delle economie. Il momento è cruciale: si porrà il problema della ripartenza delle economie e del loro orientamento. Ecco perché la nostra idea è che, se la Bce annulla parte dei debiti pubblici, le decisioni sui progetti da sostenere non vengano presi a livello intergovernativo, ma a livello del Parlamento europeo. Questo dà legittimità democratica alla nostra proposta. La questione ecologica, poiché trascende i singoli interessi, è potenzialmente in grado di rilanciare il progetto europeo. Per riuscirci, bisogna che i popoli comprendano che esiste un legame stretto tra questa pandemia e la distruzione degli ecosistemi, la deforestazione, l’antropizzazione dei territori e la distruzione della biodiversità.

Immaginiamo che la BCE cancelli il debito degli Stati. Siamo sicuri che, alla fine della crisi, gli Stati accetterebbero di finanziare la transizione ecologica piuttosto che l’economia esistente, anche solo per salvare i posti di lavoro?L.S.: È una domanda legittima. Essa implica il problema della svalutazione di certi attivi legati a settori ad alta emissione di carbonio destinati a scomparire o a contrarsi in modo significativo. Il governo non può permettersi di far fallire Air France perché la disgregazione sociale sarebbe enorme, ma tutti sappiamo che, per riuscire la transizione ecologica, il traffico aereo dovrà essere ridotto. La nazionalizzazione di Air France potrebbe essere fatta in cambio di un impegno forte a ridurre l’attività e a rinunciare a certi scali. La stessa logica vale per i cantieri navali che costruiscono navi da crociera giganti – una vera calamità ecologica -, e che senza dubbio incontreranno grandi difficoltà in futuro. La conversione ecologica delle nostre economie non consiste solo a investire nel “verde”, ma anche a organizzare la perdita di valore degli attivi legati a queste attività e a attenuare i costi sociali che ne deriveranno. Queste perdite potrebbero essere compensate anche dalla cancellazione del debito da parte della Bce. La cancellazione contribuirebbe alla riconversione ecologica dell’economia, per esempio con iniziative ambiziose sul mix energetico e con un programma vincolante di ristrutturazione energetica degli edifici. Permetterebbe anche di assorbire le perdite legate al naufragio delle attività nocive per il clima. Naturalmente sarebbe necessario anche un grande piano di formazione ai mestieri e alle competenze indispensabili alla riconversione ecologica. La nostra proposta è di ridare margini di manovra finanziari e di rimettere il Parlamento europeo al centro del processo decisionale in materia di transizione ecologica.

Nel 2008, molti dicevano che nulla sarebbe stato più come prima e invece nulla è cambiato. Come fare perché questa volta le cose vadano diversamente?L. S.: Partecipando al dibattito pubblico, favorendo l’emergere di idee nuove. Credo nel contro-potere della società civile e nelle Ong. La tecnologia digitale consente l’organizzazione orizzontale ed efficiente di questi contro-poteri, come mostrato dai leaks che sono riusciti ad abbattere degli ostacoli per cambiare le cose. È arrivato il momento di ascoltare la società civile e di creare nuovi rapporti di potere. Il blocco delle nostre economie dovuto all’epidemia, questa pausa forzata nel trambusto delle nostre vite, deve aiutarci a pensare il mondo di domani e a darci gli strumenti per realizzarlo.

(traduzione Luana De Micco)