Nuovi lavori: ecco come si riciclano gli italiani

C’è chi come Giulio che a Livorno si è dovuto reinventare pony express per pagare i costi di gestione del ristorante, oppure Lucia che da fashion designer ha iniziato ad assemblare mascherine per una grossa azienda italiana, fino alla sarta milanese Samanthakhan Tihsler che ha dovuto riconvertire la sua produzione di abiti da sposa in dispositivi di protezione. Reinventarsi ai tempi del coronavirus non è più una questione di scelte: per alcuni lavori, soprattutto quelli più in crisi, diventa un obbligo. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) il lockdown da coronavirus avrebbe riguardato 2,7 miliardi di persone (l’81% di tutta la forza lavoro mondiale), il 37% dei quali in settori che stanno subendo un grosso calo della produzione mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro.

E sarà così per molti settori: dall’agricoltura che diventa “idroponia” (la coltivazione fai da te in casa) alla cultura (c’è chi fa la guida turistica dal balcone), fino a influencer, insegnanti di inglese, artisti e personal trainer che hanno trasferito tutto il proprio business sulle piattaforme digitali. Un caso emblematico viene da Torino, dove la “Modo” fino a pochi mesi fa faceva grandi affari sull’organizzazione di eventi e di catering: concerti, fiere, grandi mostre. In poche settimane si è riconvertita e ha impiegato i suoi lavoratori per la costruzione del nuovo ospedale dedicato ai pazienti covid-19 alle Ex Officine Ferroviarie nel centro di Torino. In poche ore, in soli 12 giorni, la Modo ha dovuto edificare 1.500 metri di pareti di tamburato per installare e separare tra loro le 12 terapie intensive.

Con i parrucchieri chiusi e le folte chiome cresciute in questi mesi, c’è chi non si rassegna al taglio fai-da-te e per questo è nata l’idea di Daniele Boggia del Ayra Salon a Marina di Carrara: videochiamate e consigli online per seguire i propri clienti e aiutarli nel taglio o nella cura dei propri capelli. Dopo i primi post con semplici suggerimenti, la richiesta è aumentata e Daniele ha iniziato a organizzare le videochiamate: “Forniamo consigli per mascherare la ricrescita ma anche per realizzare una piega liscia perfetta – dice Boggia – Ad alcune clienti abbiamo spedito anche del materiale per ritoccare il colore”.

Ma la Fase 2 sarà caratterizzata anche da lavori completamente nuovi: medici che forniranno cure e prescriveranno medicinali via skype, nuovi informatici che progetteranno algoritmi per regolare accessi in ospedale, le consegne a casa o gli ingressi in scuole e uffici pubblici, fino agli psicologi specializzati nel fornire aiuto ai traumi da lockdown. I principi guida saranno: nessun assembramento, meno rapporti personali e più flessibilità di orari e di movimento. Ma non è detto che la trasformazione sarà duratura: “Con ogni probabilità l’immunità di gregge prodotta dal vaccino farà tornare il lavoro in presenza come lo abbiamo conosciuto fino a qualche settimana fa” spiega al Fatto Quotidiano, Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt e studioso da anni del mercato del lavoro.

E poi ci sono tutti quei lavori e quelle competenze già esistenti nella fase pre-Covid che cambieranno solo le proprie strategie evitando la presenza fisica: oltre ai richiestissimi esperti in digital marketing e nelle piattaforme di sicurezza informatica, molti negozi di qualunque genere inizieranno a utilizzare le consegne a domicilio per evitare assembramenti nei negozi, non solo nelle grandi città. “Penso a tutti quegli alimentari che in queste settimane si sono convertiti, anche nei piccoli paesini – continua Seghezzi – ed è molto probabile che questo avverrà in molti altri settori”. Oggi il mercato dei rider resta in mano alle grandi multinazionali della logistica ma, spiega lo studioso, nei prossimi mesi “molti nuovi player faranno il loro ingresso nel mercato”.

Tra le vecchie professioni che si faranno in movimento per evitare assembramenti negli spazi chiusi, soprattutto i piccoli negozi, cambierà l’approccio: non sarà più il cliente ad andare fisicamente dal commerciante ma il commerciante dal cliente. Come? Tramite le biciclette e altri mezzi che offriranno street food, birre o vestiario ma anche guide turistiche e sicurezza nelle città.

Famiglie: la Fase 2 è una vera mazzata

Mascherine, guanti, disinfettanti, tamponi, esami sierologici. Ma anche alimenti e altri prodotti essenziali, telefonia, connessione al web, per finire con i servizi alla persona e alla famiglia. La pandemia da coronavirus non ha portato con sé solo i problemi sanitari, ma anche enormi tensioni economiche per le famiglie, strette nella tenaglia il calo delle entrate dovuto ai problemi lavorativi e un consistente aumento delle uscite causato sia da tutta una serie di nuove spese sia da rincari dei consumi normali.

Tra le nuove voci di spesa, impensabili sino a pochi mesi fa, ci sono quelle collegate alla salute, a partire dalle mascherine. Nelle settimane iniziali dell’epidemia la speculazione ha spesso spadroneggiato sul mercato di questi dispositivi di protezione individuale, facendo scattare denunce, multe sino a oltre 25mila euro e sequestri in tutta Italia. In alcuni casi venivano venduti online “kit” composti di cinque mascherine insieme ad altri prodotti con prezzi sino a 5mila euro, ma non sono mancati richieste di 200 euro per cinque pezzi. Ancora a fine aprile c’era chi vendeva confezioni da 50 mascherine chirurgiche a 80-100 euro e quelle FFp2 con valvola tra i 12 e i 20 euro l’una. Al di là di casi estremi e truffe, con l’obbligo di utilizzo nella fase 2 delle mascherine il costo medio per famiglia è stato stimato in 200 euro al mese per un nucleo medio, calcolato ai prezzi di mercato pari a 1,5-2 euro a pezzo per le mascherine chirurgiche omologate CE e tra i 3,3 e i 6,5 euro l’una per quelle FFp2 senza valvola.

Per questo alcune Regioni hanno cercato di organizzare distribuzioni gratuite. Ora è intervenuto il governo che ha calmierato i prezzi delle mascherine “base” a 50 centesimi a pezzo più Iva al 22%, quindi 61 centesimi, nonostante la richiesta di abbassare l’imposta al 4%. Il commissario straordinario Domenico Arcuri ha promesso che le mascherine a “prezzo politico” saranno disponibili in 50mila punti vendita ma i dispositivi con marchio CE ancora non si trovano, gli importatori hanno bloccato i carichi e i produttori nazionali sono fermi in attesa che il governo chiarisca i meccanismi di rimborso della differenza tra prezzi di fabbrica e il valore calmierato, più bas“so. Mentre il mercato aspetta regole chiare, la vendita sottobanco di mascherine chirurgiche a prezzi di mercato prosegue e, per poter andare al lavoro, le famiglie pagano. Stesso problema per i guanti chirurgici o in lattice, venduti in confezioni da 100 pezzi l’una a prezzi sino a 12 euro a scatola pari a rincari tra il 150 e il 400%. Ma il mercato nero a febbraio aveva interessato anche i gel idroalcolici igienizzanti per le mani. Le confezioni da 80 millilitri, che prima della pandemia si trovavano in commercio a 3 euro, avevano segnato rincari del 650% al pubblico.

La speculazione non si è fermata nemmeno nel settore degli esami di laboratorio. Ad aprile in alcune regioni i test del tampone per identificare la positività al coronavirus avevano raggiunto in alcuni laboratori privati anche i 600 euro, mentre erano “normali” valori di mercato intorno ai 100 euro. A fine aprile, con lo sviluppo e la diffusione dei test sierologici, è dovuta addirittura intervenire l’Autorità Antitrust che, dopo le denunce del Codacons, ha chiesto spiegazioni a una serie di cliniche private di Roma. I test venivano venduti a prezzi tra i 130 e i 150 euro con punte fino a 600 euro, a dispetto dell’ordinanza dell’8 aprile con la quale la Regione Lazio ha fissato la tariffa di circa 20 euro per il test rapido da sangue capillare raccolto con la puntura su un dito e di circa 45 euro per il test sierologico con prelievo venoso, pari ai costi sostenuti dal Servizio sanitario regionale.

Ma i rincari non hanno riguardato solo i prodotti sanitari. Uno degli effetti causati dalla limitazione agli spostamenti dei cittadini è stato quello, spesso nei piccoli e piccolissimi centri, di “legarli” a pochi supermercati, talvolta all’unico presente nel loro comune. Sono così scattati comportamenti opportunistici dei rivenditori, con rincari di alcuni alimenti che hanno raggiunto la doppia cifra. “Quello che sta accadendo sui prezzi alimentari è semplicemente vergognoso, stiamo denunciando scandalose speculazioni a tutte le procure italiane”, ha affermato Rosario Trefiletti, presidente del Centro Consumatori Italia. L’effetto è stato più forte nel settore dell’ortofrutta. Secondo Trefiletti gli aumenti medi rilevati in sei città sono stati pari al 55% per melanzane e peperoni, per le pere +50%, per le arance e l’insalata +40%. Anche Codacons ha analizzato i listini all’ingrosso dei prodotti ortofrutticoli e ha rivelato rincari del +33% per i cavolfiori, 100% per le carote, 80% per zucchine e broccoli, ovviamente riversati sui prezzi al dettaglio. L’Unione Nazionale Consumatori ha calcolato che per una coppia con due figli questo comporta un aumento annuo di 221 euro per i soli acquisti alimentari, per una coppia con un figlio di 194 euro e di 161 per famiglia media. Giovedì scorso così l’Antitrust ha dato il via a un’indagine sui rincari dei prezzi degli alimentari, disinfettanti, detergenti e guanti. L’Autorità ha chiesto informazioni a una serie di catene della grande distribuzione che controllano oltre 3.800 punti vendita, soprattutto dell’Italia centrale e meridionale. I dati Istat a marzo hanno fatto segnare evidenti aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari rispetto ai mesi precedenti. Le organizzazioni dei produttori, Coldiretti in testa, ribattono però che i prezzi alla produzione non sono aumentati.

I problemi non si limitano ai consumi: i rincari, dovuti alle maggiori difficoltà di organizzazione, riguardano anche i servizi. Se non ci sono stati aumenti tariffari per i collegamenti tlc e web, è pur vero però che il traffico dati è molto aumentato per le necessità di telelavoro e per la maggior domanda di connessione alla rete: per i clienti senza tariffe flat le spese sono dunque aumentate.

Ma i rincari non si fermano qui. Nei centri estivi per l’infanzia, ad esempio, le nuove regole di distanziamento prevedono che i gruppi di bambini dovranno essere seguiti in grandi spazi con numeri più piccoli. Questo comporterà la necessità di aumentare esponenzialmente il personale e farà salire i costi per le famiglie. I genitori si augurano che il bonus babysitter introdotto dal Governo possa coprire i rincari. Lo stesso effetto ha colpito le famiglie con disabili o anziani non autosufficienti: lo stop a servizi come i centri diurni ha comportato un aumento delle ore di presenza in famiglia. Chi ha potuto è ricorso di più alle badanti o si è dedicato personalmente alla cura dei propri cari, delegando altri lavori domestici ai collaboratori domestici con un costo non indifferente. Anche su questo fronte il governo erogherà un bonus badanti e colf che, nella speranza di molte famiglie, potrebbe mitigare l’impatto sui bilanci.

Fattorie didattiche, un’alternativa alle scuole chiuse

Aziende riaperte, scuole ancora chiuse e il problema dei genitori lavoratori che non sanno a chi affidare i figli non ha ancora una soluzione chiara. Un aiuto importante, allora, potrebbe venire dalle tre mila masserie didattiche italiane. Cioè le fattorie autorizzate a svolgere corsi di formazione e laboratori pratici per bambini (e non solo).

La semina, la raccolta, l’educazione alimentare e ambientale, la stagionalità nei campi. Queste le materie per inculcare da subito i concetti di consumo consapevole e sviluppo sostenibile. Specie in un questo periodo di rallentamento della didattica tradizionale. L’idea di sfruttare le masserie anche per far fronte all’emergenza sta prendendo piede in questi giorni, sostenuta dalle associazioni agricole come Coldiretti e Cia. Si tratterebbe di considerare le fattorie un’alternativa ai centri estivi, che per ragioni di distanziamento sociale potrebbero non avere spazio per tutti. Ma non solo: nell’eventualità che anche a settembre il rientro tra i banchi non fosse possibile, o in caso si decidesse di adoperare la rotazione nelle aule, potrebbe servire a integrare le attività scolastiche. Ogni bambino potrà passare in masseria dalle quattro alle otto ore al giorno, a seconda dell’esigenza lavorativa del genitore. Il costo è di circa 100 euro settimanali, ma aumentano se si aggiunge il pranzo. Vanno osservate tutte le rigide prescrizioni su distanze e dispositivi di protezione, ma il fatto di stare all’aperto sarà un punto a favore. “Fino ad ora una masseria poteva ospitare anche due classi contemporaneamente – spiega Silvia Bosco, responsabile del progetto Educazione alla campagna amica di Coldiretti – ora questi numeri non sarebbero praticabili. Ma anche con meno bambini, queste attività permetterebbero alle famiglie di lasciare i figli in un ambiente protetto, a contatto con la natura. Noi ci rendiamo disponibili sia subito sia nella fase di riapertura delle scuole. Lo abbiamo pensato soprattutto per le mamme che lavorano”. Coldiretti ha scritto una lettera al ministero dell’Istruzione e alle Regioni. Anche la Cia sta spingendo per una soluzione simile. “Le ipotesi che proponiamo sono due – spiega Marco Barbetta, responsabile delle analisi economico-legislative per l’associazione –: o un credito d’imposta o un coupon per aiutare le famiglie, soprattutto le meno abbienti, a sostenere le spese di iscrizione”.

L’organizzazione non sarebbe semplice, serve una rete di trasporti sicura ed efficiente per quei bambini che non possono essere accompagnati. Una volta superati i problemi, però, resterebbero solo i vantaggi. Soprattutto per quei genitori che in estate, avendo ripreso il lavoro dopo il lockdown, avranno poche ferie. Inoltre, permetterebbe di diversificare i servizi per i bambini. Molte masserie didattiche, infine, ospitano anche agriturismi, un segmento che con le chiusure ha subito un pesante colpo. Far recuperare almeno una parte delle perdite intensificando la formazione dei bambini sarebbe un modo per sostenere queste imprese incentivandone le attività senza limitarsi ai sussidi.

Ora salvare le biblioteche: terapia intensiva dello spirito

“Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. La celebre metafora scelta dall’Adriano di Marguerite Yourcenar è ancora forse la più potente, tra quelle immaginate nel secondo dopoguerra (le Memorie di Adriano escono nel 1951) per spiegare il nesso tra libri pubblici e futuro: le biblioteche come cibo comune contro la comune carestia spirituale, come vaccino contro l’epidemia dell’ignoranza e dunque contro il ritorno di guerre e fascismi. Potremmo domandarci se tra le cause del perdurare dell’inverno del nostro scontento che da decenni congela ed estingue la nostra comune umanità non ci sia anche la nostra incapacità di fare come Adriano: tanto più inescusabile quando si rammenti che a noi non era chiesto di fondare nuove biblioteche, ma ‘solo’ di non far morire quelle che i nostri padri ci hanno lasciato come seme di futuro. Ebbene, in questi giorni lentamente riaprono le biblioteche pubbliche italiane: dopo una chiusura che non ha sollevato i lamenti suscitati non dico da quella dei ristoranti, ma nemmeno da quella dei musei. Ma come li troviamo, questi granai dello spirito, ora che possiamo vederli con occhi nuovi? La risposta più consapevole (e dunque più preoccupata) viene da un bellissimo editoriale appena apparso sulla rivista Culture del testo e del documento, firmato da Attilio Mauro Caproni, già bibliotecario alla Nazionale di Roma, ordinario di Bibliografia e fondatore del primo dottorato italiano in Scienze Bibliografiche (a Udine). È una garbatissima lettera aperta al ministro Franceschini: “Signor Ministro, non prova un forte senso di imbarazzo, forse vergogna (mi scusi per questa espressione così forte), e di disagio nel vivere (e amministrare) uno Stato dove le biblioteche sono relegate in uno squallido parterre?”. Il rosario di afflizioni snocciolato da Caproni è lungo, e puntuale. Eccone alcuni grani: “Mancanza direi pressoché assoluta di fondi finanziari per le acquisizioni di materiali librari e documentari, con danni evidenti per incremento e continuazione delle collezioni bibliografiche; mancanza, a volte (e molto spesso), di direttori effettivi muniti di una ferma preparazione culturale e manageriale; penuria grave delle unità dei bibliotecari e del personale pertinente in un numero che sia almeno sufficiente per il funzionamento corretto degli istituti librari, e per fare fronte, con dignità, alle esigenze dei lettori; disordine amministrativo della pertinenza delle biblioteche assegnate a direzioni ministeriali diverse, oppure accorpamento di biblioteche a Soprintendenze o Poli museali …; mortificazione delle alte competenze di alcuni gloriosi istituti (che hanno rappresentato, da sempre, un’eccellenza italiana); vetustà delle strutture edilizie ormai fatiscenti; una scarsa o una inadeguata informatizzazione delle procedure biblioteconomiche e bibliografiche; … mancanza per i lettori appartenenti alle classi culturalmente povere di una didattica per l’uso di una biblioteca”. È il racconto di una disfatta: noi quei granai li stiamo dando alle fiamme, per incuria e ignoranza. Nel 2016, esattamente per queste ragioni, si dimise in blocco il Comitato tecnico scientifico delle Biblioteche del Mibact: ma, dopo le parole di circostanza del ministro Franceschini, nulla è successo. Venerdì scorso il Consiglio Superiore dei Beni culturali ha indirizzato al ministro un documento con le ‘Osservazioni e proposte sull’emergenza sanitaria e sulla ripresa’ in cui si ribadisce con forza la “necessità di assumere archivisti e bibliotecari, che ricostituiscano quel ‘capitale sociale’ di competenze e professionalità che ormai si stanno completamente perdendo (se i dati sul 2020 erano già allarmanti, quelli sul 2021 disegnano un punto di definitivo non ritorno)”. Il Consiglio (del quale chi scrive fa parte) dice a Franceschini che solo una massiccia campagna di assunzioni a tempo indeterminato consentirà “di produrre conoscenza solida, seria, affidabile: un’operazione governata dal ministero che ricadrà positivamente anche sulle attività dei musei e degli altri luoghi della cultura, anch’esse da ridisegnare nel senso del potenziamento della ricerca e dell’approfondimento di temi rilevanti per la comunità nazionale e per le collettività locali”. La morale è assai semplice: l’inverno inaspettato del Covid ci ha fatto capire che abbiamo bisogno di letti in terapia intensiva e di medici e infermieri assunti dallo Stato e ben pagati. E, al tempo stesso, anche di quei reparti di terapia intensiva spirituale che sono le biblioteche, dove l’ossigeno della conoscenza è offerto a tutti, anche a chi a casa (quella casa che nel confinamento è diventata cifra e rappresentazione delle diseguaglianze mostruose che abbiamo creato) non ha libri, cioè appunto ossigeno. La conclusione di Caproni è semplice, e inappellabile: “Signor Ministro, Lei ha il compito … di rispettare i cittadini italiani”. Proprio questo è il punto: se le biblioteche muoiono non saremo né cittadini né italiani, ma sudditi senza storia e senza futuro. Vogliamo davvero ripartire? Allora ripartiamo dalle biblioteche.

Omicidio Trotsky: ombre italiane e la mano di Stalin

La recente polemica su Stalin e Trotsky fra Marco Rizzo, a capo del Partito comunista italiano di matrice marxista-leninista, e Marco Ferrando, leader del Partito comunista dei lavoratori d’ispirazione trotzkista, coincide con l’anniversario degli ottant’anni dall’assassinio del grande oppositore del dittatore georgiano. Il 21 agosto del 1940, infatti, Lev Trotsky moriva a Coyoacán, un quartiere di Città del Messico. Noto come Trotsky, pseudonimo di Lejba Davidovic Bronštein, e nato a Janovka, in Ucraina, nel 1879, era stato uno dei grandi protagonisti della rivoluzione sovietica del 1917. Commissario del popolo agli Affari Esteri e alla Guerra, comandante dell’Armata Rossa, dai primi anni Venti, dopo la morte di Lenin, divenne l’antagonista numero uno di Stalin e nel 1929 venne esiliato ad Alma Ata; quindi fu espulso dall’Urss.

Quel 20 agosto 1940, ventiquattr’ore prima di morire, era stato colpito con un colpo di picozza alla testa dal sedicente cittadino canadese Frank Jackson, in realtà Jaime Ramón Mercader del Río Hernández, che si spacciava per simpatizzante della Quarta Internazionale, il movimento fondato da Trotsky. Joseph Hansen, dirigente della sezione statunitense della Quarta Internazionale, quel giorno era a casa di Trotsky, chiamato da lui il “Vecchio”. Racconta che, in ospedale, il teorizzatore della rivoluzione permanente disse: “È un assassinio politico. Jackson era un membro della Gpu”, una delle polizie segrete dell’Urss, “o un fascista, più probabilmente dalla Gpu”. Il “‘Vecchio’ stava riflettendo su Jackson, e nel poco tempo a sua disposizione mi descrisse il suo pensiero su come si dovesse analizzare l’attentato, sulla base dei fatti che avevamo a disposizione: ‘La Gpu di Stalin è colpevole, ma dobbiamo lasciare aperta la possibilità che sia stata aiutata dalla Gestapo di Hitler’”. Il “Vecchio” non si sbagliava. Il suo assassino, Ramón Mercader (Barcellona, 1913 – L’Avana, 1978), fratello dell’attrice María Mercader, seconda moglie di Vittorio De Sica, era un agente della Nkvd, i servizi segreti interni di Stalin.

Comunista come la madre, era partito con lei per Mosca, negli anni Trenta, diventando, come la donna, una spia del regime. Nel 1953 l a sua vera identità fu scoperta, ma i rapporti con l’Nkvd sarebbero venuti alla luce con la fine dell’Urss. In Messico era stato condannato a 20 anni di carcere. Nel 1960, tuttavia, fu liberato in seguito a una delle richieste di grazia presentate dalle autorità di Mosca. Fu accolto a Cuba da Fidel Castro, mentre in Urss, nel 1960, venne insignito dell’onorificenza di “Eroe dell’Unione Sovietica”. Visse tra l’Urss, la Cecoslovacchia comunista e Cuba, dove morì nel 1978.

Fin dai primi giorni successivi all’omicidio di Trotsky, in ogni caso, la stampa libertaria e trotskista non esitò a indicare in Stalin il mandante. Il giornalista e sindacalista Carlo Tresca, negli Stati Uniti da molti anni, che fra il 1937 e il 1938 aveva partecipato all’American Committe to Defend Leon Trotsky, nato per difendere il vecchio rivoluzionario dai violenti attacchi di Stalin e dell’Urss, il 28 agosto 1940, dalle colonne del suo periodico Il Martello di New York scrisse: “Trotsky è caduto. Dopo vari falliti tentativi, il braccio di Stalin lo ha preso. Come il braccio di Mussolini prese i corpi dei fratelli Rosselli. I dittatori si somigliano anche nel delitto”.

Nel mirino di Tresca, e della stampa anarchica e trotskista, c’era soprattutto il comunista triestino Vittorio Vidali (1900–1983), il “comandante Carlos” della guerra di Spagna, ritenuto un agente sovietico e sospettato di essere uno degli organizzatori dell’assassinio di Trotsky. Scrive il suo biografo Patrick Karlsen, autore di Vittorio Vidali. Vita di uno stalinista (1916-1956), pubblicato da Il Mulino, che “lo dipinsero come un mostro capace di assassinare perfino la sua compagna. Tina Modotti infatti moriva a Città del Messico nel gennaio 1942 a bordo di un taxi (‘senza vedere la splendida alba’, scrisse Vidali)”. Si disse “che l’avesse avvelenata perché Tina si stava distaccando dal Partito comunista ed era a conoscenza di tutti i suoi misfatti”. Uno di questi misfatti sarebbe stato il delitto Trotsky. Afferma Karlsen che “si tratta di dicerie destinate incredibilmente a sopravvivere fino a oggi. Incredibilmente non solo in quanto l’identità del vero assassino di Trotsky – Ramón Mercader – è nota da oltre mezzo secolo ma perché, in merito a questi avvenimenti, è disponibile da un quindicennio a questa parte il resoconto del loro principale tessitore, il vice capo della Sezione Paesi esteri dell’Nkvd Pavel Sudoplatov. Il suo è un racconto affidabile e assai circostanziato nel quale il nome di Vidali risulta completamente assente”.

Ciò non significa, aggiunge lo storico, estraniare Vidali “dalla complessa trama volta all’eliminazione di Trotsky, decisa da Stalin e portata a termine con sofisticata tenacia. Al suo interno gli spettò comunque un lavoro che gli riusciva molto bene, quello di orchestrare la propaganda di denigrazione e disumanizzazione che doveva precedere e preparare l’annientamento fisico dell’avversario. Il periodico comunista El Machete era pieno di articoli aggressivi contro il ‘porco di Coyoacán’, solo uno dei vari capitoli di una mobilitazione intensissima, comprendente cortei e sit-in davanti all’abitazione della vittima designata”. Quello di Vidali era “un ruolo di primo piano che non sfuggì allo stesso Trotsky, il quale in un articolo scritto due giorni prima della morte lo denunciò come uomo-chiave della Gpu in Messico, sottolineando la crudeltà di cui avrebbe dato prova in Spagna”.

Gli “schiavi” dei campi vanno regolarizzati, il governo agisca

L’odore acre di bruciato si diffonde rapidamente, le urla che arrivano da fuori sono il segnale che qualcosa non va. Quando Mbaye apre gli occhi, capisce immediatamente che non ha molto tempo e si precipita fuori, soccorso dai vicini. Bastano pochi attimi e le fiamme illuminano la notte, avvolgendo completamente quella che è casa sua, una baracca in legno e lamiera nel ghetto di Borgo Mezzanone, in Puglia.

Siamo agli inizi di febbraio, il freddo entra nelle ossa e la pandemia deve ancora fare il suo corso in Italia. L’incendio che ha completamente distrutto la baracca di Mbaye è l’ultimo di una lunga serie. Basta un niente, un cortocircuito del fornello elettrico, un fuoco accesso nella baracca a fianco, perché una casa sparisca portando via, quando va bene, tutti gli effetti personali di chi ci abita.

Quella di Mbaye è la storia delle tante persone che abitano nei ghetti della Puglia, nelle tendopoli calabresi o nelle strutture di fortuna in Piemonte. Storie di donne e di uomini costretti a vivere in situazioni spesso inumane e degradanti. Parliamo di quegli insediamenti informali dove le condizioni igienico-sanitarie sono da sempre precarie e lo diventano ancor di più oggi nel pieno di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite.

Ognuno di noi ha passato le ultime settimane dentro casa, ci siamo abituati a lavarci le mani sempre più spesso, a indossare le mascherine, a metterci ordinatamente in fila aspettando il nostro turno al supermercato. Soprattutto ci siamo dovuti abituare al distanziamento sociale, a stare lontani dai nostri affetti. Tutto questo, in un ghetto, tra le pareti di lamiera di una baracca, tra le mura decrepite di una vecchia masseria abbandonata, semplicemente non è applicabile. Anzi, l’invito a restare a casa, può addirittura avere l’effetto opposto, aumentare il rischio di contagio. Perché le case sono spesso le baracche dove vivono in sette, otto persone, dove non c’è un bagno o un lavandino dove lavarsi le mani, né una lavatrice dove lavare i panni.

Nasce da questa consapevolezza l’appello che, ormai più di 40 giorni fa, abbiamo lanciato al governo per chiedere di intervenire urgentemente per salvaguardare la fragilità di queste persone. L’appello, promosso dall’associazione ambientalista Terra! e dalla Flai-CGIL ha raccolto l’adesione di tanti: dall’elemosiniere del Papa a Luigi Manconi, da Intersos alla Caritas. Realtà e personalità a vario titolo impegnate da anni nella difesa delle persone con fragilità che hanno posto una questione urgente al governo, chiedendo di regolarizzare gli uomini e le donne costretti in queste situazioni e che spesso lavorano come braccianti nei campi, garantendo l’approvvigionamento della catena agroalimentare.

Dall’appello del 20 marzo a oggi, il dibattito politico ha preso il sopravvento con diversi esponenti del governo che a più riprese hanno rilasciato dichiarazioni a volte contrapposte. Da una parte i ministri Lamorgese, Bellanova e Provenzano dall’altra una parte del movimento cinque stelle, in testa Vito Crimi, che continua ad opporsi a ogni ipotesi di questo tipo.

Ad oggi la situazione sembra però essersi arenata in un dibattito politico che ha poco a che vedere con il destino di migliaia di vite umane. Lo ripetiamo da settimane, ogni giorno che passa è un giorno di troppo, e il rischio che si sviluppi un focolaio del virus in quei luoghi è da evitare ad ogni costo.

Ma c’è di più. Se le condizioni abitative in cui versano migliaia di braccianti era inaccettabile prima del Covid-19, lo è a maggior ragione oggi. L’idea che molte di queste persone – per il semplice fatto si essere irregolari nel nostro paese – vengano sfruttate, pagate in nero e gestite da un caporale, era deprecabile prima della pandemia ma oggi emerge in tutta la sua drammaticità. E allora, quella della regolarizzazione è un’arma che risponde a diverse esigenze: quella umanitaria innanzitutto.

Non è tollerabile vivere in un ghetto, dentro una baracca, ne va della dignità della persona che ci abita ma anche della civiltà del paese in cui questo accade, e quindi di tutti noi.

A fronte dell’impegno delle organizzazioni che continuano a operare sul campo – dai sindacati, a Intersos, Medu, Mediterranean Hope, la Caritas – non è pensabile che non ci sia un intervento efficace delle istituzioni, anche garantendo sistemazioni alloggiative adeguate.

Ma soprattutto, non si può dimenticare che la maggior parte di queste persone da anni svolgono un ruolo centrale nella nostra economia: braccianti che lavorano nei campi, nelle serre, che raccolgono asparagi, frutta, che tra qualche settimana dovrebbero iniziare la raccolta del pomodoro nelle campagne pugliesi.

Il settore agricolo sta pagando gli effetti della pandemia: Da una parte ha garantito la produzione di cibo nei mesi del lockdown, dall’altra sconta una carenza strutturale di lavoratori stranieri – in particolare rumeni – rimasti bloccati nei loro paesi di origine a causa del Covid-19. Al momento sono serviti a poco i tentativi di aprire il “corridoio verde” che avrebbe permesso ai lavoratori dei paesi membri dei paesi dell’Est Europa, di raggiungere l’Italia in sicurezza.

Fase due: l’Italia che pedala per evitare Covid e traffico

Ripartire. In bicicletta. I costruttori automobilistici traballano. I trasporti pubblici tremano. Ma il virus potrebbe rilanciare un settore in cui l’Italia è leader: la bici. Di più: potrebbe dare slancio a un mezzo di trasporto che garantisce sicurezza dal contagio, ma offre anche la possibilità di fare movimento e di spostarsi agilmente in città. Senza contare il cicloturismo. Ma c’è un problema: le infrastrutture. In Italia facciamo le migliori bici, le esportiamo ovunque, ma non sappiamo dove usarle.

Cominciamo a distinguere: ci sono percorsi urbani per spostamenti di lavoro in città e ciclovie turistiche. Nelle città oggi abbiamo 2.341 chilometri di piste. Siamo indietro: in Europa ci sono 75mila chilometri di piste. Strasburgo da sola ne ha 536 chilometri, un quarto di tutte le nostre città. Proprio l’emergenza, però, sembra aver dato un impulso: “Nella legge di bilancio 2020 sono previsti 150 milioni per realizzare percorsi urbani”, spiega Alessandra Bonfanti, responsabile Mobilità Attiva di Legambiente. Una buona notizia, che va insieme con gli incentivi ipotizzati per l’acquisto di bici e monopattini elettrici. Ma siamo ancora sulla carta: “C’è il rischio che gli incentivi siano riservati alle città con più di 50mila abitanti. Cosa ne sarebbe di centri come Lodi, tanto inquinata e flagellata dal virus, ma troppo piccola per essere compresa dalla legge?”, si chiede Bonfanti. I soldi sono stati previsti, ma è solo il primo passo. È già successo in passato: “Poi progetti e cantieri non arrivano e le risorse che c’erano finiscono in un buco nero”, sostiene Legambiente e ricorda i 2.626 chilometri di ciclabili previsti nei piani di mobilità di 22 città ma non ancora realizzati. Palermo passerebbe da 48 a 155 chilometri; Firenze da 66 a 108; Pesaro da 100 a 180; Napoli da 21 a 184; Bologna da 248 a 969; Bari da 45 a 202; Milano da 220 a 406; Parma da 125 a 296. Ma non basta tracciare strisce sull’asfalto: occorre modificare la struttura delle città. E le abitudini degli italiani. Nonostante che alcune zone – vedi la Pianura Padana – siano perfette per le due ruote e da noi il clima sia più favorevole alle pedalate rispetto al Nord Europa. Eppure a Houten (Olanda) il 44% degli spostamenti avviene in bici. Mentre da noi, come si scopre leggendo il dossier A, b, ci della bicicletta di Legambiente e VeloLove, arranchiamo. Ci sono città virtuose come Bolzano, Pesaro e Ferrara dove quasi il 30% delle persone si spostano in bici. Ma già se vai a Milano, che pure dovrebbe lottare contro l’inquinamento e ha una conformazione perfetta per le due ruote, ci si ferma al 6%. Torino va perfino peggio. Per non parlare di Roma, Genova, Napoli e Palermo. “In Italia – ricorda Bonfanti – l’80% degli spostamenti urbani avviene nel raggio di cinque chilometri, ma quasi nessuno usa la bici”. E pensare che adesso la domanda sta scoppiando: a Torino, per dire, la riapertura della Fase 2 ha portato in pochi giorni a un aumento del 300% dell’uso di bici. “La grande occasione sarebbero le scuole, la riapertura di settembre. Bisogna venire incontro ai ragazzi. Si devono progettare percorsi protetti, soprattutto vicino alle scuole”, chiede Legambiente. Qualche città, vedi Torino, si sta rapidamente attrezzando, dedicando i controviali alle due ruote e aprendo alle scuole car free. Ma le altre?

La grande occasione sono anche le ciclovie turistiche. Nel 2016 il Governo ha stanziato 91 milioni che nel tempo sono diventati quasi 361. Ma Regioni e Comuni stentano a trasformarli in cantieri. Sulla carta si parla di 6mila chilometri, ma siamo ancora al libro dei sogni. Pensiamo alla Ciclovia dell’Appennino che dalla Liguria arriverebbe alla Sicilia (quasi 2.600 chilometri in 300 comuni). A Roma c’è il progetto del Grab, il grande raccordo anulare per le biciclette: 46 chilometri tra Sant’Angelo, San Pietro, la città della musica di Renzo Piano, il museo Maxxi e la via Appia. Una grande offerta per i turisti, ma anche una rivoluzione per la mobilità urbana. I giornali avevano annunciato l’apertura per il 2018, ma, sostiene Bonfanti “nonostante la buona volontà di qualcuno siamo ancora quasi a zero”.

Eppure il cicloturismo è anche una grande risorsa economica: ogni anno porta 55 milioni di presenze che attivano 4,7 miliardi di spesa (in testa il Trentino-Alto Adige). In Europa non esistono solo i corridoi per i treni, ma anche quelli per le bici. Eurovelo, si chiamano, e sono ben 17. Diversi passano in Italia e incrociano percorsi in via di realizzazione, come la grande pista Torino-Venezia di 632 chilometri. Un altro percorso scende dal Nord Europa, giunge a Monaco di Baviera e da qui si spinge fino alle Dolomiti di Cortina d’Ampezzo e giù fino a Venezia. Al Sud uno dei gioielli è il progetto della ciclovia dell’Acquedotto Pugliese: 500 chilometri, dalle sorgenti del Caposele fino a Santa Maria di Leuca.

Puntare sulle bici, significa ridurre traffico e inquinamento (meno 1,5 milioni di tonnellate di CO2). Ma anche puntare su un settore industriale che vale 12 miliardi di pil. In Italia si vendono 1,7 milioni di bici l’anno. Siamo, insieme con la Germania, i principali produttori d’Europa. Il 19% delle biciclette vendute nel nostro continente sono Made in Italy. Lo dobbiamo ai 144 mila produttori. Un settore che garantisce margini di guadagno (7,8% contro 2,6 delle auto). “Dove vai bellezza in bicicletta”, recitava la famosa canzone, “se incontrerai una salita, io ti sospingerò”. L’Italia in bici è davvero una bellezza.

“Covid, per il clima serve la Ue: fermare Tav e grandi opere”

Jared Diamond, l’autore di Armi, acciaio e malattie, di Collasso e di Crisi, come altri scienziati e intellettuali, auspica che la lezione del coronavirus serva ad affrontare con convinzione i cambiamenti climatici. Per farlo occorre cooperazione internazionale perché il problema è globale e avrà enormi costi per tutta l’umanità. Serve anche coraggio politico, nel discernere e sostenere solo l’economia virtuosa e disincentivare quella ambientalmente perniciosa. Lo ha ribadito il Segretario Generale delle Nazioni Unite, l’ingegnere portoghese Antonio Guterres. Plaudo all’annuncio del governo italiano di aumentare al 110% lo sgravio fiscale per la riqualificazione energetica degli edifici, per far ripartire l’edilizia “senza consumare nuovo suolo”. Ma qui si pone il problema della coerenza delle azioni, in Italia come in Europa. Per difendere veramente il suolo basterebbe approvare la legge che ne impedisce il consumo! Se si vuole davvero realizzare il Green Deal, raggiungendo il 50% di taglio alle emissioni entro il 2030 e la neutralità climatica al 2050, la cura deve essere drastica e senza ambiguità. Siamo già in enorme ritardo rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi, per stare sotto i due gradi a fine secolo. Quindi non ci possiamo permettere di annunciare diete utili alla salute ambientale a pranzo lasciando l’abbuffata a cena. La dieta si fa per tutto il giorno e tutti i giorni, altrimenti non si guarisce.

L’Unione propone dunque una buona dieta a pranzo ma non rinuncia alla grande abbuffata delle grandi opere cementizie tipo Tav Torino-Lione. Cinquantasette chilometri di doppio tunnel in Val di Susa che viene spacciato come opera utile all’ambiente senza fornire dati affidabili a riguardo. Le uniche stime, peraltro avanzate dal proponente, parlano di un’emissione certa in fase di cantiere dell’ordine di 10 milioni di tonnellate di CO2 pari alle emissioni annuali di quasi un milione e mezzo di italiani. Per scavare le due gallerie gemelle verranno estratti decine di milioni di tonnellate di detriti rocciosi che necessiteranno di viaggi in camion e treni speciali, poi c’è l’energia per il funzionamento delle talpe, il cemento, l’acciaio, il rame e altre materie prime. Si dichiara che “il bilancio cumulativo (di CO2) risulta positivo a partire da 15 anni dall’entrata in esercizio del tunnel” e visto che ce ne vorranno una dozzina per terminarlo significherebbe che i primi grammi di CO2 non emessi in atmosfera si misureranno – dopo la compensazione di quello prodotto dal cantiere – solo alle soglie del 2050, ammesso che la linea venga poi utilizzata come ipotizzato sulla carta. Basterebbe sfruttare al meglio la ferrovia esistente, e magari a quell’epoca avremo pure camion elettrici a batteria o a idrogeno, mentre il telelavoro con la crisi Covid ha già mostrato la sua superiorità rispetto al movimento delle persone. È quindi curioso come tra tanti progetti ambientali che l’Unione si appresta a sostenere, venga avallato anche questo che per ridurre (forse) le emissioni tra una trentina d’anni, le aumenta di certo nei primi 15! Con l’effetto che prima si intossica il paziente più di quanto lo sia già, con un sicuro aumento della temperatura corporea, illudendolo che la cura per la febbre comincerà a fare effetto molti anni dopo. Ma non è meglio cambiare medicina subito? Ovvero investire i preziosi denari europei in opere che abbiano un immediato vantaggio economico e ambientale: riqualificazione energetica degli edifici, diffusione energie rinnovabili, adeguamento reti elettriche, telematiche e idriche, resilienza verso il rischio climatico. Sono posti di lavoro diffusi sul territorio, senza danni ambientali e con risultati verificabili: se fai il cappotto a casa tua o installi i pannelli fotovoltaici, la CO2 la abbatti quasi subito, non dopo trent’anni! E noi abbiamo bisogno di abbatterla prima possibile. Cosa ne pensa Frans Timmermans, coordinatore del Green Deal e della Legge europea sul clima? Il bilancio di CO2 della grande opera finanziata dalla sua collega Adina Valean, matematica rumena commissaria ai trasporti, è compatibile con la rapida riduzione delle emissioni? Ci mostrerebbe dati aggiornati e certificati da un ente indipendente in grado di contraddire questo scenario così equivoco? Di fronte a una trave così grossa nell’occhio della Commissione, è difficile aver fiducia nel Green Deal: la termodinamica vieta di avere la botte piena e la moglie ubriaca. Non ci sfugge l’opacità lessicale di una recente risposta della Direzione trasporti della Commissione: “È un progetto di infrastruttura di trasporto transfrontaliero che svolgerà un ruolo importante per il trasferimento modale in aree altamente sensibili dal punto di vista ambientale”. Non c’è scritto di quanto diminuirà le emissioni e quando, ma solo che è realizzato in aree altamente sensibili! Eh, lo sappiamo, sono le povere Alpi, e bucarle con altri tunnel è trascurabile, vero? Per essere coerenti con gli annunci verdi occorrerebbe fermare senza indugio proprio quelle grandi opere dove anche le emissioni sono grandi, grandi i danni ambientali e grandi i costi, ottenendo così un grande vantaggio. In questo caso è facile, perché si tratta soltanto di rispettare i principi della stessa istituzione che eroga i soldi: cambiano gli obiettivi strategici (l’urgenza climatica ha priorità sulla retorica della velocità ferroviaria), cambiano i finanziamenti e i buchi inutili nelle Alpi non si fanno più…

La sintesi è nella lettera che il fisico Angelo Tartaglia ha indirizzato alla politica: “A giudicare da tutte le contraddizioni evidenziate, parrebbe che l’Unione Europea, come le istituzioni italiane, si rifiuti di vedere come l’origine del problema climatico stia nelle strutture stesse dell’economia così come essa è stata ed è organizzata. Al centro di tutto vengono poste crescita materiale e competizione in barba a qualunque valutazione fisica, sostituendo la razionalità scientifica con una testarda fede nella magia e così continuando a difendere ciecamente e in maniera autolesionistica vantaggi a breve termine”.

Iperconnessi tutto il giorno: dramma di un giovane su 3

Per lavorare o studiare siamo online. Ma anche per guardare una serie tv, chattare con gli amici, sbirciare sui social, fare shopping, giocare ai videogames, informarci sulla pandemia. Sempre, tutti, connessi: difficile capire se lo siano più i giovani o gli adulti. A marzo il traffico dati su rete fissa è salito del 64%, in Italia. Il 35% dei ragazzi è online tra le 11 e le 14 ore al giorno: prima del lockdown solo il 15% (meno della metà) sfiorava le 10 ore sul monitor. Sono i numeri raccolti dall’Associazione nazionale per le dipendenze tecnologiche (Di.Te) con skuola.net. L’indagine fotografa la quarantena di oltre 9 mila ragazzi tra gli 11 e i 21 anni. “Già prima si abusava, ora la dipendenza digitale può esplodere”, avvisa Giuseppe Lavenia, presidente Di.Te. È una questione di chimica: online il corpo produce dopamina e endorfine, ormoni dell’assuefazione. La dopamina cresce con la ricerca di nuove informazioni, le endorfine salgono con le interazioni sui social. Quando aspettiamo una notifica o navighiamo senza meta (come lo zapping tv), se aggiorniamo a ripetizione la pagina della posta elettronica, “messaggiamo” in chat, su Facebook o Twitter, la dopamina dà una strana gratificazione: perciò è difficile “staccare la spina”. “Come col gioco d’azzardo e la cocaina, internet può dare dipendenza”, dice Lavenia: “Circa il 10% della popolazione, con la quarantena, rischia l’assuefazione”.

La compulsione da web, per l’Organizzazione mondiale della sanità, ad oggi non è una patologia. Lo è invece l’internet gaming disorder, il disturbo che impedisce di premere off al videogioco. A maggio 2019 l’agenzia Onu ha ufficialmente riconosciuto come malattia la dipendenza da “consolle”: ma 10 mesi dopo, col pianeta in quarantena, il dietrofront. “Incoraggiamo tutti a #PlayApartTogether”, scriveva su twitter, il 28 marzo, l’ambasciatore dell’Oms Ray Chambers. Cioé: il videogioco fa bene perché mantiene le distanze sociali, pazienza se può dare assuefazione. “L’abuso del gioco d’azzardo è stato etichettato come ‘malattia’ solo 2 anni fa”, dice Giuseppe Avenia: “Nemmeno il ‘ritiro sociale’ è una patologia, ma l’anno scorso in Italia si contavano circa 120 mila Hikikomori”.

È la parola giapponese per indicare gli individui reclusi in casa: nel Sol Levante è un dramma nazionale, in Italia no. Ma la paura è che la quarantena alimenti il desiderio di clausura: “Finalmente ci stiamo riuscendo, ad indurre i nostri ragazzi al ritiro sociale”, dice con sarcasmo amaro Tonino Cantelmi. È nell’equipe della comunità Sisifo (centro di cura per le dipendenze) e insegna Cyberpsicologia all’Università europea di Roma. “Per i ragazzi, uscire dalla ‘tana’ e tornare in società sarà difficile”, mette in guardia l’esperto. Lavenia è d’accordo: “Dopo la quarantena, alcuni rifiuteranno la vita sociale e il rischio è che abbandonino la scuola”. È come dopo la convalescenza, prima di tornare alla routine serve la riabilitazione. Problema, dice Lavenia: “Nessuno aiuta i ragazzi nella Fase 2”.

La ricerca firmata Di.Te e skuola.net illustra la situazione dei più giovani: per il 90%, il web è il cemento dei legami sociali. Quasi due terzi del tempo online, infatti, è dedicato a social e chat, ma senza gratificazione: 7 su 10 si sentono soli e molti sono vittime dei bulli. Al numero verde Di.Te le richieste d’aiuto per il cyberbullismo sono salite di 5 volte, durante il lockdown. La gogna arriva su Telegram, l’alternativa a Whatsapp: “Crei un gruppo intitolato ‘Odio tizio’, col nome del malcapitato, e giù insulti da chiunque”, spiega Lavenia. L’allarme arriva anche dalla Fondazione Carolina: le segnalazioni di violenze online sono cresciute di 6 volte.

Il branco digitale è una minaccia, mentre il diluvio di news sul Coronavirus nutre ansia e depressione. Al centralino Di.Te sono aumentate anche le telefonate per via degli attacchi di panico: “Il malore coglie i ragazzi prima di cena – racconta Lavenia – dopo il bollettino quotidiano della Protezione civile sul Covid-19”. Il tempo davanti al monitor non è un lenitivo: “I ragazzi, terrorizzati dalla pandemia, cercano di farsi un’idea sul web, ma affogano nel mare di notizie”. Di internet, molti farebbero a meno.

L’indagine condotta da Di.Te e skuola.net poneva una domanda netta: “Cosa avreste fatto senza lo smartphone?”. Lavenia ha avuto una doppia sorpresa. La prima: “Ha risposto 1 ragazzo su 2 ed è significativo, il quesito aperto di solito è ignorato da 9 su 10”. Seconda sorpresa: “La metà ha risposto che avrebbe preferito la compagnia dei genitori, se solo ‘i grandi’ non fossero sempre con gli occhi sul telefono”, dice Lavenia. Secondo lui, la dipendenza tecnologica incombe più sugli adulti. Ma la conseguenza è la solitudine dei figli. Non è solo colpa dei bit, se il 77% dei ragazzi ha perso la bussola del sonno: l’ora di coricarsi e del risveglio scocca a piacimento, il 46% dorme male. Pure i pasti sono sballati: il 40% mangia quando capita.

Difficile seguire i figli se lo sguardo è sullo schermo, ma i genitori hanno l’alibi: c’è lo smartwoking, la spesa è online e sul Covid bisognerà pur informarsi. Poi lo svago con gli amici: a marzo gli italiani hanno trascorso in media 40 minuti al giorno sui social (+53% rispetto al 2019) e 28 minuti in chat (+77%). E la scappatella: “È salito del 300% – dice Cantelmi – il traffico delle chat erotiche e sessuali”. Difficile che a frequentarle siano i figli. Dopo la carne, tocca alla mente: “Oltre all sesso, cresce la spiritualità online: religione, yoga, mindfullness”, aggiunge Cantelmi. Poi una mano a carte: “Tanti ‘malati’ di scommesse, orfani dello sport, affollano i siti di poker online”, racconta Federico Tonioni, direttore del centro per le dipendenze dell’ospedale Gemelli, a Roma. “Altri scommettitori invece speculano in Borsa, sul web, perdendo in un giorno quanto si guadagna in un anno”, prosegue Tonioni, che ammette: “Spesso hanno più problemi i genitori dei ragazzi in cura dalle dipendenze”. Secondo lui il web ha reso la quarantena sopportabile, la dipendenza è frutto di un’angoscia e non si misura col cronometro: “I ragazzi hanno diritto all’iperconnessione”. Basta che nel sollevare gli occhi dal telefono, incrocino quelli dei genitori.

“Homeland”, la serie tv sull’ostaggio che si converte

La conversione del sergente dei Marines Nick Brody, scomparso in Iraq nel 2003 e tenuto prigioniero per otto anni, è al centro di Homeland, la serie tv cult che si è appena conclusa dopo dieci anni, 96 episodi e una lunga lista di Emmy e Golden Globe.

Creata da Howard Gordon e Alex Gansa, la serie è basata sull’israeliana Prisoners of War di Gideon Raff. Nick Brody, dato per morto, ricompare nel 2011 in Afghanistan, e verrà riportato negli Stati Uniti da eroe. Carrie Mathison della Cia è l’unica a sospettare di Brody, l’unica a pensare che dietro l’alta uniforme del sergente si nasconda Abu Nazir, l’uomo al vertice di al-Qaeda. Davvero Brody si è convertito all’Islam? La risposta arriva già nel secondo episodio, quando il sergente va in garage, srotola il tappeto e s’inginocchia per pregare (riuscirà comunque a mantenere il segreto e l’aurea da eroe di guerra, tanto da venire eletto al Congresso). Ma come è possibile che Brody, da ostaggio, non solo si sia convertito ma sia diventato addirittura un radicalizzato? Per capirlo bisogna passare dai flashback con cui Homeland racconta la prigionia di Brody. Ed entrare in quei meccanismi complessi, da ribaltamento di ruoli tra vittima e carnefice, che alcune prigionie insegnano.

Durante i primi anni da ostaggio, il sergente viene torturato ma Abu Nazir lo tratta con riguardo, guadagnandosi la sua fiducia. La molla che fa scattare l’arruolamento di Brody è il trauma e la sofferenza che gli provoca l’uccisione da parte di un drone americano del figlio di Abu Nazir, Issa, a cui Brody si era legato molto insegnando inglese. Il vicepresidente Usa assicurerà in tv che nell’attacco non sono coinvolti bambini: è a quel punto che Brody giura che vendicherà la morte del piccolo. Sarà lui a scegliere liberamente la vendetta, o almeno a credere di averla scelta.