Da padre Dall’Oglio a Maccalli: gli altri sei italiani scomparsi

Dopo le liberazioni a marzo di Luca Tacchetto e ora di Silvia Romano, sono sei gli italiani rapiti e di cui ancora si attende la liberazione, anche se solo per due dei cinque la speranza che siano vivi è corroborata da elementi recenti. Sono: il sacerdote Paolo Dall’Oglio, sequestrato a Raqqa, in Siria, il 29 luglio 2013; il missionario Pier Luigi Maccalli, rapito in Niger la notte tra il 17 e il 18 settembre 2018 (e che forse è in compagnia d’un altro italiano di cui mancano notizie da tempo, Nicola Chiacchio) e tre venditori ambulanti napoletani, Raffaele Russo, suo figlio Antonio Russo e suo nipote Vincenzo Cimmino, dispersi in Messico dal 31 gennaio 2019 e sulla cui sorte si fanno varie congetture: “L’Italia non lascia indietro nessuno – ha detto ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio – lavoreremo per riportare tutti a casa”.

Pier Luigi Maccalli, originario di Madignano, in provincia di Cremona, operava in Niger per conto della Società delle Missioni africane. Venne sequestrato a Bomoanga, al confine tra Niger e Burkina Faso: secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato prima derubato, poi fatto salire su un’auto e quindi portato in Burkina Faso. Non è chiaro dove si trovi ora. Secondo il ministro del Burkina Faso, che parlò con Rainews oltre un anno fa, sarebbe stato riportato in Niger, ma non ve n’è certezza. A marzo, Avvenire diede notizia dell’esistenza di un video, in cui Maccalli era con il Chiacchio: “Mi chiamo Pier Luigi Maccalli, di nazionalità italiana e oggi è il 24 marzo – si sentiva nell’audio – Mi chiamo Nicola Chiacchio”. Il giornale riferiva di avere pure ottenuto un frame: si vedono gli ostaggi seduti uno a fianco dell’altro. Maccalli con gli occhiali scuri, l’abituale barba bianca e folta e un vestito tradizionale. Chiacchio, anche lui vestito all’africana. con la barba lunga.

La Procura di Roma acquisì il video: il pm Sergio Colaiocco conduce da tempo una indagine in cui si ipotizza il reato di sequestro con finalità di terrorismo da parte dell’Isis. L’Unità di Crisi segue le vicende di Maccalli e Chiacchio, tenendo regolari contatti con le rispettive famiglie, e invita al massimo riserbo. Il superiore della Congregazione di Maccalli, padre Antonio Porcellato, esprimeva “gioia e speranza”, ma invitava tutti a restare “cauti ed attenti”.

Il rapimento di padre Dall’Oglio venne attribuito, fin dall’inizio, a elementi dell’Isis. Il sacerdote, 64 anni, aveva vissuto per quasi trent’anni in Siria ed era noto per avervi rifondato la comunità monastica cattolico-siriaca di Mar Musa, a nord di Damasco: espulso dal Paese nel 2011 su ordine di Bashar al Assad, perché aveva incontrato attivisti dell’opposizione, vi era rientrato nel 2013. Negli anni, diverse fonti hanno sostenuto che Dall’Oglio sia stato ucciso, ma la notizia non è mai stata confermata; altre fonti lo hanno invece dato in vita. Nella primavera scorsa veniva ipotizzato fra gli ostaggi che l’Isis teneva nella roccaforte di Baghuz, nel frattempo caduta; poche settimane prima, il Times aveva scritto che il sacerdote era ancora vivo.

Una settimana fa, invece, ha sollevato ansie e timori la notizia del rinvenimento di una foiba a Nord di Raqqa: l’Isis vi avrebbe gettato i corpi di prigionieri e/o di sequestrati. Operatori di Human Rights Watch hanno già accertato l’esistenza di corpi in stato di decomposizione nel cratere, che non sono però stati identificati. L’‘inghiottitoio naturale’, a 85 km da Raqqa, è una fossa comune jihadista: prima della guerra civile, il cratere era una delle attrazioni naturali della zona, conosciuto con il nome arabo di al-Hota

Raffaele Russo, suo figlio Antonio e suo nipote Vincenzo Cimmino, risultano dispersi in Messico dal 31 gennaio 2019. I tre, originari di Napoli, venditori ambulanti, sono scomparsi a Tecalitlán, a circa 600 km a ovest di Città del Messico. Per il loro sequestro, sono stati incriminati quattro poliziotti, di cui una donna, rei confessi di averli presi e venduti a una banda di criminali locali. Il processo è in corso, ma a inizio febbraio è stato liberato José Guadelupe Rodriguez Castillo, detto el Quince, arrestato nel luglio 2018 con l’accusa di essere l’ideatore e il mandante.

Dalla rete di informatori che il mondo ci invidia alla Turchia: così è stata salvata

Silvia Romano è tornata a casa tra la felicità di tutta Italia e un po’ di commozione generale. Quando tutti ci dicevano che era stupido continuare a sperare, noi abbiamo caparbiamente e puntigliosamente continuato a cercare.

Silvia è tornata ma alcuni dettagli di questa vicenda appaiono forse meritano un chiarimento. Il premier Conte ha annunciato la liberazione della ragazza con due tweet praticamente identici tranne che per la parola “esterna” aggiunta accanto a intelligence. Nel primo messaggio si ringrazia semplicemente l’intelligence, nel secondo l’intelligence esterna cioè l’AISE. Ha un significato questa puntualizzazione? Se sì, quale? Un’altra informazione da approfondire l’ha fornita lo stesso Conte quando ha sottolineato il ruolo svolto dalle intelligence somala e turca. Una fonte confidenziale ha riferito al Fatto che negli anni proprio la rete di informatori che l’Italia aveva nel Corno d’Africa è stata depotenziata. Ce la invidiavano tutti: Usa, Francia e Gran Bretagna chiedevano ai nostri servizi informazioni che non riuscivano a ottenere da soli. “Se esistesse ancora quel network non avremmo avuto bisogno della Turchia, che comunque è un Paese straniero anche se a maggioranza islamica. Saremmo andati direttamente dai capi dei servizi segreti somali incaricandoli a trattare il rilascio della ragazza. E i costi, anche quelli politici, sarebbero stati assai minori”.

Sullo sfondo della vicenda della liberazione di Silvia Romano, si possono infatti intravedere alcuni effetti che l’evento avrà sullo scacchiere internazionale in cui l’Italia è impegnata. I costi politici del coinvolgimento della Turchia vengono riassunti così: “Turchia e Italia in Libia sono schierate entrambe in difesa del governo di al-Sarraj, ma l’Italia è molto più tiepida e anche critica nei confronti di Ankara, sia per gli atteggiamenti liberticidi del governo Erdogan, sia per le forniture di armi che il Paese Nato ha riversato in Libia. L’aiuto fornito dai turchi si farà sentire sui campi di battaglia libici”.

A confermare questo scenario, si aggiunge un altro elemento. Come confermato da fonti autorevoli a Mogadiscio alcuni mesi fa, nell’affannosa ricerca di notizie sulla ragazza, i nostri 007 si erano rivolti anche ai loro colleghi degli Emirati Arabi Uniti. La loro rete è abbastanza radicata nell’ex colonia italiana. Ma Abu Dhabi, che in Libia è schierata contro Serraj e sostiene il generale Aftar, aveva posto a Roma condizioni inaccettabili: un ribaltamento delle alleanze in Libia in cambio di Silvia Romano. La proposta era stata accantonata, con Roma di nuovo alla ricerca di un altro possibile consulente, trovato poi nella Turchia. I turchi sono presenti in forze in Somalia; a Mogadiscio hanno una grande base, Camp TurkSom, dove vengono addestrati 10 mila soldati somali. Hanno una intelligence capillare ma non come quella creata dal generale somalo Abdullahi Gafow, guarda caso addestrato e amico degli italiani. Gafow ha lasciato l’incarico un paio d’anni fa, ma conosce perfettamente tutta la rete dell’ex colonia italiana. Forse anche a lui ci si poteva pensare di rivolgere, per evitare la mediazione turca.

Silvia adesso si chiama Aisha. “Io convertita, non costretta”

La malaria contratta due volte, gli spostamenti a piedi tra Kenya e Somalia e “Aisha” come nome scelto da prigioniera. Sono i dettagli dei 536 giorni del rapimento di Silvia Romano, la volontaria milanese liberata 48 ore fa. Ieri alle 14 è atterrata all’aeroporto di Ciampino con un volo militare diretto da Mogadiscio, capitale della Somalia. Ad accoglierla, oltre la sua famiglia, il premier Giuseppe Conte e il ministro Luigi Di Maio: la Farnesina infatti in questi mesi non ha mai smesso di occuparsi del caso e il capo dell’Unità di crisi, Stefano Verrecchia, è rimasto sempre in contatto con il padre della ragazza.

Quando arriva in Italia Silvia è sorridente, ha guanti e mascherina e indossa un “jilbab”, un abito tradizionale somalo di uso comune in ambienti dove è diffusa la fede islamica. Finalmente abbraccia i genitori e la sorella. “Sto bene fisicamente e mentalmente”, ripete.

Gli agenti: “Conversione autoprotettiva”

Prima di tornare a casa però viene interrogata dal pm romano Sergio Colaiocco. Davanti al magistrato parla anche della propria conversione all’Islam: a metà prigionia, avrebbe raccontato, ha chiesto di leggere il Corano, e da lì è partita una lenta conversione. Una scelta che definisce volontaria, non forzata, ma smentisce di aver sposato uno dei suoi rapitori. Proprio su questo si concentra la prima perizia psicologica: qui si parla di una conversione “autoprotettiva”, necessaria nella consapevolezza che l’alternativa sarebbe stata quella di essere trasformata in una schiava sessuale. Insomma, la sua, secondo fonti investigative, potrebbe essere una scelta frutto “della condizione psicologica in cui si è trovata durante il rapimento”. Ma Silvia, a chi ha avuto i primi contatti con lei dopo la liberazione, ha rivelato anche un suo desiderio: quello di trovare un compagno e diventare madre.

Intanto durante l’interrogatorio la giovane ripercorre l’agonia di un anno e mezzo di prigionia, a partire dal 20 novembre del 2018 quando è stata rapita in un villaggio a 80 chilometri da Malindi, dove si trovava per la onlus Africa Milele. Da una banda di criminali all’altra, i suoi ultimi sequestratori fanno parte del gruppo jihadista Al-Shabaab, un’organizzazione somala affiliata ai terroristi di al Qaeda, che ha consegnato Silvia a un contatto locale individuato dall’Aise del generale Luciano Carta, l’agenzia per i servizi segreti esteri.

Curata dai suoi rapitori “Mai violentata”

Durante la prigionia la giovane avrebbe scelto come nome “Aisha”. Non è stata nè violentata né picchiata, dice a chi l’ha incontrata dopo la liberazione. Ma in questo anno e mezzo ci sono stati momenti duri: come quando per due volte ha contratto la malaria, ma è stata curata dai carcerieri, sempre con il volto coperto. In 18 mesi ha cambiato più covi e più aguzzini, che in diverse occasioni hanno cercato di vendere soffiate fasulle, a cui l’Aise non ha abboccato. Ci sono state poi lunghe traversate a piedi, dal Kenya alla Somalia. Ed è proprio durante uno di questi spostamenti che gli uomini dell’intelligence italiana si sono messi sulle sue tracce. Fino a venerdì notte quando è arrivata la liberazione a una trentina di chilometri da Mogadiscio: un rilascio dietro pagamento di un riscatto. Su quanto abbia pagato l’Italia c’è il massimo riserbo, anche se si parla di una cifra tra i due e i 4 milioni.

Il papà a Di Maio: “Non riesco a piangere”

Una volta libera, prima di portarla in ambasciata italiana, gli agenti hanno trasferita la giovane in luogo sicuro delle Nazioni Unite, un compound, all’esterno del quale a un certo punto è avvenuta pure una sparatoria tra gruppi locali. Qui Silvia ha chiamato per la prima volta la madre.

Il papà poi ha contattato Di Maio per ringraziarlo: “Non riesco neanche a piangere”, ha detto al ministro. Di Maio era stato informato della liberazione subito dopo il premier Conte, contrariamente a certe indiscrezioni.

Il ruolo dei servizi e il prezzo del riscatto

Tutta l’operazione quindi è stata portata avanti dai servizi di intelligence italiana in collaborazione con i colleghi turchi (frutto dei rapporti tra le strutture diplomatiche dei due Paesi), ben radicati in Kenya e in Somalia. La svolta sarebbe arrivata già a novembre, quando la giovane è stata rintracciata. Un filmato, proprio da Al-Shabaab, è stata la prova che fosse viva.

Ieri Silvia è ritornata a casa. Ora può finalmente riprendersi la sua vita e magari coronare il suo sogno: diventare mamma.

“Liberare i boss è dimenticare le stragi e cosa siano le mafie”

Il decreto antiscarcerazioni dei mafiosi “è opportuno. Non dobbiamo mai dimenticarci delle stragi mafiose, dei lutti, delle vittime”. A parlare con Il Fatto è Luca Tescaroli, attuale procuratore aggiunto di Firenze, prima pm a Roma. Negli Anni 90 tra i giovani magistrati che volle andare nella frontiera antimafia, in Sicilia. A Caltanissetta è stato pm del processo per la strage di Capaci. Fu tra i primi, con l’inchiesta “sistemi criminali” a capire che le bombe del ’92-’93 avevano dietro non solo Cosa Nostra, ma pezzi deviati dello Stato: “Non dobbiamo dimenticare le stragi – prosegue – perché bisogna ricordare il pericolo per la democrazia che è la mafia. Ricordo che, con riferimento alle bombe del 1993, il presidente del Consiglio (Carlo Azeglio Ciampi, ndr) disse di aver avuto paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato”.

Perché il decreto anti scarcerazioni le fa venire in mente quegli anni tragici?

Perché c’è sempre un rischio di rimozione, di disattenzione. Perché il silenzio costituisce l’ossigeno vitale in virtù del quale i sistemi criminali mafiosi si riorganizzano e si rafforzano, con la conseguenza per tutti di diventare un po’ meno liberi. Soprattutto fa dimenticare il grave pericolo che rappresenta la mafia per la tenuta dello Stato e ciò può indurre a interpretazioni giurisprudenziali che vanno incontro ad aspettative dei mafiosi, pur essendo dettate da sentimenti umanitari, anche alla luce della pandemia che stiamo attraversando”.

Cosa significano per lei le scarcerazioni, gli arresti domiciliari concessi dai giudici a detenuti per mafia, in questi due mesi di emergenza coronavirus?

Penso alle vittime, a chi ha accusato quelle persone e se le ritrova nel suo territorio. Il loro ritorno può riaffermare la forza della criminalità mafiosa e può dare l’impressione di una concessione da parte dello Stato. Questo dovrebbe tenere a mente chi è chiamato a prendere decisioni.

Quindi lei sta criticando le ordinanze dei giudici che hanno preso quei provvedimenti…

Lo spirito di servizio mi impone il massimo rispetto delle decisioni di ciascun magistrato. Occorre avere una sensibilità a ogni livello, non si può attribuire la responsabilità a quel giudice o a quell’altro, ma a un sistema. Il sistema penitenziario deve essere efficace per tutelare le garanzie dei cittadini, soprattutto di quelli che sono esposti alle aggressioni mafiose. Non si può dimenticare la peculiarità della mafia altrimenti si rischia, ribadisco, che la mafia ottenga quello che voleva , a suon di bombe, nel ‘92-‘93. Il governo con questo decreto ha detto proprio questo, pur rispettando doverosamente l’autonomia dei magistrati che sempre saranno chiamati a decidere sulla base di tutte le informazioni.

Quindi trova necessario il decreto che prevede una rivalutazione delle ordinanze anche sulla base di indicazioni del Dap su possibili strutture sanitarie del circuito penitenziario dove far stare i detenuti malati?

A me è parso opportuno, fermo restando la libertà di scelta della classe politica.

Cosa pensa delle accuse al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di essere responsabile di quelle scarcerazioni?

Preferisco al riguardo non prendere posizione perché non mi compete, la sua domanda esula da valutazioni tecniche, le uniche che può fare il magistrato. Dico, però, che contano le iniziative.

Prima del decreto di sabato, ce n’è stato un altro, a fine aprile, sempre su proposta di Bonafede, sulle istanze di detenuti mafiosi ( o loro “gregari”): è obbligatorio il parere della Direzione nazionale e delle direzioni distrettuali antimafia. Cosa ne pensa?

È estremamente utile, per i giudici che devono decidere, disporre delle informazioni che derivano da chi ha il polso della situazione. Dispongono in questo modo di risultanze specifiche sui detenuti per mafia che presentano istanze, frutto di processi o di indagini in corso. La mafia è e deve essere considerata emergenza principale del nostro Paese.

Il ministro Bonafede ha dovuto rispondere alle Camere sulla mancata nomina al Dap del pm antimafia Nino Di Matteo, nel giugno 2018, dopo che il magistrato lo ha detto in tv. Che idea si è fatto?

Non ho elementi per dire alcunché sul ministro e non mi compete. Conosco da molti anni Di Matteo (hanno lavorato insieme a Caltanissetta, ndr) e mi riferì nel 2018 esattamente ciò che ha detto nei giorni scorsi (il ministro mi propose di scegliere tra capo Dap e affari penali del ministero, ma il giorno dopo mi disse che mi preferiva al ministero, che rifiutai perché avevo scelto il Dap, ndr). Le polemiche, però, favoriscono Cosa Nostra e bisogna sempre evitarle. Sono convinto, come Giovanni Falcone, che il contrasto alla mafia non ha un colore politico, ci deve essere una unità di intenti proiettata a contrastarla sempre e comunque.

Addio ferie: il Parlamento teme un’altra estate in aula

Già lo scorso anno le ferie erano andate a farsi benedire a causa di Matteo Salvini che aveva innescato lo showdown del governo gialloverde il 7 agosto, quando già i parlamentari pregustavano di mettere i piedi a mollo in qualche agognata meta turistica.

Ma anche quest’anno, sul fronte vacanze, a Palazzo si suda freddo. Perché, al netto delle polemiche sull’abuso dei Dpcm da parte di Giuseppe Conte che esautorerebbero il Parlamento dal suo ruolo, la girandola di decreti che vanno convertiti alla Camera e al Senato preoccupa eccome: sei provvedimenti sono già all’esame delle commissioni quando il governo è pronto a sfornarne un altro, il decreto Maggio che non appena sarà messo a punto da Palazzo Chigi inizierà il suo iter per diventare legge entro i successivi 60 giorni. E non è affatto detto che sia l’ultimo, anche perché nessuno è pronto a mettere la mano sul fuoco che lo stato di emergenza legato al Coronavirus finisca a luglio, come stabilito a gennaio.

“Anche quest’anno saremo cooptati per rimanere a Roma, lo diamo per scontato”, mormora qualcuno che si è già messo l’animo in pace anche se alla Camera i calendari di giugno e luglio, tradizionalmente molto intensi, saranno pronti solo fra qualche giorno. E quello di agosto è, a maggior ragione, ancora un enorme punto interrogativo.

Ora per la verità preoccupano gli straordinari dopo che per mesi si è lavorato con il contagocce, a causa dei rischi legati al lockdown: le tre ore che adesso dovranno passare dopo ogni seduta per la sanificazione dell’aula di Montecitorio provocheranno l’allungamento delle giornate in aula. Che saranno scandite su tre fasce di orario: dalle 9 alle 12, dalle 15 alle 18, dalle 21 alle 24. Insomma la seduta notturna che in tempi ordinari è fatto raro potrebbe diventare la normalità con buona pace degli onorevoli pendolari abituati a fare la spola tra Roma e i collegi in cui risiedono. Il Coronavirus, sempre alla Camera, significherà d’ora in poi anche spalmare le riunioni nelle commissioni ordinarie su tutta la settimana anziché nei soli giorni in cui si riunisce anche l’emiciclo, come ha indicato il presidente Roberto Fico.

Al Senato la musica non cambia: da quando in conferenza dei capigruppo è stata data l’indicazione che le commissioni e pure le Giunte devono riprendere a esaminare anche gli atti ordinari oltre quelli legati al Covid-19, a qualcuno si sono drizzati i capelli. Ma a Palazzo Madama, che lo scorso agosto è stato il palcoscenico della crisi di mezza estate del governo gialloverde, da qualche giorno si rincorre una sola voce: “Vuoi vedere che proprio ad agosto si fa un’altra bella crisi di governo per fare il pelo a Giuseppe Conte?” . C’è chi ci spera, specie dalle parti della Lega. Ma c’è pure chi trema alla sola idea di un’altra estate sull’ottovolante e inchiodati a Roma. Un senatore di lungo corso come il forzista Antonio De Poli, che da quando è iniziata l’emergenza non ha mai lasciato il Palazzo, richiama tutti alla serietà e al senso dello Stato. E a chi scalpita, consiglia di prenderla con filosofia: “Col virus quest’estate sarà comunque un po’ così. Se non si può andare all’estero o se dovremo andare in spiaggia con le mascherine, tanto vale restarsene qui”.

In effetti per come sono messe e cose, la stagione degli ombrelloni non promette niente di buono: per tradizione al Senato si chiude per ferie il primo o al massimo il secondo giovedì di agosto per tornare a lavorare dopo almeno tre settimane se non quattro di pausa. Ma i bookmaker quest’anno sono spietati e non ce n’è uno disponibile ad accettare la scommessa che si interrompa il 7 agosto per tornare l’8 settembre. E allora? Qualcuno scherza, ma fino a un certo punto: “Non ci resta che sperare sul voto delle Regioni a luglio: di solito nella settimana che precede le urne i lavori parlamentari vengono sospesi”. Meglio che niente.

Adesso Conte apre ai governatori: il 18 si parte per Regioni

Il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia è il più ottimista: sulla gestione dell’emergenza coronavirus conta di poter siglare la pace con i governatori dopo le schermaglie dei giorni scorsi, culminate con lo scontro con Jole Santelli che già il 30 aprile aveva dato via libera alla riapertura dei bar in Calabria, prima dell’intervento del tar che ieri l’altro ha impallinato la sua decisione dando ragione al governo. La prospettiva di un moltiplicarsi di iniziative della stessa natura, oltre che i dati che lasciano ben sperare sull’andamento del contagio del contagio (ieri i nuovi positivi sono stati “solo 802”, le vittime 165, mentre 5 regioni hanno registrato zero decessi) sembrano ora deporre per una soluzione di compromesso. Consentirà da un lato di responsabilizzare le regioni e dall’altro di anticipare la riapertura delle attività economiche (ristorazione, negozi, parrucchieri etc.) che il governo aveva previsto di tenere chiusi fino al 1° giugno.

Oggi all’incontro tra il presidente della Conferenza delle Regioni, il dem Stefano Bonaccini, il premier Giuseppe Conte e il ministro della Sanità Roberto Speranza verrà certificato “l’impegno ad attivare tutte le procedure per le riaperture differenziate su base territoriale dal 18 maggio”, come il premier aveva preannunciato mercoledì al Fatto. In settimana sarà pronto il protocollo sanitario mentre cominciano a delinearsi le singole misure di settore: nella ristorazione la distanza dei 4 metri non sarà quella tra un tavolo e un altro. Più semplicemente sarà ammesso un tavolo ogni 4 metri quadri.

Insomma i tempi parrebbero collimare con quelli indicati dai presidenti delle regioni di centrodestra che ieri hanno minacciato di procedere in autonomia e sollecitato la convocazione urgente dell’incontro con il governo per avere assoluta certezza che le linee nuove guida Inail per le riaperture siano disponibili entro mercoledì. Rassicurato anche quello del Pd, Michele Emiliano, che aveva già detto di voler passare alle vie di fatto, a prescindere dalle indicazioni attese dall’Inail: “Noi il 18 apriamo lo stesso parrucchieri, estetisti e saloni di bellezza perché abbiamo fatto le linee guida regionali, più che sufficienti”.

I presidenti delle regioni continuano a mostrare i muscoli. Santelli ha rilanciato con una nuova fuga in avanti sulla possibilità di spostarsi fin d’ora nelle seconde case. Luca Zaia in Veneto insiste sulla data del 18 “per le aperture di estetiste, parrucchieri, abbigliamento, centri sportivi, palestre, bar e ristoranti, fatte salve le indicazioni della comunità scientifica: nessun atto di irresponsabilità”. Toti in Liguria è certo che la data sarà quella, tant’è che ha già preparato un’ordinanza per mettere sull’allerta le attività che sperano di riaccendere i motori da qui a una manciata di giorni.

Tuttavia bisognerà ancora fare i conti con la realtà. Al tavolo di oggi il ministero della Salute porterà il monitoraggio avviato sull’andamento dell’epidemia che condizionerà i tempi delle riaperture nelle singole regioni. Ma non è l’unico scoglio: l’autonomia dei governatori dovrà essere vincolata alla definizione delle procedure che dovranno scattare laddove gli indicatori dovessero tornare a peggiorare. Che più o meno significa che sulle responsabilità che si assumeranno le regioni con le loro ordinanze non si potrà giocare a rimpiattino come per il mancato lockdown di Alzano e Nembro quando era deflagrato il contagio in Lombardia. In quest’ottica da giovedì il ministero di Roberto Speranza presenterà i dati regione per regione in modo che anche i cittadini abbiamo maggior contezza delle singole situazioni che restano molto differenziate nonostante le regioni scalpitino quasi all’unisono per tornare al più presto alla normalità. Intanto oggi il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri pubblicherà il bando per accaparrarsi sul mercato nazionale o internazionale i reagenti necessari alle Regioni per i tamponi, che sono ancora merce rara: la scommessa è acquistarne 5 milioni entro tre settimane.

Decreto Rilancio. Chi ha avuto danni salta 2 rate Irap

Un provvedimento con risorse per 55 miliardi, che nell’ultima bozza si presenta come una manovra finanziaria monstre da 258 articoli e oltre 400 pagine. Al punto che il lavoro di limatura del decreto “rilancio” non è finito. Dopo settimane di ritardi (in origine era il decreto “aprile”, giova ricordarlo) il premier Giuseppe Conte ieri ha cercato di accelerare per arrivare a un Consiglio dei ministri in notturna. Niente da fare. La riunione con i capi delegazione, partita alle 15, è arriva fino a notte. L’ok finale ci sarà quindi solo oggi. Lo scontro tra le varie anime non è ancora finito. Italia Viva, per dire, ieri ha puntato i piedi per liminare almeno parte dell’Irap alle imprese, come chiede il neo presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Conte ha aperto a un compresso: per le aziende che hanno avuto perdite a causa del Covid sarà eliminato il saldo Irap 2019 e l’acconto di giugno. Ecco una sintesi del resto delle misure.

Lavoro. È il comparto più corposo: 16 miliardi, che arrivano a 20 i fondi delle misure del decreto marzo ormai esauriti. Viene rifinanzata la Cassa integrazione fino a un totale di 18 settimane, di cui 14 usufruibili per il periodo febbraio-agosto 2020 e altre 4 tra settembre e ottobre. Rifinanziati anche i 600 euro per gli autonomi ad aprile. Per gli stagionali e i professionisti che hanno perso il 33% del fatturato, a maggio salirà a mille euro. Per colf e badanti arriva un’indennità di 500 euro al mese per due mesi. Il Reddito di emergenza, il sussidio per le milioni di persone tagliate fuori da qualsiasi aiuto sarà in “due quote” tra i 400 e gli 800 euro in base al nucleo. La domanda andrà fatta entro giugno (previsto un limite di Isee di 15mila euro).

Contratti e salari. Il divieto di licenziare viene esteso di altri 3 mesi. Previsti anche aiuti sotto forma di sovvenzioni degli Enti locali per pagare i salari dei dipendenti (fino all’80% del lordo mensile) ed evitare i licenziamenti. Nei prossimi due mesi sarà poi possibile rinnovare o prorogare fino ad agosto i contratti a tempo, anche se si è superato il limite dei 36 mesi totali.

Imprese. È il capitolo che più ha fatto litigare la maggioranza. La coperta è corta. È previsto un contributo a fondo perduto per le imprese (ma anche autonomi, partite Iva etc.) con ricavi fino a 5 milioni (qualcosa come 800 mila aziende). È destinato a chi ad aprile ha avuto un fatturato o corrispettivi inferiori ai due terzi di quello dell’aprile 2019. In tal caso il contributo a fondo perduto è determinato in percentuale alla differenza tra l’ammontare del fatturato di aprile 2020 e quello di aprile 2019, ed è pari al 25% per ricavi fino a 100.000 euro, al 20% fino a 400.000 euro e del 15% fini a 5 milioni di euro”. Tradotto: a fondo perduto 2500 euro nel primo caso, nel secondo caso 6500 e nel terzo 60.000. Il minimo è comunque di 1000 euro per le persone fisiche e 2000 per gli altri. Ancora più complesso lo schema di sostegno per le imprese tra 5 e 50 milioni: gli aiuti andranno a chi ha perdite causa Covid di almeno il 33% e che vareranno aumenti di capitale di minimo 250mila euro. Ci sarà una detrazione/deduzione del 20% fino a 2 milioni sul fronte fiscale e la possibilità di chiedere a Invitalia di sottoscrivere strumenti finanziari emessi entro fine 2020 di 6 anni e senza interessi. Oltre i 50 milioni potrà entrare direttamente la Cassa depositi e presiti. Saranno poi alleggerite bollette per le piccole imprese (600 milioni). Ci sono 3 miliardi per Alitalia e un credito d’imposta dell’80% per le spese necessarie per la riapertura. Per le banche compaiono garanzie publiche per la liquidità fino a 15 miliardi.

Edilizia.Confermato il superbonus per gli interventi su condomini, villette ed edifici residenziali. Per riqualificazione energetica (ecobonus), antisismica (sismabonus) e installazioni di pannelli solari la detrazione sale al 110%. I crediti fiscali potranno essere ceduti a fornitori e banche.

Scuola. Stanziato un miliardo in due anni per l’istruzione, con il vincolo di destinare le risorse alle misure anti-contagio negli istituti scuole statali. Altri 150 milioni andranno a potenziare i centri estivi e contrastare la povertà educativa.

Turismo e famiglie. La bozza prevede un tax credit per le vacanze nel 2020 fino a un massimo di 500 euro per le famiglie (il reddito Isee familiare non deve superare i 35 mila euro).

Fisco. Tutti gli adempimenti (ritenute Iva, contributi previdenziali e inail) di marzo, aprile e maggio slittano al 16 settembre, compresi anche accertamenti, cartelle esattoriali e rate della rottamazione.

Affitti. Previsto un credito d’imposta fino al 60% dell’affitto per le imprese con ricavi fino a 5 milioni e con calo del fatturato ad aprile del 50%, limite che non vale per gli alberghi.

Sanità. Saranno assunti 10mila infermieri, con contratti da maggio a dicembre (fino a 8 ogni 50mila abitanti, da assumere stabilmente nel 2021) anche per la creazione dell’infermiere “di famiglia o di comunità”. Almeno 3.500 dei nuovi posti di terapia intensiva saranno resti strutturali e saranno riqualificati 4.225 posti letto di terapia semi intensiva che si possano riconvertire in caso di nuova emergenza. Nella bozza c’è un premio fino a mille euro per gli operatori sanitari in prima linea contro il coronavirus.

Ma mi faccia il piacere

Facci lei. “Ce la caveremo alla faccia loro e sopravviveremo alla faccia loro, in nostra fremente attesa – il signor Giuseppe Conte in particolare – che si disperdano come flatulenze nello spazio” (F.F., Libero, 30.4). Questo deve aver ricominciato ad alitare contro vento.

I have a dream. “Brutto show: il centrodestra al traino dei pm” (Il Foglio, 8.5). Ma in manette?

He has a dream. “Un anno senza tasse” (il Giornale, 10.5). Poi, alla peggio, si va ai servizi sociali a Cesano Boscone.

Morte presunta. “Finalmente buone notizie. Il virus? A giugno sarà morto” (Libero, 4.5). Esattamente a che ora?

Trova le differenze/1. “Quest’estate confido che… potremo andare in vacanza… al mare, in montagna, in collina ci andremo. Sarebbe bello, per aiutare il settore duramente colpito del turismo, che tutti gli italiani passassero le ferie in Italia” (intervista del Fatto quotidiano al premier Giuseppe Conte, 6.5). “Quest’estate potremo… andare al mare, in montagna, godere delle nostre città. E sarebbe bello che gli italiani trascorressero le ferie in Italia” (intervista del Corriere della sera al premier Giuseppe Conte, 10.5). Oddio, e le colline?

Trova le differenze/2. “Ora spetta al ministro Bonafede rispondere in maniera completa… E mi chiedo: che cosa sarebbe successo se tutto questo fosse accaduto nell’era Berlusconi?” (Massimo Giletti, Corriere della sera, 5.5). “Pensate se fosse successo a un ministro della Lega o di Berlusconi… Il ministro deve chiarire, possibilmente in Parlamento” (Salvini, Facebook, 5.5). Non è l’Arena: è Salvini.

Lo chiamavano Sudore. “Fabrizio mi dice ‘sei un misero, si vede dalla casa’. Eh Fabrizio, se vuoi un riccone, un milionario, vai a guardarti la diretta di uno di sinistra, del Pd… Io non ho nessuna invidia, nessuna gelosia, perché chi guadagna tanto significa che lavora tanto, e quindi buon per loro. Io mi accontento di quello che il buon Dio e la fortuna mi danno. Chi s’accontenta gode…” (Matteo Salvini, segretario Lega, Instagram, 3.5). Chiedetegli tutto, ma non di lavorare.

Vittoria di Pirla. “Il Tar ferma la Calabria sui bar. Ma la Santelli non arretra: ‘É una vittoria di Pirro. Con la mia ordinanza ho aperto il dibattito. Non ho avuto suggeritori” (Corriere della sera, 10.5). Le cazzate sono solo sue e se ne vanta.

Slurp. “Un grandissimo @matteorenzi oggi in Senato” (Ivan Scalfarotto, Iv, sottosegretario Esteri, Twitter, 30.4). Che s’ha da fa’ pe’ campa’.

Pluralis maiestatis. “La tentazione statalista nega la nostra identità” (Roberto Formigoni nella sua nuova rubrica “La frustata” su Libero, 10.5). Parla a nome di tutti i colleghi detenuti o solo di qualcuno?

La Regione dei record. “La Lombardia ha una marcia in più” (Antonio Socci, Libero, 10.5). Per i carri funebri.

Toti per Toma. “Il nostro Paese è diverso: se io apro le spiagge produco un effetto massa di sicuro, cosa che non faccio se le apre il mio amico Toma del Molise… lui forse produrrà qualche persona che va su una spiaggia di un fiumiciattolo o di un lago” (Giovanni Toti, presidente Liguria, colto in fallo da nonleggerlo.it, Diritto e Rovescio, Rete 4, 30.4). Ora il suo amico Toma lo avverta che il Molise si affaccia sull’Adriatico.

Senti chi parla/1. “Da Salvini a Renzi, fino a Conte: nessuno ammette errori” (Marco Follini, l’Espresso, 10.5). Noi, per dire, stiamo ancora aspettando che uno che stava con B. e Cuffaro ammetta i suoi.

Senti chi parla/2. “Il Fatto quotidiano, un giornale mascalzone” (Andrea Marcenaro, Il Foglio, 9.5). Ma non abbastanza da far scrivere Marcenaro.

Nostalgia canaglia. “Torna l”Avanti!’ con Martelli alla guida. ‘Ma niente nostalgie’” (Corriere della sera, 26.4). Tranquillo, non c’è pericolo.

Oltre. “Oltre i sondaggi. Perchè Salvini non è in crisi” (Pietro Senaldi, Libero, 8.5). Anzi, mai stato meglio.

I governi della settimana. “Conte senza maggioranza” (il Giornale, 4.5). “Il Pd fa già le prove generali di quando scaricheranno il premier” (ibidem, 5.5). “Adesso Conte ha paura” (ibidem, 6.5). “Lo spettro del voto non salva Bonafede” (Augusto Minzolini, il Giornale, 6.5). “Conte paternalista e retorico, serve un altro premier. Magari Draghi” (Carlo Calenda, Il Dubbio, 6.5). “Bonafede è la miccia per far saltare Conte” (La Verità, 8.5). “La resa del Conte” (il Giornale, 8.5). “L’emergenza economica durerà. Per affrontarla serviranno equilibri nuovi e diversi” (Massimo Giannini, La Stampa, 10.5). “Giorgetti: ‘La bottiglia è nel mare’. Dentro c’è il governo d’unità nazionale” (Francesco Verderami, Corriere della sera, 9.5). O, più probabilmente, del Tavernello.

La Buona scuola di Lodoli riapre col “Preside” visionario, un po’ folle

Prima studente, poi insegnante di Lettere per trent’anni, infine preside. Una vita spesa tra le stesse mura con la missione, via via più ardua, d’innaffiare i giovani per far sì che cuore e mente sboccino e lo scambio sia radice. Di quell’istituto romano di periferia conosce ogni spazio e il frastuono delle ricreazioni gli è famigliare come il silenzio degli sgabuzzini con le scope: 65 anni, senza nome, Il preside del nuovo romanzo di Marco Lodoli – scrittore prolifico, sensibile e molto amato – è un antieroe con cui si empatizza.

(E)roso dalla nostalgia di un passato che è ormai eco, sfiancato da un sistema scolastico avvitato su schemi stanchi, il preside decide di barricarsi tra quelle mura (o immagina di?, perché le opere di Lodoli sono spesso metafisiche, oniriche) col suo vecchio fucile da caccia e due ostaggi mentre fuori la gente si accalca. Follia o atto estremo di chi soffre nel realizzare quanto ogni suo gesto, privato e professionale, sia stato incompreso e vano? L’assedio, la cui narrazione è breve, giocata sulle metafore e sulla sottrazione, si rivela simbolico: è rifiuto, sfogo, denuncia, rivoluzione. Il mosaico interiore del preside parla della ferita per un amore naufragato (“Tra Carola e me qualcosa si è rotto, come un meraviglioso lampadario che non si è più acceso”), di una giovinezza che si credeva eterna, ma soprattutto del ruolo che la scuola dovrebbe rivestire nell’educazione sentimentale di ogni essere umano.

Lodoli a vent’anni discuteva con gli amici di Dostoevskij: non è così illuso da pensare che gli adolescenti odierni nutrano lo stesso anelito, ma credere ormai utopica la comunicazione virtuosa tra chi insegna e chi apprende, be’, quello no. Il suo preside, lontano dallo stereotipo di chi controlla da dietro una scrivania, senza mai nuotare insieme ai propri studenti, ha sempre battuto strade anticonformiste: ha invitato i ragazzi a presentarsi in aula spettinati; ha proposto una riflessione collettiva sulla morte; ha spronato i docenti a essere artigiani perché ogni studente è creta che chiama mani sapienti per vasi perfetti. Ma è stato criticato, deriso, considerato obsoleto e fuori luogo.

In un momento storico, oggi più che mai, in cui la scuola agonizza, le pagine intrecciate da Lodoli (ri)suonano. Rifiutata l’idea che l’educazione sia repressione e che programmi e verifiche fungano da “rubinetti che addomesticano la furia dell’acqua e la rendono utile alla comunità”, emerge una visione, umana in primis, da recuperare, ripristinare. Quella di una scuola che, parafrasando l’autore, sia un tempio, in cui avvicinarsi al mistero della vita, il luogo dove tutto s’illumina per la prima volta a rivelare le debolezze che rendono autentici, e dove imparare quanto poco conti sapere mille cose se non si capisce che a volte, la differenza, la fa l’attimo, la scintilla. E allora carpe diem, ripeteva prof. Keating ne L’attimo fuggente.

Di libri così c’è gran bisogno perché, come scriveva l’autore già sette anni fa in Vento forte tra i banchi: “È il momento di far ripartire il dialogo: chiunque può aprire davanti ai nostri occhi una finestra e far entrare il vento e un paesaggio inaspettato: chiunque, anche lo studente dell’ultimo banco, anche l’insegnante più stanco”.

“Il Teatro siamo noi, non un luogo chiuso: ripartiamo dall’Umano”

Il futuro è ora. Il presente si stacca dal passato e prende il largo. Andiamo verso un tempo nuovo e bisogna mettersi a testa in giù o di sbieco, in tralice, in trasparenza, con altri occhi. Non è una rottura con ogni passato, ma col passato che è giunto (per uno choc) a maturità. In noi c’è la forza vitale di chi è scampato alla tragedia, dice grazie e ora non può fermarsi. E allora al lavoro tutti !

Le porte chiuse dei nostri teatri vorrebbero, nel pensiero incrostato, imprigionare l’espressione artistica che dà voce, respiro e forma al complicato marchingegno umano. Narrazione e fabula e conforto e divertimento e studio e altro – da sempre accanto agli uomini – ora si autoescludono dalla polis, dalla società, perché non hanno più una casetta. “Non ho il teatro non posso fare il teatro, uffa”.

Eduardo De Filippo, quando veniva chiamato al telefono e sentiva: “È la televisione”, rispondeva: “Le passo il frigorifero”. Fare il teatro non è essere il Teatro… L’acqua fluisce, non si ferma, deve dare da bere a tutti… Il teatro non è la vasca che lo contiene, non è un luogo, ma è anima e metodo. E gli attori, gli autori, i registi, i drammaturghi ne sono gli autori e gli esecutori: il metodo che allena a ragionare, pensare, riflettere sulle cose, metaforizzare le ombre, vedere in trasparenza.

Storie familiari si vestono di abiti impossibili e si muovono in scenografie che riproducono luoghi riconoscibili: nascondono la domanda dell’Uomo. Solo la sua rappresentazione mette ordine nel nostro caos interiore e dà conforto. Razionale e immaginario. Mondo interiore spirituale e mondo materiale. Visibile e invisibile. Il Teatro è questo lavorio, questa continua dinamica a tenere in gioco l’ombra delle cose, la profondità, lo spessore: vi sembra materia inutile per formare la coscienza che, come scriveva il cardinale Martini, “è un muscolo che va allenato”? Vi sembra che una società possa rinunciare a questo, forse per un anno, solo perché non ha la casa?

Siamo migliaia, vogliamo essere contemporanei del nostro futuro, allora io dico: “Al lavoro!”. Fuori tutti dal guado e aiutiamo a costruire una società con spazi intellettuali più ampi, cominciando dalla Scuola. Perché non aprire i teatri a settembre al mattino per aiutare la scuola ad attuare il distanziamento? Classi di 30-50 ragazzi in platee da 500 posti: va bene! Chiedete in ogni Comune di noi. Ci siamo. Chiedeteci di affiancare i maestri e i professori in materie che noi studiamo ogni giorno: italiano, letteratura, poesia, analisi del testo, greco, latino, messa in scena (ah, come aiuta i ragazzi !). Chiedeteci di leggere, raccontare, recitare. Ci siamo.

Lasciamo i genitori tranquilli al lavoro e facciamo che i teatri diventino luoghi familiari per i ragazzi. Non per lo “spettacolo”, che è rito, impegno complesso, opera compiuta, a cui bisogna prepararsi (e che tornerà). Non per esibirci, non per mostrare i nostri talenti e le nostre esercitazioni a pochi sparuti spettatori, non per strabiliare con le nostre performance che sanino i nostri ego sofferenti, ma per contribuire a una rinascita intellettuale, culturale ed economica del nostro Paese. Il nostro aiuto aiuta anche noi. Restituisce un senso al nostro silenzio e ci permette di manifestare la nostra funzione civile, che non è solo e soltanto essere tanto bravi al punto da commuovere o stupire con corpi stressati dalla fatica, dal sudore, dall’esperienza agonica che rende incandescente la comunicazione “dal vivo”, ma è anche studio, analisi, intelligenza e scelta del punto di vista.

Ci hanno relegato in meravigliosi teatri e ci hanno detto: buoni lì, mentre noi pensiamo all’Italia . È stato un errore.

Il mondo è uscito dai suoi cardini e sta a noi rimetterlo in (altro) sesto, insegnando ai cittadini il rispetto per il tempo della riflessione sulle cose, non delle cose; il tempo, che in qualche luogo nel fondo di noi, laggiù tra il cuore e il respiro, trasforma un fatto in un’esperienza. Quella è la sede dell’umano sentire, che ci fa piangere sul dolore di un altro, che ci fa indignare su un gesto riprovevole di un altro, che ci rende unici e resistenti al bombardamento mediatico, al frastuono dei pixel, che ci chiede tempo… Quell’umano sentire che, nel nostro mondo futuro, sarebbe bello fosse insegnato in prima elementare.