“Sesso, droga e rock: ora basta con l’idea del bravo ragazzo”

Lo sfogo, con tono ironico e consapevole, arriva a metà conversazione, quando Bobby Solo si strappa dal volto la lacrima sul viso, l’immagine di uomo rassicurante, puro, incravattato in stile anni Sessanta, e veste i panni più adatti al rocker, con tanto di giacchetta mentale di pelle, tutto sesso, droga (“qualche acido l’ho preso”), viaggi, avventure e goliardia. “La storia del buono mi ha rotto le palle. Ora basta: ho 75 anni”. E lo racconta in una bella biografia scritta con Dario Salvatori.

Come sta?

In stretta quarantena, però mi diverto da morire con i social e ogni sabato suono un’ora; ho il conforto di mio figlio Ryan, ha sette anni, poi ho otto nipoti, altri quattro figli e mia moglie; se volete adotto pure voi, basta che non pretendiate soldi.

Niente, niente?

(Ride) Qualcosina papà la dà sempre.

Nel 1996 ha inciso una canzone profetica sul virus, Fuga dal pianeta Terra.

È nel disco XV° Round, che rimetterò in vendita; per piazzarlo ho vissuto mille peripezie, e il testo non è mio, ma di Andrea Bellentani, un ragazzo bravissimo, secco, emaciato, con una treccia di capelli simile a quella di Romina Power quando si mostrava nuda in un film.

Come le è venuta in mente Romina Power?

Senza offesa né per lei né per Al Bano, due amici, ma la mamma di Romina la spinse a girare quel film mezza nuda, e aveva solo quattordici anni…

È un osservatore di lungo corso delle donne.

(Ride) Davvero?

Nel 1964 ha sbagliato il debutto a Sanremo per un’entraîneuse.

La sera prima della gara Little Tony mi chiama: “Vieni con me”. Lui era già famoso, io agli inizi; così lo seguo e mi porta in un night: entro e mi consegno al piacere.

Che ha combinato?

Non capii più nulla; prima di quella sera le donne le avevo ammirate sulle pagine de Il borghese e de Lo specchio; a diciannove anni non avevo avuto grandi avventure.

Quindi…

Nel locale trovo una ragazza austriaca con i capelli corti, biondi e un corpo spaventoso; (ci pensa) ho solo ballato, in quei posti se non tiravi fuori i contanti andavi in bianco, e nel portafogli avevo diecimila lire, dono di mia madre per i dieci giorni di Sanremo.

Pochini…

Infatti mi ha salvato la generosità di Tony: quando ci siamo incontrati e ha visto il mio ciuffo e l’atteggiamento alla Elvis, mi ha adottato; (ride) lui aveva già venduto un milione di dischi, era conosciuto pure in Inghilterra, e girava con una Jaguar color verde bottiglia, alla Diabolik.

Un divo…

Per dieci giorni mi ha pagato pranzi e cene, botte di aragosta, champagne, scampi, sogliole; così non potevo rifiutare la gita al night, solo che ho ballato, sudato e quando alle due di notte sono uscito, un po’ ubriaco, il raffreddore mi ha colpito; qui c’è un però.

Eccolo…

Sono sempre stato molto autocritico, e quando alle prove ho visto arrivare Paul Anka, carico di 100 milioni di copie vendute, e pure abbronzato, mi è preso un colpo.

Intimorito.

E certo, il suo brano era splendido, poi è arrivato Frankie Avalon tutto vestito di seta, pure lui abbronzato, un figo; infine ho ascoltato Bobby Rydell: insomma, mi è preso un colpo e quando è toccato a me, invece di cantare ho sfiatato, non usciva la voce (e simula la “sfiatata”).

Bel guaio…

Vincenzo Micocci, persona che ringrazierò per sempre, decise di puntare sul playback. Per Sanremo era una novità.

Non si è opposto.

Mi squalificarono, ma avevo solo 19 anni e non sapevo nulla; quando ho conosciuto Micocci, dopo la prima audizione, mi chiese: “Lo farebbe un disco?”. E io: “Ho solo 5 mila lire al mese che mi passa mamma”. “No, se vende, i soldi glieli diamo noi”.

Perfetto.

All’epoca i big prendevano il 6 o 7 per cento sulla vendita, così per incoraggiarlo rilanciai: “Va bene l’uno”; e Micocci: “Sotto il 2 ci arrestano per corruzione di minorenne”.

Con i soldi non era un granché…

Peggio di me Little Tony: quando suonavamo insieme, dovevo riscuotere io perché si vergognava; non si sporcava le mani, viveva da divo, mentre io ero più pratico; comunque non sono mai stato uno spendaccione, è che mi hanno fregato sin dall’inizio.

Come?

Una lacrima sul viso è un mio brano, ma è stato firmato da un direttore artistico della Ricordi, con la scusa che avevo 19 anni e non potevo, mentre tempo dopo ho scoperto che il limite di età per il diritto d’ingegno era di 16.

Quando si è illuminato?

Ribadisco: in questo campo non sono mai stato uno sveglio; una sera mi ritrovo con gli autori di Non ho l’età, e mi rivelano: “Con questo brano abbiamo incassato 97 milioni”; con Una lacrima sul viso ne avevo presi due e mezzo.

Peccato…

Non ho rimpianti, la mia vita è come l’elettrocardiogramma di un tizio con aritmia: alti e bassi continui.

A proposito di cuore: nella sua bio parla di un “batticuore” per la Vanoni.

Anno 1963, avevo già inciso tre dischi senza vendere nulla, andavo nei negozi e mi compravo cinque o sei copie, tanto non mi riconoscevano.

Insomma, la Vanoni.

Nel 1963 vado alla Ricordi, prendo l’ascensore, e insieme a me entra Ornella, bella da paura, sensuale con la sua camicetta rosa: mi guarda e inizio a sudare. A tremare. Poco dopo, con nonchalance, si apre due bottoncini, intravedo il reggiseno, e a momenti svengo, ma non sono stato in grado di parlare.

Negli anni ha recuperato.

Nell’ambiente musicale ho avuto un flirt con Gabriella Ferri e poi alcune passioni non ricambiate; in Francia mi ero preso una scuffia per Françoise Hardy: non aveva tanto seno, ma due gambe assurde; (ci pensa) io sono un gambista.

Son passioni.

Amo le gambe, i polpacci e lei portava i tacchi a spillo senza calze: una da sballo; sempre in Francia ho vissuto un incontro di fuoco con una ragazzina di 19 anni, bella da morire, e durante il rapporto le dicevo: “Je t’aime”, ti amo, e lei rispondeva: “Menteur”, che vuol dire “mentitore”, ma non conoscevo il francese. A orecchio capivo “montone”, così mi fomentavo e insistevo: “Je t’aime, je t’aime”. E lei: “Menteur, menteur…”.

Com’è stata la sua educazione sessuale?

Orribile. A quattordici anni, nel mio palazzo, lavorava un professore impiegato alla Fao; il professore mi regalava le sigarette d’importazione, al mentolo, e da lui lavorava una cameriera di 55 anni, grassa, puzzolente e sudata.

Altro che Malizia

Un pomeriggio citofono al professore, non lo trovo, lei mi salta addosso, mi schiaffa sul letto e ancora ricordo il suo alito e la vestaglia; alla fine ho pensato: se questo è il sesso, mi faccio frate.

Come è arrivato alla Ricordi?

Andavo al Classico e non studiavo, sotto il banco tenevo i testi di Elvis e li cantavo (e inizia a imitarlo)…

Quindi?

Prendevo ripetizioni da un professore e lì un giorno incontro un ragazzo, poi diventato giornalista, e fratello di un autore della Rai: “Ti posso aiutare”. Così ho ottenuto un appuntamento alla Ricordi, ma inizialmente non mi hanno fatto salire, sono rimasto nell’androne a giocare a battimuro con il portiere.

Fino a quando…

Accedo agli uffici e trovo Stelvia Ciani, una bella biondina che aveva tentato, senza successo, la carriera di cantante, ed era rimasta come segretaria; poco dopo vedo una chitarra, e per sedurla inizio a imitare Elvis: passano un paio di minuti e si apre una porta ed esce un signore: “Chi canta?”. “Mi scusi, smetto subito”. “No, entra”. Era Micocci.

E il nome d’arte?

Un’incomprensione: mio padre, colonnello dell’Aeronautica e due medaglie d’argento, era severo, detestava la musica leggera. Si vergognava di me. Tanto da chiamare la Ricordi per diffidarli: “Se utilizzate il nome Satti, vi rovino”. Allora Micocci decide: “Americanizziamo Roberto in Bobby”. “Bobby, e poi?” chiesero dall’etichetta. “Solo Bobby”. E la segretaria capì Bobby Solo.

Suo padre si è ricreduto?

Mai visto a un mio concerto e quando ho cantato in eurovisione in bianco e nero, si è girato verso mia madre: “Bella canzone”. “È tuo figlio”.

E mamma?

Mi seguiva in tournée, viaggiava in pulmino con la band, io su una Mercedes Pagoda insieme alla mia prima moglie; siccome mi truccavo gli occhi, un giorno trovammo sul pulmino la scritta “Signorina Solo”; mamma incazzata si mise a urlare ai colpevoli: “Porta tu’ sorella e te faccio vede’ chi è mio figlio”.

Da chi l’idea del trucco?

Mia! Negli anni Cinquanta e Sessanta anche gli attori americani e lo stesso Elvis erano costretti al rimmel per emergere nelle foto; per questo andai in una profumeria davanti al Casinò di Sanremo, e c’erano due belle ragazze di vent’anni…

Ci risiamo.

Proposi uno scambio: “Volete vedere il Festival? Vi faccio entrare, ma voi portate un po’ di rimmel e mi sistemate alla Elvis”. Perfetto, solo che mi truccarono peggio di Claudia Cardinale e sul palco mi colò tutto: il regista s’impietosì nel dedicarmi un primo piano.

Anche negli Stati Uniti non è andata benissimo.

C’era un siciliano che mi aveva preso a ben volere, uno ricco con due ristoranti a New York; era circondato da due ballerine che chiamava “bambine”, ma avevano cinquant’anni e giravano con le calze a rete…

E insomma…

Un giorno si lancia: “Ti porto dal presidente della William Morris Agency”, la più importante agenzia dell’epoca, con Frank Sinatra, Nat King Cole e Dean Martin. Arriviamo, il tizio mi guarda, e mi inchioda: “Prendi la chitarra e mostrami il tuo talento”.

E lei?

Sono scappato dalla scala antincendio, urlando “mi vergogno, mi vergogno!”.

Nel libro parla di marijuana…

Ho iniziato a fine anni Sessanta, poi ho smesso perché mi causava disturbi intestinali; (ride) insieme al mio amico Ricky Shayne, per un anno, ho preso l’anfetamina: una volta anche prima di un concerto a Lamezia Terme, e sceso dal palco ho aggiunto dell’hashish nepalese.

Bel mix…

Credevo di levitare, poi siccome sono ipocondriaco, mi ha assalito la paranoia, fino a una crisi respiratoria; all’una di notte finisco dal medico, che si accorge della pupilla dilatata e in calabrese mi bacchetta: “Dovrei chiamare la polizia, ma sono tuo fan: prendi 40 gocce di Valium e torna a Roma”.

Salvo.

Vivevo con mamma: rientro a casa, vado sotto la doccia, e mi esce dalla pelle l’odore dell’hashish, simile al cioccolato; mamma se ne accorge e soddisfatta mi abbraccia: “Sei stato in chiesa, sento profumo d’incenso”.

Un ribelle.

No, mi fa piacere.

Cosa?

Sono sempre stato dipinto come una specie di clown con lo smoking, ma sono tutt’altro. E ne ho viste… (sorride)

A cosa pensa?

A una tournée in Giappone: mi trovo al tavolo con Fats Domino, chiacchieriamo e mi suggerisce: “Non mettere i soldi in banca”. “E dove?”. Apre una valigia, e vedo ogni ben di Dio tra diamanti e rubini.

In Giappone è stato protagonista di una grave gaffe.

Ero giovane, un po’ superficiale e sprovveduto; un pomeriggio arriva una ragazza molto carina: “L’imperatore l’aspetta lunedì a cena”. Ma il lunedì era il mio giorno di riposo, e soprattutto non sapevo chi fosse Hirohito, così ho rifiutato. Da allora, per cinque anni, non ho potuto più andare in Giappone.

Negli anni Settanta ha scoperto Pino Daniele.

Avevo una sala di registrazione, e un giorno arriva un ragazzo dopo la segnalazione di un giornalista de l’Unità. Lo ascolto e lo mando alla Emi: il genio era palese. Poi l’ho portato con me per le feste patronali del Lazio, e in Belgio da un amico promoter: aveva una chitarra Gibson rotta sul manico, ma suonava come B. B. King, una roba da paura.

Sempre nei Settanta è partito in tour con Aragozzini…

Grande Adriano, a lui voglio molto bene, ma è nevrotico: quando si incavolava gli prendevano delle crisi simili all’epilessia, tanto da rotolarsi sul divano; insieme siamo stati in Sudamerica con Nicola Di Bari. Quando Nicola beveva un pochino mi si avvicinava all’orecchio, e con un tono di voce strano, minaccioso, sussurrava: “Nun te allargà!”.

Gli anni Settanta sono anche celebri per le proteste ai concerti.

Nel 1971 mi chiamano per cantare al festival di Palermo, 60 mila spettatori e nel cartellone star come Johnny Hallyday, James Brown, Aretha Franklin e Santana; ma dal pubblico partivano insulti e fango contro i cantanti italiani, per questo Fred Bongusto si presentò sul palco vestito da cantante cubano, e con lo pseudonimo di Louis Gomez.

E lei?

Ero molto amico di Franco Franchi, così la sera prima lo raggiunsi nel suo albergo: “Fra’, temo i sassi”. “Ma tu vuoi cantare?”. “Sì”. “Non ti preoccupare”. Il giorno del concerto esco dalla roulotte, salgo sul palco, inizio con un pezzo di Elvis e il pubblico va in delirio.

E Franco Franchi?

Poi ho scoperto la verità: in mezzo ai 200 hippie ribelli, si erano piazzati una quarantina di bestioni tatuati che invitavano “a battere le mani per Bobby Solo”. Capito?

Lo ha ringraziato?

Ma no, sono sempre stato con lui, anche in una tournée di 40 date negli Stati Uniti: la sera, al ristorante, quando beveva, prendevo la chitarra e lui iniziava a cantare: “Mafia è legge d’onori, legge che spezza lo cuori” (E ride).

Chi è lei?

Uno che non ha ancora capito bene se stesso.

Twitter: @A_Ferrucci

In virus veritas: i leader populisti odiano il popolo

Non bastando il Covid-19 a soffocare il respiro dei popoli, ci si sono messi i populisti a peggiorare l’assedio. A cominciare da quelli che strillano di più, in piedi sul primo banco, Donald Trump, Jair Bolsonaro, Vladimir Putin. Oltre al nostro sudatissimo Matteo Salvini, che s’affatica ogni notte alla disperata ricerca di un appiglio per rallentare la caduta, fosse anche birra, una fidanzata, un rosario.

Al netto della confusione con cui è iniziata la Fase Due di questa tragica disavventura planetaria, sono proprio loro, gli eroi della nuova destra sovranista, gli autocrati avvolti nelle rispettive bandiere nazionali e la mano sul cuore, ad avere fallito nei rimedi, rivelando la loro clamorosa incompetenza a gestire situazioni complesse. E sempre lasciandosi stordire dagli eventi, prima chiudendo gli occhi davanti alla realtà, Trump: “L’America non è fatta per chiudersi in casa!”; Bolsonaro: “Siamo più forti di ogni febbriciattola!”; Putin: “La Russia non ha nulla da temere!”;; Salvini: “Apriamo tutto, siamo liberi di lavorare, guadagnare, vivere!”. Poi invocando il suo contrario, porte e finestre chiuse e naturalmente muri per fermare “il virus straniero”, l’intruso. Così ossessionati dalla xenofobia da indirizzarla anche all’infinitamente piccolo delle particelle subcellulari che viaggiano nell’aria. In un delirio di sciocchezze antiscientifiche, arrivate sino al vertice delle iniezioni di candeggina per ripulirsi i polmoni, concepite (ma per il nostro buon umore non sperimentate) da quel povero milionario di Trump in una pausa riflessiva, lontano dai suoi campi da golf. La verità è che sono proprio i populisti a disprezzare i popoli. E in fondo a detestarli. Non solo quelli che abitano al di là dei confini, tutti nemici potenziali.

Ma anche i propri, quelli che ogni giorno ricoprono di elogi e di promesse, che rassicurano di magnifiche e progressive sorti, che fomentano di rancori, srotolando il filo spinato lungo i sacri confini, spingendoli a rivendicare radici identitarie memorabili, irripetibili, compreso il proprio dio (“L’unico, vero Dio!”) che li ha scelti in via esclusiva, in ragione dell’intero campionario che sempre segue: la forza, l’audacia, l’ammirevole grandezza della propria storia. E’ in quella retorica la radice dell’inganno verso i propri popoli trattati come ingredienti passivi della propaganda. Che è poi la sola parte solida della loro proposta politica, sempre destinata a polverizzarsi davanti alla complessità dei problemi. I quali non sono mai generati dalle infinite variabili della realtà da analizzare con lentezza, con competenza, ma sempre da nemici in carne e ossa, identificati dopo un’alzata di spalle e visibili in fondo al mirino: i banchieri, le lobby radicali, i fautori della globalizzazione, gli intellettuali, i neri troppo poveri, i cinesi troppo potenti, gli arabi troppo terroristi, e naturalmente gli immigrati, tutti invasori, tutti criminali o quasi, secondo la dottrina Trump che non smette di autoproclamarsi “il più grande presidente mai creato da Dio”.

Peccato che stavolta l’emergenza sanitaria non sappia che farsene dei nemici da additare, dei capri espiatori da sacrificare in pubblico. I morti veri, la paura collettiva, il destino comune di uomini e donne, hanno inceppato la macchina teatrale della loro rumorosa propaganda. I retori del nulla sono rimasti soli sulla scena, con le mani in tasca, la testa confusa, i disoccupati che salgono, i sondaggi che scendono. Mentre le nostre vecchie, imprecise democrazie, magari in ordine sparso, hanno elaborato strategie di attacco al virus e di difesa alla salute pubblica, hanno imposto decisioni anche impopolari, affidandosi ai medici, agli scienziati, alla responsabilità collettiva dei rispettivi popoli, protagonisti e non spettatori. Che è proprio quello che dovrebbe sempre fare la politica: disegnare mappe coi cartografi, poi scegliere una strada collettiva, mettersi in viaggio. Senza promettere le fanfare e il paradiso, ma solo la prossima sponda della storia.

Germania, casi in 3 Länder La Fase 2 prosegue lo stesso

Se l’ultimo round negoziale tra il governo di Berlino e i Land si è chiuso con una vittoria netta dei 16 Stati federali, che premevano per l’allentamento delle misure anti-Covid e la ripresa delle attività economiche, i nuovi focolai scoperti in tre distretti potrebbero dare un freno al “liberi tutti”. Oppure confermare che i buoi sono usciti dal recinto e ormai è inutile chiuderlo. Nella lunghissima video-conferenza di mercoledì scorso con Angela Merkel (nella foto a destra), i primi ministri dei Land hanno rivendicato e ottenuto di adottare in autonomia le misure in materia di aperture di ristoranti, turismo, palestre, scuole, hotel e raduni. Una sola cosa è riuscita a imporre la cancelliera nelle conclusioni finali: lasciar aperta la porta per tornare indietro, in caso di ripresa della pandemia. Si tratta della formula per cui di fronte a un aumento superiore a 50 nuove infezioni nell’arco di 7 giorni in una popolazione di 100.000 abitanti, si tratti di città o distretto, si deve tornare alla fase 1. Ma forse in pochi immaginavano che sarebbe successo così in fretta.

In tre Land – il Nordreno-Westfalia, la Turingia e lo Schleswig-Holstein – venerdì è stato superato il tetto-limite previsto e in due casi è stata coinvolta la filiera della carne. Nel distretto di Coesfeld, nel Nordreno-Westfalia al confine con Belgio e Olanda, sono stati infettati 180 lavoratori su 1.200 in uno stabilimento di produzione della carne. Tredici sono in ospedale, gli altri sono in quarantena a casa, ha riferito il portavoce Christoph Huesing. L’azienda Westfleisch ha chiuso i battenti e ai suoi dipendenti, per la maggior parte provenienti dall’Europa dell’Est, è stato fatto il tampone, previsto anche per gli altri 20.000 lavoratori del settore nello stesso Land. Il ministro della Salute del Land governato da Armin Laschet, il delfino di Merkel candidato alla presidenza della Cdu, ha rimandato le aperture e le misure di allentamento di una settimana. Tutt’altra storia invece in Schleswig-Holstein dove, nel distretto di Segeberg, 119 lavoratori di un macello sono risultati positivi. Qui il ministro della Salute, Heiner Garg, ha deciso di non tornare indietro rispetto alle apertura previste. “Il focolaio è molto localizzato” perché 88 dei 119 lavoratori vivevano in un alloggio collettivo, ha detto. Altrettanto locali dunque le misure adottate: quarantena, tracciamento dei contatti e test per tutti i dipendenti di quello e degli altri 9 grandi stabilimenti di carne della regione. La decisione, che ignora l’indicazione presa appena 48 ore prima tra Land e governo federale, arriva dallo Stato che per primo aveva annunciato la riapertura delle strutture turistiche, alla vigilia delle vacanze, che in Germania iniziano ora. Lo Schleswig-Holstein infatti è il Land prediletto per la villeggiatura dai tedeschi del centro-nord della Germania, soprattutto ora che viaggiare verso Sud e oltre confine è sconsigliato. Anche in Turingia la soglia-limite è stata superata nel distretto di Greisz, dove sono state registrate 75,4 nuove infezioni in 7 giorni. La responsabile del distretto, Martina Schweinsburg, si è detta contraria al rimandare l’allentamento delle misure di contenimento. “Ai miei occhi ha poco senso proibire tutto da noi mentre a pochi chilometri è tutto possibile”, ha detto. Quello che accadrà in Turingia al momento non lo sa nessuno. Di certo c’è soltanto che oltre gli uffici della cancelleria, si sta giocando la partita del “liberi tutti”.

L’ultradestra col fucile non vuole il lockdown

Le trame dell’estrema destra nelle proteste anti-lockdown negli Stati Uniti: efficaci, se si considera che da domani almeno 47 dei 50 Stati dell’Unione avranno in qualche misura ‘riaperto’, nonostante i dati di morti e contagi non siano né rassicuranti né incoraggianti. In base a documentazione audio e online, The Guardian rivela che uno dei gruppi più attivi nelle proteste, American Revolution 2.0 (AR2), ha contatti con figure ben conosciute dell’Alt-Right, connesse a movimenti estremisti, e ne ha ricevuto aiuti e sostegno operativo e organizzativo. AR2 si presenta come una rete di movimenti spontanei e popolari, ma fra i suoi alleati vi sono esponenti del Tea Party e attivisti online che gestiscono decine di siti e di gruppi Facebook ‘reopen’.

Il promotore e leader di AR2, Josh Ellis, si presenta come “un americano qualunque” impegnato a difendere “i valori di base americani”. Ma The Guardian dimostra che Ellis tiene le fila d’una rete di contatti con movimenti dai nomi inquietanti, come Three Percent Milizia e MyMilitia, e con figure della galassia dell’Alt-Right che creano e animano centinaia di siti e gruppi Facebook e hanno connessioni in tutta l’Unione.

Che l’estrema destra intorbidi il clima politico della campagna elettorale quasi sfacciatamente e senza timori, perché la sua agenda spesso coincide con quella di Donald Trump, era già emerso prima che l’epidemia di coronavirus cambiasse volto agli Stati Uniti. L’8 febbraio, aveva creato sconcerto e allarme la marcia lungo il Mall di Washington di un centinaio di suprematisti bianchi del gruppo Patriot Front, una sigla della Alt-Right. Al termine d’una settimana che aveva visto l’assoluzione di Trump nel processo d’impeachment, il corteo dei suprematisti del Patriot Front s’era sviluppato dal Lincoln Memorial a Capitol Hill, scortato da decine di poliziotti.

L’epidemia e gli ordini di #stayhome, mai impartiti tassativamente dal presidente, ma lasciati sempre ai governatori, hanno offerto terreno fertile all’estrema destra, i cui esponenti sono insofferenti a qualsiasi disposizione limiti le libertà individuali. Mentre i giochi della politica e della sovversione fanno capolino dietro le proteste ‘anti-lockdown’, il coronavirus continua a mietere vittime: venerdì, i decessi sono stati 1.635. Secondo i dati della Johns Hopkins University, la pandemia ha finora fatto negli Stati Uniti oltre 77.500 morti e ha contagiato oltre 1.290.000 persone. Il coronavirus “se ne andrà via senza un vaccino”, dice adesso Trump ai parlamentari repubblicani, correggendo per l’ennesima volta al rialzo la stima dei decessi: saranno almeno 95 mila: di questo passo, ci si arriva in dieci giorni. Il presidente racconta ai suoi interlocutori che tutti i leader del mondo prendono esempio da lui, nella lotta al coronavirus, una affermazione senza riscontri. Ma Barack Obama, in una telefonata di cui dà notizia Yahoo News, definisce la gestione dell’emergenza di Trump “un caotico disastro assoluto”: parlando a ex membri del suo staff, Obama li incoraggia a sostenere di più la campagna di Joe Biden per Usa 2020. Il visus è pure entrato alla Casa Bianca, dove lo staff ha già cominciato a indossare mascherine, dopo che un valletto del presidente, la portavoce del vicepresidente Mike Pence e da ultimo l’assistente della ‘prima figlia’, Ivanka Trump, sono risultati positivi al test per il coronavirus.

La portavoce di Pence è Katie Miller, che ha trascorso molto tempo con il suo ‘boss’, ma che non avrebbe avuto contatti con Trump. Miller è moglie del consigliere presidenziale Stephen Miller, uno degli autori dei discorsi del magnate. L’assistente di Ivanka non mostrava sintomi ed è stata testata precauzionalmente, lavora da casa da quasi due mesi. Ivanka e Jared Kushner, suo marito, sono stati lo stesso sottoposti al test e sono risultati negativi.

La California è intanto divenuto il primo Stato a scegliere il voto per posta per l’Election Day, così da garantirne lo svolgimento in ogni caso. Trump è contrario all’idea, perché teme che la modalità del voto per posta lo danneggi.

La satira profana i tabù: questo la rende magica

Penso che la marijuana dovrebbe essere legale. Penso anche che se tua cugina è una strafiga, dovresti potertela scopare, prima o poi. – Dave Attell

Vendetta e religione. Come abbiamo visto, violenza e sacro sono collegati. Il sacrificio del capro espiatorio ristabilisce l’armonia nella comunità; ha un significato rituale, e diventa un mito fondativo. La novità della religione giudeo-cristiana è nell’abolizione dell’ordine sacrificale attraverso il racconto di vittime innocenti: Abele, Giobbe, Gesù (Girard, 1972). Il primitivo non punisce: si vendica, mosso da collera. La vendetta è una pena primordiale; ed è cieca (certe tribù uccidono il primo venuto): sacrificio rituale. L’antropofagia è un rito della stessa natura: il pasto crea comunione, lo spirito della vittima si mescola al sangue del clan e non si vendicherà sui nuovi fratelli. Dato che le faide familiari indebolirebbero il clan, il clan regola le contese in due modi: la composizione (riscatto in denaro) e il duello. Il duello diventa, presso certi popoli, ordalia, la lotta del canto satirico: la contesa, come fra i pastori di Teocrito, è risolta con scherzi in pubblico, e il diritto è del vincitore (Douglas, 1966). Ne sono un’eco la pratica moderna dei dozens, la gara di insulti nella comunità dei neri americani (“Tua mamma è così brutta che non scopa da quando è morto il suo bassotto, dieci anni fa.”) e del dissing, le offese tra artisti hip-hop/rap. I latini le chiamavano velitationes:

TOSSILO: Rumenta ruffianesca, cesso pubblico impiastricciato di schifezze, sporcaccione, disonesto, iniquo, fuorilegge, rovina del popolo, avido, invidioso, depredatore del pubblico denaro, rapace, ladro (…)

DORDALO: Lasciami respirare per poterti rispondere. Stalla degli schiavi, liberatore di puttane, cote dello staffile, logoratore di ceppi, iscritto alle macine, servo perenne, vorace, edace, furace, fugace (…) (Plauto, Il Persiano, 406-410, 417-421)

Leggi, tabù, satira. I primi crimini puniti dall’autorità del clan sono la magia, l’incesto, il sacrilegio e il tradimento: crimini che si dice sollevino la collera degli dei. Chi viola un tabù si ammala o muore. Se questo non succede, all’individuo è riconosciuto un potere superiore, magico o divino. La satira profana i tabù: parte della sua forza persuasiva deriva dall’appropriazione della potenza magica di origine superstiziosa.

Dallo stadio primitivo, mitico e magico, non siamo del tutto emancipati. Miti e fiabe raccontano famiglie disfunzionali e riti di passaggio: sono archetipi narrativi ai cui temi (amore, sesso, morte, famiglia, vendetta, rinascita) ritorna ogni cultura, in ogni epoca. Il contenuto violento e mostruoso di miti e fiabe è quello perturbante degli incubi: viene ripetuto e cercato per il bisogno psicologico di cimentarsi con la nostra capacità di violenza, o con una perdita; e di controllare l’ansia che ne deriva (Bettelheim, 1975). Per questi motivi, il carattere fondamentale del mito e della fiaba è di venire riappropriato incessantemente (Barthes, 1970). Succede anche ai miti contemporanei. La Casa Bianca della presidenza Kennedy sarà definita Camelot da Jackie, nell’intervista pubblicata da Life un mese dopo l’assassinio del marito. Trascorso il tempo necessario, la satira ridurrà la propagandistica analogia arturiana del mito kennedyano al più prosaico Come-A-Lot (“eiacula molto”); Marilyn finirà in una serigrafia di Warhol e in un romanzo della Oates (Blonde, 1999); e Lee Harvey Oswald in un romanzo di DeLillo (Libra, 1988). Ri-raccontare le storie le rende immortali; a questa immortalità accede, grazie all’arte, il pubblico.

Mito e satira. Nel mito indo-europeo, le due figure che incarnano il potere sono il mago-re e il giurista-sacerdote. Chi fa satira le impersona entrambe in forma parodistica, dentro un mondo rovesciato, carnevalesco, che gli conferisce il potere della vittima espiatoria. Se un giullare decide di intronarsi per davvero, però, abdica a questo ruolo, perdendo all’istante ogni potere satirico. È il caso di Grillo.

Rapporto della prassi divertente con l’ideologico. Le relazioni fra gli elementi della realtà sono provvisorie: è l’ideologia dominante ad articolarle, determinando il sapere un’epoca. Per esempio, nelle farse di Feydeau, che satireggiano l’ipocrisia borghese di fine ’800-primi ’900, i personaggi femminili ricorrenti sono la cocotte spregiudicata, la bisbetica, e la moglie desiderosa di un adulterio vendicativo; l’uomo, di solito, è un libertino, un fedifrago, e un bugiardo:

PRINCIPE (attirandola a sé) Siete molto carina, per essere una cameriera!

CARLOTTA (in piedi, fra le gambe divaricate del principe) Be’, sì, ma se voi rimanete sul letto, non potrò mai cambiare le lenzuola.

PRINCIPE Io sono il principe Nicola di Palestrìa!

CARLOTTA Non dico di no, ma non riesco a cambiarle lo stesso. (Feydeau, Occupati di Amelia!, 1908).

Il modello retorico del Gruppo di Liegi (1972; 1977) divide l’universo del senso nell’opposizione Anthropos/Cosmos (Cultura/Natura, Razionale/Irrazionale). La prassi divertente è una parodia della razionalità logica che separa uomo e mondo: presuppone un universo caotico e violento, e contribuisce a renderlo vivibile. Roseanne Barr: “Gli esperti dicono che non devi picchiare i figli quando sei arrabbiato. E allora quando? Quando sei di buon umore?”.

Funzione sociale della prassi divertente. Come tutta l’arte, comicità e satira ci servono per costituire e ricostituire la nostra natura di esseri umani coinvolti in pratiche sociali; e per una critica continua di tali costituzioni. Bill Hicks: “Il tema dell’aborto divide. Anche i miei amici – e siamo tutti molto intelligenti – sono divisi: alcuni credono che gli anti-abortisti siano solo idioti fastidiosi, altri credono che siano dei cazzoni malvagi. Come trovare un accordo? Sono combattuto. Userò un punto di vista panoramico: io credo che siano dei fastidiosi cazzoni malvagi”. Comicità e satira sono una pratica e un sapere che rendono possibile l’emancipazione, personale e sociale, dalle pretese di ogni ideologia, dall’ordine simbolico che imprigiona. Lenny Bruce: “Se non puoi dire ‘fanculo’, non puoi dire ‘fanculo il governo’”. Gli equivoci comico-satirici, come abbiamo visto, non sono casuali: rimuoverli con azioni censorie è assurdo, dannoso, e alla lunga inutile. La prassi divertente introduce nel mondo qualcosa di nuovo: un modo più umano di interagire con il mondo. In questo senso, la satira è rabbia ottimistica (Auden, 1972).

(3. Continua)

C’è una montagna di amianto scavata col Tav

Salbertrand è un bel borgo dell’Alta Val di Susa, a quota mille metri. Ci passa la statale del Monginevro, già strada romana delle Gallie, e nessuno fa caso alla sua cinquecentesca chiesa di San Giovanni che vale la visita.

Tutti notano invece l’ampio fondovalle della Dora che è diventato una selva di infrastrutture: lo scalo ferroviario della linea internazionale esistente Torino-Modane con la stazione elettrica, l’area di servizio della A32 e la montagnola di detriti contenenti amianto accumulati nel tempo, in uso a Itinera, Gruppo Gavio. È l’ultimo lembo di terreno utilizzabile al di fuori della zona esondabile della Dora e del Parco Naturale del Gran Bosco, e per questo è stato scelto per installarci lo stabilimento di produzione degli elementi di calcestruzzo destinati al cantiere Tav Torino-Lione. Ma il problema è che i circa 10mila metri cubi di materiali amiantiferi potenzialmente tossici sono stati posti sotto sequestro dalla Guardia di Finanza su esposto del sindaco Roberto Pourpour e ora ci vorranno un po’ di mesi per smaltirli con tutti i crismi della sicurezza prima di poter disporre dell’agognato terreno.

Siamo certi che il lavoro verrà eseguito a regola d’arte: anche se questa è una zona asciutta e ventosa i detriti verranno insaccati in modo praticamente stagno e avviati verso discariche speciali, in parte in Piemonte e si dice pure in Germania. Le tecnologie e le normative per evitare rischi per addetti e popolazione locale ci sono, basta pagare, e infatti Pourpour stima in circa 4,5 milioni di euro il costo dell’operazione.

Ciò che preoccupa è il dopo: il cantiere che per una buona decina d’anni dovrà trattare una parte dello smarino – la roccia risultante dalla perforazione del tunnel di 57 km – e fabbricare i conci di calcestruzzo per il rivestimento delle canne. I camion circoleranno senza tregua per alimentare l’impianto, producendo polvere e inquinamento, alla faccia del delicato ambiente alpino che la grande opera si fregia di proteggere! Ma la questione è sempre a monte dei dettagli pratici: questo gigantismo infrastrutturale serve al nostro futuro che dovrebbe essere sostenibile e compatibile con i limiti ambientali? No.

Lo ha detto sul piano economico l’analisi costi e benefici del prof. Marco Ponti ignorata dal governo, lo dicono i numeri delle emissioni di CO2 dovute al cantiere e alla gestione futura. Se una grande opera fosse indispensabile alla collettività sarei il primo ad appoggiarla: chiederei ovviamente che venissero applicate tutte le migliori garanzie per minimizzare i danni locali, imponendo pure una lievitazione dei costi per avere il massimo dei controlli e della qualità. Ma se la grande opera non serve, in quanto concepita trent’anni fa e ormai antistorica? Se è rimpiazzabile tanto dalla vecchia linea Torino-Modane quanto dalle nuove tecnologie e dalla necessità di un’economia circolare che faccia muovere non più merci, ma meno? Allora temo che tutto questo agitarsi sostituirà un piccolo cumulo di detriti con uno molto più grande.

Fase 2 a Bologna: hanno tolto il canestro dai campi di basket

 

Sono scomparsi “i cesti” dai nostri playground

Nel campetto da basket sotto casa, a Bologna, c’è una novità: sono scomparsi i canestri. Il Comune li ha fatti rimuovere per evitare che si riempissero di ragazzi “assembrati” e assetati di pallacanestro. Visti così fanno una certa impressione: è una perfetta metafora di come il Coronavirus abbia svuotato le nostre vite… siamo come canestri senza ferro. Torneranno presto.

Alessandro

 

Passeggiata notturna nella città deserta

Puoi percorrere tutto il viale, con il tuo cane nero accanto, non c’è niente di male. Duecento metri fino allo stadio. Questo gigante immobile dalla corazza crepata di cemento, a strati, svuotato, privo di persone, urla e illusioni. Di lato, a suo ipotetico notturno guardiano, l’albergo mostra tutti i suoi occhi spenti. Ben squadrati e allineati. Solo l’insegna è malinconica, una lettera che sfrigola si sottrae al disegno. Il bar, insaccato sotto gli spalti, è chiuso; non si incontrano le solitudini di sempre. È tutto strano. Ora la solitudine è di tutti, nella notte solare e nel giorno lunatico, non la si scambia al parcheggio o al bancone, neppure al tavolino; manca il suono stridulo dei freni, violini meccanici per ogni frenica inchiodata. Sedie e tavolini, anche loro, si sono ritirati con disciplina ordinata nei metri quadrati delle case, a vigilare la propria esistenza e quella d’altri. Il televisore, da ogni dove, lampeggia senza un suono definito vicino all’indefinito delle attese noiose. Puoi tornare indietro, costeggiare gli alberi di già verdi di foglie, che sono i soli vincitori, anche se il cane piscia su uno di loro, come sempre. A volte lui abbaia al niente dell’asfalto abbandonato. Pipistrelli svolazzano a zig zag ubriachi di tanto spazio; non fanno paura. Siamo noi che facciamo paura a noi stessi. Puoi camminare in mezzo alla strada, le auto ora sono inutili, nella dritta prateria nera.Puoi tornare a casa, il tempo è indefinito, anche il cane è d’accordo. Gli uccelli volano liberi da sempre, mentre apri il cancelletto dell’antica e nuova prigione a più stanze, con tante voci confuse, sole.

Roberto Amato

 

Tutti vogliono ripartire, ma per andare dove?

Ci bombardano di dati: contagi, terapie intensive, morti e guariti. Ogni tanto spunta fuori uno studio che correla la diffusione del virus con la deforestazione, con l’allevamento intensivo, con la caccia a specie di animali selvatici, alcuni in via d’estinzione, l’inquinamento dell’aria. E quindi si potrebbero intrecciare pensieri sui consumi dei nostri edifici in estate e in inverno, sull’inquinamento dovuto agli allevamenti, sui trasporti privati, per non parlare dell’economia usa e getta. E invece no. Il dibattito è diretto sul fatto che i parrucchieri dovrebbero aprire il 15.5 o il 20.5. Per i bar è troppo tardi a giugno. E perché non posso andare a farmi un giro in moto? Pensiamo alle date. Ripartire subito, alla massima velocità! Ma verso dove, non è dato sapere.

Marco Il Grande

“L’umanità negli ospedali ha salvato la mia famiglia”

“Io credo che il mio caso riassuma tutto quello che è andato storto in Lombardia”. La premessa di Luca Paladini, 50 anni, portavoce dei Sentinelli e attivista gay molto noto, è indispensabile per comprendere l’insieme di eventi disgraziati che hanno segnato la sua esperienza con il Covid.

Luca vive a Milano, ha un compagno che si chiama Luca anche lui che ha sposato nel 2017, un papà di 84 anni e una mamma di 78. Si sono ammalati tutti di Coronavirus e tutti hanno seguito una strada diversa: chi è stato a un passo dalla morte, chi era il candidato ideale per non farcela e invece non si è neppure accorto della malattia, chi ha lottato, chi “ha il Covid a bassa intensità”, come dice Luca cercando le parole giuste per raccontare la sua vicenda. “Il Covid entra nella nostra famiglia perché mia mamma ha un tumore al pancreas e a fine febbraio faceva la chemioterapia all’ospedale”.

Le viene la febbre?

No, a mia madre non viene alcun sintomo e mai le verrà, nonostante le sue difese immunitarie basse. Ma a metà marzo viene la febbre a mio padre. Ha una leucemia cronica, quindi siamo preoccupatissimi all’idea che sia Coronavirus.

Adottate qualche precauzione?

In realtà io e Luca ci immoliamo alla causa perché mio padre sta sempre peggio e mia madre ha dolori dappertutto, la badante non vuole più andare. Cambiamo anche il pannolino a mio padre e per quanto avessimo guanti e mascherine, alla fine ci siamo presi il virus senza saperlo.

Quando avete chiamato l’ambulanza?

Quando la febbre si è alzata, il 16 marzo. Lì accade la prima cosa che mi lascia basito: il barelliere inizia a chiamare tutti gli ospedali per chiedere se avessero posto. Gli dicono tutti no, all’ottava chiamata dice sì il MultiMedica di Sesto San Giovanni.

Lì che succede?

Sette ore dopo, il medico del Pronto soccorso ci chiama dicendo che ha solo una bronchite e lo rimandano a casa.

Quindi niente tampone?

No, solo una lastra.

Torna a casa e come sta?

Peggiora, ma a quel punto io e il mio compagno rimaniamo anche a dormire dai miei, ormai pensiamo non sia Covid. Finché non prendo il referto di mio padre, faccio una foto col telefono e la mando a un mio amico medico.

E lui che dice?

Mi dice che non si parla affatto di bronchite, ma dovrebbe essere broncopolmonite o polmonite.

Come è possibile?

Non lo so. Ho pensato che non avessero la possibilità di tenere tutti e che mio padre, così anziano, fosse uno da rimandare a casa per lasciare spazio a uno più giovane. Cosa che avrei capito, se mi fosse stata detta. Magari non è così, ma non trovo altre spiegazioni.

Nel frattempo comunque tuo padre peggiora.

Sì, due giorni dopo rantolava e richiamo l’ambulanza. Mi dicono che lo portano al MultiMedica di Sesto, di nuovo, ma il destino ha voluto che mio papà avesse una crisi respiratoria in ambulanza e quindi si fermano al San Carlo. Tampone positivo e terapia sub-intensiva. Racconto la disavventura su fb e qui il destino mi riserva una coincidenza fortunata.

Cioè?

Un’infermiera legge e mi manda il suo numero di cellulare: lavorava al San Carlo. Da quel momento lei diventa l’anello di congiunzione con mio papà, ci fa fare le videochiamate con lui.

Voi come stavate?

Io e il mio compagno intorno al 21 cominciamo a sentirci poco bene. Chiamo questa infermiera e lei ci invita ad andare al San Carlo, ci fa visitare da un medico.

Una prassi anomala.

Lo so. Io mi vergogno anche a raccontarlo, non dovrebbe funzionare così. Ma nessuno ci avrebbe fatto un tampone e noi eravamo in casa con una malata oncologica. Hanno fatto il tampone a mia madre: positiva. Ci cade una tegola sulla testa. In quel momento mi chiamano da un altro reparto del San Carlo: ‘Sono collassati i polmoni, suo padre sta morendo’.

Riuscite a salutarlo?

Sì, con una videochiamata straziante. Mia madre aveva scoperto nel giro di 5 minuti di avere il Coronavirus e di stare per perdere quello che era suo marito da 60 anni.

Cosa gli dite al telefono?

Gli urliamo che gli vogliamo bene, ma lui ansima, non è lucido. Terribile.

Tu e Luca fate i tamponi?

Negativi entrambi, andiamo tutti a casa. Dopo 10 giorni mio padre, incredibilmente, si riprende. È ancora positivo, ma è guarito. Ora dovrebbe andare in una Rsa per la riabilitazione.

Nel frattempo c’è la tua vicenda.

Sì, l’11 aprile, con mio padre in quella situazione, sto male e mi ricoverano al San Carlo. Il terzo tampone conferma la positività. Finisco in sub-intensiva, per 4 giorni ho il casco cpap. Terribile, una specie di galleria del vento, tra sensazione di claustrofobia e un fischio ricorrente, nonostante i tappi per le orecchie. Pensi di morire?

Sì. Vicino a me c’è un uomo giovane, comunichiamo con gli sguardi. Un giorno gli dicono che devono intubarlo. Lui va via, mi dice: ‘promettimi che ci rivedremo’. Muore dopo tre giorni. Uno strazio. Io invece dopo 16 giorni vado a casa.

Come stai adesso?

Ancora male. Mi trascino di stanza in stanza.

Sei solo in casa?

Sì, il mio compagno è rimasto ad accudire mia madre.

Lui come sta?

Ha una costante sensazione di spossatezza, pensiamo stia facendo il Covid “a bassa intensità”.

Cosa hai imparato da questa odissea?

Che c’è tanta umanità da parte del personale negli ospedali. E che c’è disastro organizzativo nella gestione dell’emergenza da parte della regione.

Il surriscaldamento globale se ne frega dei Santi di ghiaccio

In Italia – Maggio è cominciato con un assaggio d’estate sotto l’anticiclone Paul. Cieli in gran parte soleggiati, e caldo più avvertito in Sardegna e Sicilia, dove martedì e mercoledì si sono superati i 30 °C – prima volta quest’anno – fino ai 35 °C di Siracusa, circa 10 °C sopra media. Mercoledì un momentaneo sbuffo fresco da Nord-Est ha interessato il Nord e l’Adriatico, limitandosi a portare qualche rovescio o temporale sul Cuneese e tra Abruzzo e Puglia, ma già venerdì c’erano 29 °C nel Mantovano. Piogge e temporali anche forti sono in arrivo tra oggi e domani al Settentrione, seguiti da un raffrescamento. Invece caldo intenso al Sud verso il weekend.

Nel mondo – La precoce ondata di calore che ha lambito l’Italia nei giorni passati ha avuto il suo centro tra Spagna e Francia, direttamente raggiunte dall’aria nordafricana: lunedì 4 maggio temperatura massima di 36,5 °C presso Siviglia, martedì 36,3 °C ad Almeria, ma più straordinari ancora erano i 35,3 °C causati dal foehn a Santander (nella solitamente fresca Cantabria) e i 35,4 °C di Cambo-les-Bains (Pirenei Atlantici), nuovo record nazionale francese per la prima decade di maggio. Ora invece è in arrivo un intenso fronte freddo in Europa centrale, proprio in linea con i “Santi di ghiaccio” (Mamerto, Pancrazio, Servazio e Bonifacio) che la tradizione mitteleuropea colloca dall’11 al 14 maggio per marcare la ricorrenza di ritorni invernali ancora elevata in questo periodo: domani sulle Alpi nord-orientali la neve potrà scendere sotto i 1000 metri. Ma intanto il servizio Eu-Copernicus segnala l’ennesimo estremo di caldo globale: con 0,7 °C sopra media, aprile 2020 si è collocato pari merito con il record dell’aprile 2016. Alluvioni continuano a funestare molti Stati africani e asiatici, dal Ruanda (65 vittime), all’Afghanistan, all’Indonesia, ma particolarmente grave è la situazione in Kenya, dove da aprile, all’apice delle long rains quest’anno più intense del solito (fino a +50 per cento), sono morte almeno 200 persone. Intanto l’Organizzazione meteorologica mondiale ribadisce la preoccupazione per la mancata misura e trasmissione di dati di molte stazioni meteo non ancora automatizzate in Africa e America Latina a causa del lockdown in corso. I climatologi autori dell’articolo Future of the human climate niche pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, tra cui Timothy Lenton dell’Università di Exeter, sono rimasti sbalorditi dai risultati del loro stesso studio: in uno scenario business-as-usual, entro il 2070 un riscaldamento globale antropogenico in media di +7 °C nelle zone abitate farà sì che un terzo dell’umanità vivrà in regioni del mondo con soffocanti temperature medie annue di oltre 29 °C. Sono condizioni oggi presenti in meno dell’1% della superficie terrestre, ad esempio nel Sahara, ma che potrebbero estendersi sul 20 per cento delle aree continentali, inducendo potenzialmente 3,5 miliardi di persone a migrare. La nicchia termica storicamente ottimale per la nostra specie e la produzione di cibo, con medie annue di 11-15 °C, in cui anche il Centro-Nord Italia ricade, si sposterà ben più nel prossimo mezzo secolo di quanto abbia fatto in seimila anni, ponendo così in bilico la civiltà globale. Rincarano la dose le proiezioni di un centinaio di scienziati sull’aumento dei livelli marini, peggiori di quanto indicato nel rapporto Ipcc del 2013: senza tagli alle emissioni – nonostante l’incerto comportamento dei ghiacci di Antartide e Groenlandia – gli incrementi potrebbero giungere a +1,3 m nel 2100 e a +5,6 m nel 2300 (Estimating global mean sea-level rise by 2100 and 2300, su Climate and Atmospheric Sciences). Ecco perché è pericoloso programmare un ritorno alla “normalità fossile” dopo il Coronavirus.

Il Signore dona all’uomo “intelligenza in ogni cosa”. Anche nella crisi

Le misure per contrastare il Covid-19, che negli ultimi mesi hanno cambiato la nostra quotidianità a livello globale, possono essere considerate anche un grande esperimento sociale virtuoso. Abbiamo compreso, cioè, che i nostri comportamenti individuali possono avere degli effetti generali efficaci. È vero, la pandemia non è sconfitta però è contenuta, le cure perciò potranno essere più mirate e il numero dei malati più sostenibile per il sistema sanitario. Abbiamo guadagnato tempo utile nell’attesa del vaccino. Potrà sembrare banale, ma bisogna ammettere che in generale noi non siamo propensi a riconoscere efficacia alle nostre scelte individuali, o ci mettiamo davvero molto tempo per farlo. Basti pensare a quanto sia difficile cambiare rotta sul cambiamento climatico, sulla fame nel mondo e via dicendo.

La dura pedagogia del confinamento a casa, della distanza sociale, del parziale blocco delle attività lavorative e della scuola e di tante altre, tra cui quelle religiose, sono state accompagnata quotidianamente, e ben più che simbolicamente, dal grafico della curva dei contagiati, dei ricoverati e dei morti con cui abbiamo avuto la misura costante dei risultati dei nostri sacrifici. Ed è stato tutto efficace. Lo sarà anche nella Fase 2? Il lezionario Un giorno una parola (Claudiana 2019) ci ricorda oggi un pensiero di Albert Schweitzer: “Quello che tu puoi fare è solo una goccia nell’oceano, ma è ciò che dà significato alla tua vita”. Il “medico della giungla” o “il grande medico bianco” – così veniva chiamato – sapeva bene quel che diceva: lui, pastore e teologo evangelico (luterano), musicista e musicologo, che a trent’anni (siamo nel 1905) decide di studiare medicina, diventare medico e andare a curare i poveri in Africa, a Lambaréné (nell’attuale Gabon, ma allora nel Congo settentrionale dell’Africa Equatoriale Francese), quante volte si sarà sentito dire e si sarà fatto domande sull’efficacia della sua azione. Certamente efficace per coloro che lui curava, ma per gli altri? I troppi “altri” che lui non poteva raggiungere e che nessuno avrebbe raggiunto? Una goccia nell’oceano. Ma “è ciò che dà significato alla tua vita”. Tu fai comunque quello che devi fare, il resto non dipende da te.

La frase di Albert Schweitzer – insignito nel 1952 del Premio Nobel per la Pace con il cui ricavato fece costruire il villaggio dei lebbrosi inaugurato l’anno successivo con il nome di Village de la lumière (Villaggio della luce) – è illustrativa di un versetto biblico che riporta il lezionario (citato prima) per questa domenica: “Considera quel che dico, perché il Signore ti darà intelligenza in ogni cosa” (II Timoteo 2,7). Si tratta di un’esortazione alla seconda o terza generazione di cristiani, rappresentata da Timoteo (un nome greco che significa “colui che onora Dio”), da parte dell’apostolo Paolo o da un suo discepolo anonimo, su come vivere la fede cristiana e organizzarsi nel grande e composito impero romano. Vista l’esiguità numerica delle comunità, la testimonianza non poteva che essere seme o lievito della società e richiedeva saldezza di fede, costanza nel comportamento e capacità di visione. Il Signore ti accompagnerà dandoti “intelligenza in ogni cosa”. Non follia, non arroganza, non superbia, non egoismo, ma “intelligenza”, e “in ogni cosa” non solo in quelle religiose.

In questa emergenza Covid-19 le varie confessioni cristiane e comunità di fede hanno dato dimostrazione di “intelligenza” non forzando riaperture premature di attività e servizi religiosi. E quando dal 18 maggio sarà possibile, bisognerà continuare a mostrare la stessa “intelligenza”, facendo la propria parte per quel comportamento individuale virtuoso che si moltiplica e diventa responsabilità sociale diffusa. Allora i risultati non saranno solo “una goccia nell’oceano” ma continueranno a essere efficaci anche a livello globale.

* Già Moderatore della Tavola valdese