Due Papi, due misure

È sembrata l’intesa più audace (possono esistere due Papi?) e più gentile (possono convivere fraternamente nella stessa casa?): riescono a osservare il patto (essenziale per la credibilità e autorità della Chiesa) che parli uno solo? Sono passati pochi anni, che stanno cambiando la storia di una delle grandi religioni del mondo, e si è scoperto che nessuno dei tre patti è stato osservato.

Si è scoperto di più. Si è scoperto che il vecchio Papa, che ha rinunciato alla fatica del pontificato, affronta con bravura e prontezza il ruolo di voce politica, che fatalmente, dati i suoi trascorsi di Papa, viene attribuita alla Chiesa. Che è, ormai, una Chiesa sdoppiata: teologi tedeschi, ex Legati apostolici di robusti regimi conservatori, teologi che erano restati in ombra, giornalisti già avvertiti e già pronti, fiduciari o ex fiduciari di importanti governi del mondo isolano sempre di più il Papa “facente funzione”.

Questo nuovo capitolo di attivismo politico del Papa a riposo è messo in moto dalla imminente pubblicazione in Germania (ma già in questi giorni in Italia) di una biografia tutta rivolta al che fare dopo, quando ci sarà un vero Papa. Autore: il giornalista tedesco Peter Seewald, che si basa su tre punti. Il primo è una spiegazione sulle vere intenzioni di Dio, quando avrebbe scelto gli ebrei come popolo eletto, e l’antica questione, non priva di conseguenze, in certi campi di sterminio, è il rapporto tra Dio e gli ebrei, un rapporto di privilegio (“il popolo eletto”) che sarebbe spettato ai cristiani. Ma la stranezza è che la questione venga sollevata adesso, in pieno furore per il rosario (purezza della razza) e contro lo straniero (che raccomandano di non da salvare, di non accogliere), argomento ignorato dall’ex Papa. Il suo vero nemico, l’Anticristo, di cui ci parla e ci parlerà a lungo nelle pagine Ratzinger, ha ben altro da fare.

Ma c’è un punto anche più delicato, più antico, che ha segnato momenti tragici della Chiesa. È il tema della evangelizzazione degli ebrei. Dopo averlo detto e scritto, quell’impegno programmatico, date le obiezioni, viene ritirato, sostituendolo con la parola “dialogo”. Ma l’argomento è troppo legato ai momenti peggiori della storia cristiana, per lasciarlo “benevolmente” in sospeso.

Il secondo punto è che il Papa a riposo ha notato una frenetica attività, dentro e intorno alla Chiesa, di un Anticristo così potente da imporre a tutte le società che vogliono sentirsi moderne il matrimonio fra gay, l’aborto e la creazione di vita umana in laboratorio. Uno spunto di fantascienza e di mondo orwelliano trapela dalle parole e frasi e pensieri e concetti che Seewald ha raccolto (tedesco con tedesco, in lingua tedesca, dunque niente equivoci) dal teologo Ratzinger. Il teologo Ratzinger vuole inoltre fare sapere che, in questo mondo senza Dio e con un Papa che ha ormai trattato la resa in cambio di buone interviste e affettuosi approfondimenti, con la società moderna è in procinto di formulare un credo anticristiano, e se uno vi si oppone viene colpito dalla scomunica. “La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è fin troppo naturale e ci vuole davvero l’aiuto della preghiera della Chiesa universale per resistere.”

Le frasi che avete letto sono tratte dalla lunga intervista che il giornalista Seewald ha voluto avere con l’ex Papa alla fine del libro. In essa, Ratzinger ci spiega che non parlerà di questo pontificato, e Seewald avrebbe potuto benevolmente avvertirlo che lo ha già fatto in maniera ripetuta e chiarissima. Ma il Papa-non Papa ha voluto aggiungere: “Il sospetto che io mi immischi regolarmente in pubblici dibattiti è una distorsione maligna”.

Il maligno, come vedete, ha molto lavoro nel mondo di Ratzinger. “Grande è il potere spirituale dell’Anticristo. Lo conferma il sito americano LifeSiteNews, spalla a spalla con le repliche dei violenti attacchi a Papa Bergoglio di monsignor Viganò (già Nunzio apostolico negli Stati Uniti) e portavoce dello scisma americano che sembra essere in preparazione e che cerca un Dio spietato e intransigente (niente ebrei, niente nomadi, niente stranieri di religioni da respingere) e il suo Papa. Valga per i diversi sostenitori e amici: i rosari di Salvini, le croci piantate dovunque dai polacchi, le madonne che compaiono a richiesta nella ex Jugoslavia. “Questo è ciò che il Papa deve avere davanti ai suoi occhi: la dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi dal consenso sociale di fondo. L’inganno religioso supremo è quello dell’Anticristo, uno pseudo-messianismo mediante il quale l’uomo si glorifica al posto di Dio e del suo Messia”. È comprensibile che, nel suo libro e nella sua intervista, il non Papa non abbia voluto parlare del Papa.

Opere apocrife: Gesù e il polpo, Socrate e il lato B

A tutti voi, umiliati dalla vita, che vi consumate in rimpianti vani, ma siete capaci di odii possenti e di venerazioni assolute, dedico questo luogo di pace e di piaceri.

Dal vangelo apocrifo di Giuda. Un uomo si rivolse a Gesù: “Ho perso la vista. Restituiscimi i miei occhi: voglio contemplare ancora il volto della donna che amo, ed estasiarmi davanti ai suoi pudichi gesti di bambina innocente”. Gesù esaudì il supplicante. E l’uomo che desiderava recuperare la vista per vedere il volto innocente della casta donna che amava, appena riebbe la vista corse a casa, dove vide il suo miglior amico che leccava la figa della donna dai pudichi gesti di bambina innocente.

Dalle fiabe apocrife di Cao Xueqin. Un ricco commerciante cinese, esportatore di polipi, decise di fare pubblicità alla sua ditta. Convocò un pittore famoso, e gli chiese di dipingere un polipo. Il pittore accettò, a patto di essere pagato in anticipo. Il commerciante acconsentì: la cifra richiesta, importante per il pittore, per lui era un’inezia. Passavano i mesi, ma il pittore non si faceva vivo. Il commerciante gli mandò un messo a rammentargli il suo impegno, e il pittore rispose che stava appunto lavorando al polipo. Passarono altri mesi, e il commerciante gli mandò l’avvocato: se il pittore non consegnava il bozzetto entro pochi giorni, sarebbe partita una causa. Dopo altri sette solleciti, il pittore finalmente promise di portargli il dipinto la sera stessa. E quella sera, poco prima del tramonto, il pittore si presentò nell’ufficio del mercante con un grande foglio arrotolato di carta pergamena, un pennello e una boccetta di inchiostro. Quindi allargò il foglio sul pavimento, ne fermò gli angoli con delle pietre, e con poche pennellate dipinse un polipo splendido, che scatenò la meraviglia e l’approvazione del commerciante e dei suoi collaboratori. Tuttavia, il commerciante sentì necessario rivolgergli un rimprovero: “Per un disegno che hai eseguito in un minuto con qualche pennellata, mi hai fatto aspettare un anno. Cosa hai fatto in tutto questo tempo?”. E il pittore: “Ho osservato un polipo”.

Dai dialoghi apocrifi di Confucio. Nel periodo delle primavere e degli autunni, furono condannate a morte, per errore, undici persone innocenti. I parenti delle vittime protestarono presso l’Imperatore, che chiese una pubblica ammenda ai giudici che avevano sbagliato, tale però che non minasse la fiducia dei sudditi nella giustizia. I giudici allora pronunciarono la seguente sentenza: “Noi, giudici di Sua Maestà l’Imperatore Celeste, figlio del Sol Levante, garantiamo che i condannati decapitati la settimana scorsa erano perfettamente innocenti. Cittadini ammirevoli, la loro lealtà era al di sopra di ogni elogio, i loro costumi erano puri, il loro carattere integro. Per questo li abbiamo consegnati al boia, affinché ovunque, nei secoli dei secoli, sapendo il castigo terribile inflitto a uomini dalla vita esemplare, si comprenda cosa potrebbe fare la giustizia a colpevoli veri, una volta catturati”.

Dai dialoghi apocrifi di Platone. A chi lo interrogava sui grandi perché della vita, il vecchio Socrate non rispondeva, ma indicava il culo della sua giovane nipote, e sorrideva.

Mail box

 

Grazie per il vostro lavoro: vi sostengo leggendovi

Gentile Direttore, sono un lavoratore stagionale del turismo all’Isola d’Elba. Vivo, ancora più di altre categorie, la precarietà e l’incertezza che questa grave crisi sanitaria, ancor prima che economica, sta provocando. La mia condizione non mi permette di poter fare qualcosa in più per sostenervi se non quella di leggervi tutti i giorni. Voglio manifestarvi il mio desiderio e la determinazione di poter, quanto prima, sostenere ancora di più un gruppo di bravissimi giornalisti che rendono, con il loro lavoro, migliore ogni mia giornata. Per il momento, per quanto vale, vogliate accontentarvi del mio sincero GRAZIE.

Roberto Finocchi

 

Caro Roberto, il suo è proprio il sostegno più prezioso, perché è fatto di sacrificio, passione e intelligenza. È bello avere lettori come lei. Grazie.

M. Trav.

 

“Il Reddito d’emergenza è dannoso”. “No, va fatto di più”

Illustre Direttore, il Reddito di emergenza è il nuovo fallimento della politica, che spreca inutilmente altre risorse per incrementare il nero e l’evasione, come già avvenuto col Reddito di cittadinanza, che non ha creato lavoro, ma ha fatto solo deleterio assistenzialismo a giovani disimpegnati che ricevono un salario mensile superiore a quello di chi è costretto a lavorare sino a tarda sera, 7 giorni su 7, anche i festivi. Lo scorso anno, il Reddito di cittadinanza è stato percepito da milioni di persone senza dare alcuno dei frutti sperati. Ci rendiamo conto ora che, causa il Coronavirus, il governo stia facendo l’impossibile per venire incontro alle esigenze dei cittadini, ma non è più possibile chiedere altri sacrifici agli italiani onesti, che lavorano sodo, mentre si sprecano risorse per alimentare l’assistenzialismo di coloro che pretendono soldi e agevolazioni senza alcun dovere e responsabilità. L’Italia ha più che mai bisogno di aziende e lavoratori con dignità e onestà. Grazie per l’ospitalità.

Mario De Florio, Segr. Reg. Cisas

 

Caro De Florio, è così difficile capire che il lavoro andrà sempre più diminuendo con le nuove tecnologie e si renderà necessario, ben più dei Redditi di cittadinanza ed emergenza, un vero e proprio Reddito minimo universale?

M. Trav.

 

Disinfestare le strade è, più che utile, necessario

Gentile dottoressa Gismondo, non riesco a capire il senso delle disinfestazioni di strade e piazze. A cosa servono se ci è stato ripetuto che il virus si propaga tra interazioni umane e al massimo rimane attivo per qualche ora sulle superfici? Non le sembra un messaggio fuorviante – del tipo: attenzione, il virus rimane attivo per sempre sulle strade, panchine, palazzi e vi può contagiare –, nonché uno spreco di denaro pubblico?

Patrizio Tressoldi

 

Gentilissimo, si è dato una risposta fra le righe della domanda. Il virus, per quanto oggi a conoscenza, può rimanere attivo sulle superfici per alcune ore. Le strade sono percorse da individui che potrebbero rilasciare virus: disinfestarle è una pratica assolutamente comprensibile.

MRG

 

Inps: “Rdc, domande prese in carico il mese successivo”

In relazione alla lettera di venerdì, firmata da Walter Bombelli, si precisa quanto segue. Come correttamente riportato nella risposta de Il Fatto , le domande di Reddito di cittadinanza sono istruite e definite il mese successivo a quello di presentazione della domanda. Da una verifica nei nostri archivi, la domanda del signor Bombelli risulta presentate il 14 aprile, pertanto verrà processata entro la metà di maggio. Rimaniamo a disposizione per ulteriori chiarimenti.

Ufficio stampa Inps

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore, scrivo in relazione all’articolo di ieri di Vincenzo Bisbiglia sulla Regione Lazio (“Tra mascherine e ostriche gli Zinga boys traballano”). Non entro nel merito di ricostruzioni e vicende che non mi competono, sono però certo che la Giunta regionale ha agito, nel momento dello scoppio violento della pandemia, tutelando al meglio la salute pubblica e quella di ogni cittadino. Ciò detto vorrei precisare che con Nicola Zingaretti mi lega un rapporto di collaborazione politica, amicizia e stima. E in questi mesi ci siamo sentiti spessissimo per coordinare al meglio il mio impegno nel Parlamento europeo con le esigenze del Paese. Il fatto che ci sentiamo e ci incontriamo francamente a me non pare una notizia, né un retroscena degno di essere raccontato. L’oggetto delle nostre preoccupazioni è sempre l’Ue, la sua efficacia e la sua velocità nel sostenere i cittadini italiani, le imprese, le famiglie in difficoltà. La Regione Lazio, a cui ho dedicato sei anni di impegno politico pieno e convinto, è il laboratorio politico a cui sono più legato. Lì è nata la corsa di Nicola, lì si è sviluppata una idea precisa di buon governo e di nuovo campo democratico. Sono stato e sarò sempre al fianco di quella esperienza. Alla Giunta e alla squadra regionale va tutta la mia stima.

Massimiliano Smeriglio

 

Gentile on. Smeriglio, grazie per la replica. Nessun dubbio che il suo legame con il laboratorio politico del Lazio sia forte, come il rapporto con Zingaretti. D’altronde, proprio il suo dichiarato intento di restare “sempre al fianco di quella esperienza” è assolutamente sovrapponibile alle notizie che abbiamo riportato, provenienti da qualificate fonti della Regione.

V. Bisb.

Caro ministro, la spesa la addebito al Mes?

“Mes, si parla di circa 30 miliardi per l’Italia mentre noi stiamo lavorando su un accordo per il Recovery Fund che vale tra i 1.500 e i 2.000 miliardi. Non ci sarà bisogno di altri strumenti”.

Luigi Di Maio, “Accordi e Disaccordi”, Nove

 

Gentile ministro, mi chiamo Laura, lavoro, anzi lavoravo in un negozio di parrucchiere e se non fosse stato per il mio datore di lavoro che mi ha anticipato quei pochi soldi maturati a marzo per la cassa integrazione in deroga starei ancora lì ad aspettare l’assegno dell’Inps. Che, mi dicono, forse per consolarmi, non è ancora arrivato a quattro lavoratori su cinque. Leggo che non va meglio per i prestiti sotto i 25 mila euro, garantiti dallo Stato, richiesti da circa 80 mila piccole imprese ed erogati, sembra, a poco più della metà. Approfitto dell’ospitalità del gestore della rubrica (dando per una volta un senso a questo spazio) per rappresentarle il mio stato d’animo. Non mi azzardo a giudicare le scelte del governo di cui lei fa parte, non ne possiedo le competenze e soprattutto penso che tutti quanti voi abbiate come unica finalità quella di dare una mano ai tanti italiani nelle mie condizioni. Persone a cui manca letteralmente il fiato quando pensano non all’ultima settimana del mese, ma come faranno domani a fare la spesa. Le confesso che quando le ho sentito dire di quel miliardo e mezzo, 2 miliardi di euro mi è venuto in mente, chissà perché, il forziere colmo di dollari che Paperon de’ Paperoni usa come piscina, in quel fumetto che sicuramente avrà rallegrato anche la sua infanzia. Infatti ho subito detto al mio compagno (anche lui a spasso): amore dobbiamo solo aspettare e avere pazienza perché qui tra Crii (Coronavirus response investment initiative), il fondo Sure, il bazooka della Bce e il Recovery Fund (ho preso qualche appunto), va a finire che con il Mes ci paghiamo il caffè. Aspettare quanto?, ha borbottato lui che vede sempre il bicchiere mezzo vuoto. Allora gli ho citato le sue parole, e cioè che “tutta la maggioranza è d’accordo per raggiungere il miglior accordo possibile e farlo subito prima dell’estate”. E lui (insopportabile): ma prima dell’estate è già oggi. Signor ministro, nello scusarmi se mi permetto di scherzare un po’ su argomenti così drammatici, devo confessarle che la frase “tutta la maggioranza è d’accordo” non rende affatto tranquilla neppure me, e penso neppure lei. Così come continuo a chiedermi quando mai vedremo i 50 miliardi del decreto Aprile, diventato nel frattempo decreto metà Maggio. A giugno? Adesso mi scusi perché devo scendere al market sotto casa per qualche provvista. Alla cassiera che è tanto caruccia che le dico: segna pure al fondo Sure o al Crii?

 

Il 5S Di Nicola all’Unità per un giorno: “È un onore”

Direttore per un giorno. “Per consentire a una testata e ai suoi giornalisti di proseguire una storia gloriosa che ha accompagnato la crescita dell’Italia e che non può finire”. Primo Di Nicola, una lunga carriera all’Espresso, ha accettato di firmare il numero straordinario dell’Unità che dovrà uscire entro maggio. Lo ha fatto dopo aver dato la propria disponibilità e chiesto all’editore Massimo Pessina che ci fosse il pieno gradimento dei giornalisti, arrivato attraverso il comitato di redazione.

E lo ha deciso derogando a un impegno preso al momento della sua candidatura al Senato dove poi è stato eletto con il Movimento 5 Stelle. “Giornalismo e politica non ammettono porte girevoli. Avevo detto che non sarei più tornato a fare il giornalista come ho fatto per una vita. Per spirito di servizio e per una buona causa come quella dell’Unità, con una redazione di eccellenti professionisti che da anni vivono una difficile situazione, ho pensato che ne valesse la pena: per me è un onore firmare il giornale fondato da Antonio Gramsci e che ha scritto pagine memorabili di controinformazione sulla strategia della tensione, la mafia, gli apparati deviati e che ha dato un contributo enorme alla crescita culturale e civile dei lavoratori e dell’Italia in generale”. Lo scorso anno l’editore Pessina aveva confezionato il numero annuale che consente di conservare la testata affidandolo a Maurizio Belpietro, direttore della Verità, con annesse polemiche e proteste dei giornalisti. Adesso un politico dei pentastellati, che giornale sarà? “Un giornale che non farà sconti a nessuno”, promette Di Nicola che non teme strumentalizzazioni: “Chi mi conosce sa che sono un uomo libero. L’editore ha dato carta bianca, parleranno le pagine che manderemo in edicola”. E il M5S come l’ha presa? “Ho informato Vito Crimi e penso che questo basti”.

Iv, Berlusconi e Pd: tutti pazzi per il Mes

Ci sono quelli che lo hanno sempre voluto a prescindere, con o senza le condizionalità, come i renziani. Quelli che vogliono usare i fondi per salvare la sanità, ma portano sul groppone i tagli al Ssn fatti in questi anni. Quelli che così “si sconfigge il sovranismo degli Stati del Nord” (copyright Silvio Berlusconi). Quelli che pensano che “dall’Europa arrivano 37 miliardi” (Nicola Zingaretti) come fossero donazioni e non prestiti, o che pensano di approfittarne per levare lacci e lacciuoli che bloccano il sano dispiegarsi del partito del cemento (Giovanni Toti, presidente della Liguria).

Dopo l’accordo all’Eurogruppo sul Mes (Meccanismo europeo di stabilità) il tam tam è ripartito. Ancora nessun Paese ha detto di voler usare le linee di credito destinate “ai costi sanitari diretti e indiretti”. La Francia, per dire, non vuol farlo, la Spagna è scettica, ma per un bel pezzo della politica italiana non sembrano esistere altro che i 36 miliardi di prestiti del Mes.

La Commissione Ue ha promesso che non commissarierà i Paesi beneficiari, come pure le regole gli imporrebbero. Impegno politico, non giuridico, ma sono dettagli che non interessano Pd, Italia Viva, Più Europa e Forza Italia: il Mes, per loro, s’ha da usare.

Il renziano Davide Faraone, per dire, parla di “danno erariale” se l’Italia non si sottoponesse al Mes. Il collega di partito Luigi Marattin, vero pasdaran della banca lussemburghese, chiede di “far pagare ai contrari i risparmi che si otterrebbero coi prestiti” Mes (5-600 milioni, lo 0,3% del Pil italiano). È lo stesso, sia detto en passant, che negava i 36 miliardi di tagli alla sanità fatti dal 2012 (16 dal governo Renzi di cui era consigliere). L’ex ministro Graziano Delrio (Pd), che quei tagli li ha fatti, dice a La Stampa che i soldi “ci servono per infermieri e medici” e si appella al M5S. Il governatore emiliano Stefano Bonaccini (Pd) non si capacità che “il Mes non lo abbiamo chiesto ieri”. Emma Bonino (+Europa) è fuori di sé: è “incredibile”, dice, che “non li vogliamo. Dall’Ue ci diranno ‘se siete così signori da non averne bisogno, che volete da noi?’”. Insomma, che facciamo pure gli schizzinosi?

Poi c’è la batteria di Forza Italia. Il ligure Giovanni Toti vuole usare il Mes per sbloccare i cantieri: “Serve una legge per spendere quei soldi, non è che poi ci vogliono 5 anni per fare un ospedale per colpa della burocrazia”. Berlusconi, come detto, vola alto: “Rinunciare per un’ideologia stolta è folle, possiamo davvero ripensare l’intero sistema di welfare. E uno spiraglio di luce”, dice l’ex Cav. La forzista Anna Maria Bernini propone di “prendere quei soldi e liberare così altre poste, come l’Irap alle imprese”, che finanzia proprio la sanità, una partita di giro a beneficio delle imprese. L’elenco potrebbe continuare ma ci fermiamo qui.

La resa di Renzi: se rompe ci sarà l’esodo da Italia Viva

“In Parlamento la maggioranza per sostituire Conte già c’è. Ma non credo che sia una strada percorribile”. Matteo Renzi, con questa affermazione, nel suo intervento, dà il senso della riunione di Italia Viva di ieri.

Non è il caso di affondare, come non è il caso di contarsi, visto che a non seguirlo sulla linea della sfiducia al governo sarebbero in molti. Però, deve essere chiaro che la pistola non è disinnescata, che la crisi può restare dietro l’angolo. Così l’adunata via streaming dei gruppi di Camera e Senato, degli europarlamentari e degli amministratori locali, è una sorta di parata, tipo libro dei sogni, una specie di carrellata di proposte. Inizia alle 9, dura 3 ore. Riunione chiusa (per forza di cose), clima – a quanto raccontano – scherzoso. Quaranta interventi, uno dopo l’altro, tutti sull’Italia che verrà.

Con delle scelte sospette. Sono presenti, ma non intervengono, tutti i big del partito. Da Maria Elena Boschi a Davide Faraone, da Luigi Marattin a Roberto Giachetti. Così come non interviene nessuno che abbia incarichi che riguardano la giustizia. Scelte singolari, visto che di temi caldi ce ne sarebbero. E che peraltro vengono fuori appena finita la riunione. Ma evidentemente, meglio non esporsi. Ma lasciarsi le mani libere, con argomenti condivisibili da tutti.

Renzi parla di “orizzonte 2023”. Dà la sua versione dell’incontro della delegazione di Iv con Conte: “È andato bene. Anche se lui era partito male: ‘Ascolto pure un partito del 2%’. Poi ha capito che contano i seggi, non i sondaggi”. Molti passaggi del suo intervento sono piuttosto aulici. Come quello sull’importanza dell’elezione del presidente della Repubblica italiana “per evitare di far precipitare l’Italia nel sovranismo” e del Presidente francese. Menzione volante sulla giustizia: “Il casino vero è la mozione di sfiducia a Bonafede: ma ci vuole un accordo complessivo su Italia choc, se no che facciamo?”. Raccontano che Conte a Palazzo Chigi avrebbe detto chiaro e tondo ai delegati di Iv: “Se fate saltare Bonafede, salta il governo”. I renziani non sciolgono la riserva: devono leggere il testo, poi decideranno. Dal Pd la raccontano così: Matteo Salvini avrebbe presentato la mozione certo dell’appoggio del suo omonimo ex premier. Ma lui, una volta convocato da Conte, l’avrebbe lasciato in mezzo al guado.

Fatto sta che ieri il tenore degli interventi è sul “come saremo”. Parla Sandro Gozi: “Sono stra-convinto della scelta che abbiamo fatto ad agosto di dare vita a questo governo”. Ma poi si dice “preoccupatissimo” della “propaganda cinese di Di Maio”.

Intervengono una serie di parlamentari. Raffaella Paita per chiedere il piano shock, Ernesto Magorno per sottolineare la necessità di guardare al sud. Camillo D’Alessandro illustra un documento sullo smart working. Si vola alto. La superficie è troppo scivolosa.

Sarà un caso, ma è a riunione finita che escono fuori i temi più divisivi per la maggioranza. “Sul Mes ci aspettiamo dal presidente Conte parole chiare: un governo europeista e serio non può inseguire le stravaganze di Di Battista che ci vuole provincia cinese fuori dall’Europa”, declama Davide Faraone. Sulla stessa linea Luigi Marattin: “Se non usassimo il Mes, pagheremmo ogni anno per 10 anni dai 500 ai 700 mln di euro in più di interessi. Propongo di farli pagare di tasca propria a quei politici che continuano a dire NO senza offrire una sola argomentazione che non sia una conclamata e verificabile cialtronata”. Sul Mes, Iv annuncia barricate. Ma lo fa dopo l’incontro. Meglio evitare qualsiasi discussione che possa costituire precedente in caso di decisioni future. Sulla necessità di ripartenza – refrain dell’incontro virtuale – sono tutti d’accordo. Ma chi non lo sarebbe?

Morti sul lavoro, gli industriali vogliono lo scudo

Ripartita un’altra buona parte delle imprese rimaste ferme nella fase uno, per gli industriali, specie del Nord, c’è un altro grande problema: mal sopportano che i contagi da Sars-Cov-2 avvenuti in azienda siano considerati infortuni sul lavoro. In realtà dovrebbe essere scontato, ma evidentemente così non è, al punto che il governo l’ha perfino chiarito nel decreto Cura Italia di marzo. L’equiparazione pone precisi doveri per l’imprenditore, che rischia conseguenze penali in caso di violazione. Ecco perché sta crescendo un vasto fronte, dal Pd alla Lega, in soccorso degli industriali che vorrebbe uno scudo. L’ultimo a dolersene, due giorni fa, è stato il capo gli industriali bresciani (già candidato alla guida di Confindustria) Giuseppe Pasini.

Per il presidente del gruppo Feralpi, che produce acciaio, la norma che riconosce le prestazioni Inail anche a chi viene contagiato è addirittura “gravissima” e dettata da sentimenti “anti-impresa”. Che ha di deplorevole? Prevede che chi contrae il coronavirus in servizio abbia diritto alla tutela tipica degli incidenti sul lavoro. Il direttore generale Inail Giuseppe Lucibello, parlando con i consulenti del lavoro, ha ricordato che “sono circa cento anni che in Italia i fenomeni epidemici e parassitari sono riportati nella fattispecie degli infortuni sul lavoro”. Quindi anche per questo virus il datore deve comunicare all’Inail la notizia del contagio. Ricevuta la segnalazione, l’istituto verificherà la correlazione tra attività lavorativa e malattia e pagherà l’indennizzo. Per le professioni ad alto rischio, come medici, infermieri e quelle con frequenti contatti personali, sarà più semplice dimostrare il nesso; le altre seguiranno l’iter classico.

Il 4 maggio l’Inail contava già 37 mila denunce di infortunio, 127 dei quali con esito mortale. La maggioranza – oltre il 73% – è concentrata nella sanità, ma i dati degli altri settori non sono da sottovalutare. La manifattura ha il 2,6%, che si traduce in diverse centinaia di casi. Quota peraltro raggiunta durante il lockdown, quindi con molti stabilimenti chiusi. I casi mortali provenienti dalle industrie sono il 9,7%, logistica e commercio hanno l’8,3% dei decessi denunciati. Questo non vuol dire che il titolare dell’impresa passi automaticamente dei guai.

L’Inail pagherà i lavoratori (o le famiglie) e si rivarrà sull’azienda solo in caso di condanna penale. I protocolli firmati dalla Confindustria e dai sindacati – che impongono distanze e dispositivi di protezione – sono da considerarsi alla stessa stregua degli obblighi indicati nel Testo unico sulla sicurezza sul lavoro. La conseguenza è che chi non li applica alla lettera rischia l’arresto o l’ammenda. Se poi da questa negligenza dovesse scaturire la malattia del dipendente o la morte, a quel punto potrebbe scattare l’accusa di lesioni o omicidio colposo. Imprese e politica spingono per uno scudo, che è già stato ventilato per i medici.

Domani l’Inail interverrà di nuovo per chiarire questi aspetti. Ci vuole fantasia nel vedere in quella norma un “sentimento anti imprese”: la circolare, infatti, ha specificato che i casi di Covid-19 contratto sul lavoro non costituiranno un malus nel bilancio infortunistico, quindi non faranno lievitare i premi dovuti all’assicurazione. “Anche per questo – dice il responsabile Salute e Sicurezza della Fiom Pietro Locatelli – è una sciocchezza opporsi alla norma. Tra l’altro la denuncia si invia per via telematica e non ha nessun costo aggiuntivo per le aziende”.

“Il governo deve fermare la guerra sui tamponi”

Il pallino sulle riaperture deve tornare alle Regioni, lo ripete anche lui: “Il governo deve stabilire delle linee guida, ma poi dal 18 maggio dovranno essere i presidenti a valutare, perché già ora il peso delle decisioni ricade innanzitutto su di noi”. Ma per il governatore della Puglia, il dem Michele Emiliano, il tema è un altro: “Il vero nodo è quello dei tamponi, ossia quanti ne vanno fatti da ciascuna Regione, e su questo da Roma devono darci indicazioni chiare”.

Tanti governatori insistono per riaprire da domani, e alcuni hanno emanato ordinanze: compreso lei, che farà ripartire parrucchieri ed estetisti dal 18 maggio. Sembra una guerriglia, non crede?

L’insistenza fa parte della normale dialettica con il governo, con cui le Regioni hanno sempre mantenuto il dialogo. La mia ordinanza stata emanata dopo aver valutato tutti i parametri di sicurezza e dopo aver consultato l’esecutivo. Permettere alle donne e agli uomini di recarsi dal parrucchiere non è un dettaglio, perché la cura della persona rientra nel diritto all’identità. Credo che apriremo la strada al governo per far ripartire il settore in tutta Italia dal 18.

Il Friuli-Venezia Giulia vuole riaprire negozi e attività da domani, come ha già fatto l’Alto Adige. Insistono, nonostante il Tar della Calabria abbia bocciato l’ordinanza della Regione che aveva riaperto bar e ristoranti.

Certe forzature vanno evitate. Ma con la pandemia la destra è sparita, e non potendo dare un segnale di presenza in Lombardia, per evidenti motivi, lo ha fatto in Calabria e potrebbe farlo in Friuli Venezia Giulia. Ma non è decidendo su come si prende il cappuccino che si affrontano i problemi politici.

Però tutte le Regioni hanno chiesto di avere mani libere.

Forse il governo è rimasto sorpreso da questa presa di posizione unanime. Ma in un mondo omologato le esigenze di un governatore non cambiano molto da una regione all’altra.

Lei in Puglia sta facendo tutto ciò che era necessario?

Abbiamo rischiato l’osso del collo quando nella fase 1 35mila pugliesi rientrarono da noi dalla Lombardia. Imponendo la quarantena e grazie al senso di responsabilità di tutti abbiamo contenuto il problema, altrimenti avremmo avuto tante Codogno. Finora abbiamo avuto circa 4200 contagiati, e possiamo gestire la situazione grazie anche a un luminare come Pier Luigi Lopalco.

Però siete ultimi per numero di tamponi eseguiti.

Farli a ritmo continuo non ha senso. Bisogna usarli per il tracciamento nei casi in cui è necessario. Noi faremo i tamponi ai dipendenti della Sanità e a tutti quelli che entrano ed escono dagli ospedali. E vanno monitorati i luoghi di lavoro, perché sono i principali focolai. Stiamo comprando una macchina che permette di arrivare a 10mila tamponi al giorno, e che costa milioni. Ma c’è un problema.

Quale?

I soldi necessari per tamponi, reagenti e tutto il resto li chiederemo indietro al governo. Ma se noi abbiamo come obiettivo di eseguire 15mila tamponi al giorno e il Veneto 100mila, stando a quanto leggo, vanno fissati dei tetti per ogni Regione, e lo devono fare da Roma. Altrimenti si scatenerà una guerra sugli investimenti e il reperimento di questo materiale.

Ci sarebbe il tema di una sanità da ripensare.

Io ho allestito 1500 posti letto in più, e voglio tenermeli. Anzi, dico che se i pugliesi non possono più andare in Lombardia per il Covid, devono curarsi in Puglia. La nostra rete è pronta. Si potrebbe invertire la tradizionale migrazione dal Sud verso gli ospedali lombardi.

Voi governatori volete le Regionali a luglio, mentre il governo aveva già deciso il rinvio in autunno. Ma come si potranno fare i comizi o la raccolta delle firme?

Di comizi se ne faranno di più e con meno gente, e poi ci sono le dirette sui social. Non si possono riaprire i bar e sospendere la democrazia, la Costituzione non lo prevede. E poi se in autunno ci fosse una risalita dei contagi dovrebbero rinviare ancora. Non è pensabile.

L’ultimatum alle Regioni: “Non riaprite senza regole”

Anove giorni dalla scadenza del decreto del presidente del Consiglio in vigore, l’avvertimento alle regioni è arrivato forte e chiaro: in ordine sparso, se non lo “decide Roma”, non si può andare. Lo dice la sentenza del Tar che ha dato ragione al governo nella diatriba aperta contro la presidente della Calabria Jole Santelli, che una settimana fa aveva concesso ai bar di far consumare ai clienti nei tavolini all’esterno. Fino a ieri, quando i giudici amministrativi di Catanzaro le hanno ricordato che i governatori possono sì intervenire, ma solo per “restringere” le regole previste dal lockdown, non per allentarle. E che è nel giusto Palazzo Chigi quando dice che non si è fatta una “valida istruttoria” prima di emanare l’ordinanza: “Non emergerebbero – scriveva l’esecutivo nel provvedimento di impugnazione – condizioni peculiari che giustifichino, nel solo territorio della Regione Calabria, l’abbandono del principio di precauzione; non sarebbe stato adottato un valido metodo scientifico nella valutazione del rischio epidemiologico”.

Finisce così il primo round tra Giuseppe Conte e i governatori: il “patto tra gentiluomini” siglato alla vigilia della fase due è durato ben poco e alla fine il ministro Francesco Boccia ha dovuto tradurre in pratica – di nuovo l’altro ieri con l’Alto Adige – la minaccia del ricorso ai tribunali per fermare la corsa ai distinguo.

Ai presidenti però, sembra poco interessare. E ancora ieri – insieme allo sdegno del centrodestra in difesa della Santelli (“Oppressione”, l’ha chiamata il capitano Ultimo, assessore della sua giunta) – si sono moltiplicate le richieste di un cambio di passo da parte dell’esecutivo. Per dirla con il leghista Luca Zaia: “Io farei un bel Dpcm con un articolo solo: ‘si delegano le Regioni, a fronte della presentazione di un piano, alle riaperture’. Punto”. Il sogno del governatore veneto, con qualche drappello istituzionale in più, è di fatto l’obiettivo comune di tutti i presidenti, dal forzista Giovanni Toti (Liguria) al democratico Luca Ceriscioli (Marche). Tutte regioni, va ricordato, alle prese con la campagna elettorale: per tutti rispondere al pressing del territorio sarebbe un “santino” niente male.

La scadenza del 18, quella in cui anche il governo ha promesso di valutare “differenziazioni” regionali, si avvicina. Ma oltre al quando, è di nuovo il “come” a creare scompiglio. Se i protagonisti della fase due sono stati i “congiunti”, questa volta il dibattito rischia di aggrovigliarsi intorno ai “quattro metri” di distanza tra un tavolo e l’altro che, secondo alcune bozze, saranno necessari per riaprire bar e ristoranti. Un vincolo che, come facilmente intuibile, condannerebbe al fallimento molte attività che si ritroverebbero a poter servire una manciata di coperti o poco più. Il “vademecum” non è ancora scritto e sono gli stessi governatori a insistere perché il governo lo definisca al più presto: se loro decidono di riaprire prima – la data ipotizzata da Conte era il primo giugno – devono sapere come organizzarsi. E lo stesso vale per centri estetici e parrucchieri, accomunati ai ristoratori nel calendario governativo, ma già prossimi alla riapertura in regioni come la Puglia.

Ieri è stato ancora Boccia a intimare alle regioni di non procedere a nessuna riapertura prima che Comitato tecnico scientifico e Inail definiscano anche per questi comparti i protocolli per la sicurezza sul lavoro (c’è, tra l’altro, tutta la partita degli infortuni di cui vi parliamo qui sotto, ndr).

Secondo fonti di governo, nessuna valutazione seria potrà essere presa prima di mercoledì o giovedì: solo allora i virologi saranno in grado di fare un bilancio della curva epidemiologica messa alla prova dalla fase 2. I dati di ieri confermano la discesa: la metà dei nuovi contagi – 502 dei 1083 – resta in Lombardia. Calano i pazienti in terapia intensiva, mentre il numero dei guariti ha superato la soglia dei 100 mila. Ma l’imperativo della cautela resta: e il governo non può permettersi che le regioni da sole decidano misure che possono far ripartire i focolai. Anche perché 9 mila dei nuovi contagi delle ultime due settimane arrivano proprio dall’interno delle attività che hanno riaperto. Bisogna attendere ancora qualche giorno anche per vedere i risultati prodotti dalla task force guidata da Vittorio Colao: i gruppi di lavoro in questa fase si sono concentrati su imprese, infrastrutture e turismo. Ma non potranno fare più che “consigliare priorità e interventi che possano sostenere il rilancio e la competitività dell’Italia nel 2020-21”, come ha dichiarato ieri lo stesso Colao. Perché mentre loro studiano e ragionano, intorno, sta già tutto andando avanti. Con o senza l’accordo del governo.