Nei libri di storia, tutto inizierà il 20 febbraio da Mattia Maestri di Codogno. E da Franco Orlandi, il primo morto. Qui, a Nembro, il 23 febbraio. E sarà il racconto di una tempesta improvvisa, come dice ora la Regione Lombardia nel suo spot sulla Fase 2 “Pronti. Partenza. Lombardia”. Anche se qui hanno visto piuttosto l’acqua salire, salire e infine sfondare argini e paratie. Già a gennaio, nella Rsa di Nembro, si erano avuti 20 morti, contro i 7 dell’intero 2019, ricorda don Matteo, il prete: che ricorda anche i funerali, 18 contro gli 8 del gennaio precedente. Come i farmacisti che ricordano i tanti antibiotici venduti. E i volontari della Croce Rossa, i volontari delle ambulanze, che misurano i parametri vitali, e ricordano l’ossigeno nel sangue a livelli mai così bassi. Ma di tutto questo, non resterà traccia.
Perché i morti sono morti, ormai, e chissà di cosa. E perché comunque, la storia si scrive altrove. In questi due mesi, qui non si è visto nessuno. Un ministro, un deputato. Un assessore. Manco il vescovo. Il 27 aprile, nella sua prima visita in Lombardia, il premier Conte ha detto: “Quei due piccoli Comuni della Bergamasca”. Erano Alzano e Nembro. Si era dimenticato i nomi. Eppure, a marzo Nembro ha avuto 154 morti, contro i 17 del marzo 2019. E ha 11 mila abitanti. A marzo, Nembro ha perso l’1,3% della popolazione. E così Alzano: 112 morti contro 10. Come se a Roma i morti fossero stati 28 mila.
Alessandra Raimondi fa il medico di base ad Alzano. Il suo primo caso di Covid-19, per lei, risale al 5 febbraio. Polmonite virale. Cosa già rara in sé, dice. Ma poi la paziente non migliorava. In quel momento, l’unica indicazione era chiedere ai malati di eventuali legami con la Cina. “Era una maestra delle elementari. Continuavo a chiederle dei suoi alunni stranieri. Niente, mi diceva. E io: ‘Ma sei proprio sicura?’”. Alla fine, dopo oltre un mese, la maestra guarisce. La diagnosi sarà: polmonite bilaterale interstiziale. “E ora, ovviamente, non possiamo sapere di più, perché potrebbe avere contratto il virus anche dopo”, racconta la dottoressa Raimondi. “Ma se controllo l’agenda, per esempio, l’11 febbraio, i quattro pazienti che erano in sala d’attesa insieme, per ragioni diverse e nessuno per polmonite: dopo un paio di settimane, tutti avevano tosse e febbre. Tutti nello stesso momento. Tutti risulteranno positivi”.
Tempesta improvvisa. O quasi
“Un indizio, come diceva Agatha Christie, è solo un indizio. E due indizi solo una coincidenza. Ma tre sono una prova: e qui non erano tre, erano trecento”, mi dice un altro medico di base. Ma perché, chiedo, non avete chiamato l’Ats? “Perché non chiami qualcuno che sai che è inutile chiamare”. “Dall’Ats – prosegue – le linee guida sui farmaci sono arrivate solo il 25 marzo”. Dopo 7.503 morti.
La tempesta improvvisa, si dice adesso. Un virus così feroce da travolgere persino la Lombardia, con il suo sistema sanitario migliore d’Italia. E che a tratti, però, si è rivelato il migliore alleato dell’epidemia. Il 23 febbraio, dopo il primo morto, il pronto soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano, come è ormai noto, viene riaperto nel giro di poche ore dopo una veloce sanificazione che la direzione assicura essere stata effettuata con le più avanzate tecnologie disponibili: un’infermiera, con poco più che secchio e stracci. “Mia nonna era lì dal 16 febbraio”, dice Lara Grasseni. “Aveva 90 anni. E proprio per questo eravamo lì notte e giorno, tutti, a turno, figli e nipoti, in 13: perché era il perno della nostra famiglia. E ormai era alla fine. Ma avevamo letto di Codogno, e ai medici che iniziavano ad avere la mascherina chiedevamo se era pericoloso. No, no, dicevano. E ci siamo ammalati tutti”.
Anche la madre di Sabry Bonetti entra in ospedale il 18 febbraio per tutt’altro. Per una radioterapia. Ma non viene trasferita in un altro ospedale. Morirà il 15 marzo. Positiva. “Ora verranno a dirmi che aveva già contratto il virus. Ma nessuno di noi si è ammalato a casa, neppure la nonna, con cui viveva mia madre”, racconta. “E io che credevo fosse al sicuro… Fuori era il panico. Tutti con la febbre, tutti in cerca di un medico. Di un’ambulanza. L’ultima volta, al telefono… Al telefono, ho detto: Per fortuna stai lì”, dice. E con un filo di voce aggiunge: “Ma come poteva immaginarlo… ”.
Luca Lorini, il direttore della Terapia Intensiva del Papa Giovanni di Bergamo, ha provato a spiegarlo persino nei giorni in cui aveva intubati – e giornalisti – ovunque. Il problema vero non è qui, diceva, è intorno. Perché intorno, intanto, era saltato tutto. E i morti morivano di virus, sì: ma non solo. A fine febbraio, l’Ats ha raccomandato ai medici di base di gestire i pazienti per telefono. Per evitare di contagiarsi e contagiare. “E quindi a mio padre la prima volta è stato detto che era una semplice allergia. Che era sufficiente una pomata”, ricorda Consuelo Locati. “Alla seconda chiamata, il medico ha aggiunto un antistaminico. Alla terza, è sparito. Con mio padre che aveva febbre, tosse. Fino a quando, in via privata, abbiamo effettuato una radiografia. Polmonite interstiziale”. Ma a quel punto nessuno aveva tamponi, e quindi, tecnicamente, non si trattava che di un caso sospetto. “E così mia padre ha continuato con la tachipirina e basta. Perché senza linee guida, era l’unico farmaco autorizzato. E la verità – dice Consuelo – è che non è morto di polmonite. Ma di polmonite e pomata”.
Dai reparti alla Fase2
Mentre la Protezione Civile si impaludava tra gli speculatori, importando dalla Cina mascherine bollate dai medici come carta straccia, Camillo Bertocchi e Claudio Cancelli, sindaco di Alzano e sindaco di Nembro, telefonavano ai dentisti, ai tatuatori, ai verniciatori della zona: e recuperavano mascherine. Compravano saturimetri e ossigeno. E sostenevano i medici di base in ogni modo possibile. Perché “bastava guardare i numeri”, dicono. Ambulatorio a ambulatorio. Sono i medici di base, dicono, a fare la differenza. Perché non è questione di fortuna, dicono. Ma di logica. Di logica e organizzazione. Come in Veneto, dove si sono avuti 2 morti ogni 10mila abitanti, contro gli 11 della Lombardia.
Anche qui è iniziata la Fase 2. E pare identica alla Fase 1. Niente tamponi, niente test. Niente rafforzamento dell’assistenza sul territorio. Per il resto d’Italia, è come se tutto questo non fosse esistito. Per il resto d’Italia, sono stati due mesi di Netflix, di lievito madre. Orti in giardino. Mentre cammini, adesso, tra Alzano e Nembro, è ancora tutto chiuso: non le saracinesche dei negozi, ma le persiane, le persiane delle case. Ora sono vuote. E quando da dietro una finestra, ancora, senti tossire, all’improvviso ti sta tutto di nuovo davanti. La casa vicino la chiesa, quella da cui un uomo è rotolato giù dalle scale, rantolando, prima ancora che arrivasse l’ambulanza, ed è morto così, per strada. La casa in cui un altro ha avuto una crisi d’aria, alle 2 di notte, e ci siamo svegliati tutti, “Salvami! Salvami!,” diceva, stretto al collo del medico, con un bambino, vitreo, a un metro di distanza. La casa in cui hanno consegnato un sacco rosso, una mattina, ed erano gli effetti personali di una madre, tutto quello che di lei restava. E la casa giù all’angolo, quella in cui una figlia ripeteva: “Che dici, sbaglio? Sbaglio?”, prima di decidere di non ricoverare il padre, e lasciarlo spegnersi, e svenire lei, sfinita. Qui dove i congiunti da cui andare non sono gli affetti stabili, ora, ma i morti in cimitero: e alle lapidi sono ancora fissate le girandole sbiadite dal sole di quando erano finiti anche i fiori.
Il 27 febbraio il padre di Sara Gargantini arriva al pronto soccorso del Pesenti Fenaroli. Ha 81 anni, e febbre alta da 12 giorni. Viene dimesso alle 3:28 del mattino. O meglio, viene lasciato fuori, al freddo, in mezzo alla strada: gli prescrivono degli antibiotici, e gli dicono di chiamarsi un taxi. Capisce perfettamente tutto. Si leggeva e sentiva ovunque. Arriverà a casa, e per non contagiare la figlia, che abita di sotto, le lancerà dalla finestra il referto, dicendo solo: “Fammi giustizia”. Poche ore dopo, verrà a prenderlo un’ambulanza. E non lo vedranno mai più.