Ora la cassa in deroga verrà semplificata. Ma i ritardi restano: pagamento a giugno

Continua il lento travaglio del nuovo decreto per sostenere l’economia di famiglie e imprese (già “decreto aprile” e “decreto maggio”, ora “decreto rilancio”). Il governo dovrebbe approvarlo nei prossimi giorni: vale 55 miliardi di euro di maggior deficit che però, sommando i soldi per le garanzie sulla liquidità e le garanzie a Cdp, ne movimenterà 155. Al netto delle misure, l’obiettivo è anche semplificare alcune delle procedure che fino a oggi non hanno ancora permesso di pagare la cassa integrazione in deroga o il bonus da 600 euro a tutti i professionisti in difficoltà che potevano beneficiarne. “Il governo vuole vincere la sfida della riduzione degli adempimenti burocratici. Per questo introdurremo un meccanismo semplificato di erogazione della cassa in deroga”, ha annunciato il premier Giuseppe Conte. Parole che però non sono bastate a Cgil, Cisl e Uil: “È necessario intervenire per superare i ritardi che si stanno accumulando per la cassa integrazione e per gli anticipi da parte delle banche”.

Serve, insomma, un cambiamento necessario per sbloccare i pagamenti di 4 lavoratori su 5 che a due mesi dall’inizio del lockdown non hanno ancora ricevuto i soldi. Su 305.434 domande di Cig in deroga – quella destinata anche alle piccole imprese – decretate dalle Regioni e arrivate all’Inps, quelle autorizzate sono 207 mila ma pagate solo 57.833. Soldi andati a 121.756 beneficiari su una platea che secondo l’Inps è composta da oltre 640 mila lavoratori, 1,3 milioni secondo la Uil. Il governo ha messo sul piatto 2,3 miliardi di euro che faticano a partire a causa del meccanismo complesso di uno strumento datato che si è incastrato nella baruffa innescata tra Inps e Regioni per colpa del modello Sr41 (che riporta il numero di lavoratori effettivamente in cassa e non solo di quelli presunti) e degli Iban che vengono riportati in modo errato dalle aziende che l’Inps è costretta a correggere. Una procedura che per dipendenti dell’Istituto avviene in smartworking, allungando i tempi. Così, in attesa di una procedura semplificata che dovrebbe basarsi sulla possibilità per la Cig in deroga di inserire il modello Sr41 in modo automatico nel flusso di dati che normalmente il datore di lavoro invia all’Inps e per la Cig ordinaria di non presentare una nuova domanda (ma solo aggiornare la precedente), chi ha chiesto la cig in deroga dovrà molto probabilmente aspettare i soldi fino a giugno. Forse sarebbe bastato dall’inizio spiegare che per questa procedura sono necessari tre mesi di lavorazione.

Così come dovranno pazientare un milione di professionisti che ancora non hanno ricevuto il bonus da 600 euro. Le domande arrivate all’Inps sono state oltre 4,7 milioni ma quelle pagate 3,7. La causa del ritardo sono gli Iban comunicati male o gli errori riportati nelle domande. Il plafond da 2,9 miliardi ha bisogno di nuova liquidità che arriverà con il decreto “rilancio”. O comunque lo si voglia chiamare.

“Bene la fase 1, ma sul Reddito di emergenza non ci siamo”

Fabrizio Barca, già dirigente della Banca d’Italia, ministro della Coesione sociale nel governo Monti, oggi coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, un impegno nella “cittadinanza attiva” con idee di sinistra, chiede una scossa al governo. In particolare sul Reddito di emergenza: “Il governo ha agito con ragionevolezza sul piano sanitario e rapidità su quello economico, ma sul Rem siamo rattristati”.

Perché rattristati?

Sono 30 giorni che presentiamo proposte e il provvedimento resta inadeguato, imprigionato da vincoli di bilancio. In questa fase non ci può essere vincolo di bilancio, specie per i più vulnerabili. Dobbiamo renderli liberi dall’angoscia e in grado di riprogrammare la loro vita.

Quali punti non vanno?

Si chiede il ricorso all’Isee del 2018 che scoraggia chi lo deve richiedere e non serve di fatto a selezionare i beneficiari. E poi l’importo previsto è insufficiente, forse solo due mesi. È decisamente ingiusto.

Qual è la sua proposta?

Come Fdd e AsviS abbiamo innanzitutto presentato il metodo dell’art. 118 della Costituzione sulla sussidiarietà e l’autonomia attiva dei cittadini: se non va la nostra proposta spiegateci il perché!

Chi è che non ascolta?

Vedo un apparato pubblico afflitto da due malattie: l’assenza di un dialogo con la società e una struttura amministrativa indebolita da trent’anni di disinvestimenti. Per ascoltare e raccogliere, poi, serve coraggio, anche politico.

Che proposta fate sul reddito?

Come nella prassi internazionale per le emergenze: usare e semplificare al massimo i dispositivi esistenti, da noi l’infrastruttura del Reddito di cittadinanza. Senza chiedere l’Isee: basta il reddito corrente e il patrimonio degli ultimi due mesi, evitare rinvii ad altre norme e applicare le verifiche dell’Inps sulle autocertificazioni. La durata deve essere quella della crisi, fino alla fine dell’estate. Il provvedimento non va inteso come specifico per gli ‘irregolari’. In realtà, è fatto anche per i precari creati dalle leggi degli ultimi anni. Non servono moralismi.

Dove si trovano le risorse che questa fase richiede?

I fondi che servono ora ‘per passare la nottata’ devono avere come riferimento l’unico grande centro federale dell’Ue, la Bce. Ovviamente un’Unione non si regge solo sulla Banca centrale e senza una corrispondente autorità federale con poteri fiscali. L’Italia sta trattando bene in Europa, ma ora occorre l’avvio di un fondo che avrebbe bisogno di un ‘ministro’ europeo e di un ruolo politico del Parlamento europeo. Il Recovery fund potrebbe essere un passo in quella direzione, certamente il Mes non lo è.

Confindustria mette già le mani avanti sulle risorse.

Ci siamo ritrovati con un welfare pieno di buchi e la caduta di Pil dev’essere redistribuita. Non sono esperto di fisco, ma sono certo che il metodo di Confindustria, ridurre indiscriminatamente le tasse, è quello dei colpi di piccone. Della peggiore vecchia Italia. Occorre, invece, un disegno organico che riveda fisco e welfare, ad esempio intervenendo sui circa 60 miliardi di iniquità fiscale orizzontali fatte di deduzioni ad hoc per le singole categorie e sulle elevatissime evasioni.

Il Forum che lei coordina in un documento descrive “tre opzioni” che la crisi avrebbe aperto. Può descriverle?

Siamo in una fase di biforcazioni con tendenze opposte. La prima opzione che vedo in campo è il ritorno alla ‘normalità e progresso’. Tornare a come eravamo prima con tutti i meccanismi perversi. Ad esempio, il ricorso a termini come ‘semplificazione’ che rischiano di consegnare un assegno in bianco a chi scrive regole e procedure rigide ignare dei contesti e delle norme. Oppure “Stato passivo”, cioè mero finanziatore ma incapace di un’agire strategico.

Le altre opzioni?

La ripresa di una dinamica autoritaria: basta decentramento, uno Stato forte che dia degli ordini, tiri su dei muri, che garantisca la ‘purezza’ e il rilancio dello statalismo dirigista e sanzioni i devianti. Non è detto che sia solo di destra perché la tendenza ha già colpito anche la sinistra e può trovare alleati in forze insospettabili.

La terza strada, per una “giustizia sociale e ambientale”, riconosce che la democrazia è sovranità popolare ed equità. Raccogliere conoscenza diffusa, prendere la parte migliore della democrazia liberale, il confronto acceso e aperto, immaginare anche alleanze tra settori di imprenditoria socialmente orientata, un pezzo significativo del mondo del lavoro, la società civile che non vuole essere ancella dello Stato, un pezzo della ricerca italiana, le ancora importanti imprese pubbliche. In assenza di un soggetto politico che li rappresenti bisogna far parlare tra loro questi soggetti.

La proposta. Le imprese nei paradisi fiscali

“Francamente non capisco perché se vai a mettere la holding in Olanda, i soldi non li vai poi a chiedere in Olanda. È una cosa che stride col senso comune”. Così il procuratore di Milano Francesco Greco ha commentato l’ipotesi che aziende con la sede legale nei paradisi fiscali europei possano beneficiare degli aiuti pubblici in Italia. Il tema fa discutere da giorni. L’ipotesi di vietare questa pratica è stata però bloccata da Bruxelles, che ritiene discriminatorio vincolare gli aiuti alla sede delle aziende. Le imprese italiane fuggite in Olanda&C. sono tante. È giusto consentire questa prassi?

 

Ora l’Olanda deve diventare un po’ più povera anche lei

La maggior parte delle aziende che operano in Italia non ha spostato la propria sede in un altro Paese o costruito complicati meccanismi societari per pagare meno tasse. È dunque giusto che chi invece ha deciso di farlo, approfittando di una normativa europea compiacente, non ottenga gli aiuti di Stato previsti per l’emergenza Coronavirus. Francia, Danimarca e Polonia hanno già stabilito di escludere chi ha sede nei paradisi fiscali. L’Unione europea si oppone in nome del principio della libera circolazione dei capitali, ma ora la questione deve diventare una delle carte da giocare per ottenere l’ok al Recovery fund . Ogni anno il nostro Paese perde oltre 6 miliardi di entrate grazie all’elusione fiscale messa in atto attraverso nazioni europee. Solo l’Olanda ci costa più di un miliardo e mezzo. In totale Amsterdam risucchia 72 miliardi di euro di profitti dalle aziende dei Paesi Ue. Dieci vanno al fisco olandese, il resto rimane nelle casse delle multinazionali. Se l’Olanda vuol farci diventare poveri, deve sapere che diventerà più povera anche lei.

Peter Gomez

 

Basta sovranisti con le tasse degli altri: Fca dia l’esempio

Molti paesi hanno ragione quando chiedono serietà e coerenza all’Italia, ma devono fare altrettanto. L’Olanda rifiuta l’appellativo di “paradiso fiscale”, ma se non è complice è quanto meno beneficiaria delle pratiche elusive messe in pratica da numerose società multinazionali. Anche durante l’emergenza Coronavirus le aziende hanno continuato a trasferire in Olanda la propria sede legale. Questa pratica è talmente diffusa che riguarda persino imprese a controllo pubblico. L’Europa dovrebbe definire una cornice comune per contrastare l’elusione ed evitare i comportamenti opportunistici. Sarebbe un bel segnale se società come Fca e Psa rivedessero la decisione di collocare in Olanda, a valle della loro fusione, la loro sede legale. Chi si sottrae alla giusta imposizione fornisce l’alibi per mantenere un sistema fiscale iniquo. Troppo facile essere globali con gli utili e ricordarsi della bandiera quando servono aiuti. E, per gli Stati essere europeisti rigorosi sulle regole e poi fare i sovranisti con le tasse degli altri.

Marco Bentivogli

 

L’Italia non può permettersi di dare fiducia a chi l’ha tradita

Il governo della crisi rappresenta il meccanismo che consentirà o meno di avviare la ripresa economica. Al netto della retorica dell’unità nazionale, ci si chiede come sia possibile pretendere sgravi, incentivi e garanzie sulla liquidità da chi negli ultimi anni non solo si è sottratto ai fondamenti minimi della responsabilità democratica – il prelievo fiscale sui diversi cespiti – ma spesso l’ha fatto dopo aver ricevuto dalle casse pubbliche massicci investimenti in risanamento produttivo. Gli stessi che hanno goduto della fiscalità generale nei periodi di crisi, come tuttora avviene con la cassa integrazione, senza restituire un progetto industriale di medio-lungo periodo, ma pensando solo ai profitti di breve. Reiterare la fiducia a chi l’ha già tradita è un progetto politico che l’Italia non può più permettersi. Non si può ignorare che l’austerità imposta dall’Europa è stata aggravata dall’avarizia di chi ha spostato le sedi in Paesi a tassazione agevolata, rendendo l’Italia vulnerabile alla pandemia e alla crisi in cui siamo.

Marta Fana

 

Le aziende assaltano i fondi pubblici con la scusa del Covid

Dovrebbe essere un principio indiscutibile quello in base al quale le grandi società che hanno trasferito la sede fiscale e legale in paradisi fiscali – facendo dumping fiscale – come l’Olanda o il Lussemburgo di Jean-Claude Juncker, non debbano poi beneficiare di finanziamenti pubblici nei Paese in cui hanno gli stabilimenti e le attività. Se avessero diritto a qualche finanziamento lo richiedano là, dove pagano meno tasse. Per la Commissione Ue limitare gli aiuti con la distinzione della sede legale e fiscale è una concorrenza sleale, ma è invece sleale non sanzionare chi contende il mercato ai Paesi “fratelli” abbassando le aliquote. Solo una visione finanzo-centrica può portare a un’aberrazione giuridica di questo tipo. Ci sono Paesi in cui il sovranismo arriva a sanzionare le società che hanno stabilimenti all’estero, come ha fatto Trump. Non bisogna arrivare a queste forme di sovranismo, ma all’equità sociale sì. Si tratta di fondi preziosi che ora, più che mai, dovrebbero restare in Italia. È in corso un vero assalto della grande impresa ai fondi pubblici utilizzando l’emergenza sanitaria.

Marco Revelli

 

Nessuna disparità: la politica dimostri coerenza e coraggio

Il Nens, il centro studi che presiedo, si è fatto promotore di una petizione popolare rivolta al governo, con una postilla: che nelle blacklist fossero ricompresi anche quei Paesi che nella Ue offrono schermi ai gruppi multinazionali, non solo ai fini fiscali ma anche dal punto di vista del diritto commerciale e societario. Finora il tentativo di omogenizzare a livello Ue anche le modalità del prelievo tributario, oltre che i criteri di spesa, si è scontrato contro il muro del voto all’unanimità. Ma uno Stato può pure decidere di rischiare una procedura d’infrazione per ribadire un principio sui tavoli europei davanti a una situazione intollerabile, visto che questi Paesi privi di solidarietà prima ti sottraggono i soldi e poi ti boicottano. D’altra parte la sospensione del divieto di aiuti di Stato può giustificare la scelta di limitare il sostegno dello Stato (aiuti) alle sole imprese che nei confronti della Stato si sono dimostrate leali. In una situazione come quella attuale, il governo e il Parlamento devono dimostrare coerenza e coraggio.

Vincenzo Visco

 

I manager riportino la sede legale dove chiedono i sussidi

 

Gli interventi contro la crisi di liquidità delle imprese italiane rendono evidente come la correlazione tra spesa pubblica ed entrate tributarie non sia più governabile a livello nazionale. Le misure immaginate a livello domestico presuppongono un sostegno europeo, senza il quale le prime non sarebbero praticabili. Se si pretende un debito pubblico europeo per ripartire solidalmente tra i Paesi dell’Ue le conseguenze della crisi economica, i recovery bond o le risorse del Mes, non si può poi conservare politiche fiscali e societarie tanto diversificate e concorrenziali in seno all’Ue. Tali politiche corrispondono ad anacronistica riserva quasi esclusiva dei regolatori nazionali, premessa di uno squilibrio tutto europeo.

L’evasione fiscale internazionale più consistente è costruita su una pianificazione aggressiva. Non si può per convenienza avere sede legale nel Paese che offre le migliori condizioni fiscali per poi ricordarsi di avere sede operativa in quello che offre i migliori aiuti di Stato.

Fabio Di Vizio

 

Casa per casa e zero morti storia del dottor Munda

Tutti, qui, hanno il suo numero. Solo da Milano non ha mai chiamato nessuno. Eppure tra i suoi pazienti – oltre mille – Riccardo Munda ha avuto zero morti. E zero ricoverati. E, Riccardo, fa il medico a Nembro: a Selvino in realtà, una manciata di chilometri oltre. Quando a fine febbraio l’Ats di Bergamo ha raccomandato ai medici di base di gestire i pazienti per telefono, per evitare di contagiarsi e contagiare, Riccardo si è comprato di tasca sua 600 euro di camici e di mascherine, e una Vaporella. Per continuare a visitare casa per casa. A Nembro, e poi, via via, in tutta la zona. “Ero disperata”, mi dice la signora Adele. A lei, in tre settimane, non avevano prescritto che uno sciroppo. “Il dottor Munda è un eroe”, dice.

Quando gli chiedo perché ha scelto di restarsene tra i malati, lui mi guarda e dice solo: “E dove dovrei stare? Tra i sani?”. Ha 38 anni, gli occhi blu e il sorriso largo, e la borsa in pelle come quella dei dottori di una volta. E mentre il nuovo ospedale in Fiera a Milano è costato 26 milioni di euro, molti, qui, moltissimi, sono ancora vivi grazie al suo stetoscopio da cento euro. Non ha una terapia. “Ma proprio perché non c’è ancora una cura, è fondamentale intervenire subito. E quindi non solo visitare il paziente, ma visitarlo spesso: per aiutare il fisico a reagire, calibrando e ricalibrando i farmaci a ogni suo minimo segnale”, spiega. “Qui non sono mancati gli ospedali, è mancato tutto il resto. E anche adesso sembra che la soluzione sia solo rafforzare la terapia intensiva. Mentre invece è rafforzare tutto quello che ti evita di finirci”. “Costruire ospedali certo è più facile”, dice. Appalti, nastri. “Perché qui saremo anche in Lombardia. Ma è sempre Italia”.

Non si parla che di tamponi, test, tracciamento dei contagi. Contenimento dei nuovi focolai. Ma pure nella Fase 2 qui si è soli e basta. La signora Daniela, come tutti, vive nell’ansia. Suo padre è morto, suo marito è stato a lungo intubato: vive con il saturimetro incollato al dito. “Non ha niente”, la rassicura il dottor Munda, mentre controlla i polmoni del marito. Che non era mai stato visitato, neppure al telefono: il numero del suo medico era sempre occupato. E a un certo punto, semplicemente, è svenuto. “Io non mi preoccupo per me. Mi preoccupo per gli altri”, dice la signora. “Sono una dentista”. E lo studio in cui lavora non ha mai chiuso. Nè ha mai visto un tampone. “Chiesto ovunque, ma niente…”.

“Non giudico nessuno. Non sono Dio”, dice il dottor Munda. “Ma hai letto il giuramento di Ippocrate? ‘Presterai la tua opera in scienza e coscienza’. Per ora la scienza, è vero, non c’è. Ma la coscienza, sì”. Nonostante i suoi zero morti nella Fase1, nessuno gli ha mai chiesto un consiglio, un parere sulla Fase2. Solo il sindaco di Nembro gli è stato vicino. “Sento tanti parlare del ‘mondo post-Covid’. Come se tutto questo fosse anche un’opportunità di redenzione… Ma nei momenti di crisi non si tira fuori il meglio di sé. Si resta quello che si è”, dice.

Almeno, chiedo io, ora lo avrai un tampone? “Tanto non sono di ruolo. Sono un sostituto. Il mio contratto è in scadenza. Anche se fossi positivo, mica ho l’indennità di malattia…”.

Viaggio a Nembro. Dove la piena è partita: sommersi e salvati dal virus

Nei libri di storia, tutto inizierà il 20 febbraio da Mattia Maestri di Codogno. E da Franco Orlandi, il primo morto. Qui, a Nembro, il 23 febbraio. E sarà il racconto di una tempesta improvvisa, come dice ora la Regione Lombardia nel suo spot sulla Fase 2 “Pronti. Partenza. Lombardia”. Anche se qui hanno visto piuttosto l’acqua salire, salire e infine sfondare argini e paratie. Già a gennaio, nella Rsa di Nembro, si erano avuti 20 morti, contro i 7 dell’intero 2019, ricorda don Matteo, il prete: che ricorda anche i funerali, 18 contro gli 8 del gennaio precedente. Come i farmacisti che ricordano i tanti antibiotici venduti. E i volontari della Croce Rossa, i volontari delle ambulanze, che misurano i parametri vitali, e ricordano l’ossigeno nel sangue a livelli mai così bassi. Ma di tutto questo, non resterà traccia.

Perché i morti sono morti, ormai, e chissà di cosa. E perché comunque, la storia si scrive altrove. In questi due mesi, qui non si è visto nessuno. Un ministro, un deputato. Un assessore. Manco il vescovo. Il 27 aprile, nella sua prima visita in Lombardia, il premier Conte ha detto: “Quei due piccoli Comuni della Bergamasca”. Erano Alzano e Nembro. Si era dimenticato i nomi. Eppure, a marzo Nembro ha avuto 154 morti, contro i 17 del marzo 2019. E ha 11 mila abitanti. A marzo, Nembro ha perso l’1,3% della popolazione. E così Alzano: 112 morti contro 10. Come se a Roma i morti fossero stati 28 mila.

Alessandra Raimondi fa il medico di base ad Alzano. Il suo primo caso di Covid-19, per lei, risale al 5 febbraio. Polmonite virale. Cosa già rara in sé, dice. Ma poi la paziente non migliorava. In quel momento, l’unica indicazione era chiedere ai malati di eventuali legami con la Cina. “Era una maestra delle elementari. Continuavo a chiederle dei suoi alunni stranieri. Niente, mi diceva. E io: ‘Ma sei proprio sicura?’”. Alla fine, dopo oltre un mese, la maestra guarisce. La diagnosi sarà: polmonite bilaterale interstiziale. “E ora, ovviamente, non possiamo sapere di più, perché potrebbe avere contratto il virus anche dopo”, racconta la dottoressa Raimondi. “Ma se controllo l’agenda, per esempio, l’11 febbraio, i quattro pazienti che erano in sala d’attesa insieme, per ragioni diverse e nessuno per polmonite: dopo un paio di settimane, tutti avevano tosse e febbre. Tutti nello stesso momento. Tutti risulteranno positivi”.

Tempesta improvvisa. O quasi

“Un indizio, come diceva Agatha Christie, è solo un indizio. E due indizi solo una coincidenza. Ma tre sono una prova: e qui non erano tre, erano trecento”, mi dice un altro medico di base. Ma perché, chiedo, non avete chiamato l’Ats? “Perché non chiami qualcuno che sai che è inutile chiamare”. “Dall’Ats – prosegue – le linee guida sui farmaci sono arrivate solo il 25 marzo”. Dopo 7.503 morti.

La tempesta improvvisa, si dice adesso. Un virus così feroce da travolgere persino la Lombardia, con il suo sistema sanitario migliore d’Italia. E che a tratti, però, si è rivelato il migliore alleato dell’epidemia. Il 23 febbraio, dopo il primo morto, il pronto soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano, come è ormai noto, viene riaperto nel giro di poche ore dopo una veloce sanificazione che la direzione assicura essere stata effettuata con le più avanzate tecnologie disponibili: un’infermiera, con poco più che secchio e stracci. “Mia nonna era lì dal 16 febbraio”, dice Lara Grasseni. “Aveva 90 anni. E proprio per questo eravamo lì notte e giorno, tutti, a turno, figli e nipoti, in 13: perché era il perno della nostra famiglia. E ormai era alla fine. Ma avevamo letto di Codogno, e ai medici che iniziavano ad avere la mascherina chiedevamo se era pericoloso. No, no, dicevano. E ci siamo ammalati tutti”.

Anche la madre di Sabry Bonetti entra in ospedale il 18 febbraio per tutt’altro. Per una radioterapia. Ma non viene trasferita in un altro ospedale. Morirà il 15 marzo. Positiva. “Ora verranno a dirmi che aveva già contratto il virus. Ma nessuno di noi si è ammalato a casa, neppure la nonna, con cui viveva mia madre”, racconta. “E io che credevo fosse al sicuro… Fuori era il panico. Tutti con la febbre, tutti in cerca di un medico. Di un’ambulanza. L’ultima volta, al telefono… Al telefono, ho detto: Per fortuna stai lì”, dice. E con un filo di voce aggiunge: “Ma come poteva immaginarlo… ”.

Luca Lorini, il direttore della Terapia Intensiva del Papa Giovanni di Bergamo, ha provato a spiegarlo persino nei giorni in cui aveva intubati – e giornalisti – ovunque. Il problema vero non è qui, diceva, è intorno. Perché intorno, intanto, era saltato tutto. E i morti morivano di virus, sì: ma non solo. A fine febbraio, l’Ats ha raccomandato ai medici di base di gestire i pazienti per telefono. Per evitare di contagiarsi e contagiare. “E quindi a mio padre la prima volta è stato detto che era una semplice allergia. Che era sufficiente una pomata”, ricorda Consuelo Locati. “Alla seconda chiamata, il medico ha aggiunto un antistaminico. Alla terza, è sparito. Con mio padre che aveva febbre, tosse. Fino a quando, in via privata, abbiamo effettuato una radiografia. Polmonite interstiziale”. Ma a quel punto nessuno aveva tamponi, e quindi, tecnicamente, non si trattava che di un caso sospetto. “E così mia padre ha continuato con la tachipirina e basta. Perché senza linee guida, era l’unico farmaco autorizzato. E la verità – dice Consuelo – è che non è morto di polmonite. Ma di polmonite e pomata”.

Dai reparti alla Fase2

Mentre la Protezione Civile si impaludava tra gli speculatori, importando dalla Cina mascherine bollate dai medici come carta straccia, Camillo Bertocchi e Claudio Cancelli, sindaco di Alzano e sindaco di Nembro, telefonavano ai dentisti, ai tatuatori, ai verniciatori della zona: e recuperavano mascherine. Compravano saturimetri e ossigeno. E sostenevano i medici di base in ogni modo possibile. Perché “bastava guardare i numeri”, dicono. Ambulatorio a ambulatorio. Sono i medici di base, dicono, a fare la differenza. Perché non è questione di fortuna, dicono. Ma di logica. Di logica e organizzazione. Come in Veneto, dove si sono avuti 2 morti ogni 10mila abitanti, contro gli 11 della Lombardia.

Anche qui è iniziata la Fase 2. E pare identica alla Fase 1. Niente tamponi, niente test. Niente rafforzamento dell’assistenza sul territorio. Per il resto d’Italia, è come se tutto questo non fosse esistito. Per il resto d’Italia, sono stati due mesi di Netflix, di lievito madre. Orti in giardino. Mentre cammini, adesso, tra Alzano e Nembro, è ancora tutto chiuso: non le saracinesche dei negozi, ma le persiane, le persiane delle case. Ora sono vuote. E quando da dietro una finestra, ancora, senti tossire, all’improvviso ti sta tutto di nuovo davanti. La casa vicino la chiesa, quella da cui un uomo è rotolato giù dalle scale, rantolando, prima ancora che arrivasse l’ambulanza, ed è morto così, per strada. La casa in cui un altro ha avuto una crisi d’aria, alle 2 di notte, e ci siamo svegliati tutti, “Salvami! Salvami!,” diceva, stretto al collo del medico, con un bambino, vitreo, a un metro di distanza. La casa in cui hanno consegnato un sacco rosso, una mattina, ed erano gli effetti personali di una madre, tutto quello che di lei restava. E la casa giù all’angolo, quella in cui una figlia ripeteva: “Che dici, sbaglio? Sbaglio?”, prima di decidere di non ricoverare il padre, e lasciarlo spegnersi, e svenire lei, sfinita. Qui dove i congiunti da cui andare non sono gli affetti stabili, ora, ma i morti in cimitero: e alle lapidi sono ancora fissate le girandole sbiadite dal sole di quando erano finiti anche i fiori.

Il 27 febbraio il padre di Sara Gargantini arriva al pronto soccorso del Pesenti Fenaroli. Ha 81 anni, e febbre alta da 12 giorni. Viene dimesso alle 3:28 del mattino. O meglio, viene lasciato fuori, al freddo, in mezzo alla strada: gli prescrivono degli antibiotici, e gli dicono di chiamarsi un taxi. Capisce perfettamente tutto. Si leggeva e sentiva ovunque. Arriverà a casa, e per non contagiare la figlia, che abita di sotto, le lancerà dalla finestra il referto, dicendo solo: “Fammi giustizia”. Poche ore dopo, verrà a prenderlo un’ambulanza. E non lo vedranno mai più.

C’è il “condono” nel dl, il ministro Costa insorge

Allarme condono edilizio nel decreto di rilancio. Lo denuncia Angelo Bonelli, coordinatore nazionale dei Verdi. Ma il governo giura che non si farà: “Non accetterò mai un condono”, promette il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa (M5S). Oggetto del contendere la bozza del decreto, un documento di centinaia di pagine ancora molto magmatico. Ma ecco che, come è già avvenuto in passato, una manina ci ha infilato il tanto temuto condono. A pagina 701 si legge: “Al solo fine dell’attuazione dei piani attuativi di riqualificazione urbana… gli interventi edilizi già presenti sui territori interessati possono ottenere il permesso di costruire in sanatoria, se conformi ai predetti piani”. Ignoto l’autore.

Accanto, gli stessi uffici ministeriali annotano: “Il comma introduce una sorta di condono edilizio prevedendo che interventi edilizi già presenti sul territorio possono ottenere il permesso di costruire in sanatoria se conformi ai Piani Attuativi di Riqualificazione Urbana”. La parola ‘condono’ è contenuta negli stessi atti ufficiali. Immediato l’intervento di Bonelli: “Non avrei mai immaginato che questo governo facesse proprie le proposte di condono di Lega Matteo Salvini (che ha parlato di ‘pace edilizia’, ndr). La norma consente la sanatoria per gli immobili edificati abusivamente che risulteranno conformi ai piani attuativi alla data di presentazione della domanda. Così – sottolinea Bonelli – il governo presenta una norma identica a quella che fu approvata in Sicilia ai tempi di Rosario Crocetta e che fu bocciata dallo stesso governo nazionale: è una norma furba e scandalosa”.

Al ministero dell’Ambiente giurano di non essere gli autori dell comma: “Non ne sapevamo nulla. Non è stata annunciata, né concordata. Lo abbiamo saputo dai siti internet”. È già partita la caccia a chi l’ha inserita nella bozza. Voci di corridoio puntano il dito verso il ministero per gli Affari regionali. Intanto il sottosegratario all’Ambiente, Roberto Morassut (Pd), interviene per disinnescare la bomba. La norma? “Non l’ho vista, l’ho letta sulla stampa, ma non ho notizie di una misura simile”. Poi aggiunge: “È una follia. L’obiettivo di questo governo è mettere in campo risorse e portare una semplificazione per le opere a difesa del suolo, contro il dissesto idrogeologico e per bonificare il terreno inquinato”. Interviene il ministro Costa: “La ricostruzione deve passare per investimenti green, sostenibilità, economia circolare”. Stefano Lenzi, responsabile relazioni istituzionali del Wwf, commenta: “Le dichiarazioni di Morassut sono condivisibili. È bene che il governo tenga il punto, non si può associare il rilancio a condoni e sanatorie. C’è già chi vorrebbe sospendere il Codice appalti”.

Dal cambio al Dap solo una scarcerazione Le richieste anche prima della circolare

C’è perfino chi ha adombrato una nuova trattativa tra Stato e mafia ma le scarcerazioni legate al rischio coronavirus, in realtà, si sono già fermate o quasi. Nell’ultima settimana, tra il 2 e il 9 maggio ce n’è stata solo una. È andato ai domiciliari un detenuto del circuito “alta sicurezza AS3” e poiché sembra che non sia stato chiesto il parere obbligatorio della Dda, come prevede il decreto Bonafede di aprile, il Guardasigilli ha avviato accertamenti. Quest’unica scarcerazione è un dato significativo se si pensa che negli ultimi due mesi sono andati ai domiciliari 376 detenuti, quasi tutti del circuito “alta sicurezza” dove stanno gregari delle cosche e narcotrafficanti e solo tre mafiosi al 41 bis.

Come si spiega? Il 2 maggio, giorno del suo insediamento, il nuovo vice capo Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), Roberto Tarataglia, ex pm di Palermo, d’accordo con il ministro, dà l’input per una circolare ai direttori delle carceri affinché informino in tempo reale il Dipartimento e la Direzione nazionale antimafia di tutte le istanze dei detenuti al 41 bis. Al Dap “ sarà inviata altresì la relazione sanitaria”. Così ora il Dap monitora in tempo reale le istanze dei detenuti mafiosi e può intervenire tempestivamente se i giudici chiedono l’indicazione di una struttura sanitaria del circuito penitenziario. Evitando il “concorso di colpa” avvenuto nel caso dei domiciliari al boss dei Casalesi Pasquale Zagaria, per il quale il Dap non aveva indicato in tempo una struttura al tribunale di Sorveglianza di Sassari che, in autonomia, ha mandato il camorrista agli arresti nel Bresciano, zona rossa Covid.

È sempre la magistratura che decide, come da Costituzione. Non si può, dunque, attribuire la responsabilità delle scarcerazioni neppure alla circolare del 21 marzo voluta da Francesco Basentini, l’allora capo del Dap poi rimosso. Lì si chiedeva ai direttori delle carceri, in virtù della pandemia, di indicare ai giudici i detenuti con una serie di patologie e sopra i 70 anni. Compresi i mafiosi, che, registrati, la usano per chiedere agli avvocati di presentare istanze di scarcerazione, come documentato dal Fatto. Non ordinava affatto scarcerazioni, né avrebbe potuto, la circolare solo ricordava, in piena pandemia, l’articolo 11 dell’Ordinamento penitenziario che in caso di “sospetta di malattia contagiosa” richiede “interventi di controllo… compreso l’isolamento”. Che al 41 bis c’è già. Le istanze peraltro sono iniziate già prima. Quella di Pietro Pollichino, boss corleonese, è di dicembre ed è poi uscito ad aprile. Come un altro mafioso siciliano, Antonio Sudato, ai domiciliari già dal il 2 marzo.

Il Colle sul caso Di Matteo: “Fece tutto il Guardasigilli”

Isospetti e le allusioni, pervicaci e resistenti, aleggiano dall’inizio della settimana. Chi è il “Qualcuno” che avrebbe bloccato l’ascesa al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del magistrato Nino Di Matteo? E così mercoledì 6 maggio è stato Il Giornale per la firma di Augusto Minzolini a mettere al centro dei veleni il presidente della Repubblica. Sarebbe stato lui con la sua tradizionale moral suasion a bloccare la nomina del pm diventato simbolo del processo sulla Trattativa fra Stato e mafia, nel periodo di transizione fra la Prima e la Seconda Repubblica.

Per supportare la tesi, viene ovviamente ricordata la brutta e imbarazzante storia delle quattro telefonate distrutte tra Giorgio Napolitano, predecessore di Mattarella al Colle, e Nicola Mancino, l’ex ministro dc imputato poi assolto nel processo sulla Trattativa. Viene anche riportato un dettaglio che illumina meglio questa versione. È all’interno di una parte dei Cinque Stelle che alligna questo sospetto: “Il no a Di Matteo non è farina del sacco di Bonafede. È venuto da molto, molto in alto”.

Lo stesso 6 maggio, alla Camera, il Guardasigilli Alfonso Bonafede interviene durante il question time. L’occasione ideale per smentire, in Parlamento: “Nel giugno del 2018 non vi è stata alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo del Dap”. Il riferimento, trapela da ambienti della Giustizia, vale soprattutto per il Quirinale. Ma questo non basta a stroncare le allusioni. L’ultima è arrivata venerdì sera a Sono le venti, il tg di Peter Gomez sul Nove. Sul caso Di Matteo viene interpellato un grillino di rango: Nicola Morra, a capo della commissione parlamentare Antimafia. È lui a rilanciare la tesi del mandante istituzionale. Morra dice di “pensare a qualche precedente vertice istituzionale”. Continua: “È noto a tutti che il dottor Di Matteo nelle sue indagini sarebbe inciampato in alcune intercettazioni che poi, se non ricordo male, sarebbero state distrutte, salvo potersene trovare qualche copia forse a Caltanissetta e dintorni”. Gli chiedono di Napolitano e Morra risponde che “il riferimento è puramente voluto e intenzionale”.

Ancora la Trattativa, ancora le intercettazioni. Morra non cita Mattarella ma la tesi del mandante istituzionale si basa anche su una presunta e alquanto improbabile continuità tra l’attuale capo dello Stato e il suo predecessore. Laddove, nella gestione delle crisi politiche e di alcuni dossier delicati, è stata smentita in modo plateale. Epperò quando si parla di “manina dall’alto” in questo caso scoppiato una settimana fa nella trasmissione di Giletti su La7, l’ala irriducibile del grillismo filo-Di Matteo pensa spesso al Colle più alto.

Ed è per questo che al Quirinale apprendono con fastidio e irritazione le allusioni sul “Qualcuno” che avrebbe bloccato la nomina del pm al Dap. Si ripete che “il presidente non entra mai nelle scelte di ogni singolo ministro e che Bonafede non ha mai consultato il Quirinale”. Ma soprattutto si ricorda il contesto in cui avvenne il 27 giugno l’investitura di Francesco Basentini, altro magistrato, all’epoca procuratore aggiunto a Potenza. Nei giorni precedenti c’erano stati gli incontri tra Di Matteo e Bonafede ed erano uscite le intercettazioni sui boss “preoccupati” per la possibile nomina del pm di Palermo al Dap. Il nome di Di Matteo, poi, era già circolato come probabile ministro o sottosegretario del primo governo di Giuseppe Conte. Ed è proprio la nascita dell’esecutivo gialloverde il contesto richiamato dal Colle. Il 27 maggio, infatti, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista chiedono pubblicamente l’impeachment di Sergio Mattarella per la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’Economia. Ergo, un mese dopo i rapporti tra il capo dello Stato e i Cinque Stelle, compreso il premier Conte, sono riassumibili nella classica formula del “grande gelo”. Non solo. A distanza di poche settimane dall’affaire Savona con la richiesta d’impeachment, Mattarella si sarebbe messo a brigare contro Di Matteo, aprendo un altro fronte di guerra nei Cinque Stelle?

Boss scarcerati, c’è il decreto “Ordinanze da rivalutare”

Verso il ritorno in carcere dei mafiosi e dei loro gregari, ai domiciliari per supposto aumento del rischio coronavirus, da quando in Italia è stato proclamato lo stato di emergenza sanitaria. Il governo, ieri sera, ha varato durante un Cdm straordinario, un decreto ad hoc voluto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Ora i giudici possono rivedere le loro decisioni perché avranno per decreto indicazioni certe sulle strutture sanitarie disponibili, legate al circuito carcerario, per evitare che i mafiosi restino, o vadano ai domiciliari, assicurando comunque loro il diritto alla salute.

Il via libera c’è stato prima dell’intervento del ministro alla Camera, martedì, per una informativa in merito e prima del voto di sfiducia personale per la mozione del centrodestra presentata giovedì in Senato, nonostante Bonafede avesse annunciato questo provvedimento e avesse dimostrato, durante il question time sulla mancata nomina a capo del Dap di Nino Di Matteo, nel 2018, che la sua decisione non avesse nulla a che fare con i timori esternati dai boss in carcere, dell’arrivo al Dap del pm antimafia.

È vero che per il ritorno in carcere dei boss la decisione finale non può che spettare alla magistratura, la cui indipendenza è garantita dalla Costituzione, ma il segnale del governo è chiaro: nessun ammorbidimento o ammiccamento verso la mafia. Tantomeno da parte del ministro Bonafede, che ha pure voluto il decreto di aprile con il quale ha reso obbligatorio il parere dei pm antimafia sulle istanze dei detenuti. Previsto pure un rafforzamento del ruolo del Dap, il dipartimento affari penitenziari. Nella sostanza, come anticipato dal Fatto, si dà ai giudici una normativa dettagliata per rivalutare le loro ordinanze che hanno portato a casa, dall’inizio dell’emergenza, 376 mafiosi. Gli strumenti forniti dal decreto valgono naturalmente anche per le decisioni che i giudici devono prendere in merito a partire da oggi.

La premessa che si legge nel testo riguarda i motivi del decreto che, come si sa, è un provvedimento per natura d’urgenza: “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, di persone detenute” per mafia, terrorismo e traffico di droga, “il magistrato di sorveglianza, o il Tribunale di sorveglianza che ha adottato il provvedimento, acquisito il parere del Procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo” per i detenuti al 41-bis “valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria” entro 15 giorni dall’adozione del provvedimento di scarcerazione e poi ogni 30 (per le ordinanze già emesse il calcolo scatta dalla data del decreto).

Ma questi tempi saltano e il giudice può fare una valutazione immediata se il Dap “comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto” o di chi è ai domiciliari. Prima della decisione, l’autorità giudiziaria deve sentire il presidente della Regione competente “sulla situazione sanitaria locale e acquisisce” dal Dap le informazioni “in ordine all’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta” in modo che il detenuto scarcerato “può riprendere la detenzione” senza rischi per la sua salute. Se le istanze da rivalutare riguardano imputati, tocca al pm attuare la procedura appena indicata per poi trasmetterla al giudice competente per la decisione. Ma se il giudice non ha ricevuto le informazioni necessarie, “può disporre, anche d’ufficio” accertamenti sulle condizioni di salute dell’imputato.

Infine, nel decreto si stabilisce pure la “fase 2” per i colloqui in carcere, finora sospesi per il rischio contagio. Dal 19 maggio e fino al 30 giugno, i direttori delle carceri, anche per minorenni, “sentite le autorità sanitarie regionali” stabiliscono “il numero massimo di colloqui” di persona, “fermo il diritto” dei detenuti ad almeno un colloquio al mese con una persona.

Il capo dei rapitori fuggito e i balordi rimasti in Kenya

Nairobi

Una cosa è certa: Ibrahim Adhan Omar, Moses Luari Chende e Abdulla Gababa Wario fanno parte del commando che il 20 novembre 2018 ha rapito Silvia Romano nel povero villaggio di Chakama, in Kenya a un centinaio di chilometri da Malindi. Con loro altre quattro o cinque persone da allora irreperibili. Balordi Moses e Abdulla, capobanda invece Ibrahim Adhan Omar che avrebbe pianificato l’assalto e il rapimento.

L’unico veramente pericoloso, Ibrahim, è stato arrestato a metà dicembre 2018 in un villaggio vicino Garissa. Nel suo covo i poliziotti hanno trovato un kalashnikov e un paio di casse di munizioni. Non è riuscito a dare una spiegazione plausibile ed è stato arrestato. Le prime indagini hanno appurato che era un cittadino somalo che aveva ottenuto i documenti kenioti corrompendo la commissione preposta a concedere naturalizzazioni e cittadinanze. Nonostante un cospicuo curriculum di reati di tutto rispetto, in galera c’è rimasto poco: dopo aver pagato una cauzione pari a 25 mila euro (una cifra esorbitante da quelle parti) è stato rilasciato. Ha partecipato a un’udienza del processo e poi è sparito.

La decisione della Corte di Malindi e della giudice Julie Oseko di concedere la libertà su cauzione era stata criticata duramente dalla rappresentante della pubblica accusa, Alice Mathagani e dal capo della polizia, incaricato delle indagini, Peter Gachaja Murithi, che in un colloquio con il Fatto Quotidiano avevano esclamato quasi all’unisono: “Ma è una violazione della legge concedere la possibilità di pagare e uscire di galera. L’incriminazione è troppo grave e non permette questa scappatoia”.

Infatti, una volta fuori di galera, Ibrahim aveva fatto perdere le sue tracce. Peter Gachaja aveva sommessamente avanzato l’ipotesi che l’accusato potesse essere stato ucciso per non farlo parlare dei dettagli del rapimento. Dal canto suo Alice Mathagani aveva definito il sequestro “su commissione”. A tutt’oggi di lui non si sa più nulla.

Anche la fedina penale di Moses Luari Chende è di tutto rispetto. Era stato trovato con le mani nel sacco con una banda di bracconieri a caccia di elefanti. Probabilmente per questo è stato arruolato dai rapitori. Conosce molto bene i territori a cavallo tra la Somalia e il Kenya e si muove come un pesce nell’acqua nell’impenetrabile foresta di Boni al confine tra i due Paesi, dove è stata portata Silvia subito dopo il rapimento. Per i suoi servigi Moses avrebbe dovuto essere ricompensato con 100 mila scellini, più o meno 900 euro, ma invece gli altri banditi, la notte del rapimento, l’avevano abbandonato nella foresta con un “ci vediamo domani” ed erano spariti. Questo racconto l’ha fatto alla polizia quando a metà dicembre era stato catturato e gettato in guardina. Anche lui ha pagato la cauzione (sempre 25 mila euro), è tornato in libertà, ma a differenza di Ibrahim non è scappato. “L’abbiamo messo sotto torchio – diceva alla polizia – ma non ci ha raccontato nulla”.

Il terzo uomo, Abdulla Gababa Wario , sembra invece sia stato arruolato come pura manovalanza. Conosciuto dalla polizia keniota per piccoli furti e altri reati è l’unico che non è riuscito a trovare un amico pronto a pagare la cauzione. E così è rimasto in galera tutto il tempo senza riuscire neanche a spiegare perché faceva parte del commando.

Nell’inchiesta del Fatto Quotidiano erano emerse due tesi sulla sorte di Silvia: quella catastrofista dell’esercito, secondo cui la ragazza era morta e c’era da mettersi l’anima in pace, e quella degli inquirenti, la pubblica accusa e la polizia, che non hanno mai smesso di pensare che Silvia fosse viva. Per loro, subito dopo il rapimento, la volontaria è stata tenuta prigioniera in Kenya. Le frontiere erano sigillate. Quando la sorveglianza si è allentata è stata trasferita in Somalia a un primo gruppo, ma è rimasta nel sud dell’ex colonia italiana. Solo più tardi è stata portata verso Mogadiscio, nella zona della città portuale di Merca. Lì, turchi e somali l’hanno trovata.