La prima richiesta in ambasciata: “Vorrei una pizza”

Le prime parole di Silvia Romano dopo un anno e mezzo di prigionia sono di felicità, orgoglio e coraggio: “Sono stata forte, ho resistito”. La prima richiesta invece è stata di mangiare finalmente una pizza calda. Dopo la liberazione la ragazza milanese è stata portata in un compound delle Nazioni Unite e infine trasferita a Mogadiscio, dove l’ha accolta l’ambasciatore Alberto Vecchi. Per cena, ha chiesto se poteva avere il piatto che le è mancato di più: il primo piccolo passo verso il ritorno alla normalità.

La ragazza ovviamente è provata, ma le sue condizioni di salute sono confortanti: sta bene fisicamente e psicologicamente. Dall’ambasciata ha finalmente chiamato a casa: è tutto vero, sta tornando. Oggi arriva a Roma, atterra a Ciampino con un aereo dell’Aise verso le 14. Ad accoglierla ci sarà il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, con cui ha parlato al telefono qualche ora dopo la liberazione: “Siamo tutti molto felici – le ha detto – la Farnesina è sempre stata in contatto con la tua famiglia, saremo in aeroporto ad accoglierti”.

L’ultima fatica è l’approdo in un paese chiuso, assediato dal Coronavirus da oltre due mesi. L’attende subito un’audizione: tra i primi volti che vedrà ci sono quelli dei pm di Roma che indagano sul suo rapimento, guidati da Sergio Colaiocco, il titolare del fascicolo. A loro racconterà per la prima volta i dettagli di questi mesi vissuti da ostaggio. Il colloquio, ovviamente, sarà effettuato nel rispetto di tutte le normative anti Covid. Mascherine e distanziamento: chissà quanto dev’essere straniante per questa ragazza, dopo tutto quello che ha vissuto, essere calata nella vecchia Italia in questo nuovo stato. Ma adesso è il momento della festa.

Ieri è stato quello delle celebrazioni istituzionali. L’annuncio a sorpresa è arrivato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, su Twitter, alle ore 17 e 17: “Silvia Romano è stata liberata! Ringrazio le donne e gli uomini dei servizi di intelligence esterna. Silvia, ti aspettiamo in Italia!”. Poi tutti gli altri, e su tutti il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “La notizia della liberazione di Silvia Romano è motivo di grande gioia per tutti gli italiani. Invio un saluto di affettuosa solidarietà a Silvia e ai suoi familiari, che hanno patito tanti mesi di attesa angosciosa. Desidero esprimere riconoscenza e congratulazioni agli uomini dello Stato che si sono costantemente impegnati, con determinazione e pazienza, tra tante difficoltà, per la sua liberazione Bentornata, Silvia!”.

Esaurite le cerimonie, finalmente Silvia Romano uscirà dalla dimensione pubblica e sarà restituita alla sua giovanissima vita privata. Oggi torna a casa, torna a Milano. L’attende un quartiere in festa. Soprattutto una mamma, un papà e una sorella che hanno vissuto per tutti questi mesi senza respirare davvero. Il padre Enzo ha chiesto di essere lasciato in pace dopo aver ricevuto la notizia più bella della sua vita: “Ora ho solo bisogno di pensare, di ragionare, finché non la vedo non mi sembra vero, è un momento delicato. La felicità è talmente grande che scoppia”. Sua madre Francesca ha attaccato un cartoncino sulla porta di casa: “Bentornata Silvia”. La potrà riabbracciare proprio nel giorno della festa della mamma.

Il quartiere dove vive Silvia Romano – vicino a via Padova, la strada simbolo della Milano multietnica – ha già iniziato i festeggiamenti per la liberazione. Nella sua via si sono affacciati in decine ai balconi, hanno messo a tutto volume le sue canzoni preferite – Jovanotti, Ghali, 883 – e la parrocchia di quartiere ha fatto suonare le campane. Dietro casa sua, all’angolo tra via Casoretto e via Mancinelli, c’è un grande murales dedicato a Fausto e Iaio, due ragazzi del centro sociale Leoncavallo ammazzati in strada proprio lì, da un gruppetto di neofascisti. Sotto le loro immagini c’è scritto: “La speranza muore ancora a 18 anni?”.

Stavolta no: la speranza vive.

I tre covi, il video e poi il riscatto “Silvia è libera”

Dopo 536 giorni di silenzio, depistaggi, sgomento e infine speranze, Silvia Romano, la volontaria milanese rapita da una banda di criminali in un villaggio in Kenya il 20 novembre del 2018, è stata liberata. Gli ultimi sequestratori del gruppo jihadista Al-Shabaab, un’organizzazione somala affiliata ai terroristi di al Qaeda, ha consegnato Silvia a un contatto locale individuato dall’Aise del generale Luciano Carta, l’agenzia per i servizi segreti esteri.

Il fango e l’ultima notte con i sequestratori

A una trentina di chilometri da Mogadiscio, Capitale della Somalia, in un territorio impervio e fangoso, venerdì notte è avvenuto lo scambio: il rilascio dell’ostaggio dopo il pagamento di un riscatto. Gli agenti italiani l’hanno trasferita in luogo sicuro delle Nazioni Unite e poi nella sede dell’ambasciata dove ha cenato e dormito. Questa mattina un aereo degli 007 riporterà a Roma la giovane di 24 anni che ha lavorato a numerosi progetti per l’infanzia in Kenya come cooperante della onlus “Africa Milele”.

Ieri alle 17:17, mentre Silvia era già con l’ambasciatore Alberto Vecchi, il premier Giuseppe Conte ha diffuso la notizia con un tweet e, nelle poche righe che concede lo strumento di comunicazione adottato, ci ha tenuto a ringraziare l’Aise. Il generale Carta non poteva preparare un congedo migliore. Nominato dal ministero del Tesoro presidente della multinazionale Leonardo, l’ex Finmeccanica, lascia la direzione dell’agenzia, dopo un anno e mezzo di mandato, con un’operazione esemplare.

Sei mesi fa il filmato della speranza

I servizi italiani hanno collaborato con i colleghi turchi, sempre ben radicati in scenari complessi per interessi politici e religiosi come quello somalo. La sponda di intelligence da Roma a Ankara, corroborata dai rapporti più che cordiali tra le rispettive strutture diplomatiche, ha permesso di rintracciare Silvia lo scorso novembre e di constatarne, con un filmato, le discrete condizioni di salute. In quel momento era una informazione non scontata perché la ragazza ha vissuto in almeno tre covi e sotto il giogo di più aguzzini. Sciacalli di ogni risma hanno cercato di vendere soffiate fasulle, si è parlato di uccisione, ferimenti, malattie.

L’Aise non ha abboccato e, con ragionevole certezza, ha sempre sostenuto che fosse in vita. A novembre ne è stata fornita una prova, proprio da Al-Shabaab.

Le pretese di Al-Shababb Il lavoro della Farnesina

Allora con la massima discrezione, l’Aise e i turchi hanno tentato di instaurare una trattativa con il gruppo terroristico che pare avesse “comprato” l’italiana dai kenioti. L’abilità dei turchi e la loro conoscenza degli equilibri somali hanno consentito all’Aise di avviare un negoziato sicuro ed escludere ipotesi di un intervento armato. Buoni auspici con un margine di rischio per le pretese di Al-Shababb.

Finché Silvia non ha rivisto la luce e ha potuto parlare italiano con gli 007 arrivati per da Roma per salvarla.

Qualche minuto dopo Conte è intervenuto anche Luigi Di Maio. Il ministero degli Esteri si è congratulato con l’Aise e con la Farnesina. A dicembre Di Maio ha telefonato ai genitori di Silvia. Dal governo non si ricordano molte chiamate. Ieri si è verificato, però, il solito profluvio di comunicati della politica e così la nebbia su chi ha agito davvero s’è fatta più fitta, di sicuro la Farnesina non ha smesso di occuparsi mai della giovane milanese.

Stefano Verrecchia, il capo dell’unità di crisi, ha aggiornato con frequenza i genitori di Silvia. E una settimana fa, vicinanza temporale non casuale, Di Maio ha sentito Mevlut Cavasoglu, il ministro degli esteri di Ankara. Già a fine aprile i servizi segreti italiani, col supporto logistico dei turchi, erano riusciti a siglare un patto con gli islamisti. Il piano era stato autorizzato, si doveva soltanto procedere. L’ultimo passaggio, il più delicato.

L’ultima missione di Carta, ora il cambio

Oggi Silvia atterra allo scalo di Ciampino. Poi il governo Conte dovrà gestire la successione di Carta all’Aise. Ieri la politica, di maggioranza e di opposizione, ha celebrato l’Aise seppur ci sia la spiacevole coincidenza dell’uscita anticipata del suo vertice. Il governo, però, è intenzionato a una soluzione di continuità con la promozione di Gianni Caravelli. Generale di Corpo d’armata dal 2017 e vicedirettore all’Aise dal 2014, Caravelli ha una robusta carriera nell’intelligence e una profonda conoscenza dei Paesi più importanti per la geopolitica italiana, come la Libia e le sue mille fibre. È l’Aise di Carta e Caravelli che ha conservato canali privilegiati con i libici mentre il governo sonnecchiava con una guerra davanti alle porte di casa.

Il Giornalissimo

Il decreto Semplificazione non è stato neppure scritto, e già produce il suo primo, balsamico effetto: l’accorpamento dell’intera stampa italiana in “un unico grande giornale” (Nanni Moretti, Aprile).

Tutti esultano a edicole unificate per lo storico trionfo del Mes, che regalerà all’Italia – signore mie – ben 36 miliardi restituibili – venghino siori venghino – in 10 anni di comode rate e – udite udite – a un interesse di appena 0,1% e – mi voglio rovinare – senza condizioni salvo quella di fare la sanità più bella e superba che pria. Praticamente re-ga-la-to! L’han detto Gentiloni, Dombrovskis, Sassoli e l’Eurogruppo, confermati dagli autorevoli B., Zingaretti, Innominabile, Faraone, fra i gridolini di giubilo di Maurizio M’annoi e dei cipressetti delle rassegne Sky, dunque dev’essere vero. Pazienza se è un prestito che aumenta il debito, se il governo si batte per centinaia di miliardi a fondo perduto (Recovery Fund), se i trattati sulle condizionalità pre e post Mes son sempre lì. Fidiamoci sulla parola, che diamine. Dunque Conte e Gualtieri volino a Bruxelles col primo aereo per incassare il prezioso assegno. Quale miglior segnale di solidità ai mercati che sgomitare per arrivare primi con la mano tesa a cucchiaio e vincere il premio Accattone dell’Anno?

Tutti (o quasi) ricordano il grande giurista scomparso Franco Cordero come accusatore e battezzatore del “Caimano” e tante altre belle cose. Ne dimenticano solo due che, guardacaso, sono sfuggite proprio a tutti: le feroci critiche a Napolitano per la rielezione e per le interferenze nell’inchiesta Trattativa e quelle a Renzi per la controriforma costituzionale, che valsero al prof una bella censura del suo (ormai ex) giornale Repubblica. Dicesi rimozione selettiva collettiva.

Tutti scambiano il ministro della Giustizia per un giudice di sorveglianza. Il Giornale titola: “Così Bonafede ha scarcerato i mafiosi”. Invece, sul Foglio, Salvatore Merlo scrive che Bonafede “scarcera 3 boss della mafia”. Su Repubblica, al contrario, Stefano Folli scrive che la “responsabilità oggettiva delle scarcerazioni” non è dei giudici che le hanno firmate, ma di Bonafede. Viceversa, il direttore di Libero Pietro Senaldi scrive che “Bonafede scarcera”. Sempre fuori dal coro Mattia Feltri, che su La Stampa scrive dei “famosi 376 boss scarcerati da Bonafede”. Almeno lui, fino a dieci giorni fa, non dirigeva nulla. Ma l’hanno subito promosso direttore dell’Huffington Post. Altro che Stampubblica. Questa è Stampubblicagiornaliberhuffingtonfoglio. In attesa del Governissimo, ci portiamo avanti col Giornalissimo.

Julio Velasco, il “professore” che non aveva paura di vincere

Inventare una nuova parola è un’esigenza che nasce di fronte a uno spettacolo inaudito, che le conoscenze pregresse non sono in grado di definire. Per ciò, si avocano a sé significati già esperiti e li si plasma per creare nuovi modi di dire. Se, però, la linguistica spiega la genesi dell’espressione “generazione di fenomeni” (coniata dal telecronista Jacopo Volpi nel 1994) e riferita alla nazionale italiana di pallavolo maschile che dal 1989 al 2000 ha mietuto una serie di successi inediti per qualsiasi altra squadra, è Julio Velasco (allenatore-filosofo, chiamato “il professore”) il vero detonatore dell’essenza di quei fenomeni, bravi giocatori presi singolarmente che lui fonde insieme, cambiandone la mentalità: “Vincere significa superare i propri limiti”.

Il gruppo. I potenti schiacciatori Bernardi e Cantagalli, i pilastri al centro Gardini e Lucchetta, il regista e palleggiatore Tofoli e infine il battitore libero Zorzi. Al sestetto titolare ne va aggiunta un’altra decina (De Giorgi, Giani e Galli tra gli altri) sempre pronta a dare il proprio contributo in campo. Alla sua irripetibile e luminosa stagione è dedicato l’appassionato docu-libro La squadra che sogna (66 thand2nd, pp. 200, euro 16) del giornalista Giuseppe Pastore.

1989. All’Europeo in Svezia tutto inizia. Velasco parla chiaro con gli azzurri: hanno “gli occhi di mucca” (troppo buoni), lui invece vuole “gli occhi della tigre” per trionfare. Basta con “la cultura degli alibi” in cui spesso cade l’atleta che cerca di scaricare sugli altri la colpa dell’errore; e soprattutto basta con “la paura di vincere”, il timore delle responsabilità che ti reca la vittoria. Una dopo l’altra, L’Italia sbaraglia le grandi (Unione Sovietica, Francia e Olanda) e vince in finale contro i padroni di casa il suo primo titolo europeo.

1990. Il Mondiale in Brasile dice al mondo chi siamo. Nessuno avrebbe scommesso sul percorso dell’Italia. Allo stadio del Maracanãzinho a Rio de Janeiro, durante la semifinale contro i padroni di casa, 20.000 spettatori fischiano appena gli azzurri toccano palla. Combattiamo: 2 set pari. Ci vuole un punto a sorpresa: Cantagalli è caldo, tutte le alzate di Tofoli vanno a lui. Così, al set-point, il muro avversario è quasi schierato di fronte. Ed ecco che Tofoli sbaraglia tutti: primo tempo a Lucchetta e via, siamo in finale contro Cuba. Al primo set con i cubani tornano gli occhi di mucca e sentiamo già l’argento in tasca: 1-0 per loro. Velasco pungola i ragazzi che, pareggiano e vincono contro la squadra più forte del mondo, con un’ultima lunga azione al cardiopalma. Il capitano Gardini, le braccia al cielo, sale sul trespolo dell’arbitro.

1994. Dopo un altro oro europeo nel ’93 (e altri successi), gli azzurri di Velasco arrivano ai Mondiali in Grecia per doppiare l’oro. Il tragitto è senza ostacoli fino alla semifinale dove incontrano i cubani assetati di vendetta. L’Italia non ha paura e da metà match, scrive Pastore, “inizia a grandinare”: sassate e schiacciate dei nostri ci portano in finale contro l’Olanda. Lì, anche se il punto finale sarà un ace di Cantagalli, il trascinatore è Bernardi che “picchia come un batterista metal”. Secondo Oro mondiale successivo.

1996. L’era Velasco finisce con l’amaro argento alle Olimpiadi di Atlanta. Tuttavia, la generazione di fenomeni da lui creata vincerà il terzo titolo mondiale consecutivo nel 1998, divenendo la squadra più forte del XX secolo e rendendolo l’inventore di una nuova pallavolo.

Dal “Caimano” ai romanzi: Cordero, il giurista letterato

È un pomeriggio di maggio del 2011 a Torino. C’è il Salone del libro, una fila ordinata aspetta davanti alla Sala gialla. È una folla di ragazzi in scarpe da ginnastica e pensionati (gli assembramenti sono consentiti). C’è, bizzarra presenza a una manifestazione culturale, un gruppo di agenti della Digos: sono in borghese ma perfettamente riconoscibili. Uno si avvicina a noi con il cartellino stampa al collo: “Ci potete indicare Franco Cordero?”. L’oratore tanto atteso è in disparte. Al nostro cenno, il poliziotto sorride incerto: “Sicuri?”. Sì, è proprio quel signore magro con la camicia scozzese a quadretti e il cardigan vintage ad aver mobilitato tutti quegli agenti. È successo che l’apparentemente innocuo professore di Cuneo ha fatto arrabbiare il presidente del Consiglio allora in voga, Silvio Berlusconi, con un pezzo su Repubblica, il giornale su cui scrive da tanti anni. L’Olonese, il signor B. Soprattutto il “Caimano”, soprannome con cui l’ha marchiato per sempre con implacabile intelligenza. L’ha fatto così incazzare che la polizia è accorsa temendo sommosse. “La metafora del caimano coglie la potenza biologica, monolitica dell’individuo: può essere solo così. E va avanti non a colpi di raziocinio, ma guidato da riflessi. Come lo squalo, il caimano non sbaglia l’azzannata”, aveva spiegato una volta al Fatto.

Ieri – è un annus davvero horribilis – il professor Cordero, 91 primavere, ha chiuso gli occhi. Non si può riassumere la sua vita in poche righe, se non per cenni (e lui, ovunque sia, ci perdonerà l’approssimazione). È stato il genio della Procedura penale (l’unico a potersi permettere d’insegnare senza esercitare), l’autore del manuale universitario che ha spaventato e illuminato tanti studenti. Scriveva con una densità impervia, colta, sfacciata. Ha portato l’Università Cattolica davanti alla Corte costituzionale, negli anni 70: era stato rimosso dalla cattedra di Filosofia del diritto, troppo libero per i canoni. Capitò anche a Emanuele Severino, filosofo della stessa generazione, di cui ci ha privati questo infame 2020. Contro la Cattolica Cordero aveva perso, ma a ben vedere aveva vinto rispondendo con la fulminante Lettera a monsignore, un libretto di istruzioni che dovrebbe tornare in libreria nella sezione anticorpi al virus del conformismo. La libertà intellettuale il prof l’ha esercitata con pervicacia, incurante delle critiche di chi lo accusava di snobismo per gli articoli troppo “difficili”. Il destinatario delle contestazioni non aveva ragioni di opportunità: Cordero è stato uno dei pochi a mettere in discussione Neapolitanus rex, tra gli applausi della rielezione, ancor prima nell’imbarazzante capitolo della trattativa Stato-mafia. Ha combattuto B. con decine di interventi ferocemente eleganti, troppo ricercati perché il barzellettiere li considerasse pericolosi (sua l’intuizione del golpe al ralenti). Ma, sembrano passati secoli, c’è stato un tempo in cui quando parlava Cordero la suprema autorevolezza metteva l’anestetizzato conclave degli intellettuali sull’attenti. A mister B. quei libri di una casa editrice sofisticata (Bollati Boringhieri) dai nomi complicati (Il brodo delle undici, l’ultimo pasto del condannato, L’opera italiana da due soldi) non facevano paura. Poi in quel maggio 2011, in occasione dell’uscita di un formidabile commentario al Discorso di Leopardi, un’anticipazione su Repubblica aveva scosso le sinapsi del Caimano (compariva, in un ragionare naturalmente complesso, il nome di Hitler).

I nostri lettori sanno quale debito abbiamo nei confronti di Franco Cordero: lo siamo andati a trovare tutte le volte in cui i poteri cercavano, con uno sgambetto, di minare lo Stato di diritto. Il suo studio, adiacente Termini, metteva soggezione per quanti volumi (ordinatissimi) occhieggiavano dalle pareti. Pochi sanno che l’uomo più erudito che abbiamo conosciuto amava nuotare (tutte le mattine cinquanta vasche); che adorava la sua famiglia con il pudore dei tempi in cui era cresciuto; che ha coltivato (da Opus, 1972) una passione forsennata per la narrativa. L’ultimo romanzo non ha avuto il bene di vederlo uscire, per un pugno di giorni: La tredicesima cattedra dal 21 maggio sarà in libreria per la Nave di Teseo.

Il boiardo del rock con l’avvenire alle spalle

Alle cinque della sera del 13 luglio 1985, Bono si scaraventò giù dal palco del Live Aid. Un salto di tre metri. Atterrò a un niente dalle mie scarpe nel pit degli addetti ai lavori, i pochi privilegiati tra i 72mila accalcati nel vecchio, glorioso stadio di Wembley. Il frontman degli U2 si era deciso per quell’incosciente acrobazia dopo aver tentato a lungo, nel mezzo dell’esecuzione di Bad, di far tirare fuori dalle transenne una ragazza che, a suo dire, rischiava di finire schiacciata. Ma gli steward non capivano, e subito altre giovani astute si sbracciavano per essere “salvate”. La situazione stava precipitando, così Bono ruppe gli indugi per portare in zona sicura una quindicenne, Kal Khalique, fan degli Wham. La ragazzina e il suo eroe restarono a lungo abbracciati, in un gesto di alta portata simbolica, un trucchetto “bonista” da replicare mille volte nei live: la barriera con il pubblico era stata infranta, davanti a più di un miliardo di telespettatori collegati in diretta intercontinentale.

Solo che gli altri tre della band, rimasti lassù, lo avevano perso di vista: e mentre il mondo osservava il cantante alle prese con l’estemporaneo rito, The Edge, Larry e Adam continuavano a suonare la sofferta Bad, sperando nella ricomparsa di quel pazzo. Ma a quel punto il loro slot nella ferrea scaletta si era esaurito: toccava ai Beach Boys da Philadelphia. E gli U2 quel giorno si giocavano il gran salto da gruppo di culto a superstar globali: la trovata del frontman aveva impedito loro di proporre al Live Aid proprio il brano-chiave Pride, l’osanna a Martin Luther King. Nel backstage di Wembley ci fu un solenne cazziatone della band a Bono, minacciato di licenziamento. A consolarlo – vidi la scena con i miei occhi – pensò Freddie Mercury, che – un’ora prima della portentosa performance con i Queen – mise un braccio attorno alla spalla di Bono e gli disse: “Non preoccuparti, oggi hai spaccato, diventerete i più grandi”.

La profezia si avverò: nel giro di venti minuti, complice l’evento mediatico organizzato da Bob Geldof, lo status degli U2 si era evoluto in modo esponenziale. Avevano iniziato il set con Sunday Bloody Sunday, – la furente commemorazione dell’eccidio di Derry del ‘72, i 13 manifestanti uccisi dai parà inglesi – che aveva legato la band di Dublino alla memoria dei Troubles che insanguinavano l’Isola di Smeraldo; alla fine di quel giorno irripetibile erano diventati alfieri planetari di un combat rock in nome della pace, della lotta alla povertà, di ogni buona causa praticabile. E sì, sarebbero diventati i più grandi. L’America fu conquistata due anni dopo, con il capolavoro The Joshua Tree, che pescava nello scrigno prezioso del blues, del gospel, del r’n’r dei Padri. Nell’Europa post-Muro del ’91 il loro dominio fu riconfermato con la futuribile, alienata elettro-rock-dance di Achtung Baby!. Musicalmente gli U2 finirono lì. Il problema era che Bono, anno dopo anno, si smarcava dal ruolo di puro “artista” per diventare una figura ingombrante nel coté politico-economico, un rompicoglioni a caccia di uno strapuntino ai tavoli del Potere, il jolly di ogni lobby trasversale, il satrapo che usa il suo carisma per un precario dialogo tra le Fedi, il boiardo del rock disposto – parole sue – “a stringere la mano pure al diavolo, per arrivare allo scopo”. E lo ha fatto, diventando amico di Bush jr. dopo averne perculato il padre guerrafondaio nel Zoo Tv Tour, lo stesso dove, nei panni del satanico “MacPhisto”, telefonava in viva voce ai leader del mondo, dal Papa a Buckingham Palace fino a Craxi.

È stato socio dei Gates, ha infilato a forza un debole album degli U2 nel download gratuito della Apple, ha comprato quote di Facebook e di Forbes, ha brigato con i capitali di ventura e messe in pratica le dritte di Jeffrey Sachs. I suoi occhiali da mosca brillavano ai summit di Davos; predicava il taglio del debito ai paesi poveri al tragico G8 di Genova. Con gli U2 era stato il primo a portare fiori al Bataclan. Ha investito nel whisky: in questo gli irlandesi sono maestri, come insegnava Joseph, il patriarca Kennedy. A Dublino lo venerano per il Pil legato al turismo, ma gli imputano la soluzione fiscale in Olanda. Dice: “Il fatto che io sia un attivista non significa che sia stupido come businessman”.

Nel tempo del lockdown ha fatto capolino con una versione casalinga dell’inedita Let your love be known, ispirata dall’eroismo dei medici italiani, poi rifatta dal sodale Zucchero. Domani Bono compie 60 anni. Con la speranza che non si ritrovi a celebrare un grande avvenire dietro le spalle.

“Eucaristia coi guanti? Non siamo in pescheria”

A messa si potrà tornare. “Finalmente”, titolava ieri Avvenire in prima pagina, perché le trattative sono durate settimane e per quanto iconica fosse l’immagine del Papa in piedi, da solo, sotto la pioggia di San Pietro, la Chiesa rivendica il suo valore comunitario. Tutto a posto, dunque? Non proprio. Perché non c’è Fase 2 senza sicurezza, neanche sull’altare e tra le panche, tanto che le messe ripartiranno solo con adeguate misure anti-contagio. Gli ingressi, per esempio, sono contingentati. Il coro proibito. L’eucaristia si fa con i guanti. E qui c’è un problema teologico, ben più che tecnico/scientifico, perché se il sacerdote utilizza la protezione per dare l’ostia al fedele, quel guanto avrà toccato ipso facto il Corpo di Cristo, e allora mica lo si potrà gettare nell’immondizia come un residuo di plastica qualsiasi, magari sopravvissuto alla spesa dal fruttivendolo.

Si badi: la polemica potrebbe apparire astratta, ma in realtà divide il mondo cattolico. Ieri La Nuova Bussola Quotidiana, giornale riconducibile alla destra cattolica, se l’è presa con l’accordo tra Stato e Cei: “Con i guanti obbligatori si costringe i preti a commettere profanazioni e discriminazioni nell’amministrare i sacramenti”. E ancora: “Che cosa facciamo dei frammenti di particola, che è Corpo di Cristo? Li gettiamo nel cestino? Sembra scorgere nelle misure del protocollo accortezze ben più stringenti di quelle che sono state imposte in questi due mesi nei supermercati dove non esistono particolari precauzioni per accedere al banco del pesce”. Anche perché, diciamolo, “un conto è prendere con i guanti un mazzo di rapanelli, altro il Corpo di Cristo”.

La questione ha persino radici storiche. Chi si chiedesse se esista un manuale ecclesiastico sul corretto modo di comunicarsi può trovare sollievo in alcune opere antiche, d’improvviso utili a districarsi nella Fase 2.

A parlar di guanti fu per esempio monsignor Carlo Giovacchino Colbert, vescovo di Montpellier che nel 1770 diede alle stampa il suo Catechismo per spiegare “l’istoria e le dottrine particolari della religione”. Alla lezione “vigesimaquinta” si leggono le buone norme per entrare nel confessionale: “Bisogna levarsi i guanti e la spada, farsi il segno della croce, chiedere la benedizione”. Ancor più al caso nostro fa la Dottrina Cristiana di Giuseppe Domenico Boriglioni, fondatore della “Congregazione della Dottrina cristiana” in Avignone, anno 1821: “Cosa si ha da fare nell’atto di comunicarsi? Ginocchioni senza guanti, senza armi e senza bastone”.

E pure se un tempo non c’era il Covid, ci sono state pandemie ancor più terribili. Raccontano le cronache che, in tempi di peste, il fedele venisse imboccato dell’ostia attraverso una canna che teneva a distanza il parroco. Non vi è notizia, però, di un dibattito cattolico su come smaltire la suddetta canna, insolito strumento di mediazione tra l’umano e il Corpo di Cristo come oggi è il guanto. In mancanza d’altro, toccherà affidarsi alla coscienza dei sacerdoti.

Come liberati dalla gabbia, obiettivo cannolo siciliano

Nel periodo di reclusione forzata ci avete raccontando le vostre giornate, tra nuove abitudini, prove di resistenza e sforzi di fantasia. Vi ringraziamo: le vostre parole sono la conferma che il Fatto non è solo un giornale, ma una comunità viva. Adesso però ci piacerebbe che condivideste con noi anche questi giorni di parziale rientro alla normalità, tra persone che tornano al lavoro e piccole libertà che ci si può finalmente concedere. Qual è stata la prima cosa che avete fatto dopo il 4 maggio? Siete riusciti a incontrarvi con una persona cara? Vi aspettiamo sempre all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it.

 

Una rimpatriata sicula e una proposta a Conte

La sera del 4 maggio, sulla chat di noi “esuli” siciliani, si diffonde la notizia che una pasticceria sicula in Roma ha già ripreso la produzione da asporto. Il pomeriggio seguente ero già in fila, con altri corregionali, tutti con evidenti segni di astinenza. Mentre assaporavo oniricamente il mio cannolo, vengo destato da una squillante voce dal marcato accento livornese. È un ragazzone con pochi capelli e occhi cerulei. Lo guardiamo tutti come un intruso. Avvertendo un clima di sospetto, ci tiene a giustificarsi: “La mi’ moglie è di Terrasini e anche me garbano parecchio codesti cannoli”. Un sospiro di sollievo: è un siciliano d’adozione. Il discorso scivola sulla situazione economica causata dal Covid. Si parla del Mes e io biasimo l’avarizia dei Paesi del nord Europa. Il livornese, con sguardo serio, mi dice: “Se fossi Conte il problema l’avrei già bello che risolto. Scusate ma voi perché andate ad Amsterdam?”. Poi, senza attendere la risposta, “ci si va per le donne in vetrina e per i coffee shop. Se Conte, domani dicesse che anche in Italia si possono aprire locali simili, secondo voi un inglese non preferirebbe venire in Versilia, che si può anche fare il bagno?”. Grazie Costantino, per la provocazione camuffata da real politik.

Carmelo Sant’Angelo

 

Piano piano dovremo re-imparare a “volare”
Fase 2: sembriamo uccelli in gabbia liberati in un bosco. Dovremo imparare dei nuovo a volare. A stare con gli altri, riformulando il senso del rispetto sociale sulla base dei limiti che siamo disposti ad autoimporci; trasformando la protezione da vicinanza in distanza; dando ai nostri comportamenti la priorità alla motivazione civica interna, rispetto al deterrente della sanzione esterna.

Dovremo mettere in conto anche retromarce, nei luoghi dove i contagi dovessero ripartire, senza farci prendere dallo sconforto. Perché è sicuro che in qualche località questo avverrà. E lo sapremo solo nei tempi differiti della manifestazione del contagio, quando i buoi sono già fuori della stalla.

Detto meglio: non aspettiamoci un processo lineare e in discesa di uscita dall’emergenza. Ma rimaniamo concentrati sull’obiettivo di battere il virus, ben sapendo che molti comportamenti sociali (mobilità, feste, messe, sport, matrimoni, funerali, ecc.) cambieranno. Ed essere nostalgici conservatori in questi tempi sconvolti è il modo peggiore per attraversarli.
Massimo Marnetto

Rai e Mediaset al palo: avanti con le repliche

Con la Fase 2 i telespettatori sono in calo. E i 4 milioni in più davanti al teleschermo per il lockdown stanno già diminuendo. Ma intanto molti canali sono già alle corde. A partire dalla Rai. Con molte produzioni bloccate (almeno 18), la tv pubblica sta grattando il fondo del barile e in queste sere si vedono repliche su repliche, di tutto e di più: da Montalbano a Sanremo, da Maledetti amici miei a L’allieva 2, fino ai programmi già trasmessi di Carlo Conti, Vincenzo Salemme, Alberto Angela. O vecchie serate speciali, con Benigni o Fiorello. E poi La compagnia del cigno e Stasera tutto è possibile. Tra un po’ in Viale Mazzini si dovrà attingere al materiale delle Teche. Ma grossi problemi ci sono anche a Mediaset.

“Siamo fermi, con un ritardo mostruoso su tutti i palinsesti, da quelli estivi al prossimo autunno-inverno”, dicono a Viale Mazzini. Anche perché senza Europei di calcio e Olimpiadi di Tokyo, se da una parte si risparmiano soldi, dall’altra ci sono praterie di palinsesto da riempire.

Per il momento uno sforzo è stato chiesto ai programmi d’informazione. Per esempio, Carta Bianca di Bianca Berlinguer e Mezz’Ora in più di Lucia Annunziata andranno in onda fino alla fine di luglio. E si stanno pensando ad altri speciali Covid, con la conduzione di Franco Di Mare, Duilio Gianmaria o qualche giornalista del Tg1. Nel frattempo si preparano le versioni estive dei programmi: a Unomattina dovrebbero arrivare Alessandro Baracchini e Giorgia Cardinaletti, mentre per la Vita in Diretta si parla di Pino Strabioli. Uno spazio potrebbe averlo anche Anna Falchi. Da lunedì, invece, all’interno di Unomattina andrà in onda “Insieme con”, una striscia quotidiana condotta da Paola Severini Melograni che affronterà tematiche sociali.

Nel frattempo i dati Auditel confermano che a vincere la partita dell’emergenza Covid-19 è stata La7. La tv di Urbano Cairo è quella che è aumentata di più, con uno share medio del 3,88%, pari a un +6% rispetto al 2019. Con un’ottima perfomance nel prime time: 5,50% di share medio, + 13% rispetto allo scorso anno, posizionandosi al quinto posto davanti a Rete4 e Raitre.

Ma in Rai si parla anche di nomine, in vista del prossimo Cda, il 15 maggio. Ci si avvia a una generale riconferma dei manager alla guida di Cinema, Pubblicità e Raiway. Le uniche novità arriveranno da RaiCom, dove rispunta Teresa De Santis: l’ex direttrice di Raiuno è in pole position per la presidenza. Ma potrebbe cambiare anche l’ad, visto che Monica Maggioni scalpita per tornare all’informazione, con un programma in seconda serata su Rai2, il prossimo anno.

Gli ascolti tv al ritmo dei contagi: il virus vissuto in televisione

Più tamponi positivi, più televisori accesi. Come una formula esatta. Ogni giorno con lo stesso ritmo, una ansiogena e drammatica corsa all’insù dal primo focolaio di Codogno del ventuno febbraio. Finché i contagi sono lentamente rallentati e gli schermi si sono altrettanto lentamente spenti. La curva dei malati di Covid-19 si sovrappone – come dimostra il grafico in pagina dello Studio Frasi – alla curva degli ascolti che registra gli aumenti quotidiani rispetto alla media degli ultimi cinque anni. L’andamento è quasi identico. Le brutte notizie hanno provocato la ricerca di altre notizie.

Quel venerdì di febbraio l’Italia si è scoperta infetta, si discuteva di Mattia e dei suoi contatti, si dragavano gli ospedali del Lodigiano, ma il virus circolava già ovunque.

Il pubblico televisivo stava scemando da settimane dopo la sbornia del Festival di Sanremo. La stagione invernale, la più ricca, stava per congedarsi con bilanci negativi. Marzo si è presentato a un’Italia ancora aperta e non ancora cosciente. La politica invitava a brindare agli aperitivi, ma i telespettatori erano in allerta: i contagi erano sotto la soglia di 1.000 al dì, però il pubblico rientrava in massa. Domenica otto marzo, alla vigilia della chiusura del Paese con il messaggio del premier Giuseppe Conte, c’erano 1,2 milioni di italiani in più davanti al televisore. Dopo la metà di marzo, con l’Italia ai domiciliari, si sono toccati picchi di 31 milioni di telespettatori di sera e più 5 milioni su marzo 2019. Aprile è stato una graduale discesa di ascolti tv e di positivi al Covid-19. L’apertura di lunedì scorso ha allentato la tensione, ma si è presto rialzata con il persistere dei casi in Lombardia. La televisione generalista si è adattata in fretta alla pandemia. Non c’erano alternative. Il virus è un tiranno dei pensieri, come ha notato Claudio Magris. Si impone su tutto e su tutti. Il pubblico cercava di sapere, un po’ di svago, magari un po’ di conforto. La televisione è tornata ai mestieri di un tempo: informare, intrattenere, persino insegnare con i programmi per gli studenti. E ha dato fondo alle teche. A volte alla fantasia, con il concerto del Primo Maggio del servizio pubblico Rai. Questo non significa che ha rinunciato alle pessime abitudini.

Gli opinionisti sono proliferati. E dopo i soliti giornalisti chiamati a commentare l’orrendo egoismo degli olandesi, il valore giuridico degli atti del premier Conte, la scomparsa mediatica di Kim Jong-un, la competizione tecnologica tra americani e cinesi, l’incessante guerriglia in Libia, il prezzo di carote e zucchine e non di rado l’efficacia di un vaccino per il Covid-19, il pubblico ha scoperto il virologo opinionista, aggrappato ai forse, al chissà, al può darsi. I diabolici autori delle trasmissioni li hanno pure divisi in squadre, in correnti animate da spietata rivalità come se si trattasse del Pd. Da una parte i virologi che minimizzano, dall’altra quelli che esasperano. I medici del tampone contro i medici del sierologico. I segugi del complotto cinese e gli scienziati del pangolino. Dottori in borghese branditi dai governatori, dai politici e addirittura dai giornalisti. E chi vuole la mascherina con i guanti e chi i guanti senza la mascherina però a distanza di un metro e mezzo, facciamo due e lasci. Uno spettacolo anche divertente se la faccenda non fosse così seria.