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Evadono le tasse, poi chiedono l’aiuto pubblico

Continuo a vedere la richiesta, da parte delle partite Iva sostenute da molti giornaloni e giornalisti, di ricevere più soldi, magari a fondo perduto. Poi leggo Bersani che dice che in Italia il 46% dei contribuenti dichiara meno di 15.000 euro e addirittura solo il 6% dichiara più di 50.000 euro. A questo punto sorge una domanda spontanea: professionisti, medici, avvocati, negozi, ristoranti, bar, orefici e via di seguito vivono guadagnando meno di 50.000 euro e molto probabilmente meno di 15.000? E gli dobbiamo dare soldi pubblici che creano debito a tutti noi per aiutarli? Possiamo fare così: il contributo da erogare sia il netto Iva/Irpef dell’anno precedente diviso per 12 mesi: ognuno prende per quanto ha versato.

Stefano Zaccaron

 

Ma l’Iva sulle mascherine è una presa in giro?

Ho ascoltato Mentana che al Tg La7 ha annunciato che si sarebbe trovata un’intesa a che il prezzo delle mascherine venga fissato a 50 centesimi piú Iva. Ora, questo “piú Iva” suscita qualche perplessità in quanto, se lo Stato ha di fatto chiesto ai produttori di mascherine di ridurre il loro margine o di venderle a pareggio, come fa a esigere un’imposta su un bene il cui uso è stato reso obbligatorio? In un caso senza dubbio straordinario, le mascherine sarebbero dovute essere distribuite gratuitamente e retribuite ai fabbricanti a prezzo di costo. Invece si chiede alle aziende di fare il sacrificio, cosa non facile in quanto non sarebbero obbligate a ottemperare, mentre non si fa ciò che necessita solo di una decisione amministrativa.

Salvatoreantonio Aulizio

 

Perché Di Matteo non chiarisce l’equivoco?

La polemica che si è creata intorno al caso Bonafede relativa alla sua presunta cessione alle pressioni di alcuni boss risulta poco chiara. Da una parte non capisco perché Bonafede abbia offerto a Di Matteo una scelta, e concesso soltanto 24 (o 48?) ore di tempo, per ricevere una risposta, rimpiazzandolo poi nel giro di ulteriori 24 ore. Ma soprattutto non capisco perché non abbia fatto carte false per tenerlo, nel momento in cui Di Matteo gli comunicava di rinunciare a entrambe le offerte. Oggi però non riesco a capire Di Matteo. Se arrivo a capirne il risentimento, per forse essersi sentito trattato come tanti, non comprendo la finalità di riparlarne ora. Parlare della vicenda sul mancato accordo sul Dap, accompagnato dalla pubblicazione delle intercettazioni dei boss, si presta a essere fraintesa, inducendo molti a pensare che sia di Bonafede la colpa delle recenti scarcerazioni. E non capisco il perché Di Matteo non chiarisca questo equivoco. Perché un ministro dovrebbe offrire la scelta tra due incarichi chiave a uno dei pm più temuti di Italia, se poi si lascia intimorire da quelle che sono delle reazioni scontate? E poi, perché un pm antimafia che è a conoscenza di una cosa così grave da parte del ministro della Giustizia, ne parla soltanto dopo due anni?

Valentina Felici

 

DIRITTO DI REPLICA

Da sempre, come Just Eat, prendiamo molto seriamente la salute e la sicurezza per i nostri clienti, i ristoranti e i rider, ancor più in questo momento di grande emergenza e in continua evoluzione per tutti i comparti. Per questo abbiamo introdotto, fin dall’inizio dell’emergenza, una serie di misure precauzionali importanti a tutela anche dei rider che consegnano con noi. In particolare, fatta salva ogni valutazione circa il reclamo dell’ordinanza sopra richiamata, precisiamo che, in linea con il nostro approccio socialmente responsabile, e fin dall’inizio dell’emergenza, abbiamo già provveduto a distribuire guanti, mascherine e gel disinfettante a tutti i rider che consegnano con noi in tutta Italia. La distribuzione sta continuando e procederà anche nelle prossime settimane con ulteriori kit a tutti i rider attivi con Just Eat. A oggi sono infatti già state distribuite oltre 10.000 mascherine. Sempre per il medesimo senso di responsabilità sociale, abbiamo inoltre messo a disposizione un supporto economico per aiutare i rider in caso di contagio da Covid-19 o necessità di autoisolamento. Sono attive inoltre, fin dall’inizio, altre misure precauzionali, dalla consegna contactless, cioè senza contatti, alle modifiche apportate sull’app rider con costanti informative comportamentali relative alla prevenzione nei confronti del virus, fino a indicazioni costanti sul divieto di assembramenti e un documento di linee guida specifiche per l’attività di food delivery, realizzato insieme a Fipe e AssoDelivery. Continueremo a lavorare sempre e a tutti i livelli con l’obiettivo di fornire un servizio sicuro e sostenibile per tutti.

Just eat

 

Grazie per l’intervento. Fa piacere sapere che Just Eat stia distribuendo dispositivi per ragioni di responsabilità sociale. L’ordinanza del Tribunale di Firenze, tuttavia, ribadisce che comunque si tratta di un obbligo di legge.

Rob. Rot.

 

I NOSTRI ERRORI

Nel mio articolo del 23 aprile scorso dal titolo “Aulla, crollo del ponte tra gli indagati anche otto dirigenti di Anas” ho scritto che il responsabile toscano di Anas, Stefano Liani, risultava “già coinvolto in un’inchiesta della Procura di Roma per corruzione” mentre ho appreso dal legale dell’interessato che è coinvolto in un’inchiesta penale, ma “per abusi di atti di ufficio”. Me ne scuso con l’interessato e con i lettori.

Gia. Sal.

E quando il calcio? Alla fine il via (anche) al campionato di Serie A lo darà la Merkel

 

Ho una questione per Paolo Ziliani, spero possa guidarmi su quello che considero il caos-calcio. L’Italia è semi-bloccata, la Francia ha già assegnato lo scudetto, la Germania è ripartita ma ha nuovi casi di Covid, l’Inghilterra vorrebbe riprendere subito. Come è possibile non organizzarsi a livello europeo, e soprattutto come si muoveranno con le Coppe? Insomma, ho la sensazione che il calcio (come sempre) sia la miglior cartina per comprendere lo stato (frammentato ed egoistico) della politica. Grazie.

Luca Savoi

 

Che sia la Merkel a dare il via alla ripresa del campionato italiano fa ridere solo a pensarlo; invece è così. In breve. La Germania, il Paese che meglio di ogni altri ha saputo fronteggiare il Covid-19, ha disposto il ritorno alle partite, a porte chiuse, a partire da sabato 16; ma il modo in cui lo ha fatto è a dir poco inquietante. Dopo che la prima serie di tamponi ha rivelato 10 positività (Borussia M., Colonia, Dresda, Aue), si è deciso di mandare in quarantena solo i calciatori positivi e non tutto il gruppo. Un giocatore del Colonia, Verstraete, dopo essersi detto preoccupato di portare il contagio in famiglia è stato costretto a rilasciare un’intervista riparatrice, il tutto mentre Kalou, attaccante dell’Hertha Berlino ed ex Chelsea, è stato sospeso per aver postato un video in cui mostrava come negli spogliatoi non ci fosse alcuna misura di sicurezza per i giocatori (“Cancella quel video”, gli dice il medico sociale).

La cosa buffa è che la Lega si è scagliata contro il giocatore (“Immagini inaccettabili”, “Nessuna tolleranza”) per aver diffuso il filmato, e non contro il club che calpestava il tanto sbandierato protocollo di sicurezza. Eppure, la Germania che torna in pista fra sette giorni offre a tutti la scusa per tornare a farlo: Serie A compresa, nonostante il diluvio di contagi emerso dopo i primi test in casa Torino, Fiorentina, Sampdoria, Milan, i 45 giorni di positività di Dybala, il parere negativo di 17 medici su 20 (solo quelli di Juve, Lazio e Genoa sono per giocare).

L’Inghilterra lavora per riprendere l’8 o il 15 giugno, ma sei club si sono detti apertamente contrari; in Spagna si parla del 22 o 29 giugno, ma i calciatori sono sul piede di guerra per i gravi rischi cui verrebbero esposti. Francia e Olanda hanno dichiarato chiusa la stagione, il Belgio sta per farlo.

Dopo la Germania, entro fine mese dovrebbero riprendere Serbia, Portogallo e Svizzera. Tutto dev’essere concluso il 2 agosto: perché poi, intima la Uefa, ricominciano le Coppe…

Paolo Ziliani

La pandemia sì, ma dell’algoritmo

Al professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità è stato chiesto se si sente ‘il Signor No’, e lui ha risposto a colpo sicuro: “No”. Questo si chiama parlar chiaro, come amano fare gli uomini di scienza. Eppure ‘il Signor non sono il Signor No’ ha polverizzato il record di Ludovico Peregrini, l’indimenticabile esperto di Mike Bongiorno. Peregrini si accontentava di validare le risposte ai quiz del Rischiatutto, Brusaferro decide se è valido andare al parco o visitare il cognato, ci dimostra che la vita è tutta un quiz, come cantava Arbore.

Dice: ma c’è il Comitato tecnico-scientifico. Sarà. Noi, quando sentiamo Comitato tecnico-scientifico, mettiamo mano alla biblioteca, non sapremmo se evocare più Orwell o Kafka. Ma forse in questa giungla di autocertificazioni, comprovate esigenze, situazioni di necessità, l’autore di riferimento è il Gogol dell’Ispettore generale. Quando il Comitato autocertificherà la fine dell’emergenza avremo avuto un assaggio del mondo salvato dagli scienziati: un ribollir di dati, curve, fattori e percentuali che pressano gli individui nella tenaglia Salute-Economia, e li stoccano nell’ansia di gregge. Se volevamo farci un’idea della “dittatura degli algoritmi”, il coronavirus è arrivato a puntino. Credevamo che la scienza fosse portatrice di dubbi, ma viene narrato il contrario. C’è una previsione – funesta – per tutto, con la sola eccezione della vita (al momento manca l’algoritmo). Capiamo che il Comitato lo fa per il nostro bene, come mi diceva mia mamma, però la pandemia degli algoritmi ci fa paura quasi quanto quella del virus. Ci fa paura un mondo in cui un distinto sessantenne (il professor Brusaferro) invita a tenere sotto protezione i sessantenni; un mondo in cui si deve stilare la lista degli invitati ai funerali come al privé del Billionaire. A fronteggiare un dramma come questo, che mina i polmoni ma anche le menti, avremmo preferito un Comitato scientifico-umanistico. Un po’ di anima tra un algoritmo e l’altro, caro professor Brusaferro. O no?

Guerre di carta fra i giornali dei “padroni”

 

“La libertà di stampa è un bene comune necessario, uno specchio in cui vedere come realmente siamo, a quali tentazioni siamo esposti”

(da “Il padrone in redazione” di Giorgio Bocca – Sperling & Kupfer, 1989)

 

Alla veneranda età di 85 anni, dunque, Carlo De Benedetti ha deciso di fondare un nuovo quotidiano contro l’ex amata-odiata Repubblica. Non si chiamerà, ovviamente, la Monarchia. Si chiamerà Domani e non sarà un altro giorno, come diceva Rossella O’Hara in Via col vento, ma piuttosto un altro giornale, contrapposto a quello fondato da Eugenio Scalfari nel 1976 e caduto ormai nelle mani della Fiat di John Elkann: tant’è che l’Ingegnere ritiene che vogliano “snaturarlo” e – per parlare più chiaro – “spostare a destra”.

Ora l’esperienza insegna a non prendere molto sul serio i proclami di De Benedetti. Quando voleva conquistare la Société général de Belgique – il maggiore gruppo finanziario belga che controllava, fra l’altro, tutte le miniere del Congo – sentenziò in anticipo “la ricreazione è finita” e così i principali azionisti decisero nottetempo un aumento di capitale, mettendo fuori gioco il pretendente italiano. E quando l’Ingegnere dava la scalata alla Mondadori, tentò il colpo di trasformare le azioni privilegiate in ordinarie, ma alla fine dovette arrendersi alla “grande spartizione” sotto l’egida di Giulio Andreotti. Non c’è troppo da fidarsi, quindi, degli annunci o delle promesse di CdB, come lo chiamava confidenzialmente il “principe rosso” Carlo Caracciolo.

Il fatto è che, in genere, i giornali li fondano i giornalisti o gli editori, quelli cosiddetti “puri”, editori per mestiere e passione civile. Non gli imprenditori o i finanzieri che invece li acquistano per difendere i propri interessi economici o aziendali. E questo è, appunto, il caso dell’Ingegnere che non è mai riuscito a diventare un vero editore. In compenso, ha continuato a fare affari anche in forza dei giornali di sua proprietà: dalla licenza Omnitel per i telefonini, come ho raccontato quattro anni fa nel libro La Repubblica tradita (PaperFirst), al salvataggio di Sorgenia e alle speculazioni in Borsa sulle Banche popolari, su “soffiata” dell’ex premier Matteo Renzi, fino al business delle residenze sanitarie per anziani.

Del Domani, come dice la poesia di Lorenzo il Magnifico, “non v’è certezza”. Per il momento, si sa che il direttore sarà Stefano Feltri, un giornalista economico, ex bocconiano, già vicedirettore del Fatto Quotidiano. Non saranno, perciò, né l’ex direttore appena licenziato da Repubblica, Carlo Verdelli, né il suo predecessore Mario Calabresi, né tantomeno Ezio Mauro a guidare il quotidiano di De Benedetti. Quanto a Scalfari, il fondatore ha già accreditato politicamente la gestione targata Fiat, assimilandola alla cultura “liberal-socialista” nella convinzione che il suo “fiore all’occhiello” non può appassire prima dei cent’anni.

Alla presidenza della società editrice di Domani, è stato chiamato il senatore “dem” Luigi Zanda, che s’è affrettato a dimettersi dalla carica di tesoriere del Pd per non incorrere in un palese conflitto d’interessi, continuando tuttavia a rimanere parlamentare di quel gruppo. Evidentemente, all’Ingegnere non è bastato a suo tempo mettere in difficoltà il Partito democratico con l’annuncio che avrebbe preso la tessera numero 1, senza peraltro mai sottoscriverla e ritirarla. Vuole infierire sul pilastro della sinistra italiana, a rischio di ipotecare l’immagine del nuovo quotidiano. Ma un giornale non è un fiore che nasce nel deserto. E neppure un fiore all’occhiello.

Hanno fottuto l’estate a noi milanesi

Ci stanno fottendo l’estate. Ci stanno fottendo il mare. Ci stanno fottendo le vacanze. Per me estate e mare hanno sempre coniugato il nome più proibito: felicità. “Col sole e col mare anche un ragazzo povero può crescere felice” scrive Camus e tutte le canzoni che parlano di estate si ispirano al mare (Una rotonda sul mare, Fred Bongusto; Sapore di sale, Gino Paoli; Luglio, Riccardo del Turco; Un’estate al mare, Giuni Russo; Voglio andare al mare, Vasco Rossi) mai alla montagna tantomeno al lago (roba da crucchi). È vero che i vecchi, categoria a cui arbitrariamente appartengo, d’estate preferiscono al mare la montagna o, ancor meglio, la collina, perché sono più riposanti. Ma è un riposo che somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. Ma io non sono ancora così conciato da non potermi cacciare a bagno.

Ma quest’anno raggiungere il mare per i lombardi sarà praticamente impossibile. Troppe combinazioni debbono incastrarsi. Poniamo che uno scelga il litorale più vicino e abbordabile, il ligure, luogo prescelto per decenni, nel dopoguerra, dalla piccola e media borghesia milanese e torinese (nel Novecento il Mar Ligure, in particolare a Levante, era meta del turismo d’élite, di aristocratici inglesi e soprattutto russi che erano molto diversi dai russi griffati e volgari che oggi occupano la Versilia insieme ai ricchi scemi italiani che non si sono accorti che al Forte non solo non si vede il mare ma nemmeno lo si sente, tanto vi hanno costruito).

La prima condizione è che il commendator Fontana, Regione Lombardia, apra i confini territoriali (ma quanto è buona Lei signora Belva). Ma non basta. Bisogna che la Regione Liguria faccia altrettanto e non discrimini i lombardi, untori provenienti da pericolosissimi focolai. Forse ai loro confini i poliziotti liguri, sospettandoci in possesso di documenti falsi, ci faranno un test linguistico (però io il dialetto ligure, soprattutto di Ponente, lo conosco: Savona si pronuncia Saña, speggietti vuol dire occhiali, belin è il cazzo, “ti m’hae za menòu o belìn”, che le donne, per pudicizia, convertono in belan). Ma non basta ancora. Lombardia e Liguria non confinano, vi si interpongono Piemonte ed Emilia. Bisognerà che anche queste due Regioni aprano i propri confini. Ma un milanese potrebbe trovarsi in una bizzarra situazione: mentre vola felice verso la Riviera e gli agognati bagni, Liguria e Lombardia, per un’impennata del Corona, richiudono contemporaneamente i propri territori e lui si trova intrappolato a Novi Ligure, che a dispetto del nome è Piemonte, a visitare il Museo di Coppi. E ben gli starebbe. Perché il milanese è pirla da sempre. A chi mai poteva saltare in mente di fondare una città su una pianura desolata, caldissima e afosa d’estate, fredda e nebbiosa d’inverno e soprattutto umidissima? E senza un fiume. Milano è l’unica grande città italiana ed europea a non avere un fiume, Torino ha il Po, Firenze l’Arno, Roma il Tevere, Londra il Tamigi, Parigi la Senna, il Danubio bagna Vienna e Belgrado. Ho chiesto a storici e geografi perché Milano sia venuta su in una posizione così poco allettante. L’unica risposta che ne ho ricavato parte dal nome che aveva nell’antichità, Mediolanum, la via di mezzo, la più diretta per raggiungere la Gallia. Ma a trenta chilometri, sulla stessa direttrice, c’è Pavia che sta sul Ticino, uno dei fiumi più belli d’Italia, se non forse il più bello. E infatti i Longobardi, che erano meno pirla dei milanesi, vi trasferirono la capitale.

E quindi noi milanesi, almeno quelli che la identificano col mare, dopo dieci, lunghissimi mesi di spasmodica attesa (“Come un giorno di sole fa dire a dicembre l’estate è già qui”, Patti Pravo) quest’anno non avremo l’estate. Rimarremo a Milano, a morire non di Covid-19 ma dal caldo e di solitudine (“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua… neanche un prete per chiacchierar”, Azzurro, Adriano Celentano).

Regioni all’italiana: 50 anni e tanti danni

Negli anni 60 l’assetto fortemente centralizzato dello Stato, lo Stato dei prefetti, delle prefetture e dei loro controlli, la mancata attuazione delle Regioni a statuto ordinario ci facevano sembrare insopportabile la “strozzatura” burocratica romana. Che si allentò a partire dal 20 maggio 1970, mezzo secolo fa.

Quale bilancio? Regionalista convinto (allora) sono oggi regionalista fortemente deluso. La burocrazia dei ministeri era di qualità più elevata di quella regionale. Meno proclive a soddisfare i potentati locali. Un solo esempio: alla Direzione generale per l’Urbanistica c’era un commis d’Etat come Michele Martuscelli, il quale univa a un rigore morale assoluto una competenza e una capacità di “fare squadra” eccezionale con elementi più giovani che si chiamavano Vezio De Lucia (suo successore), Basile, Pontuale, Marcelloni e altri. E i tempi di esame di piani e programmi erano più veloci e severi di quelli delle Regioni le cui leggi sono quasi tutte fondate sulla “contrattazione coi privati”.

È vero, burocrazia e tecnocrazia, agli inizi, erano state in buona parte ereditate dallo Stato fascista il quale però, a sua volta, aveva fruito della migliore burocrazia della storia d’Italia: quella cioè ereditata da Giolitti e anche da Nitti. Se la ricostruzione del Paese, dopo le distruzioni terribili (oggi inimmaginabili) della guerra avvenne velocemente e senza grandi scandali, credo lo si dovesse a una classe politica di più alto livello culturale (selezionata da antifascismo e Resistenza), ma anche a una burocrazia e a una tecnocrazia di alta qualificazione.

I migliori ingegneri erano considerati quelli delle Ferrovie. Ma pure al Provveditorato delle Opere Pubbliche e al Genio Civile ve n’erano di ottimi. Come i Magistrati delle acque per il Po e per Venezia. La categoria dei segretari comunali era stimata, promossa solo per concorso, un potere terzo rispetto alla stessa Giunta e ai sindaci (da cui oggi, di fatto, dipende). Per non parlare dei Soprintendenti ai Beni Culturali e Ambientali poco pagati e però autorevolissimi. Vogliamo parlare dell’alta dirigenza dell’Iri, dell’Eni, e di altre società a partecipazione statale del primo periodo? Menichella, Sinigaglia, Mattei, Luraghi e via elencando. Tutta gente dalle visioni strategiche.

Che il regionalismo “spinto” non fosse la ricetta giusta lo si doveva capire dalla speciale autonomia concessa alla Regione Siciliana temendo la saldatura fra separatismo politico e banditismo. Si creò uno Stato nello Stato dove tutto è potuto e può succedere, compreso il dominio del ceto politico su quello amministrativo e tecnico. Disastroso, come i bilanci della Regione stessa. Per l’Alto Adige o Sud Tirol – che nel 1915-18 non rientrava nelle aspirazioni italiane concentrate su Trento e Trieste – abbiamo dovuto subire pressioni separatiste continue.

Presto imitate, negli anni 70, in Lombardia e nel Veneto con la nascita della Lega Nord e della Liga Veneta. Chi non ricorda le cerimonie purificatrici alle sorgenti del Dio Po, l’assalto a San Marco, i ministeri a Monza, l’assemblea a Mantova, mi pare, gli inviti a noialtri a cacciare nel cesso il tricolore, la minaccia di Bossi di schierare 43mila armati in Val Brembana (il ministro Gian Filippo Mancuso, magistrato esemplare, ricordiamolo, reclamò invano una denuncia formale dal governo Dini), le scemenze del Trota, i milioni di euro distratti da mani ancor più distratte (e dovevano moralizzare la vita pubblica…). Tutto prim’ancora dello sbracamento al Papeete col più austero dei ministeri “spiaggiato” e “a cul busòn!” come si dice ancora in Romagna.

Quante buone leggi riformatrici abbiamo visto smontate dalle inadempienze regionali. La legge Galasso sui piani paesaggistici del 1985: poche attuazioni, compensate per fortuna da molti decreti ministeriali a vincolare (con la legge Bottai del ’39) per quasi metà i nostri paesaggi. La legge per la difesa del suolo n. 183/1989, ottima, presto svuotata. Il Codice per i Beni Paesaggistici Rutelli 2008: la miseria di tre Piani, più quello del Lazio, tragicomicamente rimodificato dal Consiglio regionale a danno di Roma! E l’ultima arlecchinata in piena pandemia con la Lombardia al disastro? E ho detto solo un decimo. Oggi le Regioni sono il corpo opaco della Repubblica. L’attacco alla Casta ha svegliato un anti-parlamentarismo fascista profondo. Un serio, controllato decentramento regionale era utile. Questo fritto misto di federalismo ad alto costo, no: è indigeribile.

Il virus palestinese e la App preventiva di Di Maio. O Arbore

Il ministro della Sanità israeliano, l’ultraortodosso Yaakov Litzman, si è dimesso dopo le critiche alla sua gestione della crisi coronavirus: ha escluso la comunità ultraortodossa dalle norme sul distanziamento sociale del Paese, consentendo i bagni rituali pubblici e lasciando aperte le sinagoghe, con la promessa che il messia sarebbe arrivato e avrebbe posto fine all’epidemia. Risultato: 15.000 contagiati. Positivo al test, come la moglie, ha costretto alla quarantena metà governo e anche il capo del Mossad. Eppure tutti sappiamo quanto sia efficace il messia come antivirale. Ah, questi virus palestinesi!

Renzi ha detto che il Dpcm, il decreto Conte sulla Fase 2, è “uno scandalo costituzionale”; che “un presidente del Consiglio non può, con proprio decreto, cambiare la Costituzione”; e che “continuare a intervenire così sulle libertà costituzionali è sbagliato ed è un pericoloso precedente”. Affermazioni prive di fondamento giuridico, ha commentato un magistrato, citando, fra l’altro, l’art. 16 Cost., in virtù del quale il legislatore può “limitare il diritto di circolazione dei cittadini per motivi di sanità”, e l’art. 32 Cost., secondo cui “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Per Renzi, però, le misure di confinamento che hanno limitato l’epidemia erano esagerate, e ha usato come paragoni il terrorismo, i magistrati di Mani Pulite, e la crisi economica del 2008. Lo so che c’è una forma di aristocrazia mentale che vieta a una persona di dire ciò che il primo imbecille direbbe, e che molti, invece, ci costruiscono su intere carriere politiche; ma cercate di capirlo: Renzi obbedisce a una sua intima verità, che in cuor suo è rispettabile quanto l’altra. Del resto, discorrere di ciò che non si sa è tonico e riposante.

Una domanda: i reazionari che non vogliono che il governo decida “sulla loro salute e sul loro corpo” (come se non fosse un problema di salute pubblica) sono gli stessi che hanno sempre votato contro il diritto delle donne di decidere sulla propria salute e sul proprio corpo? Così, per chiedere.

In un’intervista tv, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha spiegato che la app Immuni servirà “a permettere a un cittadino di avere una segnalazione nel caso in cui stia per entrare a contatto con un positivo”. La famosa app con poteri pre-cog. E non gli viene neanche il dubbio che la app dickiana da lui immaginata sia anti-costituzionale. La prossima volta candidate Arbore, che almeno a improvvisare è un maestro. C’è l’ostacolo che è laureato in Legge, ma insomma, uno vale uno.

Necrologi postumi. C’è un aneddoto che adoro su Alberto Arbasino. In pochi lo sanno, ma, per buona parte della sua vita, Arbasino ha lavorato come meccanico in un’officina per auto a Testaccio. Di recente, un giornalista ha intervistato alcuni suoi vecchi colleghi. Quasi tutti ignoravano la rilevanza di Arbasino nel mondo letterario italiano. “Ma non mi stupisce che fosse un grande scrittore,” ha detto uno di loro. “Ci sapeva davvero fare coi carburatori”.

Ultim’ora. “Piemonte. Trapiantati quattro organi su un solo paziente”. Mi piacerebbe sapere cosa ci combina adesso, con quattro cazzi.

Folli bombarolo, bussola di Dago

Ci sono amorinon solo imprevisti, ma impensabili. Però scoppiano. È il caso della forte passione di Dagospia, il sito di Roberto D’Agostino che alterna porno e politica, per la compassata penna di Stefano Folli, già spadoliniano, già direttore del Corriere della Sera, oggi archibugio prediletto della Repubblica centrista di Maurizio Molinari per sparare addosso a Giuseppe Conte, usurpatore secondo le élite liberiste del Paese. Così l’altro giorno, Dago ha descritto Folli come uno che tira “una bomba dopo l’altra” contro Palazzo Chigi. Lo vediamo già, l’ex spadoliniano Folli, moderato per vocazione, imbottirsi di tritolo e farsi paracadutare sulla sede del governo. Ieri invece, il povero ex repubblicano dell’Edera è diventato “il killer di Molinari”. Un giorno bombarolo, l’altro killer. Per carità, da uomini di mondo avvezzi a raccontare la cucina del potere, capiamo il giochino di Dagospia di lanciare e di agitare Folli contro “lo schiavo di Casalino”, come è definito Conte con massima eleganza. Ma che il sito un tempo rifornito di boatos anche da Cossiga e Bisignani oggi elegga Folli quale supremo conducator del governissimo suscita un sorriso. Come se anziché filmati e foto di pornostar, Dago cominciasse a mettere video del Santo Rosario recitato a Pompei. Certi amori però scoppiano, anzi esplodono.

Laboratori: manca tutto

Ormai siamo tutti d’accordo: affinché la fase 2 ci conduca alla fase 3 e non alla 1, oltre a una responsabilizzazione individuale, sarà necessario puntare sui controlli a tappeto. Oggi l’unico test accreditato, seppur non esente da limiti, è il tampone nasofaringeo. È quella che si chiama diagnosi diretta. Il test sierologico è un’indagine indiretta, cioè va a rilevare effetti (in anticorpi) prodotti dal virus. Non servono a darci una diagnosi certa, ma un flash istantaneo che ci fa conoscere un probabile stato (infetto o no, infettato nel passato o no) del soggetto, da confermare comunque con il tampone. “Bisogna farne tanti, migliaia al giorno, per controllare più popolazione possibile”: la gara dei soloni è aperta. Facile dirlo, soprattutto se non si vive in un laboratorio, ma quasi impossibile farlo. Mancano i reagenti e persino alcune macchine che faciliterebbero l’iter diagnostico. È un problema mondiale, o meglio delle nazioni che si trovano nella necessità di importare questi prodotti dall’estero. Adesso ognuno pensa a se stesso. Le esportazioni dei diagnostici si sono ridotte al minimo, a volte azzerate. E l’Italia? Non riusciamo a essere nemmeno autosufficienti. Aspettiamo che tutto ci arrivi dall’estero e spesso restiamo a secco di reagenti e persino di tamponi per i prelievi. Non parliamo poi degli strumenti per cui oggi non si riesce nemmeno a farsi accettare l’ordine dalle ditte produttrici. Non ci resta che andare a elemosinare in giro per il mondo. L’Oms ha già pubblicato un interessante documento: “È tempo di prepararci per la prossima pandemia”. Che questa volta, per favore, non resti a giacere sulle scrivanie dei vari ministeri.

Le vampate di Renzi e i rimedi della nonna

Ieri mattina ascoltavamo rapiti Matteo Renzi che a “Radio Anch’io”, garrulo e spensierato come una cinciallegra di maggio, alle domande puntuali di Giorgio Zanchini preferiva congratularsi con se stesso per la lungimiranza dimostrata quando “era la fine di marzo e dissi ‘ragazzi riorganizziamoci per la riapertura’ e mi diedero dell’irresponsabile”. Per la verità egli dichiarò all’Avvenire: “Riapriamo, perché non possiamo aspettare che tutto passi, perché se restiamo chiusi la gente morirà di fame”. Meritandosi giustamente dell’irresponsabile a 24 carati, con medie che allora erano di 600 morti al giorno. Ma fa niente. Poi abbiamo letto sul FQ, una cronaca come al solito bene informata di Wanda Marra che nel riportare alcuni Whatsapp mandati dal fu premier nella chat dei senatori di Italia Viva ne ha colto il significato esoterico (“sabato mattina ci divertiamo”; “il mondo sta cambiando”; “chi può si goda il sole”). Interrogandosi perplessa, come penso i lettori: “Cosa significhi esattamente non è chiaro”. In quel momento ci siamo ricordati che il senatore di Scandicci ha da poco superato la fatale soglia dei 45 anni, facendo il suo ingresso nel climaterio politico. Che (come diceva Fortebraccio di un altro fiorentino invecchiato precocemente, Giovanni Spadolini) non è molto diverso, nei sintomi, da quello fisiologico, caratterizzato da lunghe e tumultuose crisi smanianti, cui succedono inopinate fasi di stagnazione. Infatti dopo averlo letto in un’altra intervista su La Stampa: “Ho detto al presidente Conte ‘se vuoi che continuiamo a sostenerti, apriamo insieme l’ombrello’”, non resta che affidarlo alle amorevoli cure del senatore Rosato. E ai rimedi della nonna, che per le improvvise vampate di calore (note come caldane), e certe frasi inconsulte, consiglia di affidarsi agli infusi di salvia e passiflora.