Almeno 37mila contagi sul lavoro. Più di 2 su 3 nel comparto sanitario

Si sono ammalati sul lavoro, durante l’emergenza Covid: secondo gli ultimi numeri dell’Inail sono 37.352 i lavoratori che tra la fine di febbraio e il 4 maggio si sono ammalati di Coronavirus mentre svolgevano le loro attività. Il dato arriva dalle denunce presentate all’Inail e mostra un incremento di 9mila unità rispetto ai 28.381 casi della rilevazione del 21 aprile. Un’accelerazione che andrebbe contestualizzata per capire se sia dovuta alla semplice emersione dei casi oppure se sia conseguenza dell’andamento dell’epidemia o di specifici comportamenti.

I casi mortali segnalati all’Istituto nazionale per gli infortuni sul lavoro nello stesso periodo sono 129,31 in più rispetto al monitoraggio precedente. Al contrario di quanto osservato sul complesso delle denunce, in cui la quota femminile con il 71,5 per cento dei casi prevale rispetto a quella maschile (28,5 per cento), l’82,2 per cento dei decessi hanno interessato i lavoratori e il 17,8 per cento le lavoratrici. Il nuovo report elaborato dalla Consulenza statistico-attuariale dell’Inail conferma poi la maggiore esposizione al rischio del personale sanitario e socio-assistenziale. Il 73,2 per cento delle denunce e quasi il 40 per cento dei casi mortali, infatti, riguardano il settore della sanità e assistenza sociale.

La categoria professionale dei tecnici della salute, che comprende infermieri e fisioterapisti, con il 43,7 per cento dei casi segnalati all’Istituto (e il 18,6 per cento dei decessi) è quella più colpita dai contagi, seguita dagli operatori socio-sanitari (20,8 per cento), dai medici (12,3 per cento), dagli operatori socio-assistenziali (7,1 per cento) e dal personale non qualificato nei servizi sanitari e di istruzione (4,6 per cento).

L’analisi territoriale evidenzia invece che quasi otto denunce di infezione su 10 sono concentrate nel Nord-Ovest (53,9 per cento del totale) e nel Nord- Est (25,2 per cento), con gli altri casi distribuiti tra il Centro (12,5 per cento), il Sud (6 per cento) e le Isole (2,4 per cento). Tra le regioni, il primato negativo spetta alla Lombardia, con oltre una denuncia su tre (34,2 per cento) e quasi il 43 per cento dei casi mortali, seguita da Piemonte (14,9 per cento), Emilia-Romagna (10 per cento), Veneto (8,9 per cento), Toscana (5,8 per cento) e Liguria (4,2 per cento).

L’età media dei contagiati è di 47 anni per entrambi i sessi, ma sale a 59 anni (58 per le donne e 59 per gli uomini) se si concentra l’attenzione sui soli casi mortali. A confermare la maggiore vulnerabilità al virus delle fasce di età più elevate della popolazione il fatto che il 43,1 per cento delle denunce e oltre due decessi su tre riguardano i lavoratori di età compresa tra i 50 e i 64 anni. Più del 20 per cento dei casi mortali, inoltre, ricade nella fascia di età oltre i 64 anni.

Il cuore di Bonomi è tutto dalla parte del portafoglio

“Sappiamo tutti dove batte il cuore di Travaglio”. Nel rispondere alle osservazioni che il direttore del Fatto esponeva in un breve video montato (e tagliato) nel corso dell’intervista al presidente di Confindustria a Piazzapulita, Carlo Bonomi se l’è cavata con una battuta scontata. Travaglio, riferendosi alle critiche confindustriali verso il governo, ha ripetuto quello che abbiamo ripetuto sul Fatto: “I soldi a pioggia vanno bene quando sono alle imprese, quando sono date ai ‘poveracci’ allora non vanno più bene”.

Una considerazione non gradita a chi ha mostrato, ancora una volta, che il cuore lo tiene attaccato troppo al portafoglio.

1. A cominciare dalla prima delle richieste, l’abolizione dell’Irap, la tassa “più odiata”. Il ragionamento è semplice: invece di dare alle imprese finanziamenti una tantum, “magari 2-3 mila euro a impresa con chissà quali incombenze burocratiche” eliminate questa tassa: “Sono 9 miliardi – dice Bonomi – lo stesso ammontare che si vuole mettere nel decreto”.

Bravo lui. L’abolizione di una tassa, come per i diamanti, è per sempre, un fondo “una tantum” risponde al nome latino che gli è dato. Ma, soprattutto, è l’impatto finanziario che va calcolato. Innanzitutto la tassa non vale 9 miliardi ma, considerando solo il flusso dei privati, 13,8 miliardi (23,6 invece nel suo insieme, che comprende anche le amministrazioni pubbliche).

E poi l’Irap – che nel 1997 sostituì i contributi per il servizio sanitario nazionale, l’Ilor, l’imposta sul patrimonio netto delle imprese, l’Iciap, e altre ancora – è una tassa regionale ed è quella che contribuisce a finanziare, guarda un po’, il Servizio sanitario. Abolirla significherebbe, ad esempio, togliere alla Lombardia 5,5 miliardi. Ma di questo, Bonomi non ha parlato.

2. Di nuovo palla in tribuna quando, per rispondere alla difesa dei bonus da 600 euro, Bonomi se l’è presa con il Reddito di cittadinanza: “Capisco che dà fastidio quando io ricordo i navigator”, ha detto tirando in ballo un tema di cui non parla nessuno e che, tra l’altro, nel costo del Reddito di cittadinanza influisce per una piccola parte (semmai andrebbe discusso perché il RdC non venga esteso).

3. Il senso dell’intervista, comunque, è stato quello di esprimere la profonda “delusione” nei confronti del governo. Non prima, però, di ritornare su un tema che a Bonomi sta a cuore: spazzare via il “sentimento anti-industriale” definendo come “sadici” provvedimenti come quelli – in realtà inesistenti – sulla riduzione dell’orario di lavoro o gli allarmi sui contagi in fabbrica: “Quanto dice l’Inail è follia pura”. Basta guardare nell’articolo in basso cosa vuol dire questa follia.

Quello che non torna, però, è proprio la delusione. Tra i decreti già approvati e quelli in corso di (una troppo lenta) preparazione il governo ha annunciato una movimentazione di 155 miliardi tra spese correnti e fondi di garanzia: 87 miliardi, stima per difetto, sono a favore delle imprese. Dieci miliardi saranno le risorse a fondo perduto a cui aggiungere 5 miliardi per i bonus alle partite Iva. Poi ci sono 12 miliardi, che dovrebbero coprire i debiti delle Pubbliche amministrazioni, circa 50 miliardi di ricapitalizzazione della Cdp e 10 miliardi a garanzia dei prestiti a vario titolo. “Ma i soldi non arrivano”, dice Bonomi. In parte è vero, ma nessuno è riuscito a negare, nemmeno l’Abi, la responsabilità del sistema bancario, più volte chiamato in causa dal governo e ancora inadempiente. Tanto che anche Bonomi deve ammettere che “stavolta le banche non devono fare come nel 2008”.

4. Ma, siamo onesti, Bonomi fa il suo lavoro. Il suo cuore batte dove deve battere e infatti lo dice chiaramente: “Noi stiamo pensando alle Fase 3: come spendere i soldi che vengono stanziati: per spesa corrente o investimenti?”. Solo che nella spesa corrente ci sono anche gli aiuti ai “poveracci”. E gira e rigira, la questione rimane sempre quella: uno scontro tra chi sta in alto e chi sta in basso, che da troppo tempo si fa finta di non vedere.

Sulla Bce la sentenza tedesca è devastante. Il diritto Ue va bene solo se piace a Berlino

La sentenza della Corte costituzionale tedesca sulle attività della Bce si rivela sconvolgente anche per le ragioni logico-giuridiche a suo fondamento. Come ogni giudice, anch’essa giustifica la propria giurisdizione con le competenze riconosciutegli dall’articolo 93 Grundgesetz (GG o legge fondamentale).

Tra quelle non rientra un intervento sui rapporti con l’Ue, regolati dall’articolo 23 GG. Il comma 1 sub 4a dell’art. 93, infatti, legittima la cognizione su ricorsi a tutela di diritti indicati in altre norme della legge fondamentale ma non sulle materie dell’art. 23 devolute alla Corte di Giustizia.

Per superare l’impasse i giudici di Karlsruhe individuano come norma violata l’articolo 38, nel combinato disposto con gli articoli 20, c. 1 e 2 e 79, c. 3. Tali norme riguardano: il principio delle libere elezioni per i componenti del Bundestag – il Parlamento tedesco – quali rappresentanti del popolo senza vincolo di mandato (art. 38); la democraticità dell’ordinamento e l’appartenenza al popolo della sovranità (art. 20); l’inammissibilità di una modifica alla GG sui principi sanciti negli articoli da 1 a 20. In altre parole: l’esistenza di una funzione legislativa che promana dal popolo, da tutelare rispetto a modifiche che incidano sui principi fondamentali.

La giurisdizione di tutela delle prerogative e dei diritti degli eletti viene distorta fino a estendersi sul potere legislativo. L’interpretazione travolge la stessa ragion d’essere dell’art. 93 per legittimare, senza limitazioni, una giurisdizione sull’intera funzione legislativa riconosciuta al Bundestag. Argomenti tanto generici sarebbero utilizzabili da tutte le corti costituzionali per arbitrarie decisioni su qualunque materia, indipendentemente da una legittimazione concreta che solo le attribuzioni, determinate qui dall’art. 93 GG (in Italia dall’articolo 134 Cost.), consentirebbero loro.

Per dare corpo all’infelice intenzione s’individua nell’apparato normativo una serie di parametri di coerenza o meno della legislazione tedesca con quella europea. Ciò si ottiene tramite il controllo ultra vires che va effettuato per stabilire entro quali confini può risultare armonico e non censurabile l’ordinamento tedesco con l’unità e la coerenza del diritto europeo. Siamo al completo ribaltamento della prospettiva nella quale gli altri ordinamenti costituzionali riconoscono una limitazione della sovranità derivante dall’Unione europea.

Nella sostanza il giudice tedesco, poggiando sul principio della primazia del proprio Stato, nega l’operatività di un soggetto sovranazionale che introduce, tramite i propri organi, misure valide per l’intera comunità europea: tali misure sarebbero accettabili solo intra vires, cioè nei limiti imperscrutabili di quanto piace in concreto ai centri decisionali germanici, tra i quali la Bundesbank. Questo ha gravissimi effetti: in primo luogo per la tecnica devastante, che, usata per imitazione anche dai giudici costituzionali di altri paesi, riporterebbe all’indeterminatezza assoluta di ciò che è, o meglio, che resta del diritto europeo; si rende inutile la presenza della Corte di Giustizia Ue, le cui competenze possono essere sempre rivisitate ad hoc dalle giurisdizioni nazionali; si propone una visione dei rapporti intereuropei che travalica perfino i più dirompenti propositi di coloro che si proclamano sovranisti e che ora possono reclamare dalla loro parte la sentenza. La Corte tedesca si è arrogata un potere decisionale che, all’evidenza, non aveva, per fini che paiono minacciosi di una concordia pagata a caro prezzo da chi il senso dell’unità europea lo ha sempre dimostrato.

Pd e Iv all’attacco: “Usiamolo”. Conte e il M5S: “Non ci serve”

Le nuove regole sul Mes non mettono d’accordo i partiti di maggioranza. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle insistono sul Recovery Fund, mentre il Pd e Italia Viva chiedono di non perdere l’occasione di un prestito da “37 miliardi” per la Sanità a condizioni che ritengono favorevoli. Stessa linea di Forza Italia, che da settimane si è smarcata rispetto alla trincea di Lega e Fratelli d’Italia contro l’ex fondo “Salva-Stati”.

La partita, dunque, è ancora da giocare. Anche perché in Parlamento non potrà esserci maggioranza sul Mes che non includa i 5 Stelle, così Palazzo Chigi punta ad arrivare in Aula con un pacchetto che includa sì le misure stabilite finora, ma anche i bond europei.

Ieri Conte, intervenuto all’annuale conferenza The State of Union, ha ribadito che le misure uscite dall’Eurogruppo non sono ciò di cui c’è bisogno: “Sure, Bei e Mes sono insufficienti, ammontando a una frazione di quanto le altri grandi economie, come quella Usa, stanno spendendo per sostenere le loro imprese e le loro famiglia. Il prestito effettivo del Recovery Fund sui mercati, distinto dalle risorse totali che mobilita, deve essere almeno 1 trilione di euro. I leader europei hanno già concordato sull’idea di un fondo per la ripresa e sul fatto che il fondo debba essere di entità adeguata, mirato ai settori e alle aree geografiche maggiormente colpiti. Ciò significa che il Recovery Fund non è più una promessa e può diventare una proposta concreta”.

Parole condivise dai 5 Stelle, che in una nota definiscono il Mes “inadeguato” sia “per le risorse che può mettere in campo sia perché continua a essere insidioso nelle potenziali condizionalità future”. Motivo per cui il Recovery Fund resta “l’unico strumento in grado di affrontare seriamente questa emergenza”.

In serata è poi Luigi Di Maio a declinare il concetto, intervistato ad Accordi e Disaccordi (La Nove): “Si parla di circa 30 miliardi per l’Italia, mentre noi stiamo lavorando su un accordo per il Recovery Fund che vale tra i 1.500 e i 2.000 miliardi. Se ci sarà un poderoso Recovery Fund, non ci sarà bisogno di nessun altro strumento”. Secondo il ministro degli Esteri, “tutta la maggioranza è d’accordo per raggiungere il miglio accordo possibile”, cioè creare il fondo “e farlo subito, prima dell’estate”. Il problema è che invece il resto della maggioranza si dice pronto a farsi andar bene il Mes, nell’attesa di eventuali aiuti ulteriori.

A confermarlo dal Pd è il segretario Nicola Zingaretti: “Sarà possibile utilizzare il Mes senza condizionalità per gli investimenti in sanità. Una grande opportunità per l’Italia. Costruiamo un grande piano con le Regioni per la rinascita italiana e per migliorare la vita delle persone”.

Italia Viva è ancor più decisa: Marco Di Maio assicura che “adesso le cose sono cambiate” rispetto alle vecchie condizionalità del Mes e “l’Italia ha bisogno di quei 37 miliardi”; Davide Faraone alza i toni: “Chiunque pensi che pur di fare la solita lagna sovranista bisogna rifiutare il Mes come il male assoluto è un irresponsabile o peggio un pazzo. Denuncerò il governo per danno erariale se non dovesse utilizzare i fondi del Mes”. Una denuncia contro se stessi (Italia Viva fa parte dell’esecutivo) che è l’ennesimo messaggio agli alleati, che pure già devono gestire forti attacchi dall’opposizione.

Le ultime novità non hanno infatti spostato la linea di Giorgia Meloni: “La trappola per topi si sta facendo più raffinata, ma temo rimanga una trappola per topi. Ricordo a me stessa, e non solo, che il Mes è un trattato internazionale, non un programma della Ue, e che quindi non basta una lettera di Gentiloni o una vado impegno politico per cambiarlo”.

Così anche Matteo Salvini: “Il Mes non è un regalo, sono soldi dati in prestito da restituire a precise condizioni scelte a Bruxelles e non in Italia”.

Diversa, nel centrodestra, la posizione di Forza Italia, da sempre favorevole al Salva-Stati non foss’altro perché fu proprio il governo Berlusconi, dieci anni fa, a trattarne i contenuti: “I nodi vengono al pettine – dice Mara Carfagna –. Il Mes senza condizioni è un’opportunità per investire in sanità, sicurezza e lavoro. Ma, per propaganda, il M5S continua a dire di no mentre il Pd dice sì”.

Ue, sul Mes intesa politica: no Troika, ma pochi soldi

L’accordo era scontato, e infatti l’Eurogruppo ha trovato ieri l’intesa in poche ore sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes). La strada è stata spianata dal lavoro dei tecnici dei ministri finanziari dell’eurozona e dalla lettera con cui giovedì il Commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, e il vicepresidente Ue, Valdis Dombrovskis, hanno assicurato la volontà della Commissione di non applicare misure draconiane ai Paesi che faranno ricorso all’ex fondo “salva Stati”. È sulla base di questa promessa che è arrivato il via libera.

L’intero impianto si regge su un compromesso politico più che giuridico. L’accordo permette al Mes di mettere a disposizione dal 1º giugno le sue linee di credito precauzionale in formato “pandemico”: prestiti fino al 2% del Pil di ogni Paese, 36 miliardi per l’Italia, disponibili fino al massimo al 2022 e destinati “ai costi sanitari diretti e indiretti causati dal Covid-19 e ai costi relativi alla cura e alla prevenzione”. I soldi andranno restituiti al massimo in 10 anni.

Il vero nodo che ha tenuto in stallo il negoziato, come noto, è quello relativo alle “condizionalità”. Di norma le linee di credito del Mes impongono la messa sotto “sorveglianza rafforzata” del Paese beneficiario (lo prevede l’articolo 2(3) del regolamento 472 del 2013). A quel punto la Commissione europea può chiedere un aggiustamento macroeconomico (articolo 3, comma 7), cioè misure correttive per rendere più sostenibile il debito del Paese, in sostanza una stretta fiscale come quella vista in azione in Grecia (aumenti di imposte, tagli alla spesa, aumento dell’età pensionabile etc.). L’aggiustamento potrebbe inoltre essere modificato in seguito dal consiglio dei ministri finanziari “a maggioranza qualificata”. Queste condizionalità sono nei regolamenti e inglobate nella struttura del Mes, che è sostanzialmente un banca (partecipata dai 19 Stati dell’euro). Sono, quindi, ineliminabili se non togliendo i regolamenti che le prevedono e modificando lo statuto. Bruxelles ha invece optato per una strada alternativa. Nella lettera spedita al presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno, Gentiloni e Dombrovskis indirettamente riconoscono che non esistono le basi giuridiche per un Mes “light”, cioè senza condizionalità. I Paesi beneficiari saranno sottoposti alla sorveglianza rafforzata, ma – promettono i due – la Commissione non farà ricorso a nessuno degli articoli citati e la sorveglianza si limiterà alla verifica che le spese andranno effettivamente impiegate per gli scopi previsti (tra le spese indirette) e cesserà quando i soldi saranno restituiti. Le norme Ue, per dire, prevedono anche che il Paese possa restare sotto sorveglianza a lungo anche dopo il rimborso dei prestiti. Gentiloni e Dombrovskis assicurano che “Bruxelles non vede la necessità” di ricorrere a questa possibilità come alle altre fornite dai regolamenti. Si tratta, però, di un impegno politico che non ha basi giuridiche. I regolamenti non vengono sospesi. Fa fede la parola di Bruxelles, che dovrà restare valida anche oltre il mandato dell’attuale Commissione, visto che i prestiti possono essere restituiti in 10 anni e soprattutto superare le tante ambiguità delle formule usate, che spaventano i tanti critici del Mes.

È utile però anche capire la natura e la portata dell’aiuto a disposizione. Pd e Italia Viva esultano e chiedono subito di farvi ricorso. Per il segretario dem, Nicola Zingaretti, “l’Europa ci dà 37 miliardi per la Sanità”. Si tratta, come detto, di prestiti, che quindi andranno ad aumentare il debito dei Paesi beneficiari. La linea di credito avrebbe un costo intorno allo “0,1%” annuo, comprensivo anche delle commissioni per il servizio, come ha spiegato il capo del Mes, Klaus Regling. Oggi l’Italia per emettere debiti a 10 anni paga un tasso intorno all’1,8%. Calcolato sui 37 miliardi disponibili, il risparmio sui tassi di interesse sarebbe dell’1,7%, 612 milioni di euro. Anche in un arco di 10 anni, parliamo di 6 miliardi, lo 0,3% del Pil italiano. E questo mentre la Bce si è detta pronta ad aumentare il suo piano di acquisti di debiti pubblici da 750 miliardi. Il Mes, peraltro, “ha lo status di creditore privilegiato”, ha ricordato ieri Regling. Significa che il debito contratto ha la precedenza su tutto il resto e questo rischia di aumentare le tensioni finanziarie sul debito preesistente.

La vera partita si giocherà a fine maggio sul “Recovery fund”, il fondo da oltre mille miliardi – finanziato con emissioni di debito – per rilanciare la ripresa. Italia, Spagna e Francia sperano che la gran parte arrivi con trasferimenti e non prestiti (i Paesi del Nord si oppongono).

Medici tutelati, cittadini responsabili, trasporti gratis: la lezione di Lisbona

Il Portogallo, che ha un sesto degli abitanti dell’Italia (10.254.666 contro 60.359.546), ha contenuto il numero di morti per Coronavirus a 1.114: un quinto, in proporzione alla popolazione, della mortalità italiana, che sta toccando quota 30 mila. I contagiati sono 27,268, i decessi ieri sono stati soltanto 9, i casi gravi 127.

Con grande intelligenza, il governo non ha perso tempo e ha dichiarato lo stato d’emergenza il 19 marzo, una settimana dopo l’Italia, con soli 246 casi di contagio accertati e nessun morto. Nonostante ci fosse il permesso di svolgere attività fisica, la maggior parte della popolazione ha preferito rimanere in casa: il 51% è uscito solo una volta la settimana. Ma anche la politica si è compattata attorno al governo guidato dal socialista Antonio Costa: Rui Rio, leader del principale partito d’opposizione, in un commovente discorso tenuto in parlamento aveva augurato al premier Costa “coraggio, nervi d’acciaio e buona fortuna” perchè “la sua fortuna è la nostra fortuna”. Non esattamente il clone di Salvini. Come in Italia, il 4 maggio è finito il lockdown ed è iniziata la fase 2, forse meno timida di quella italiana; sono già al lavoro piccoli negozi, barbieri, estetiste e parrucchieri, dal 18 riapriranno anche le scuole oltre a musei, gallerie d’arte, bar e ristoranti che hanno però potuto fare, volendo, attività d’asporto. In realtà, in Portogallo un po’ di fase 2 era già attiva e pulsante in tempo di lockdown quando misure concrete e immediate vennero disposte per dare subito, tangibile, un segno di vicinanza alla popolazione.

Cascais, località di mare a 30 km da Lisbona, il 26 marzo, solo sette giorni dopo l’entrata in vigore dello stato d’emergenza, in accordo col ministero della Salute ha comunicato: 1) per le concessioni balneari, l’esenzione fiscale delle tasse comunali fino al 30 settembre 2020; 2) per gli operatori turistici ed economici, l’esenzione fiscale per un semestre e un fondo di emergenza subito disponibile di 5 milioni; 3) per le scuole, anche se chiuse, la fornitura a tutti gli alunni del pranzo – zuppa, piatto caldo, frutta e latte – distribuito in prossimità della scuola stessa, tra le 11 e le 14, gratuitamente agli alunni della fascia reddituale A e al costo di 0,73 euro per gli alunni della fascia reddituale B; 4) per il personale medico, l’acquisto di 1.300 letti per quarantena, di ventilatori, occhiali, maschere, tute protettive e gel disinfettante, l’allestimento di due centri per soli appuntamenti di diagnostica, la mobilitazione di hotel per l’alloggiamento del personale medico stesso; 5) per il mondo del lavoro, l’invito a lavorare da casa a chiunque in grado di farlo con la conferma del 100% della retribuzione e del 100% dei buoni pasto; 6) per la mobilità, trasporti pubblici gratis per due mesi (misura che si potrà estendere nel tempo) onde evitare di dover esibire biglietti o abbonamenti; autobus e treni disinfettati due volte al giorno, area protetta per gli autisti all’interno dell’autobus; 7) per il supporto sociale, linea di assistenza continua per gli anziani e soccorso quotidiano dei senza tetto.

I portoghesi sono stati bravi. Ma il governo, che non li ha mai fatti sentire dimenticati, lo è stato di più.

Riaperture in ordine sparso: Paese che vai, libertà che trovi

Con 3.726.292 casi confermati nel mondo e 257.405 morti dall’inizio dell’epidemia, il Covid-19 ha costretto quasi tutti i Paesi a una chiusura di attività socio-economiche e al distanziamento sociale. Dall’inizio di maggio i governi sono alle prese con le riaperture: totali, parziali o differenziate sul territorio nazionale. Di seguito una panoramica su dati di morti e contagi, i tamponi, le misure di sicurezza applicate e le app di tracciamento.

 

Spagna

Ancora fase 0: da lunedì ripartono i bar all’aperto

Il Paese conta 26.299 morti e 222.857 contagiati testati con 1.351.130 di tamponi e 581.325 sierologici. L’uso delle mascherine è obbligatorio solo sui mezzi pubblici. Le aziende ne hanno fabbricato 10 milioni e lo Stato è arrivato a pagarle 28 volte il prezzo stabilito per la distribuzione negli ospedali e sui mezzi. Un primo lotto fornito ai medici è risultato difettoso, motivo per cui i sindacati ospedalieri hanno denunciato il governo per il contagio del 12% dei sanitari. L’app governativa, “Asistencia Covid-19”, non è obbligatoria. La Spagna è nella fase 0, tranne che per alcune isole. Da lunedì – oltre alle uscite per fasce orarie e di età, la ripresa dei cantieri edili e delle attività su appuntamento – le province con discesa dei contagi entrano nella fase 1: incontri tra un massimo di 10 persone, con le misure di sicurezza, anche in casa. Riaprono bar e ristoranti all’aperto per il 50% della capacità, hotel, negozi sotto i 400 metri e mercati all’aperto. Riprendono i funerali con non più di 15 persone e i luoghi di culto aprono al 30%. Nessuno spostamento tra province e scuole chiuse. Il calcio non riprenderà prima di giugno.

 

Stati Uniti

Manca la strategia unica. 33 milioni di disoccupati

I deceduti per coronavirus sono quasi 76 mila e i contagiati sono 1.260.000, dati della Johns Hopkins University. Per Worldmeters i morti sono 77.190, i contagiati un milione 297 mila. Lo Stato più colpito è quello di New York, che da solo ha oltre 26 mila morti. I tamponi, oltre cinque milioni: il presidente Trump è solito ricordare che nessun altro Paese ne ha fatti altrettanti, ma, se guardiamo ai campioni pro capite, Italia, Spagna e altri Paesi europei ne hanno fatti di più. Le direttive federali consigliano, ma non impongono, l’uso della mascherina in pubblico. Una trentina di Stati hanno avviato, dalla fine di aprile, parziali e in qualche caso radicali allentamenti del lockdown, anche dove la curva dei contagi non era scesa. Economia, tra fine marzo e inizio maggio, ben 33 milioni di persone hanno chiesto i sussidi. A livello federale, non vi sono app consigliate. Gli sport nazionali sono sospesi.

 

Regno Unito

Ospedali ancora carenti in protezioni

I morti sono 30,615, i contagiati 211,364. Tamponi: 1.631.561. Argomento mascherine: sono ancora segnalate carenze in ospedali e case di cura. Quanto a quelle per il pubblico, gli scienziati della Royal Society ne raccomandano l’uso, il governo no. Non è chiaro se ce ne siano abbastanza per tutti. App: la prima, in fase di test nell’isola di Wight, fa confluire i dati su un server centrale ed è stata oggetto di critiche etiche e di privacy. Per questo l’NHS ha iniziato la realizzazione di una seconda app. Le riaperture: i dettagli li darà Boris Johnson domani. Secondo gli annunci si tratterà di correzioni “limitate, modeste, progressive e attentamente monitorate”. Quasi certa la riapertura dei vivai, nessun limite per l’esercizio fisico all’aperto e la possibilità di tornare al lavoro se in condizioni di sicurezza. Dai primi di giugno il ritorno a scuola per le classi degli ultimi anni, da settembre riapertura dei pub. Sport, probabile la ripresa di golf, il tiro al piattello e con l’arco. Escluso il calcio.

 

Brasile

Il lockdown non c’è: test solo sui ricoverati

I morti sono 9.265 e i contagiati 136.519, ma se ne temono molti di più. I test vengono seguiti solo sui ricoverati con sintomi. Rio de Janeiro e San Paolo sono le uniche città in cui è obbligatorio l’uso di mascherine e il ministero della Sanità non ne distribuisce neanche negli ospedali. L’app del governo informa i cittadini sui sintomi e cosa fare in caso di contagio. Il Paese non è mai stato in lockdown: si chiudono, da lunedì, 18 città in 5 stati. Rio lo è già dal 5 maggio. Scuole chiuse da marzo, tra l’11 e il 15 sarà ora vietato uscire per le strade. Campionato fermo.

 

Corea del Sud

Tamponi a tappeto. il risultato è casi zero

Seul ha registrato solo 256 decessi e 10.822 contagiati, grazie a oltre 500mila tamponi. Il Paese ha fabbricato 8 milioni di mascherine al giorno, di cui 2 milioni distribuite negli ospedali e 6 milioni in farmacie e uffici postali. Il contagio è stato frenato con l’app che dà risultati dei test direttamente sul cellulare così come l’avviso di possibile contagio via sms. I dati vengono seguiti dai centri medici che isolano e seguono i pazienti. Arrivata a casi 0, Seul sta per ripartire calcio e baseball, a porte chiuse.

 

Germania

Riaperture diversificate per i Land

Si stima che i morti siano meno di 8mila e 169mila i casi confermati di Covid-19. Secondo alcuni media tedeschi la Germania testa oltre 100mila persone al giorno. Strumenti protettivi come le mascherine sono obbligatorie nei negozi e sui mezzi di trasporto pubblici, mentre il contagio viene tenuto sotto controllo grazie alla tecnologia ibrida supportata da strumenti Google e Apple, criticata dagli attivisti per violazione della privacy. Berlino ha cominciato a rilassare le misure del lockdown, ma la cancelliera Merkel ha lasciato libertà di riapertura diversificata in ogni regione. Il calcio ricomincia a porte chiuse il 15 maggio.

 

Olanda

L’app è stata un flop, ma iniziano le riaperture

In totale i decessi ufficiali per Coronavirus sono oltre 5mila, mentre sono stati registrati 42mila positivi. L’Olanda dice di effettuare circa 7mila test al giorno. Le mascherine sono obbligatorie in luoghi e trasporti pubblici, ma l’app “Covid19 alert”, voluta dal governo, è stata un flop. Dall’11 maggio riaprono i parrucchieri, dal 1° giugno caffè e ristoranti. Il calcio riprende il primo settembre a spalti vuoti.

 

Russia

Dubbi sul vero numero dei morti e il “cybergulag”

Ufficialmente in Russia ci sono stati solo 1.723 decessi, ma la Federazione non include nelle stime chi muore per altre patologie nonostante sia positivo al Covid e i dati ufficiali parlano di 187.859 casi di contagio: oltre 10mila al giorno, ma si stima ce ne siano 300mila solo a Mosca, dove ne sono registrati solo 92.676. Secondo l’agenzia governativa Tass si effettuano dai 34 ai 37mila test al giorno, ma la qualità dei tamponi è stata criticata dai medici perché poco affidabili. Fortemente raccomandate le mascherine, ma sempre obbligatorie in negozi e sui mezzi pubblici. Attraverso un codice Qr, generato dai siti governativi, si può uscire. Poiché viola pesantemente la privacy, gli attivisti lo hanno ribatezzato “cybergulag” . Il lockdown non finirà l’11: ieri le autorità lo hanno esteso fino al 31 maggio. Le regioni meno colpite adotteranno gradualmente misure meno severe delle regioni focolaio. Dopo il 31 maggio a Mosca saranno concesse corse e passeggiate.

 

Svezia

Liberi tutti fin dall’inizio dell’emergenza

I morti sono 3.175. La Svezia è il paese che finora ha adottato l’approccio più morbido. Per questo non ha imposto il lockdown. Il risultato però è tutt’altro che incoraggiante. I contagiati sono 25,265 su una popolazione di 10 milioni di abitanti. I tamponi: non si conosce il numero esatto e per quanto riguarda le mascherine non è obbligatorio indossarle. La Svezia non ha insomma posto alcun blocco formale. Aperture: asili, le scuole elementari, le medie e gli uffici statali e privati. Infine, nessun tracciamento con app e nessuna limitazione allo sport.

 

Francia

Da lunedì via alle scuole fra le polemiche

La Francia tocca 26.230 morti (16.497 in ospedale e 9.733 nelle case di riposo) i contagiati sono 137.779, stando a Santé Publique France. Per Worldmeter sono 174,791. Tamponi: dopo carenze e ritardi, da lunedì, l’obiettivo è di realizzare 700 mila test a settimana. Mascherine: ordinate 2,2 miliardi, il governo intende produrne 20 milioni a settimana entro fine maggio. Da lunedì diventano obbligatorie nei trasporti. L’app si chiama StopCOVID, e la sua installazione sarà volontaria. entrerà in funzione solo il 2 giugno. Da lunedì, aperti i negozi (tranne caffè e ristoranti), scuole materne e elementari, biblioteche e “piccoli” musei, parchi e giardini (nelle regioni “verdi”) . Sulle scuole ci sono state polemiche da parte di insegnanti e sindacati giudicando la misura troppo rapida. Sport: la prossima settimana di nuovo possibile correre, andare in bici, camminare senza limiti di spazio e tempo. Autorizzati anche il tennis e il golf, Chiuse palestre e piscine.

A Genova la svolta francescana del dopo Bagnasco

Dalla tonaca al saio. Il cardinale Angelo Bagnasco lascia la guida della Chiesa di Genova al francescano Marco Tasca. Non è soltanto un avvicendamento fisiologico, ma un passaggio di testimone che mostra chiaramente l’impronta di Francesco. Una curia, quella del capoluogo ligure, che più di altre è stata guidata da cardinali di primo piano nella gerarchia vaticana. Da Giuseppe Siri, entrato più volte in Conclave come papa e sempre uscito cardinale, poi Tarcisio Bertone e ultimo, appunto, Bagnasco. Cardinali, secondo i critici, anche di potere. Attenti alla Curia, alle gerarchie, alla liturgia.

L’addio di Bagnasco, che resta per ora alla guida dei vescovi europei, non è una sorpresa: a 77 anni ha raggiunto i limiti di età. “A Genova, cominciando dai nostri sacerdoti, esprimo la mia commossa gratitudine e rinnovo il mio abbraccio di affetto e preghiera”, è stato il saluto del cardinale uscente. Con quei toni misurati che Bagnasco aveva cercato un poco di mitigare negli ultimi anni, forse per essere più in sintonia con Bergoglio, testimone di una Chiesa che pareva lontana dalla sua. Bagnasco prudente, misurato. La sua ascesa è legata al papato di Joseph Ratzinger che lo volle a Genova e poi alla guida della Conferenza Episcopale Italiana (Cei). Un prelato amato dalle gerarchie vaticane e, a Genova, dal mondo cattolico più conservatore. E non solo da questo. Negli anni di Bagnasco la Curia genovese non aveva troppo nascosto i propri gradimenti politici. Aveva accettato un posto nella Fondazione della banca Carige, attirandosi anche critiche. Perché la chiesa ligure ha sempre avuto un’altra faccia, quella dei preti di strada. E proprio ai funerali di don Andrea Gallo avvenne un episodio che ha segnato il declino dell’immagine di Bagnasco, almeno in città: il cardinale fu contestato. Un mormorio cominciò a salire tra i fedeli. Da allora qualcosa è cambiato. Era cominciata la parabola discendente: Bagnasco criticato per la crisi della vocazioni e quel seminario così grande, ma ormai quasi vuoto.

Poi ci fu il disastro del Morandi, con il cardinale che attese mesi prima di visitare il luogo della tragedia. E ci sono stati anche gli scandali sessuali nelle diocesi della Liguria: da Albenga – di fatto commissariata da Bergoglio – a Savona. L’ultimo episodio riguarda la parrocchia genovese di Albaro (la procura a dicembre ha aperto un fascicolo dopo l’inchiesta del Fatto). Bagnasco, va detto, non è mai stato toccato dagli scandali; le associazioni delle vittime, come la Rete l’Abuso, avevano criticato l’approccio prudente della Curia.

Ma in città tanti attendevano un avvicendamento già rinviato anni fa da Bergoglio. E la scelta di Marco Tasca, come dice un sacerdote che conosce bene il nuovo vescovo, “non poteva essere più rivoluzionaria per Genova”. Addio alle cerimonie impeccabili, alla tonaca sempre curata di Bagnasco, arriva il saio da frate. Perché Tasca è un francescano. Nato sessantatre anni fa in provincia di Padova, nel Veneto profondo e contadino, Tasca è stato dal 2007 al 2019 ministro generale dei frati minori conventuali (quelli di Sant’Antonio da Padova). Una storia personale che lascia intuire il percorso futuro: gli studi di psicologia, seguendo il maestro Viktor Frankl, il medico deportato ad Auschwitz che fu uno dei padri dell’analisi esistenziale e della logoterapia. Il dialogo, insomma. Poi sono arrivati gli anni alla guida dei frati minori con i continui viaggi e l’apertura al mondo.

Chi lo conosce lo indica come “uomo di incontro, ma anche saggio. Un pastore che sarà capace di grandi cambiamenti senza rotture traumatiche”. Differenze profonde che si vedono nel percorso umano, nei modi. Perfino in quelle mani spesse, nel volto largo di Tasca.

“Chiedo a Dio”, ha detto il nuovo vescovo nel suo saluto ai genovesi, “che la mia missione tra voi sia caratterizzata dalla costante ricerca della comunione, del dialogo, della relazione fraterna. Porto con me, come povera dote, ciò che ho cercato di imparare e di vivere in questi ormai quasi quarant’anni di vita religiosa francescana, che si riassume nella fraternità. Come vostro vescovo, desidero essere padre e fratello, con il cuore sempre aperto all’ascolto e all’accoglienza”.

Dopo l’arrivo di Matteo Zuppi, il sacerdote proveniente dalla comunità di Sant’Egidio e diventato vescovo di Bologna, e di Marco Delpini a Milano ora tocca a Genova. Finisce l’era di Angelo Scola e Angelo Bagnasco, la chiesa di Francesco mostra chiaramente la propria fisionomia anche nelle diocesi chiave del Nord Italia.

“Qui abbiamo perso la guerra”. Così parlò Pignatone in uscita

Dal dicembre scorso Nicola Zingaretti è stato archiviato con provvedimento del Gip dall’accusa di finanziamento illecito. Mesi prima che la sua Procura chiedesse l’archiviazione Giuseppe Pignatone – con la valigia in mano mentre lasciava l’ufficio – ha ricevuto una telefonata dal leader Pd, probabilmente per gli auguri in vista della pensione nel suo ultimo giorno di lavoro.

La circostanza emerge per caso dai faldoni depositati a Perugia alla fine dell’indagine su Luca Palamara.

È il 9 maggio 2019. Solo due settimane dopo esploderà il caso Csm con l’uscita sui giornali delle intercettazioni di Palamara.

In quel momento è noto solo che c’è un fascicolo senza indagati a Perugia che riguarda i rapporti tra Palamara e il suo amico Fabrizio Centofanti. Il Fatto ne ha scritto nel settembre del 2018 sottolineando il ruolo di Palamara, leader della corrente Unicost, nell’elezione del vicepresidente del Csm David Ermini.

Paola Balducci, avvocato di grande fama e clientela importante, consigliere laico del Csm, dal 2014 al 2018, in quota Sinistra e Libertà chiama Palamara, componente della consiliatura uscente del CSM, con il quale ha un rapporto di confidenza. L’informativa della GdF descrive questa telefonata forse anche perché è utile a raccontare il clima della battaglia in corso a Roma per la nomina del successore di Pignatone, che da ottobre 2019 è il Presidente del Tribunale Vaticano.

I due candidati forti per la Procura di Roma allora sembravano il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, sostenuto da Palamara con Unicost, dal Pd Cosimo Ferri, parlamentare con presa nella corrente MI, e da AeI, la corrente di Davigo, Di Matteo e Ardita. L’altro candidato era il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, amico di Pignatone dai tempi di Palermo. Sono le 8 e 34 del 9 maggio e Balducci chiama Palamara per raccontargli il suo incontro con Pignatone, avvenuto forse quella mattina o il giorno prima, 8 maggio, ultimo giorno di lavoro di Pignatone.

Palamara: E il Pigna che ti ha detto è stato contento che sei andata?

Balducci: No molto contento mi ha detto ‘Paola io ti devo dire la cosa importante puoi parlare mezzo secondo’, dice ‘di una persona come te come siamo tutti noi, noi abbiamo perso la guerra cioè per dire questo che dice in questo momento dobbiamo prendere atto che le Istituzioni di prima non ci sono più allora una cosa è quando vinci e perdi una battaglia ma una cosa è quando perdi la guerra in questo momento storico con tutti questi cambiamenti no poi per carità se ne può fare un’altra di guerra però bisogna stare basso profilo’.

A questo punto la Gdf riporta la storia della telefonata del leader Pd: “Balducci poi gli racconta che mentre stava parlando con Giuseppe (Pignatone Ndr) lo chiama a quest’ultimo Nicola specificando Zingaretti”. Balducci racconta che dopo un pò per combinazione Zingaretti avrebbe chiamato anche lei. Poi la GdF annota: “la conversazione prosegue su Nicola e del suo status”.

Lo status potrebbe essere legato al fatto che a marzo, 50 giorni prima della telefonata, L’espresso aveva svelato che Zingaretti era indagato dalla Procura di Roma per finanziamento illecito a seguito di una dichiarazione de relato non riscontrata del siciliano Giuseppe Calafiore, in merito ad asseriti e indimostrati finanziamenti dell’imprenditore Fabrizio Centofanti.

I pm di Roma chiederanno poi l’archiviazione il 18 settembre 2019 con provvedimento del Gip del 27 dicembre 2019. Zingaretti quando parla con Pignatone è un indagato del suo ex ufficio. L’ultimo giorno di Pignatone in servizio, secondo i giornali che abbondavano di resoconti del suo addio, era stato l’8 maggio.

“Ricordo quella telefonata di saluto istituzionale”, spiega Paola Balducci, “e non ricordo invece questo commento sullo status con Palamara”. La conversazione è riportata dalla GdF probabilmente perchè descrive il clima che si respirava in quei giorni. Le considerazioni di Pignatone riferite da Paola Balducci descrivono un procuratore poco entusiasta del quadro istituzionale e nostalgico dei bei tempi andati. Non lo cita ma sembra quasi che Pignatone si ispiri all’atteggiamento del proverbio siciliano: ‘calati iunco ca passa la china’ cioé meglio fare come il giunco che non si oppone alla piena ma saggiamente si piega aspettando che passi per poi rialzarsi.

In sella c’era il Governo M5s-Lega e potrebbe essere che l’anziano magistrato fosse un po’ deluso. Dunque, ‘basso profilo’ in attesa di tempi migliori. Poi l’avvocato Balducci racconta anche di un magistrato di nome Mario che le avrebbe manifestato la sua preoccupazione per il possibile successore di Pignatone. Ovviamente riportiamo quanto dice l’avv Balducci come fa la GdF solo per dare conto del clima in Procura: (mi) “dice Paola devo scappare perché dovevano andare a sentire sempre per la vicenda di Siri (…) dice io sono preoccupato per il futuro perché lui è preoccupato del capo che verrà hai capito?”

A quel punto Luca Palamara ride soddisfatto e commenta “fa bene”. Non immaginava il pm romano che slavina gli stesse per arrivare in testa da Perugia.

Poi Balducci prosegue: “invece Giuseppe mi ha detto: ‘Io spero di quello del Sud perché l’altro è troppo in mano a Cosimo”. Sembra di capire che Pignatone preferisse quindi Lo Voi (Palermo) a Viola, che stava al Nord a Firenze, perché considerato – come effettivamente era – legato a Cosimo Ferri. Alla fine Paola Balducci ridendo commenta: “Posso dire che penso? Tra i due litiganti c’è un terzo che gode”. Alla fine per un gioco del destino, o meglio delle indagini e delle correnti, ha avuto ragione l’avvocatessa: il procuratore di Roma è Michele Prestipino, al fianco di Pignatone a Palermo, Reggio e Roma per venti anni.

Toti e la pioggia di pubblicità: 60 mila euro sul “Secolo XIX”

Il vizio della comunicazione mista a propaganda non ce l’aveva solo Matteo Salvini quando stava al Viminale. Pure Giovanni Toti non scherza. Nei giorni scorsi il governatore ligure ha inondato le pagine del Secolo XIX di pagine di pubblicità. Addirittura 21 pagine su 40 hanno ospitato lo spot con cui la Regione spiegava ai liguri l’inizio della Fase 2. Un investimento di 60 mila euro verso il principale organo d’informazione regionale. L’ex giornalista Mediaset non è nuovo a queste iniziative. Alla comunicazione tiene parecchio. Ma la linea tra fare comunicazione di utilità generale o propaganda coi soldi pubblici a volte è assai sottile. Nella previsione di spesa per il 2020, la Regione ha previsto un milione e 630 mila euro per “attività di rappresentanza, eventi e iniziative di divulgazione dell’attività regionale”. L’ultima spesa sostenuta, racconta il sito di news Liguri tutti, è di 150 mila euro per la campagna “Chi ama la Liguria se la porta a tavola”, con spot divisi su canali nazionali (come Mediaset e La7) e locali.

Nel giugno 2019, invece, la Regione ha finanziato Primocanale, tv dell’editore Maurizio Rossi (dove Toti è spesso ospite) con 150 mila euro per le puntate di “Viaggio in Liguria”, trasmissione di promozione delle bellezze locali. Ma di episodi simili nel corso degli anni ce ne sono diversi. L’ultima prodezza, però, riguarda l’emergenza Covid-19. La Regione Liguria ha stanziato un finanziamento per un milione di mascherine nelle farmacie liguri. Iniziativa encomiabile. “Un milione di mascherine gratis per i residenti in Liguria!”, annuncia trionfante su Facebook l’assessora alla comunicazione Ilaria Cavo, anche lei ex giornalista. Peccato solo per quel logo rimasto, in basso a destra: “Cambiamo-Toti presidente”, la formazione politica del governatore (le Regionali incombono). Ma dev’essere stata sicuramente una svista. Toti ha smentito, accusando il Fatto di diffondere fake news, ma sul web le tracce di quello spot sono ben visibili.