La Asl To3 disse: “I dimessi nelle Rsa”

I trasferimenti nelle Rsa di pazienti Covid dimessi dagli ospedali, ma ancora potenzialmente contagiosi, in Piemonte avvenivano non per prassi, ma in virtù di disposizioni scritte. Perlomeno in provincia di Torino, dove il 4 aprile la Asl To3 metteva nero su bianco: “Gli ospiti della struttura, ricoverati in un presidio ospedaliero per il Covid-19, possono fare ritorno nella struttura d’origine dopo completa stabilizzazione clinica, attestata nella lettera di dimissioni, senza attendere la negativizzazione dell’infezione di Sars-Cov-2”. Sono le “Indicazioni e procedure operative” per le Rsa. A quell’epoca siamo in piena pandemia e la Regione scala le drammatiche classifiche di contagi e morti. È già tra le peggiori. Nelle Rsa del Piemonte i sindacati stimano tra 500 e 1.000 morti, ma mancano centinaia di strutture. Ci sono diverse inchieste giudiziarie aperte. Al 20 aprile la Regione conta sui tamponi effettuati il 35% di positivi tra gli ospiti e il 23% tra gli operatori.

Nella direttiva l’Asl precisa che occorre fare i tamponi “a tutta la popolazione degli ospiti presenti e degli operatori” al “verificarsi di un caso Covid”, facendo un passo avanti rispetto al periodo precedente, ma non vieta il ritorno dei pazienti infettati dagli ospedali. E ammette nuovi ingressi. “È possibile accogliere nuovi utenti in struttura”, si legge, senza accenni ai tamponi. L’unica misura di prevenzione per il nuovo arrivato è l’isolamento per 14 giorni. Trascorso il quale, l’anziano è considerato “non contagioso”. I tamponi non sono previsti né per gli anziani che sono stati a contatto con pazienti positivi, né per i lavoratori che hanno incontrato colleghi colpiti da Covid. E per la carenza di personale, dovuta al virus, l’Asl raccomanda di diminuire il tempo da dedicare ai pazienti.

La direttiva è: “In deroga alle vigenti normative di settore (…) fermo restando la garanzia dell’assistenza medica ed infermieristica, è consentito erogare minutaggi di assistenza tutelare alla persona inferiori agli standard”. Ad esempio, non più 120 minuti ogni 24 ore ma un tempo inferiore. Questo per “consentire il risparmio di personale di riserva e favorire un adeguato turn over”. Nonostante il virus, nelle Rsa l’ingresso dei visitatori non viene del tutto bloccato. In un documento del 17 marzo l’Asl precisa che “gli accessi dei familiari non devono essere interdetti totalmente ma fortemente limitati, valutando caso per caso”. Nessun obbligo di mascherine per i parenti salvo quelli con “sintomi da raffreddamento-respiratori”. Anche ad aprile la Regione non impedisce in modo assoluto il ritorno degli anziani colpiti da Covid dagli ospedali alle Rsa. Eppure l’Unità di crisi regionale il 29 aprile scrive di episodi di “ripositivizzazione dopo due tamponi negativi, in alcuni casi con ripresa della sintomatologia”.

Tra mascherine e ostriche gli Zinga boys traballano

“Con te queste cose non accadevano. Serve ancora la tua mano”. Uno sfogo, una riflessione, una “pazza idea”. La consapevolezza che rompere un equilibrio decennale possa aver inceppato una macchina infallibile. Nel momento del bisogno, Nicola Zingaretti è tornato a rivolgersi al suo ex vice in Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio, candidato alle Europee nel 2019 per saldare gli equilibri interni dopo che le sue strategie lo avevano spinto fino al vertice del Pd. Ora la sua opinione potrebbe tornare a pesare dalle parti di via Colombo. Almeno così vorrebbe il segretario Dem.

Un “rimpasto” negli uffici politici del governatore? Un coinvolgimento nelle strategie comunicative? Ridimensionare l’attuale numero due, Daniele Leodori? Si vedrà. Se ne parla. “Si vedono spesso, sono amici e parlano di come far crescere il sistema regionale anche nell’Ue. Il resto sono chiacchiere”, smentisce lo staff del presidente, come quello di Smeriglio. Eppure, da più parti arrivano conferme sulla riflessione in atto.

In fondo, nel momento più difficile per il Paese, per la prima volta la Regione procura parecchi grattacapi. La vicenda delle “mascherine fantasma”, rivelata daIlfattoquotidiano.it, era stata derubricata troppo presto a “bufala politica”. Ma le indagini della Procura incombono e portano all’analisi di una serie di atti formulati in maniera disordinata da uffici (formalmente) di diretta competenza del governatore. Ci si è messo pure il capo di gabinetto, Albino Ruberti, che il 1 maggio ha fatto parlare l’Italia concedendosi un pranzo fuori legge sulla terrazza di un collaboratore della ministra De Micheli: domenica su Il Messaggero era “una braciata” a latere di “un pranzo di lavoro”; lunedì Il Fatto ha rivelato non solo che le “salsicce” in realtà erano ostriche, ma che Ruberti si era lasciato andare con i poliziotti nel classico “tu non sai chi sono io”.

Strigliato ben bene Ruberti, il problema è uscire dalle sabbie mobili del caso mascherine. E un primo consiglio sarebbe già andato a buon fine. Ieri Zingaretti ha offerto una tregua alle opposizioni. Giovedì 15 andrà in Consiglio regionale a riferire “anche” sul caso dei dispositivi di protezione. L’idea, a quanto trapela, è di ammettere di aver “sottovalutato” il tema e di dare l’ok a una commissione d’inchiesta da offrire a Chiara Colosimo, fedelissima di Giorgia Meloni, che ha scoperchiato il caso. Ma sul vassoio di Zinga potrebbe esserci anche una testa eccellente: Carmelo Tulumello, il direttore della protezione civile che ha firmato tutti gli atti. Ora, pare, anche Andrea Cocco, vice capo di gabinetto, che potrebbe aver creato il link con la società inadempiente.

Ma la mano di Smeriglio si vedrà negli equilibri politici. In Regione scalpita Alessio D’Amato. Si racconta di un assessore alla Salute arrabbiatissimo. In fondo lui sta uscendo bene dal fronte dell’emergenza, mentre rimprovera a Leodori di essersi fatto sfuggire le cose proprio nel mese di “supplenza” del governatore quarantenato. Poi c’è il tema “sindaco di Roma”. Zingaretti è al lavoro da mesi su un nome altisonante che eviti le primarie. Enrico Letta in pole position, poi Franceschini e Sassoli. A Smeriglio sta bene, ma vuole il ticket col suo giovane pupillo, Amedeo Ciaccheri, solo a quel punto disposto a rinunciare alle primarie.

Requisite oltre 300mila mascherine “cinesi”: 20mila erano destinate a Palazzo Madama

Oltre 300mila mascherine prodotte in Cina. Sono arrivate giovedì 30 aprile a Civitanova Marche. In parte dovevano finire sul bancone di 30 farmacie. Un’altra parte avrebbe dovuto prendere la via di Roma per essere consegnata al Senato. Invece il 5 maggio l’Agenzia delle dogane le ha requisite “su richiesta del commissario straordinario” Domenico Arcuri.

Le cosiddette “mascherine di Stato” a 50 centesimi annunciate il 26 aprile si sono rivelate una chimera: quelle che le farmacie avevano in magazzino sono finite in poche ore ed è impossibile importarle, né tantomeno produrle in Italia, per venderle a quel prezzo. Così giovedì il commissario ha stretto un nuovo accordo con i distributori farmaceutici per riuscire a proporle al pubblico al costo di 61 cent (50 più l’Iva).

Nel frattempo proseguono le requisizioni. Quelli fermati a Civitanova sono in tutto 315mila pezzi: 15mila modello Kn95 e 300mila chirurgiche senza marchio CE. “Per questo le avevo fatte declassare, in modo che potessero essere vendute come filtranti generiche”, spiega Claudio Trasatti, titolare della Al.Si. Srl, azienda di Fermo che le aveva importate. Di queste, 295mila, era destinata a 30 farmacie: “Quindici avevano già pagato il 75% dell’importo. La cosa grave è che sono destinate ad altre farmacie”, aggiunge Trasatti.

Ventimila chirurgiche, poi, erano destinate a Palazzo Madama: “Il contratto era già stato firmato e protocollato. Ci siamo sentiti anche ieri, ho dovuto spiegare per quale motivo le mascherine non erano state ancora consegnate”.

Ora “la merce requisita – si legge sul verbale di esecuzione del decreto – come indicato da Ordinanza di requisizione ex art. 122 del decreto legge 18/2020 (il cosiddetto Cura Italia, ndr), sarà consegnata al Dipartimento della Protezione Civile”. “Le avevo comprate più di un mese fa, molto prima del decreto del commissario Arcuri – prosegue l’imprenditore – era la prima volta che facevo importazione di chirurgiche. Avevo fatto quest’ordine per dare una mano, al costo di 55 centesimi al pezzo. Di questi 52 centesimi sono il prezzo di costo, non volevo lucrare”. La spesa era stata di 118mila euro. “Poi c’erano 42mila euro di trasporto e 37mila di Iva”, aggiunge l’imprenditore.

Il decreto di requisizione specifica che “l’indennità spettante al proprietario verrà determinata e liquidata con provvedimento del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19. Ma al momento non so se e quanto mi verranno rimborsate”. Oltre una settimana dopo il loro arrivo le mascherine sono ancora ferme. “A oggi non ne so nulla. Sembrava che dovessero finire in tutta fretta alla Protezione civile di Bologna e invece sono ancora lì, nel magazzino Ots di Civitanova”.

Ieri sono stati sdoganati a Fiumicino i primi tre milioni di pezzi destinati alle farmacie: sono quelli che la Protezione civile aveva nei suoi magazzini, potranno essere venduti a 61 cent. Difficile che nel resto d’Italia che possano arrivare prima di lunedì. “Per ora ancora nelle farmacie non ci sono”, commenta Marco Cossolo, presidente di Federfarma.

Maturità e medie: stabiliti i criteri per voti ed esami

Come ormai da tutta l’emergenza, la scuola è alternanza di certezze e incognite, influenzata dall’andamento epidemiologico. Oggi c’è la certezza della chiusura fino a fine anno scolastico, ma anche l’incognita della commissione Cultura di Montecitorio che per mezzo del suo presidente pentastellato, Luigi Gallo, chiede che si riapra dopo il 18 maggio per permettere ai ragazzi non raggiunti dalla didattica a distanza di recuperare. C’è l’incognita della riapertura a settembre con i protocolli ancora in stesura e in attesa di essere poi approvati dal Comitato tecnico-scientifico e c’è la certezza degli esami finali. Ieri ai sindacati sono arrivate le ordinanze che dettagliano lo svolgimento delle prove e che portano qualche elemento definitivo in quello che finora è stato un regno delle ipotesi.

I voti. Sono previsti e la valutazione “avverrà sulla base di quanto effettivamente svolto”, quindi anche delle attività online, ma gli alunni potranno essere ammessi alla classe successiva pure se hanno insufficienze in una o più discipline, e i voti inferiori al 6 saranno comunque presenti nel documento di valutazione. Il recupero nei primi giorni di settembre, al netto di come le Regioni decideranno di riaprire, sarà quindi riservato allo svolgimento di un piano individualizzato per recuperare quanto non è stato appreso. Resta ferma la possibilità di non ammettere all’anno successivo studentesse e studenti con un quadro carente fin dal primo periodo scolastico. L’attività didattica del prossimo anno scolastico sarà riprogettata per recuperare contenuti non svolti durante quest’anno.

L’esame di terza media. Gli studenti saranno valutati attraverso lo scrutinio finale, che terrà conto anche di un elaborato da consegnare prima del termine delle lezioni. L’argomento dell’elaborato sarà concordato con i docenti, valorizzando il percorso fatto da ognuno. Sarà presentato oralmente, online, davanti al Consiglio di classe, sempre entro il termine delle lezioni e sarà valutato in sede di scrutinio finale sulla base dell’originalità, della coerenza con l’argomento assegnato e della chiarezza espositiva.

La maturità. Come già anticipato, si inizia il 17 giugno alle 8.30 e ci sarà un solo un colloquio orale. Tutti gli studenti potranno sostenere le prove, il voto finale si baserà sul percorso realmente fatto dagli studenti e per questo il credito del triennio finale è stato aumentato e potrà valere fino a 60 punti, invece dei 40 di prima dell’emergenza. Al colloquio orale si potranno conseguire fino a 40 punti. Il voto massimo finale possibile resta 100/100. Si potrà ottenere la lode e l’anno in corso avrà un peso fino a 22 crediti.

La prova. La prova orale si svolgerà in presenza (a meno che le condizioni epidemiologiche non lo consentano e con specifiche deroghe per casi particolari) davanti a una commissione composta da sei membri interni e un Presidente esterno, in modo che gli studenti possano essere valutati dai docenti che conoscono il loro percorso. Il documento, con quanto effettivamente svolto nel percorso di studi e a cui fare riferimento per la presentazione dei materiali durante la prova, sarà prodotto dai consigli di classe entro il 30 maggio. Ciascun candidato discuterà, in apertura di colloquio, un elaborato sulla disciplina di indirizzo che avrebbe dovuto caratterizzare la seconda prova, trattando un argomento concordato che sarà assegnato entro il primo giugno. Poi si discuterà un breve testo di lingua e letteratura italiana e sarà richiesta l’analisi del materiale scelto dalla commissione. Con una breve relazione o un elaborato multimediale, lo studente dovrà raccontare l’esperienza di PCTO (l’alternanza scuola-lavoro) e dar prova di conoscenze su “Cittadinanza e Costituzione”.

Il voto a luglio e gli aiuti: le micce della guerra al governo per la Fase 2

Le Regioni pretendono, protestano e addirittura decidono di riaprire, con ordinanze (la Puglia) e leggi (la provincia autonoma di Bolzano). Perché hanno fretta di placare imprese e cittadini, ma anche obiettivi molteplici e talvolta diversi tra loro: dal mordere un governo ostile all’ottenere già in estate le urne, fino all’esigenza di tutti, ottenere più soldi, proprio da quel governo con cui bisticciano ogni giorno. È lo scenario dietro all’ennesimo giorno di guerriglia degli enti locali a Roma: con l’Alto Adige che ha riaperto già ieri negozi e molte attività, e l’esecutivo che tramite il ministro per gli Affari regionali Boccia impugna la legge e poi predica calma per bocca del ministro della Salute, Roberto Speranza: “Dobbiamo gestire con attenzione e gradualità le riaperture, altrimenti finiremo col vanificare i sacrifici fatti finora”.

Troppo forte l’impatto dello strappo di Bolzano, che ha riaperto già ieri negozi, attività produttive, industriali e commerciali, mentre da lunedì toccherà a parrucchieri, bar e ristoranti, ma pure a musei e biblioteche. E ha battuto un colpo anche la Puglia, con un’ordinanza che prevede la riapertura di parrucchieri e centri estetici dal 18 maggio, “ma solo in coerenza con i provvedimenti che verranno adottati dal governo e nel rispetto dei protocolli di sicurezza” giura il governatore dem Michele Emiliano.

Molto si muove, prima del nuovo Dpcm previsto per il 17 maggio con cui il governo vuole gestire le riaperture, differenziandole regione per regione in base ai dati sui contagi. Difficile contenere l’insurrezione di molti governatori, che vogliono riaprire i negozi al dettaglio già da lunedì e decidere in autonomia dal 18 maggio quando e come far ripartire tutto il resto. Un’alzata di scudi alimentata anche dalla voglia di fiaccare il governo dei presidenti di centrodestra, come dall’urgenza di nuove elezioni locali, a luglio, per quasi tutti i presidenti uscenti: desiderosi di sfruttare la visibilità attuale prima dell’autunno, quando la crisi economica e un’eventuale recrudescenza del virus potrebbero sparigliare tutto. E poi ci sono sempre loro, i soldi. Perché per le Regioni il governo ha previsto un fondo di un miliardo e mezzo per ripagarle delle mancate entrate dalle tasse locali, e due terzi della cifra andranno a quelle a statuto speciale.

Ma come verranno distribuite le risorse va ancora definito. “E allora le Regioni insistono sulle riaperture anche per avere di più” accusa fuori taccuino una fonte di governo. Cattivi pensieri o no, il tema delle tante micce dietro alla guerra c’è. E divide partiti e schieramenti. Così un leghista come il governatore del Veneto Luca Zaia esulta per la decisione dell’Alto Adige (“un cavallo di Troia per il governo”) e soprattutto invoca di nuovo il voto a luglio, a dispetto del rinvio delle Regionali in autunno già deciso dal governo con decreto. “Se non ci fanno votare si sospende la democrazia, faccio appello anche al capo dello Stato” insiste. Ma è distante anni luce da un altro presidente del Carroccio, il lombardo Attilio Fontana, spaventato dall’accelerazione di molti presidenti. “Controlliamo i numeri sui contagi prima di parlare di date” gemeva ieri sul Corriere della Sera. Altre note rispetto allo Zaia che pretende il voto anche per consolidarsi come uomo forte della Lega, a dispetto del capo in costante difficoltà, quel Matteo Salvini che – sussurrano – non preme affatto per le Regionali. E la stessa spaccatura c’è nei dintorni di Forza Italia: con il governatore della Liguria, l’ex forzista Giovanni Toti, che spinge per le urne, e il vicepresidente di Fi, Antonio Tajani, che fa muro: “Votare a luglio sarebbe pericoloso”. Certo, il premier Giuseppe Conte al Fatto si è detto possibilista: “Non mi opporrei se il Parlamento dovesse valutare la possibilità”. E anche Boccia è aperturista.

Ma nel Pd non sono tutti così convinti. “Temono che il governatore della Campania Vincenzo De Luca ne uscirebbe troppo rafforzato” si dice nei Palazzi. Per non parlare dei Cinque Stelle, che vogliono un election day in autunno con dentro anche il referendum sul taglio dei parlamentari e le Amministrative pure per fare il pieno di elettori per il referendum, una loro bandiera.

Non solo: il decreto che rinvia le elezioni all’autunno va ancora convertito in legge. E per approvare in Parlamento l’anticipazione delle urne a luglio (magari il 12, come chiedono i governatori) c’è rimasto poco tempo. “Ma con la volontà politica si può fare tutto, tanto più che in autunno potrebbe esserci una risalita dal virus e allora le urne salterebbero di nuovo” dicono ambienti di governo. Vogliosi di tregua.

Virus più debole, tamponi e riaperture: scienziati a confronto e dati che mancano

Dice il ministro della Salute Roberto Speranza che “dobbiamo ascoltare i nostri scienziati e il monitoraggio costante che si sta facendo. Solo tra qualche giorno misureremo esattamente gli effetti delle aperture fatte finora”. Lo dice ai governatori che vogliono ripartire in ordine sparso. Ma anche gli scienziati, di fronte a un virus nuovo e a dati non sempre completi, dicono cose diverse fra loro.

Il professor Andrea Crisanti, il romanissimo cervello di ritorno dall’Imperial College di Londra che ha consentito alla Regione Veneto di limitare i danni facendo molti più tamponi che in Lombardia e altrove, diceva dieci giorni fa che riaprire anche parzialmente in tutta Italia sarebbe stata “una follia”, mentre “una riapertura differenziale per regioni” avrebbe permesso di “valutare la nostra capacità di reazione, che non è stata minimamente testata”. I suoi colleghi dell’Istituto superiore di Sanità (Iss) e il Comitato tecnico scientifico, invece, hanno dato il via libera alla Fase 2 dal 4 maggio in tutto il Paese. Ieri l’Iss ha detto che il tasso di riproduzione del virus Rt, il numero di persone che ciascun infetto contagia in media, al 5 maggio era tra 0,5 e 0,7 in Italia, lo 0,57in Lombardia. Ma qualche giorno fa l’assessore lombardo Giulio Gallera diceva che era 0,8 in Italia e 0,75 nella sua regione. E c’è chi spiega che senza le date dei contagi, quasi mai indicate, è impossibile calcolarlo. Spiega il professor Giuseppe Ippolito dello Spallanzani di Roma che “sono stime, modelli matematici, basta cambiare un parametro e cambia tutto. Nessuno prende decisioni su queste basi. E speriamo che non succeda come in Germania, dove R è cambiato in tre giorni e hanno dovuto chiudere alcune cose”.

Secondo il professor Massimo Galli del Sacco di Milano, il capoluogo lombardo “è un po’ una bomba, appunto perché in tanti sono stati chiusi in casa con la malattia” e “ora tornano in circolazione”, ha detto a Repubblica. Anche lui chiede più tamponi e più test sierologici, compresi i pungidito. “Servono sistemi diagnostici più semplici, ma non li avremo subito”, concorda Ippolito. Intanto però Crisanti, giovedì a Piazzapulita, si è mostrato molto scettico sulla capacità delle Regioni di fare cinque milioni di tamponi, come dicono da Palazzo Chigi.

Il professor Giuseppe Remuzzi dell’istituto Mario Negri ripete da giorni che “negli ospedali stanno arrivando casi sempre meno gravi. Non so se è il virus a essere mutato o se a essere cambiata è la carica virale di ogni paziente” ma “sembra una malattia molto diversa da quella che ha messo in crisi le nostre strutture”. Del resto il 3 aprile c’erano 4.068 pazienti in terapia intensiva e ieri 1.168; i ricoverati nei reparti ordinari sono passati dai 29.101 del 4 aprile ai 14.636 di ieri. Anche i decessi sono scesi dai 919 del picco del 27 marzo – quando forse erano molti di più se Istat e Iss calcolano una mortalità in eccesso di poco meno del doppio di quella attribuita al Covid tra il 20 febbraio e il 30 marzo – a una media di 240 negli ultimi sette giorni. “Sono riferiti ai contagi di tre settimane fa, sempre che siano davvero riferiti al giorno in cui sono registrati. Non abbiamo ancora dati completi”, avverte Ippolito.

Galli ha ribadito ieri ad Agorà che “non ci sono evidenze” di mutazioni o affievolimenti del virus, semmai è “la coda di un’epidemia che ha visto le persone più fragili presentare le forme più gravi in tempi precedenti e attualmente abbiamo nei nostri ospedali forme meno gravi – dice –. Non vuol dire che si sia attenuato il virus”. Ippolito conferma: “Non abbiamo prove di mutazioni, lo vede anche lei su gisaid.org. La patogenicità del virus è una cosa diversa, ci vorrà più tempo. Tutti ci aspettiamo che il virus si attenui ma non è ancora successo. Ci sono casi meno gravi perché i medici ora li gestiscono meglio”.

La “bomba” Milano fa ancora paura: 1 su 2 positivo al test

Ancora una volta, la metà dei nuovi casi registrati ieri arriva dalla Lombardia: 609, su un totale di 1.327. Ancora una volta, aumentano i contagi delle province di Milano (+ 201) e di Brescia (+ 69). Una tendenza che negli ultimi giorni si registra ormai stabilmente, pur in una situazione epidemiologica che si va evolvendo: una tendenza che continua a preoccupare. Così come preoccupato è, dopo le immagini dei Navigli di Milano, il professor Massimo Galli, dell’Ospedale Sacco, che ieri in tv ha detto: “Ora mi aspetto una ulteriore crescita dei casi a Milano, poiché abbiamo un numero altissimo di infettati che ora tornano in circolazione dopo essere stati chiusi in casa con la malattia”.

Milano è, dunque, una “bomba” pronta a riesplodere? Le grandi incognite – e paure – per la Fase 2 in Lombardia sono confermate dalle parole del Governatore Attilio Fontana. Le riaperture? “Dobbiamo capire gli effetti di queste giornate e poi decidere i passi successivi – ha detto ieri in un videomessaggio – vedo troppa enfasi su questa Fase 2”. Prudenza, quella di Fontana, condivisa dall’assessore Giulio Gallera. “Il rischio di nuovi focolai – dice Gallera – è concreto”. E attenzionate speciali, come detto, sono la città metropolitana di Milano e la provincia di Brescia. Ma come stanno effettivamente le cose? La Regione sta mettendo in campo tutte le misure necessarie a spegnere sul nascere nuovi eventuali focolai?

Sappiamo che la Regione ha aperto la Fase 2 con una delibera sulla vigilanza (n. 3114 del 7 maggio), con la quale affida ai medici di famiglia il compito di disporre immediatamente l’isolamento domiciliare dei pazienti con sintomi sospetti e delle persone che hanno avuto con loro contatti stretti, segnalandoli contemporaneamente all’Ats di competenza, che deve intervenire per eseguire il tampone. Una vittoria di Guido Marinoni e Gianluigi Spata, presidenti, rispettivamente, dell’ordine dei medici di Bergamo e della federazione regionale dei camici bianchi: entrambi ora – dopo aver stilato l’elenco degli errori commessi dalla Regione nella gestione dell’emergenza sanitaria – fanno parte del comitato tecnico-scientifico che affianca l’unità di crisi regionale.

Ma è proprio sui tamponi che si apre un altro capitolo. Quello finora più dolente, per la Regione. Sappiamo – come scritto ieri dal Fatto – che, secondo uno studio della Fondazione Gimbe sul numero dei tamponi effettuati al giorno in Italia ogni 100mila abitanti, la Lombardia è penultima in classifica, coi suoi 79 esaminati di media al giorno. E sappiamo anche che, ancora di più in questa fase, mappare e isolare subito i contagi attraverso i tamponi è e resta fondamentale. La Regione ha da poco concluso uno screening con i test sierologici: in tutto sono stati fatti 33.306 esami, tra quelli effettuati sugli operatori sanitari (25.331) e quelli su persone in isolamento fiduciario (7.975). Tra il personale sanitario, la percentuale delle persone esaminate risultate positive oscilla tra il 24,1% del Bergamasco e il 6,2% dell’area di Monza e Lecco, che fanno capo all’Ats Brianza. Molto più allarmante, invece, il dato relativo ai tanti in isolamento domiciliare: oltre il 50%, vale a dire più di uno su due, si è rivelato positivo. In tutto circa 4mila persone, sui quasi 8mila testati per questa categoria.

Il test sierologico, ormai è risaputo, ci dice se siamo venuti a contatto col virus e se abbiamo sviluppato gli anticorpi (gli IgM, che compaiono subito dopo l’infezione e che se ne vanno nel giro di poco, e gli IgG, che si sviluppano dopo 7-14 giorni e possono indicarci che abbiamo superato l’infezione). Ma solo il tampone nasofaringeo può dirci se abbiamo il virus in questo momento. E si torna alla casella di partenza, come se fossimo nel gioco dell’oca. Cioè a quella carenza di tamponi che, secondo i medici, avrebbe anche portato l’Ats di Bergamo, per esempio, a decidere di interrompere momentaneamente gli screening della Regione nella Val Seriana (dove delle oltre mille persone coinvolte nell’indagine epidemiologica quasi il 62% è risultato positivo). La Regione rassicura: “Chi risulta positivo al sierologico viene sottoposto a tampone in tempi rapidi, lunedì ci saranno tutti gli esiti dei tamponi da parte delle Ats”. Aspettiamo fiduciosi. Moltissimi, nel frattempo, stanno aspettando di sottoporsi al sierologico. In alcune città è una vera e propria corsa al test. Nella sola Brescia, ogni giorno, i laboratori privati ricevono centinaia di telefonate di cittadini che chiedono di essere iscritti a sempre più lunghe liste d’attesa. Quando e se si partirà? Si era in attesa di una ordinanza della Regione che già da lunedì scorso avrebbe dovuto aprire ai test nei laboratori privati. Il sospetto è che, il ritardo, sia in parte imputabile anche alla difficoltà che la Regione avrebbe – laddove si confermasse coi test che la metà dei lombardi è entrata in contatto col virus – a eseguire tamponi. A quel punto per milioni di persone.

I morti sono più di 30 mila. Ok alle mascherine fai-da-te

Trentamila. Sono le vittime mietute dal Covid-19 in Italia. Il bollettino della Protezione civile di ieri ha aggiunto altre 243 morti al greve computo che cade puntuale ogni pomeriggio alle 18 sulle giornate degli italiani. I decessi dall’inizio dell’emergenza sono quindi sono 30.201, ma nel giorno in cui il Paese supera l’ennesima soglia psicologica arriva anche un dato confortante: in 5 Regioni – Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Molise, Sardegna, Val d’Aosta – e nella provincia autonoma di Trento non è stato registrato alcun decesso. Bassi anche i dati di Calabria e Umbria che ne contano soltanto uno, Sicilia e Puglia che ne hanno 2, Abruzzo e Provincia di Bolzano che si fermano a quota 3.

In tema di decessi dal report aggiornato da Istituto Superiore di Sanità e Istat emergono novità in fatto di tempi di aggravamento della malattia: il tempo mediano che intercorre dall’insorgenza dei sintomi alla morte di un paziente Covid è di 10 giorni. Un aumento di 48 ore rispetto agli 8 giorni comunicati nello studio pubblicato il 17 marzo. Ne servono, invece, 5 prima che si arrivi al ricovero e altri 5 ne passano tra il momento in cui il malato mette piede in ospedale e il decesso (a marzo erano in entrambi i casi 4). Quest’ultimo lasso temporale, si legge ancora, “è di 4 giorni più lungo in coloro che sono stati trasferiti in rianimazione: 9 giorni contro 5”, quando nell’ultima rilevazione si parlava di 5 giorni contro 4.

Il contagio continua a rallentare. Il totale delle persone che hanno contratto il virus è salito 217.185, con 1.327 casi in più rispetto a giovedì: un incremento dello 0,61%, in linea con quello della settimana che è stato in media dello 0,65%. Un segnale positivo, mentre è ancora presto per valutare l’andamento dei casi nei primi giorni dalla riapertura che dal 4 maggio hanno segnato l’inizio della Fase 2: per avere questi dati bisognerà aspettare la prossima settimana. Dalle aree più colpite, tuttavia, arrivano ancora segnali che destano allarme: dei tamponi positivi comunicati ieri quasi la metà (634, il 47,7%) è stata registrata in Lombardia e 233 in Piemonte, che torna sopra quota 200 (non accadeva dal 3 maggio).

Tra i casi totali sono conteggiati, oltre ai decessi, gli attualmente positivi (che sono 87.961, con una decrescita di 1.663 assistiti in 24 ore, -1,86%) e i dimessi o guariti, che salgono a 99.023, con un incremento di 2.747 unità (+2,85%). Continua, di conseguenza, a scendere la pressione sugli ospedali: sono 1.168 i letti occupati nelle terapie intensive (-143, un decremento del 10,91%, il più alto dall’inizio dell’emergenza), mentre 14.636 persone sono ricoverate con sintomi (-538, un calo del 3,55%). Sono 60 mila circa i tamponi registrati, in linea con la media delle ultime due settimane.

La curva continua a decrescere, dunque. Durante il consueto punto stampa del venerdì all’Istituto Superiore di Sanità il presidente Silvio Brusaferro ha spiegato che a livello nazionale il tasso di contagiosità R0 risulta sotto il valore 1 – superato il quale scatta l’allerta – ed è compreso fra 0,5 e 0,7. Peggiora, però, la situazione di alcune Regioni: dal 27 aprile l’Abruzzo è passato da una stima di 0,55 a 0,75, la Basilicata da 0,35 a 0,88 mentre l’Umbria è salita da 0,19 a 0,83. Ma nelle ultime due Regioni i casi sono limitati e basta poco per far salire o scendere l’indice.

Per la prima volta l’Iss ha comunicato anche i dati sul contagio tra gli stranieri: sono stati 6.395 i casi diagnosticati, il 5% dei complessivi, ha spiegato Gianni Rezza, direttore del Dipartimento Malattie infettive, ieri nominato alla guida della Prevenzione del ministero della Salute. È un dato inferiore alla presenza di stranieri in Italia (8,7 per cento nel 2019). Nel corso della conferenza è arrivata un’altra importante indicazione: i cittadini potranno utilizzare anche mascherine fatte in casa. Sono quelle cosiddette “di comunità”: “Non sono le chirurgiche – ha specificato Brusaferro – non hanno degli standard specifici e servono a ridurre l’emissione di droplets, ovvero delle goccioline attraverso starnuti o tosse”. Si possono però anche produrre artigianalmente. L’importante è che siano “multifiltro e multistrato”.

Non arriva invece, dall’Iss, l’aggiornamento sulle morti e sui contagi nelle Rsa: l’ultimo report sul fenomeno risale ormai al 14 aprile: all’epoca i decessi erano quasi 7 mila.

Lo dice la Carta: la salute prevale sulle altre libertà

Pubblichiamo un estratto di Costituzione e Coronavirus – La democrazia nel tempo dell’emergenza, l’instant ebook appena pubblicato da Valerio Onida, professore emerito di Diritto costituzionale (edizioni Piemme).

 

Le limitazioni ai diritti devono comunque rispondere all’esigenza di tutelare altrui diritti o interessi della collettività. Ma quali interessi? Talvolta sono le stesse norme costituzionali sui diritti a specificare gli interessi che possono giustificare limiti o ulteriori limiti a essi. Così la libertà di circolazione (che nell’attuale emergenza è stata ed è pesantemente limitata) conosce “le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” (articolo 16 della Costituzione); le riunioni in luoghi pubblici possono essere vietate “soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica” (articolo 18); la libertà di culto è garantita “purché non si tratti di riti contrari al buon costume” (articolo 19). Sono vietate le pubblicazioni a stampa e tutte le manifestazioni “contrarie al buon costume” (articolo 21). Più comprensivamente, la libertà di iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (articolo 41); il diritto di proprietà conosce i limiti dettati “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (articolo 42).

Tra gli interessi collettivi che possono essere perseguiti anche attraverso limitazioni ad altri diritti c’è proprio la salute, che è tutelata “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, garantendo anche “cure gratuite agli indigenti” (articolo 32 della Costituzione). L’interesse della collettività può arrivare anche a imporre obblighi di comportamento (ad esempio portare il casco in moto o allacciare le cinture di sicurezza in automobile), e a limitare il diritto dei singoli a rifiutare trattamenti sanitari (come nel caso delle vaccinazioni obbligatorie), salvi sempre “i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (sempre articolo 32). La tutela del diritto alla salute di tutti e della salute come interesse della collettività, in grado di giustificare anche la compressione di altri diritti – come avviene nell’attuale emergenza –, ha dunque un preciso fondamento costituzionale. Tocca alla legge, e se del caso e nei limiti consentiti ai provvedimenti di urgenza adottati secondo la legge, individuare e attuare in concreto quelle limitazioni ai diritti di libertà che sono necessarie per la tutela degli interessi preminenti, nonché disciplinare gli interventi necessari per tutelare il diritto alla salute di tutti, in condizioni di eguaglianza.

In tema di diritti e di limiti agli stessi, si parla spesso della necessità di operare giusti “bilanciamenti” fra diritti degli uni e diritti degli altri, e con gli interessi collettivi preminenti. È compito del legislatore stabilire nei diversi casi – e senza oltrepassare i limiti specificamente previsti dalla Costituzione – quale sia il bilanciamento “giusto”. Nella giurisprudenza delle Corti costituzionali, e così anche della nostra, è abituale il ricorso al criterio del bilanciamento per valutare se una legge abbia operato una scelta corretta, rientrante nei margini della discrezionalità politica di cui gode il legislatore, o se invece siano stati varcati questi margini, sacrificando diritti in contrasto con i criteri di ragionevolezza e proporzionalità, nel qual caso la legge può e deve essere giudicata incostituzionale ed essere annullata. In queste occasioni la Corte non si sostituisce alla “ragione” del legislatore con una propria “ragione”, ma controlla che il legislatore non abbia varcato i limiti costituzionali, adottando quindi una soluzione manifestamente irragionevole e sacrificando del tutto o in maniera eccessiva certi diritti.

In generale, le limitazioni ai diritti, pur previste dalla legge, devono rispondere a criteri di eguaglianza e di non discriminazione, e a criteri di proporzionalità e ragionevolezza, mentre non possono essere introdotte o fatte valere in modo arbitrario.

 

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“L’Italia viola i diritti Onu sabotando i referendum”

Nel silenzio generale, l’Italia continua a ignorare un diritto tutelato a livello internazionale. Il nostro Paese è stato condannato dal Comitato dei diritti umani dell’Onu – un organismo delle Nazioni Unite – perché viola il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica del paese attraverso i referendum e le leggi di iniziativa popolare. In sostanza, il nostro sistema “boicotta” soprattutto i referendum popolari, quelli che possono essere attivati con la raccolta di 500mila firme.

Il caso era stato sollevato dai radicali Mario Staderini e Michele De Lucia nel lontano 2015, ai tempi del governo Renzi e delle riforme costituzionali (poi bocciate proprio per via referendaria). La questione è sempre attuale.

La sentenza di condanna è di novembre 2019, il governo aveva 180 giorni per adeguarsi ma nulla è cambiato. Il tempo scade a fine maggio. La condanna è basata sulle “restrizioni irragionevoli” che ostacolano il referendum popolare. La raccolta firme è particolarmente complessa per l’obbligo di far autenticare le firme da un pubblico ufficiale presente al momento della sottoscrizione: la legge infatti non garantisce ai promotori la disponibilità di quegli stessi pubblici ufficiali.

La condanna è basata anche sul “mancato intervento delle istituzioni” (Presidenza della Repubblica e del Consiglio, ministeri dell’Interno e della Giustizia) a cui Staderini e De Lucia si erano rivolti per denunciare l’assenza di autenticatori. E infine dalle “inadempienze di molti Comuni” e l’assenza di pubblica informazione sulle campagna referendarie.

“La decisione dell’Onu – commenta Staderini – insegna che la democrazia liberale non è un feticcio, ma deve vivere tramite la concreta uguaglianza nel godimento dei diritti politici. Cosa che in Italia, ora è accertato, non è accaduta”. A oggi, spiega il radicale, solo grandi partiti e sindacati si possono “permettere” un referendum, “perché sono gli unici ad avere autenticatori gratis a disposizione in tutta Italia. Sono la ‘casta’ degli autenticatori”.

Entro fine maggio, secondo il Comitato dell’Onu, l’Italia dovrebbe porre rimedio alla sua violazione con un atto di scuse formali alle vittime (Staderini e De Lucia, ma astrattamente tutti i cittadini). Inoltre il testo della decisione del Comitato dovrebbe essere tradotto e diffuso con la massima evidenza e dovrebbero essere prese misure per evitare il ripetersi di violazioni simili (in sostanza andrebbero cambiate le norme sui referendum).

“Non chiediamo un risarcimento in denaro, ma le scuse formali dello Stato – ha dichiarato Cesare Romano, il professore di Diritto internazionale che ha curato il ricorso dei Radicali, dedicando la vittoria a Marco Pannella –. Si modifichi subito la legge ordinaria che disciplina la procedura referendaria. Bisogna consentire autentiche e firme online”.