“È malato e non c’era una cella singola”. Perché è uscito il carceriere del bimbo

Ha 84 anni, è “affetto da plurime patologie specie tumorali” e non può essere trasferito in una cella singola – “condizione che permetterebbe una sua maggiore tutela” – per il “numero di ristretti nella sezione di appartenenza”. È con queste motivazioni che il magistrato di sorveglianza di Milano ha scarcerato Cataldo Franco, condannato all’ergastolo per concorso nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo.

“Ritenuto affiliato di Cosa Nostra”, per sei mesi sarà ai domiciliari a Geraci Siculo, un paesino di meno di duemila abitanti in provincia di Palermo, dividendo la casa con la moglie. Franco è infatti uno dei 376 mafiosi che, con l’emergenza Covid-19, hanno ottenuto la scarcerazione per motivi di salute connessi al rischio contagio. Notizia questa nota. Era finora inedito invece il dispositivo del magistrato di sorveglianza che ne ha deciso i domiciliari.

Franco è stato condannato per concorso nel sequestro di Giuseppe Di Matteo, che fu rapito e poi sciolto nell’acido su ordine di Giovanni Brusca per punire il padre diventato collaboratore di giustizia. Fu un crimine agghiacciante, quello del ragazzino, ucciso a 15 anni nel 1996 dopo oltre due anni di prigionia.

Secondo l’accusa, uno dei covi utilizzati per nascondere il bambino sarebbe stata una masseria di proprietà di Franco in contrada Menta di Ganci. La condanna in Appello arriva nel 1999. Tre anni dopo, la sentenza definitiva. Fino a pochi giorni fa, quindi, Cataldo Franco era detenuto nel carcere di Opera (Milano). Poi è arrivata la richiesta di scarcerazione, accolta dal giudice di sorveglianza il 20 aprile.

In tre pagine si spiegano le motivazioni di questa decisione. Scrive il giudice: “Dalla relazione di sintesi emerge che il Franco era stato trasferito nell’Istituto di Opera per motivi sanitari ed esigenze di cura. (…) É stato ritenuto affiliato all’organizzazione mafiosa denominata ‘Cosa Nostra’”. “Dall’atto del suo ingresso ad oggi – si aggiunge – ha sempre mantenuto una condotta regolare, ma non ha mai prestato attività lavorativa a causa delle sue condizioni di salute”. Inoltre “ha beneficiato di ben 2115 giorni di liberazione anticipata”, ossia circa cinque anni e mezzo.

Nel dispositivo si fa quindi riferimento alla relazione sanitaria dei medici: “L’équipe – scrive il giudice – ritiene, alla luce dell’emergenza sanitaria in atto, e valutata la situazione complessiva del Franco, con particolare riferimento alla situazione clinica che impone particolari cautele (…), al fine di preservare la sua salute e che l’eventuale contagio possa raggiungere altri detenuti allocati nella stessa sezione, che nei confronti dello stesso la pena sia differita nelle forme della detenzione domiciliare”.

Insomma, per una “sua maggiore tutela”, bisognerebbe trasferirlo in una cella singola, ma ciò non è possibile “in relazione al numero di ristretti nella sezione di appartenenza”.

Franco, si sottolinea nel dispositivo, “è affetto da plurime patologie specie tumorali, seppur trattate, ma sempre in follow up e necessita di continui contatti con le strutture sanitarie del territorio dell’urgenza-emergenza”. Ma per il giudice non può continuare a curarsi in carcere come avvenuto finora.

“Si ritiene – è scritto – che tale infermità fisica in soggetto di 84 anni con plurime patologie possa considerarsi grave, (…) con specifico riguardo al correlato rischio di contagio attualmente in corso per Covid-19, che facoltizza questo magistrato a provvedere con urgenza al differimento dell’esecuzione della pena (…), considerate le circostanze, la situazione sanitaria eccezionale e comunque in attesa del provvedimento del Tribunale di sorveglianza, che consentirà di rivalutare nell’attualità la posizione del condannato”.

Cataldo Franco, quindi, per sei mesi sarà a casa, con la moglie. E come lui altri 375, che finora hanno ottenuto i domiciliari.

La circolare che fa scandalo non cita mai le scarcerazioni

Trasformare le crisi in opportunità: è la regola seguita da ogni buon manager. Anche da quelli alla guida delle aziende italiane forse di maggior successo: le organizzazioni criminali. La crisi che si è presentata a febbraio era da brividi: l’emergenza coronavirus. L’opportunità da cogliere al volo: uscire dal carcere. Il rischio che gli istituti penitenziari – dove 62 mila persone vivono in spazi per 51 mila posti – si trasformassero in focolai di contagio, c’era. C’era anche la preoccupazione dei responsabili del ministero della Giustizia e del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che una eventuale moltiplicazione dei contagi e dei morti li potesse far finire sotto accusa per epidemia colposa, come i vertici delle case per anziani a Milano. In questo clima il Dap vara, il 21 marzo, una circolare in cui chiede a tutti gli istituti di pena l’elenco delle persone detenute che sono più a rischio contagio, perché indeboliti da patologie pregresse. Stop. Nella circolare non c’è alcuna spinta a scarcerare.

A questo pensano i boss e i loro avvocati. Rischio epidemia in carcere? Va trasformato in richiesta di tornare a casa, per seri motivi di salute. In poche settimane si scatena un diluvio di istanze di scarcerazione. Sono 3 mila i detenuti che chiedono e ottengono di uscire di cella per andare a casa, agli arresti domiciliari, la maggioranza in forza del decreto “Cura Italia”, da cui sono però esclusi espressamente i mafiosi e i condannati per reati gravi. Circa 700 di loro sono controllati a distanza con il braccialetto elettronico. Ma il problema è che sono state scarcerate anche altre 400 persone (a esser precisi 376, secondo una lista che allinea i nomi e i cognomi) che sono invece detenute per reati gravi, di mafia, terrorismo, traffico di stupefacenti eccetera. Solo quattro escono dal 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, ma tutti gli altri sono comunque considerati legati alle organizzazioni criminali. Il loro ritorno a casa, secondo il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, è un segnale di ripresa di potere sul territorio dove operano i loro gruppi. Un numero ancora maggiore di detenuti (456 per la precisione) si è aggiunto negli ultimi giorni con altre richieste di scarcerazione. Ad accettare le istanze e a concedere la detenzione domiciliare sono i magistrati di sorveglianza, per i detenuti con condanna definitiva (180 dei 376). Per gli altri, sono i giudici delle indagini preliminari o quelli dei processi ancora in corso. Quando il procuratore nazionale antimafia si rende conto che è in corso un esodo, lancia l’allarme al ministro della Giustizia. Alfonso Bonafede prepara un decreto governativo (scattato il 30 aprile) che rende obbligatorio, per il giudice che decide, di acquisire almeno anche il parere della Procura nazionale (per i detenuti al 41 bis) e delle direzioni distrettuali antimafia (per gli altri). Intanto Bonafede si mette al lavoro per fermare “l’epidemia di scarcerazioni” – definizione di Cafiero De Raho – senza però interferire con le decisioni dei giudici, che esercitano un potere comunque autonomo dal potere esecutivo. A riconsiderare le decisioni saranno i Tribunali di sorveglianza in formazione collegiale, per le decisioni prese d’urgenza dal magistrato di sorveglianza, le Procure e le Procure generali che potranno appellare gli altri casi.

Ora il nuovo decreto è in arrivo. Non potrà rimettere in cella chi è già uscito per decisione di un giudice. Ma potrà stabilire paletti. Imporre di considerare le alternative alla detenzione domiciliare: strutture opportunamente protette interne o esterne agli istituti di pena, strutture ospedaliere specializzate. Potrà imporre una revisione periodica delle decisioni dei giudici, in considerazione di come si evolve la situazione. Dopo la fase 1 del liberi tutti, potrebbe iniziare la fase 2 di una più cauta ponderazione.

L’ok giallorosa a Bonafede per il dl contro i boss liberi

Giorni fittissimi di confronto fra i tecnici del ministero della Giustizia e il decreto voluto da Alfonso Bonafede per provare a far tornare in carcere boss e loro gregari, finiti ai domiciliari in tempo di coronavirus, è in dirittura di arrivo. Forse già oggi in un consiglio dei ministri straordinario o domenica se ci sarà il consiglio dei ministri sul “Decreto rilancio”.

Il sigillo di tutta la maggioranza è stato messo poco prima delle 22 di ieri sera dopo una riunione di un paio d’ore in videoconferenza. Mai c’era stato un vertice così disteso, specie in tema di Giustizia. Basti pensare alle riunioni sula prescrizione sempre sull’orlo della rottura.

In collegamento ci sono il sottosegretario Andrea Giorgis, Walter Verini e Franco Mirabelli per il Pd, Piero Grasso e Federico Conte per Leu e Lucia Annibali per Iv. I renziani di Italia Viva hanno provato a porre qualche cavillo, ma almeno su questo provvedimento, che avviene dopo 376 scarcerazioni decise da giudici per l’emergenza Covid-19, il governo vuole dare un segnale univoco.

Tutti d’accordo sulla necessità di questo decreto e tutti attenti a che non violi il principio costituzionale dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. Ecco perché il testo definitivo non c’è ancora, si sta limando riga per riga.

Durante la riunione è emerso che il testo avrà due direttive principali. Si vuole coniugare la volontà di far tornare dentro i boss e i gregari ma non si vuole andare contro la magistratura.

Ai magistrati competenti viene chiesta la rivalutazione perché si è nella cosiddetta fase 2 e i numeri dei contagi per coronavirus sono in calo. Tra i provvedimenti degli ultimi due mesi, la maggior parte sono stati presi dai giudici che hanno considerato troppo alto il rischio di contagio in strutture carcerarie per detenuti già malati per altre patologia. Quando si troveranno a dover riesaminare questi provvedimenti (o si troveranno di fronte a istanze nuove) c’è una novità che sarà contenuta nel decreto: il coinvolgimento decisamente maggiore del Dap, il dipartimento affari penitenziari che dovrà indicare quali sono i circuiti carcerari-sanitari consoni affinché sia coniugato il diritto alla salute dei detenuti a regime speciale (41 bis e alta sicurezza) e quello della sicurezza per i cittadini.

Al Fatto risulta che il ministro Bonafede abbia già parlato con Domenico Arcuri, Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, affinchè vengano individuate nuove strutture sanitarie che possano funzionare da reparti di medicina protetta come l’ospedale di Viterbo o il Pertini di Roma in grado di accogliere detenuti per mafia. È un modo, questo, perchè sia sempre possibile per il giudice, in caso di necessità di cure per il detenuto, fornire una soluzione diversa dai domiciliari. Il decreto, dunque, dovrebbe arrivare prima che Bonafede vada alla Camera, martedì, per una informativa su quanto successo intorno alle scarcerazioni. Il decreto che sta per essere varato, il ministro lo aveva annunciato mercoledì scorso alla Camera dove era andato per riferire sulla mancata nomina di Nino Di Matteo a capo del Dap, nel giugno 2018. È stata la sua risposta al centro-destra che lo ha accusato di essersi piegato alla mafia (in Senato, il centro-destra, ricompattato per l’occasione, ha comunque, presentato una mozione di sfiducia individuale contro il Guardasigilli). Il ministro, in Aula per un question time sulla vicenda Di Matteo, ha però lanciato un affondo: “Invito tutti a fare un’operazione di verità, che nella lotta alla mafia è fondamentale. È totalmente infondato il collegamento”tra i fatti relativi alla mancata nomina di Di Matteo al Dap nel 2018 e le scarcerazioni, frutto di decisioni di magistrati che hanno applicato leggi che nessuno aveva mai modificato fino al decreto approvato la scorsa settimana da questo governo, con il quale si stabilisce che, rispetto alle istanze di scarcerazione, è obbligatorio il parere della Dna e delle Dda”.

Lo stesso Bonafede ha confermato che con l’arrivo del vice capo Dap Roberto Tartaglia, il 2 maggio, è subito partita una circolare ai direttori delle carceri in modo che il Dipartimento fosse informato da loro su “qualsiasi istanza” di detenuti mafiosi . Contemporaneamente queste informazioni le deve ricevere anche la procura nazionale antimafia

Fake news alla 7ª

Ho sempre invidiato i colleghi arruolati nelle varie “task force anti-fake news” dell’Ue, di Facebook e del governo. Non foss’altro che per il molto tempo libero che si ritrovano. Chissà come passano le giornate, se si divertono e quali avanzatissimi strumenti tecnologico-investigativi adottano per stanare i sovversivi, perlopiù al soldo di Putin, che truccano elezioni e referendum in tutto il mondo sparando bufale a raffica nascosti dietro un nickname. Non vorrei fare il delatore, ma i nostri simpatici ghostbusters potrebbero iniziare da un caso facile facile di fake news alla enne potenza che ha il pregio dell’evidenza, privo di enigmatici pseudonimi, linguaggi cifrati e server caraibici: esce da tre giorni sulla prima pagina di Repubblica, che annovera – se non vado errato – alcuni fra i più sagaci segugi anti-fake news. Funziona così. Il primo giorno si attribuiscono a un ministro decisioni altrui e intenzioni mai dette né pensate. Il secondo, siccome il ministro annuncia le sue vere intenzioni anziché quelle mai dette né pensate, si dice che ci ha ripensato. Il terzo, siccome il ministro prepara un decreto in base alle sue vere intenzioni anziché a quelle mai dette né pensate, si dice che è stato sconfitto.

Com’è noto, circa 200 giudici di sorveglianza scarcerano quasi 400 mafiosi o presunti tali (di cui 4 al 41-bis) a causa o con la scusa della pandemia. Il ministero della Giustizia non c’entra nulla perché i governi, fortunatamente, non possono né arrestare né scarcerare tizio o caio, a meno che non varino norme generali in tal senso (valide per tutti). E non è questo il caso: l’unica norma varata dal ministro in materia di detenuti e Covid è quella del dl Cura Italia che vieta di applicare ai condannati per mafia la Svuotacarceri Alfano del 2010 (domiciliari a chi deve scontare meno di 18 mesi in carcere). Ma quei 200 giudici di sorveglianza mandano a casa quasi 400 mafiosi o presunti tali (non tutti sono condannati definitivi) perché, in base ad altre norme, li ritengono più al sicuro fuori che dentro (i dati su morti e contagi dentro e fuori dal carcere dimostrano l’opposto). La vulgata vuole che siano spinti a farlo da una circolare del Dap del 21 marzo, che però non parla mai di scarcerazioni: chiede solo informazioni sulla salute dei detenuti più anziani e gravemente malati, infatti nessun giudice la cita nelle ordinanze di scarcerazione. Il ministro, pur contrario a queste, non può commentarle né ribaltarle per legge (violerebbe la separazione dei poteri e l’indipendenza della magistratura, facendo rivoltare nella tomba da Tocqueville a Montesquieu).

Dunque, non potendo fare tutto, fa tutto quel che può. In un primo decreto impone che, prima di decidere sulle istanze di scarcerazione di un condannato o sospettato di mafia, i giudici di sorveglianza ascoltino il parere delle Procure antimafia (nazionale e distrettuali). E il 6 maggio, alla Camera, ne annuncia un secondo “che permetta ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni dei detenuti in alta sicurezza e al 41-bis”. I quali dunque dovranno tornare al Tribunale di sorveglianza perché la loro situazione sia rivalutata alla luce di un rischio Covid molto più blando di quando furono scarcerati. Poi, si capisce, a decidere sarà sempre il giudice, non il ministro. Titolo del sito di Repubblica : “Bonafede contro le scarcerazioni: ‘Rimando dentro tutti i boss’”. Fake news semplice. L’indomani, sul cartaceo, fake news al quadrato: “Boss, Bonafede ci ripensa”. Rispetto a cosa ci ripensi, non è dato sapere: a meno che non si pensi che sia stato Bonafede a scarcerare i boss e ora, pentito, li voglia riarrestare. Che è proprio ciò che non può fare, ma che Repubblica vuole far credere. Ieri, terzo giorno, fake news alla terza: “La sconfitta di Bonafede. Voleva subito un decreto per riportare in cella i boss, ma incassa solo un debole compromesso”. Cioè incassa ciò che aveva chiesto fin dal primo giorno alla Camera: ma il suo successo diventa una débâcle.

Ma, una volta attivato, il distributore automatico di fake news può produrne quante se ne vuole. Fake news alla quarta: “Carceri, decreto più leggero. Sul rientro dei mafiosi decideranno i giudici” (come Bonafede aveva detto alla Camera). Fake news alla quinta: “Il ministro fallisce l’obiettivo. Attaccato anche nel governo” (dove invece sono stranamente tutti d’accordo). Fake news alla sesta: “Il pasticciaccio di via Arenula” (di Stefano Folli, il giureconsulto che sta al diritto come Monica Bellucci sta alla virilità). Intanto, sempre su Repubblica, il direttore Sambuca Molinari ipotizza dietro le scarcerazioni ”una trattativa fra i boss e lo Stato” e accusa non i giudici, ma “il governo e il ministero”, mentre Roberto Saviano elogia “i magistrati (che) hanno agito nel rispetto del diritto e… realizzato l’atto antimafia più potente. Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41-bis al detenuto ignoto, è fondamentale”. Quindi, ricapitolando. Quando si criticano le scarcerazioni, è tutta colpa di Bonafede. Quando si elogiano le scarcerazioni, è tutto merito dei giudici. Fake news alla settima. E le task force che fanno, dormono?

Dopo oltre 70 anni, “Il Monte Analogo” svela la (mistica) trama del finale

Attorno all’idea di montagna come punto di contatto tra Terra e Cielo – uno spazio simbolico, cioè, in cui la divinità può rivelarsi all’uomo e l’uomo elevarsi alla divinità – ruota Il Monte Analogo, l’ultimo libro prodotto in vita dallo scrittore francese René Daumal (1908-44) e rimasto incompiuto poiché interrotto nel bel mezzo di una frase prima dei capitoli finali, un giorno di aprile del 1944, l’ultimo in cui fu ancora in grado di tenere in mano la penna. Oggi Adelphi (nella consueta e documentata cura di Claudio Rugafiori) propone una versione in cui tale mancanza è compendiata da materiali inediti che svelano lo scioglimento della trama.

Come sappiamo già, un manipolo di sognatori, capitanato dal professor Sogol (l’inverso di Logos), vuole espugnare la vetta del Monte Analogo, “inaccessibile con i mezzi umani ordinari” scrive l’autore. Appassionato di esoterismo e religioni, Daumal in realtà vuole investigare l’inconscio possibile umano. Ed ecco, allora, che la spedizione sul monte altri non è che un simbolo del viaggio verso la conoscenza. Il testo si interrompeva qui, lasciando inevaso un quesito: come comportarsi di fronte alla conoscenza? Attraverso lettere, appunti, stralci di taccuini, scopriamo che la squadriglia di protagonisti, così come l’animo umano, si divide in due: alcuni, giunti alle pendici del monte, useranno le armi che si sono portati da casa, ignoreranno le leggi che vigono sul Monte Analogo e saranno condannati a girare in tondo senza mai intravedere la vetta. Altri, invece, si approprieranno delle pareti della montagna sottostando con umiltà a ognuna delle sue nuove leggi, tra cui la più importante per Daumal è la condivisione: chi scopre il sapere ha il dovere di lasciarlo a chi viene dopo. E infine, lo scrittore pone una domanda al lettore: “E voi, cosa cercate?”.

 

Il Monte Analogo

René Daumal

Pagine: 182

Prezzo: 10

Editore: Adelphi

 

Come evadere dal “Loop”, la prigione degli algoritmi

“La pioggia significa un nuovo giorno. È il 2 giugno, il mio sedicesimo compleanno. Sono qui da due anni. Questo è l’inizio del mio 737esimo giorno nel Loop”. A parlare è Luka, cuore pulsante di The Loop (già disponibile in ebook; il cartaceo esce il 23.06), primo tassello della trilogia young adult sci-fi dell’esordiente Ben Oliver, già opzionata per una serie-tv dal producer di Black Mirror. Ambientato in un futuro distopico in cui la popolazione è schiacciata e controllata in toto da un Governo Globale (quello che i complottisti chiamerebbero New World Order), Luka, ingiustamente rinchiuso nel carcere The Loop, girone dantesco gestito da programmi d’intelligenza artificiale, allontana la propria esecuzione, come ogni detenuto, accettando i “Rinvii”, terribili esperimenti medico-scientifici a testare nuovi prodotti per migliorare la vita dei ricchi. Quando la pioggia, la cui manifestazione è un artificio, smette di cadere e le voci di una pandemia che trasforma gli umani in assassini si fa insistente, Luka capisce che là fuori c’è odore di guerra, rivoluzione, stravolgimento e per non rinunciare alla speranza di un domani diverso, per sé e per chi ama, urge evadere. Per i giovani lettori che hanno amato Hunger Games, Maze Runner, The Matrix e The Island, The Loop è talmente attuale da far paura, che non ha niente da invidiare a molti altri sui generis che han fatto fortuna.

 

The Loop

Ben Oliver

Pagine: 384

Prezzo: 18

Editore: Rizzoli

Un bandito, la sua donna e il Dopoguerra

C’è tutto o quasi nel Pierrot Le Fou di Massimo Novelli, giornalista e raccontatore di storie e di Storia scavando negli archivi e nei rimandi della cultura. Le istantanee della Parigi del Marais e dei Lungosènna di Georges Simenon, là dove Maigret dava la caccia alla “banda dei polacchi”, e poi la zona grigia che divideva, in Francia come in Europa, molti uomini e molte donne nel prima e nel dopo il 1945: i collaborazionisti del nazifascismo (les collabos), i transfughi dalla Carlingue (la Gestapo francese) nella Resistenza, l’arte insomma di arrangiarsi nei giorni di tempesta, tra il bene e il male.

E c’è infine il milìeu, il mondo della malavita ancora una volta così uguale ai contesti di Simenon. Dove i protagonisti maschili hanno soprannomi picareschi e sornioni nello stesso tempo, Jo le Boxeur, Milo le Bouc, Dédé Les Camions, mentre le loro donne sono un po’ fidanzate, un po’ amanti, quasi sempre prostitute, traditrici sino al punto di meritarsi lo sfregio sulla guancia: la croix des vaches. Infine, c’è il giornalismo di quegli Anni Quaranta, francese ma anche italiano (bellissime le citazioni di un Gianni Granzotto giovanissimo cronista a Stampa Sera), nell’era ancora senza tv e quando i reportage di nera sembravano davvero dei polizieschi.

Quelli di due banditi, di due del milìeu, che si erano conosciuti e che avevano ereditato, il secondo dal primo, lo stesso nomignolo: Pierrot le Fou. Il doppiogiochista filonazista Pierre Loutrel (il Pierrot n. 1) che sarà il vero ispiratore de Il Bandito delle 11 di Jean-Luc Godard, e il balordo delle rapine, Pierre-Henri Carrot (il Pierrot n. 2). Piccolo capobanda, confidente della polizia e infine arrestato nel 1948 quando, in una calda sera di luglio, mezza polizia di Parigi per lui mise sotto assedio il Marais. Attorno a loro, ma soprattutto raccontando del Pierrot n.2, Novelli rievoca la Francia del dopoguerra, delle ambiguità per un repulisti mai avvenuto rispetto ai complici del nazifascismo, ma anche del conflitto mondiale, della sua anteprima tragica con la Guerra di Spagna e dell’immigrazione italiana Oltralpe. La stessa che aveva portato a Parigi anche Katia, la “sovrana” del milìeu, che in realtà si chiamava Caterina Reynero da Frassino (Cuneo), come rivelò il quotidiano Combat, quello di Albert Camus. Pure a lei Carrot avrebbe voluto fare la croix des vaches, perché quel destino maledetto se lo era fatto tatuare sulla pelle con una parola araba: mektoub (“è scritto”), sinonimo di fatalità. Quando lo catturarono su un tetto, però, le uniche parole che Pierre-Henri gridò ai gendarmi furono: “Non sparate a Katia”.

Due giorni dopo, raccontano ancora le cronache, i secondini lo scorsero nella cella con in mano un libro. Un’opera che ha suscitato scandalo, J’irai cracher sur vos tombes (“Sputerò sulle vostre tombe”) firmata da Vernon Sullivan, ma in realtà da Boris Vian. Arie di esistenzialismo, e lo spunto finale per il sottotitolo della biografia scritta da Novelli: “Storia del bandito che leggeva Boris Vian e della sua donna”.

Il trionfo violento del Caso nasce da un banale caffè in viaggio al Sud

Un uomo e una donna, in auto. Età tra i trenta e i quaranta anni, i nomi non compaiono mai, sino all’epilogo tragico e impensabile. Sono in viaggio. Da nord a sud, s’intuisce. Percorrono una strada costiera, lungo il mare, e non parlano. È successo qualcosa la sera precedente, prima di partire. Lei aspetta lui, ma l’uomo non cede e continua a guidare. Improvviso, prevale il bisogno di un caffè. Superano una sorta di trattoria, fanno inversione in una piazzola e la raggiungono.

Il barista è in realtà un oste che comincia a servire olive, peperoni e tonno sott’olio anziché il caffè. Ma l’uomo e la donna sono distratti dal loro silenzio pregno di tensione e di attesa. Poi la figura dell’oste s’impone coi suoi racconti e le sue stravaganze arroganti. Promette dei dolci di mandorle, che non arriveranno mai. Una sosta qualsiasi in una giornata normale di vacanza vira verso l’imponderabile. È il trionfo violento del Caso, secondo la lezione magistrale di Friedrich Dürrenmatt. In pratica, Una giornata nera, come recita il titolo. Il libro è un racconto lungo di Aldo Costa, scrittore torinese morto un anno fa. Marsilio lo pubblica postumo nella sua ultima collana, “Lucciole”, dedicata agli autori italiani di gialli e thriller. La trama di Costa è un crescendo in cui s’incrociano il contingente e finanche la vendetta. È un Caos che potrebbe investire pure noi, somma di fatalità impreviste che si nascondono dietro una curva e tra le pieghe dei nostri segreti. Tutto nasce dalla volontà di prendere un banalissimo caffè. A quel punto la vita si dividerà tra un Avanti Caffè e un Dopo Caffè. Il libro uscirà il 14 maggio.

 

Una giornata nera

Aldo Costa

Pagine: 269

Prezzo: 14

Editore: Marsilio

Le parole assenti compiono miracoli

“La Spagna è un’unità di destino nell’universale”. Parole del fondatore della Falange Española. Nessuno sa cosa significhino. Ma non importa. “Suona molto bene, no?”, spiega Luis, giovane falangista, a Rogelio, suo compagno di follia. “Non credo di sapertelo spiegare a parole, ci sono cose che arrivano direttamente al cuore senza passare per la testa. La frase è musicale, parla di qualcosa di molto bello per la Spagna”. Curioso: meno le parole hanno senso, più affascinano. L’orrore della dittatura franchista: è questa la bellezza, secondo le “camicie blu” che, ogni notte, escono per stanare e giustiziare i “rossi froci”. “Non ci sfuggono, li fiutiamo da lontano. Che piangano o no, emanano lo stesso odore”. All’improvviso, però, la fede di Rogelio va in pezzi. Si frantuma come un’onda sullo scoglio dello sguardo di un bambino di dieci anni – Gabino – che osserva i falangisti giustiziare suo padre e suo fratello. “Cosa ha fatto?” chiede la moglie dell’uomo, tradito da un delatore. “Ha cospirato contro la Spagna!”. “Ma non fa altro tutto il giorno che lavorare come maestro”. “E le sembra poco”, le rispondono. “I maestri sono i più pericolosi, diffondono certe idee fra gli alunni, propagano il comunismo”. Rogelio non riesce a liberarsi da quello sguardo che suona come una condanna a morte. Vorrebbe uccidere anche il piccolo. “Lascialo stare, è solo un bambino, non vedi?”. “Nel giro di sei anni sarà un rosso di sedici anni e allora mi cercherà, mi troverà e mi ucciderà”.

Nottetempo, il bambino tornerà sul luogo dell’esecuzione per seppellire i suoi. Né croce, né tumulo: solo un ramo conficcato nel terreno. La sera successiva, Rogelio, perseguitato da quello sguardo, abbandona la Falange, per cercare quella sepoltura. Il bambino arriva, e gli avvicina un annaffiatoio. L’uomo lo raccoglie e comincia ad annaffiare il ramo. Da quella sera, vivrà su quel fazzoletto di terra come un eremita. Lo crederanno un santone e andranno in pellegrinaggio da lui, pregando miracoli. Per i trent’anni successivi, uomo e bambino si incontreranno ogni notte. Senza guardarsi né parlarsi mai ma uniti in una “relazione indimenticabile”. “La migliore delle relazioni che due creature viventi possano stabilire”, riconoscerà Rogelio. Cosa ha compiuto un simile miracolo? L’assenza di parole. “Le parole sporcano”.

Notte dopo notte, intanto, il ramo è diventato un magnifico Fico. L’uomo difenderà sacralità e segreto di quel luogo contro tutto e tutti – gli ex-amici, il Comune (che reclama il terreno col pretesto di costruire una scuola), il delatore (uno di quelli che “davano la caccia ai soldi persino sotto le pietre e la cosa sporca era come sollevavano quelle pietre”) – fino all’estremo sacrificio. Con L’albero della vergogna Ramiro Pinilla firma un romanzo sanguinoso, doloroso, intenso; di straordinaria forza evocativa, interrogativa, simbolica. Pagine che, come il Fico, spingono le loro radici fin nelle profondità della coscienza, per impedirci di dimenticare ferite e smentite della Storia e pregarci di innamorarci solo delle parole che abbiano davvero un senso.

 

L’albero della vergogna

Ramiro Pinilla

Pagine: 280

Prezzo: 18

Editore Fazi

“Italia di Piombo”, la Storia scritta non in bella copia, ma con umanità

Raccontare 10 anni in due ore è impossibile, meno che mai se il decennio è quello dei Settanta in Italia: il regista-sceneggiatore Omar Pesenti (insieme a Michele Danesi e Massimo Vavassori) ci ha provato con Italia di Piombo, documentario la cui prima di due puntate andrà in onda stasera su History Channel.

Come tutte le storie di piombo, l’inizio coincide con la morte dell’agente Antonio Annarumma a Milano il 19 novembre 1969, la deflagrazione con la strage di piazza Fontana, la metamorfosi con la strage di piazza della Loggia, lo sviluppo con il cambio di colore: l’alba delle Brigate rosse, gli attentati alle cose, i primi sequestri mordi e fuggi, il rapimento di Mario Sossi, il processo di Torino ai capi storici delle Br e la scia di sangue che investirà l’Italia fino (in questa prima puntata) al culmine della strage di via Fani e dell’assassinio di Aldo Moro il 9 maggio 1978.

La precisa voce narrante dello storico Alberto Guasco è un’ottima introduzione ai giovani che di queste vicende fossero ancora a digiuno. Ciò che colpirà chi invece già conosce i fatti è l’uso sapiente della regia e del materiale di archivio. Efficacissimo, ad esempio, il racconto di Fortunato Zinni dello scoppio di piazza Fontana all’interno della sala dell’ex Banca Nazionale dell’Agricoltura, in uno schermo diviso a metà tra passato e presente.

Non manca il “cattivo”, in questo caso l’ex Br Franco Bonisoli, che già nel 1990 rilasciò a Sergio Zavoli una toccante e umanissima intervista. Bonisoli è ancora lo stesso e le sue riflessioni confermano che l’onestà intellettuale è la vera patente per riconquistare la dignità. “La storia non si può scrivere in bella copia”, dice Guasco, ma se raccontata con umanità, può lasciare il segno.