Un buon jazz val bene Parigi

È partito tutto dalla musica. Nel 2013 Alan Poul, produttore e regista di Six Feet Under, incontrò Glen Ballard, produttore musicale che ha vinto sei Grammy Award e collaborato con Michael Jackson e Alanis Morissette, per discutere di un progetto basato sulle nuove canzoni scritte da Ballard. Qualche mese dopo si aggiunse Damien Chazelle, che aveva già girato Whiplash ma non era ancora il regista super famoso di La La Land. Da ultimo arrivò anche Jack Thorne, sceneggiatore noto per la serie This is England e l’ultima His Dark Materials, tratta dai romanzi fantasy di Philip Pullman. Ecco come è nata The Eddy, miniserie musicale in otto episodi disponibile da oggi su Netflix.

La storia raccontata in The Eddy ruota attorno a un jazz club, ma attenzione: “Non siamo nella Parigi degli anni Cinquanta, con i personaggi che indossano il berretto e suonano il sassofono lungo la Senna” avverte Alan Poul che ha girato le ultime due puntate. Siamo nella Parigi multietnica di oggi, in una periferia viva ma anche molto pericolosa. È qui che Farid e il suo amico Elliot (André Holland), un pianista di discreto successo che ha lasciato New York per la Francia, hanno deciso di aprire un locale: il The Eddy, appunto. Solo che le cose non stanno andando granché bene. Il club non ingrana, e nemmeno la jazz band che ha messo insieme Elliot. Il fatto che la storia d’amore fra lui e la cantante Maya viva di alti e bassi, poi, non aiuta a stemperare la tensione.

Quando viene fuori che Farid si è messo in affari con gente poco raccomandabile e ha parecchi debiti, la situazione precipita. Elliot si trova fra due fuochi: da un lato deve occuparsi della figlia 16enne Julie, bella e problematica, che è appena arrivata a Parigi dagli Stati Uniti, dall’altro deve mandare avanti da solo un locale che fa acqua da tutte le parti, anche perché la polizia sta scoprendo gli affari loschi di Farid. Ma questa è la trama, ed è la parte più debole di The Eddy: se c’è un motivo per cui vale davvero la pena guardarla, è sicuramente la musica.

La serie è scritta da Jack Thorne, mentre Damien Chazelle, che figura tra i produttori esecutivi, ha girato i primi due episodi. Chazelle è diventato famoso con Whiplash, la storia bellissima e terribile di un giovane batterista jazz che nel 2015 ha conquistato tre Oscar (sonoro, montaggio e attore non protagonista). Un paio di anni dopo ha sfondato con La La Land, il musical con Emma Stone e Ryan Gosling che nel 2017 ha portato a casa sei statuette, fra cui Miglior colonna sonora e Miglior regista (a 32 anni, Chazelle è diventato il più giovane a vincere il premio). Il suo ultimo film è First Man, sulla storia di Neil Armstrong, anche questo premiato agli Oscar.

“Avevo sempre sognato di girare a Parigi” ha detto Chazelle, che è nato nel Rhode Island da padre franco-americano. Ma se la serie dal punto di vista musicale funziona perfettamente, il merito non è né della città, che fa più che altro da sfondo, né del solo Chazelle. Il mix fra la storia, le musiche di Ballard e Andy Kerber e i musicisti che recitano e suonano in The Eddy rende tutto estremamente credibile: è come se la band della serie fosse un vero gruppo che si esibisce dal vivo in un vero jazz club. Fra gli attori, a dare un tocco di verità in più, c’è anche Kerber, pianista che ha suonato con musicisti del calibro di Leonard Cohen e B.B. King e ha partecipato alle colonne sonore di film come Titanic, A Beautiful Mind e Forrest Gump.

Tutti i personaggi di The Eddy vivono di musica e per la musica. Da Elliot, che è diventato famoso grazie al piano ma ora non vuole più suonare, alla figlia Julie, che non tocca il clarinetto perché è nella musica che ha concentrato le tensioni con il padre; fino al giovane Sim, che lavora come barista ma appena può si chiude in garage a suonare con gli amici. Finché il volume è alto la serie fila come un treno, quando si abbassa compaiono le prime crepe: ma questo, per fortuna, non rovina il piacere di ascoltarsi un po’ di jazz (la colonna sonora è già disponibile su Spotify e oggi esce anche il cd).

 

The Eddy

Da oggi su Netflix

È il tempo dell’ascolto, ma anche delle “favolacce”

“È il tempo dell’ascolto. È l’epoca del ‘ma’. Ma anche della riscoperta della noia”. Così i gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo definiscono, a loro modo, i due mesi di quarantena, iniziata nell’immediato indomani del premio berlinese e conclusa con l’uscita del loro Favolacce.

Un’uscita diversa, forzatamente non nelle sale cinematografiche come invece sarebbe stata a metà aprile in condizioni di normalità. La loro opera seconda, dunque, si proporrà al pubblico dall’11 maggio on demand su sette canali/piattaforme: Sky Primafila Premiere, Timvision, Chili, Google Play, Infinity, Cg Digital e Rakuten Tv.

“Lo spettatore viene sempre prima, quindi va bene anche il piccolo schermo per ora, tanto sappiamo che i film hanno mille vite e quando sarà possibile lo porteremo anche sul grande schermo, in tutte le arene all’aperto e poi nelle sale”, dicono in coro i fratelli pur consapevoli del sofisticato lavoro fotografico che ha reso Favolacce un’opera d’alto valore immaginifico, nel suo presentarsi come fiaba nerissima sulla tossicità famigliare di provincia, e non solo. Interpretato coralmente da attori adulti (fra cui spiccano Elio Germano e Barbara Chicchiarelli) e bambini, è il racconto estivo di alcune famiglie residenti in villette limitrofe che fa emergere il malessere più profondamente nascosto ai genitori ma così ferocemente limpido ai loro figli.

Un film potente, scomodo e indimenticabile nel suo accendere coscienze, seminare domande e annientare ogni retorica da quattro soldi.

Innamorarsi è un triangolo tra adolescenti

Una delizia. Che altro dire di una romcom (commedia romantica) adolescenziale capace di incantare, riflettere (su) stereotipi, rinverdire déjà-vu e, alle nostre latitudini, eludere moccismi (Federico) e muccinismi (Gabriele). È Netflix, bellezza, e oggi più che mai può tutto: derivazioni coatte, proprio da Tre metri sopra il cielo, quali la stucchevole serie Summertime, e derivazioni libere, da Cyrano de Bergerac, quale questo L’altra metà (The Half of It).

Dirige Alice Wu, americana classe 1970 di genitori taiwanesi, che stampiglia sulla locandina una verità fatta claim, “a different kind of love story”. È sulla piattaforma streaming dal 1° maggio, ha vinto la versione online del Tribeca Film Festival quale miglior lungometraggio di finzione, riporta dietro la macchina da presa la Wu a sedici anni di distanza dall’esordio Saving Face (2004), visto da pochi, apprezzato dai più. Là inquadrava amori e altri disastri di una sinoamericana lesbica a New York, qui cambia location, la finzionale Squahamish che motteggia Suquamish, Washington, mantiene l’origine e l’inclinazione della protagonista, Ellie Chu (Leah Lewis), e tratteggia il triangolo ad alzo Zero (Renato): Ellie, il bietolone Paul Munsky (Daniel Diemer, super), la bella Aster Flores (Alexxis Lemire). Ellie scrive lettere d’amore a Aster per conto di Paul, ma lei stessa è invaghita di Aster, e Paul che farà? Vedetelo, e vedete come va a finire, ma è tutto nel principio, non accadrà nulla di eclatante, eccetto la magia della differenza, delle promesse che non collidono – e colludono – con le premesse, dell’amore che è a geometrie variabili, e rifugge la complementarità spiccia.

Da Il cielo sopra Berlino a Casablanca, da Oscar Wilde a Jean-Paul Sartre (la citazione è, ehm, perfetta per la Fase 2), le affinità elettive tra Ellie e Aster ingolosiscono, ma Paul non è sciocco, ovvero sciapo: il triangolo è equilatero, nessuno è ottuso, la giusta distanza calmiera i baci. Ognuno si vuole migliorare: Paul perfezionare le salsicce di famiglia; Aster affrancarsi dal promesso sposo Trig (Wolfgang Novogratz); Ellie, be’, non finire depressa come il padre vedovo e, dietro gli strati di vestiario, provare a rivelarsi.

Le Lezioni americane di Calvino hanno distillato da Cavalcanti la leggerezza, forse Wu – studi informatici al MIT e Stanford, poi software chez Microsoft – non le ha compulsate, di certo le ha fatte proprie: L’altra metà confuta il Platone dell’anima gemella, ma non manda al macero il Simposio, anzi, ne eleva a potenza l’anima desiderante. Siamo quello che aneliamo – mai come nel lockdown… – e Wu sa farsi strada tra congiunti e affetti stabili affinché non si disperda l’amor che move il sole e l’altre stelle: questo è Dante, ok, ma la leggerezza non è compromessa. È raccomandabile a tutti la visione, in particolar modo non dovrebbero esimersi sceneggiatori, attori e – wannabe – autori nostrani: facile a vedersi, felice a sentirsi, è un gioiello. E fa innamorare, occhio.

 

Pac-Man, da 40 anni pallina gialla la trionfa

Pallina gialla, divora-tutto, la trionferà. Insert coin, e benvenuti in un mondo parallelo e alternativo di progresso. Rispetto ai flipper era già fantascienza. Nei bar, i loro templi, tutti (e tutte) a giocarci con le cabine arcade. Capsule misteriose, macchine del tempo con cui intrattenere un rapporto carnale nel senso di Cronenberg. Un taglio alle pesantezze degli anni Settanta, e via: il 10 maggio 1980 nasceva Pac-Man, oggetto di culto e scacciapensieri di una generazione adesso al governo.

Il videogame precursore e per eccellenza compie 40 anni: lo festeggiamo, idealmente, con Video killed the radio star dei Buggles in heavy-rotation sulla Mtv nascente. Un inno inaugurale all’edonismo e a quella bulimia dei consumi che marchierà a fuoco il nuovo decennio. Clonato e riformato infinite volte, Pac-Man rivive oggi nelle app degli smartphone e sulle console principali, oltre che su Internet.

A inventarlo fu un ragazzo all’epoca 22enne, Toru Iwatani. Lavorava alla Namco, fece la fortuna di quest’azienda giapponese specializzata nel campo. Con tanto di leggenda fondante: l’idea del personaggio centrale gli sarebbe venuta mentre era a cena con degli amici, osservando una pizza a cui mancava una fetta. La creatura yellow più celebrata della storia prese le mosse proprio da questa banale visione? In parte sì e in parte Toru, qualche anno dopo, confessò che “in giapponese la forma della bocca è quadrata, non circolare come la pizza… e così ho deciso di arrotondarla”.

In patria il videogame fu commercializzato 18 mesi più tardi, col nome di Puckman (dal nipponico “pakupaku”, ergo “chiudere e aprire la bocca”). Solo che quando si trattò di invadere il mercato nordamericano l’assonanza con “fuckman” era un pericolo forte, dietro l’angolo, a rischio troppi segmenti di pubblico. Da qui il passaggio definitivo a Pac-Man, benché altre nazioni avessero provato, inizialmente, a tradurre il titolo. Con singolari derive esotico-autarchiche: in Brasile divenne “Come–Come”, in Spagna “Comecocos” (ossia “mangiatore di cocco”), mentre in Italia la denominazione prescelta fu Gabo-Gabo. Tra la via Emilia e il West, e il realismo magico di Gabriel Garcìa Marquez.

Un minuto di raccoglimento per i veggenti stra-sconfessati dal mercato: poco dopo il suo debutto, nel novembre del 1980, presentato all’Amusement and Music Operators Association (AMOA) di Chicago, qualcuno lo etichettò come “troppo carino per aver successo”. Le classiche ultime parole famose: in 18 mesi la Namco vendette 350 mila macchinette dedicate, e il Pac-Business pesò per miliardi di dollari.

In virtù anche di un merchandising epocale: parliamo di un evergreen della cultura di massa, celebrato al cinema, in tv da Hanna-Barbera, stampato in copertina su Time e su milioni di felpe, zaini, gadget e t-shirt. Ma il suo creatore conobbe una gloria astratta e teorica: né aumenti né bonus, o dividendi per lui. Quando si dice l’etica confuciana applicata al lavoro. Gioco basico e a due dimensioni, Pac-Man: lontanissimo, quindi, dalle realtà aumentate correnti. Eppure era, resta, una meraviglia disarmante nella sua semplicità. Bisogna fuggire da quattro fantasmini in un labirinto, mangiando ossessivamente pallini e frutti: più ne pasteggi, più lungo sarà il tuo percorso.

Attenti però agli spettri-monelli Blinky, Pinky, Inky e Clyde: non fatevi distrarre, perdereste la vita, a meno che non siete riusciti nel frattempo a ingollare le pillole speciali, le power pills, un po’ come gli spinaci per Popeye.

Un quadro tira l’altro, fino al mistico 256esimo livello: l’ultimo stadio, il non plus ultra. 3.333.360 punti: è questa la quota di punteggio perfetta e suprema. Un record pare raggiunto, nel 1999, da Billy Mitchell, videogamer professionista del Florida. Nel 2010, per celebrare il suo trentesimo compleanno, Google caricò il suo primo Doodle giocabile. Consacrandolo, appunto, a Pac-Man: è ancora reperibile, e ogni volta la tentazione è di passarci ore. In quella singola giornata, giusto per fotografarne l’immutata potenza d’urto, risucchiò quasi 5 milioni di ore di lavoro nel mondo.

Spostandoci offline: nel 2015, a Tokyo, si sono assembrate 351 persone tutte vestite di giallo per dar vita alla più grande immagine reale di Pac-Man di sempre. Oggi costituirebbe un reato, al tempo valse l’ingresso nel Guinness dei Primati.

Un’icona pop e del videogame divertente e gentile, che piacque subito alle donne: cominciarono a illuminare con la loro presenza le sale giochi, sino ad allora infestate da raggi laser, astronavi e guerre di ogni tipo. Sulla nostra terra e altrove.

L’imperativo della violenza gratuita venne spazzato da una tecno-rivoluzione incruenta. Non a caso le faccette, le emoticon somigliano tantissimo a quelle sfere color canarino, dalla bocca spalancata in una specie di sorriso, affamata di vita.

Non si muore di solo virus: Ibrahim sfinito dallo sciopero della fame anti-Sultano

Il sollievo è durato solo 24 ore per i membri dello storico collettivo musicale turco Grup Yorum e per i tanti fan sparsi in tutta la Turchia, anche nel sud est a maggioranza curda. Ibrahim Gokcek, il bassista quarantenne del collettivo non ce l’ha fatta. È morto dopo quasi un anno di sciopero della fame, a distanza di un mese dai colleghi , la cantante Helin Bolek, 28 anni, e Mustafa Kocak. Il musicista ed Helin, portati di forza in ospedale (entrambi allora erano carcerati) lo scorso novembre per decisione delle autorità e poi liberati in seguito al loro rifiuto dell’alimentazione forzata, sono deceduti nelle cosiddette “stanze della morte” alla periferia di Istanbul lungo il Bosforo. Lì sono assistiti dai loro compagni e amici. E da una di queste Ibrahim, martedì, aveva interrotto dopo 323 giorni lo sciopero della fame iniziato con Helin e Mustafa allo scopo di denunciare la repressione che il collettivo musicale sta subendo da anni da parte dello stato turco. In cambio della sospensione dello sciopero della fame, la formazione musicale chiede due condizioni: il rilascio dei membri dietro le sbarre e poter tornare a esibirsi. La magistratura e i governi Erdogan avevano tentato per anni di impedire i loro concerti, contestando la natura politica dei testi in musica e l’affiliazione al movimento di estrema sinistra Dhkp-c (Partito rivoluzionario popolare per la liberazione del Fronte) nella lista nera turca, europea e statunitense delle organizzazioni sovversive. Ma è dal 2016, dopo il fallito golpe, che Grup Yorum è stato bandito con l’accusa di terrorismo.

Tre giorni fa però era arrivata la notizia tanto attesa: il permesso di esibirsi il prossimo 3 luglio. Per questo il musicista-attivista aveva sospeso il lungo digiuno. Il suo corpo ridotto a uno scheletro ha tuttavia ceduto e il suo cuore si è fermato. A seguito del riconoscimento domestico e internazionale delle loro rivendicazioni, i membri del Grup Yorum, hanno parlato di una “vittoria politica”. Lo choc causato dall’ennesima morte in poche settimane, non fiaccherà la tempra del collettivo che ha promesso di continuare a denunciare durante i concerti anche la detenzione di altri attivisti e il blocco delle attività del loro centro culturale Idil. Non solo, continuerà a cantare per protestare contro lo sfruttamento e le morti sul lavoro, la corruzione dei politici, le lobby del cemento, il fascismo islamico, il nazionalismo a danno delle istanze curde e la soppressione della libertà di espressione. Alcuni membri di Grup Yorum, tra cui la moglie di Gokcek, Sultan, sono ancora detenuti nel carcere di Silivri a Istanbul, dove si trova dietro le sbarre la maggior parte dei giornalisti indipendenti e degli oppositori alla deriva dispotica dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdogan, al vertice della Turchia da quasi 20 anni.

L’Associazione per i diritti umani con sede ad Ankara ha reso noto che una delegazione di attivisti ha incontrato il vice ministro degli Interni turco il mese scorso per cercare una soluzione che avrebbe posto fine allo sciopero della fame. Il governo ha rifiutato di valutare le richieste fino a quando la protesta non finirà.

La sinistra extraparlamentare turca nei decenni, durante le lotte contro i governi militari, rimasta senza armi e anche senza voce per la mancanza di una stampa indipendente, ha adottato dalla tradizione indiana, il rifiuto del cibo fino alla morte come strumento di lotta sociale. Sono decine, tra i militanti turchi di sinistra, uomini, ma anche molte donne, ad aver deciso di affamare fino alla morte il proprio corpo in cambio della sopravvivenza di una etica collettiva, giusta o sbagliata che sia.

Parigi sorvegliata speciale, la ripartenza è un terno al lotto

La Francia della ripartenza è divisa in due, Parigi e il resto. Nella Capitale e la sua regione, l’Île-de-France, la zona più colpita dall’epidemia di Covid-19, con più di 6.000 morti e ancora più di 1.300 malati in rianimazione, bisognerà essere più vigili e disciplinati che altrove. Lo ha detto ieri il premier Edouard Philippe, che ha presentato il piano definitivo per il dopo-lockdown. Da giorni circolava il dubbio che la scadenza non potesse essere rispettata, ma i francesi possono stare tranquilli: il paese potrà ripartire lunedì 11 maggio, come previsto. “La brutta notizia – ha detto Philippe – è che la Francia è divisa in due”.

La mappa del paese, stabilita sulla base di tre criteri – la circolazione attiva del virus, la capacità di accoglienza dei reparti di rianimazione e la capacità di testing sul territorio – è di due colori, rosso e verde. Un triangolo che comprende quattro regioni del nord-est, tra cui l’Île-de-France, è rosso. Tutto il resto è verde. Se anche la Borgogna e la regione di Strasburgo sono ancora in difficoltà, è Parigi, con la sua periferia, a preoccupare di più. Qui il numero dei contagi “è in calo ma resta elevato, molto più di quanto avessimo sperato”. Ad essere tenuta d’occhio come la capitale è solo l’isoletta di Mayotte, nell’oceano Indiano, dove i contagi sono pochi, ma in aumento. “Nei dipartimenti verdi siamo riusciti a frenare l’epidemia e si può immaginare che dal 2 giugno potranno riaprire i licei, caffè e ristoranti. Nei dipartimenti rossi – ha precisato Philippe – il virus circola ancora molto e gli ospedali sono in difficoltà. Le misure saranno più strette”. I francesi, sempre molto scettici (il 58%, da sondaggio Odoxa) sulla capacità di gestire la crisi del governo, con ministri che si contraddicono e evidenti disaccordi tra il presidente Macron e lo stesso premier Philippe, aspettavano da giorni di conoscere il colore del proprio dipartimento. Di fatto le differenze tra zone rosse e verdi sono poche. Il governo insiste soprattutto sulla responsabilità di ciascuno, chiedendo maggiore prudenza a chi vive in zona rossa. Qui i parchi e giardini non potranno riaprire (anche se il comune di Parigi ne reclama da giorni l’apertura) e il 18 resteranno chiuse le scuole medie. Invece riapriranno ovunque i negozi, parrucchieri compresi, le biblioteche e anche i “piccoli musei”.

I centri commerciali resteranno chiusi solo a Parigi. 875 mila francesi torneranno al lavoro. Nonostante le polemiche, anche nelle zone rosse apriranno le scuole materne e elementari. Ai direttori e agli insegnanti saranno dati uno o due giorni per organizzarsi, dopo di che più di un milione di bambini ritroverà i banchi di scuola. I francesi ritroveranno un po’ di libertà, potranno ricominciare a uscire senza auto-certificazione e incontrare amici e familiari, ma dovranno restare in un limite di 100 km da casa propria. Tutti i viaggi oltre i 100 km dovranno essere giustificati da motivi familiari o professionali. Per limitare gli spostamenti, circolerà solo il 20-30% dei treni regionali e TGV, poi il 40% a fine maggio. C’è poi il grattacapo dei trasporti parigini. Da lunedì il 75% dei metrò tornerà in funzione. L’obiettivo è di limitare al 15% l’affluenza nei metrò. Molte stazioni resteranno chiuse, portare le mascherine sarà obbligatorio e le ore di punta saranno riservate ai lavoratori e a chi si deve spostare per motivi urgenti di salute o familiari. Ma da giorni la società RATP e i sindacati lanciano l’allarme: sarà impossibile rispettare la distanza di sicurezza.

Caso Ferguson, il gossip utile a coprire il record dei morti

Sono le 19:17 di martedì 5 maggio quando il sito del quotidiano conservatore Daily Telegraph sgancia la bomba: Neil Ferguson, “lo scienziato il cui parere ha spinto Boris Johnson a mettere il Paese in lockdown, si è dimesso dopo aver violato il distanziamento sociale per incontrare la sua amante sposata”. Dalle stelle alla polvere: Ferguson, l’artefice del discusso modello epidemiologico dell’Imperial College che ha determinato la strategia anti-Covid del Regno Unito, è professionalmente un cadavere, messo alla berlina in tutto il mondo per – citazione – “Non averlo saputo tenere nei pantaloni”.

Ma quello scoop, firmato anche dalla caporedattrice politica del Telegraph, è molto meno neutrale di quanto appare. Perché non è una notizia piovuta sulla sua scrivania poche ore prima. Il Telegraph racconta di due visite dell’amante del professore avvenute un mese fa, durante il lockdown nazionale, a casa di Ferguson. Scartata l’ipotesi del vicino impiccione, significa che qualcuno (un redattore o un investigatore privato o non privato) ha monitorato regolarmente l’abitazione del docente e le sue attività personali, non relative al suo ruolo scientifico, ha identificato la donna, ne ha verificato l’identità e la situazione familiare.

Non è un lavoro che si improvvisa. Si fa strada l’ipotesi che l’inchiesta, con il suo carico di interesse politico e pruriginoso, fosse già pronta e in attesa del momento opportuno per la pubblicazione. Perché proprio nella tarda serata del 5 maggio? C’era il rischio che altri quotidiani bruciassero lo scoop? Può darsi, ma colpisce la concomitanza con un’altra notizia molto più imbarazzante per il governo: quella, riportata dal Fatto, del record negativo europeo di decessi da Covid-19 nel Regno Unito. Che infatti il giorno dopo, sulla prima pagina del Telegraph, quotidiano di riferimento dell’elettorato di Boris Johnson, era relegata in un colonnino in basso, mentre in apertura campeggiavano le foto degli “amanti”. Nei giorni successivi la storia viene sviscerata dai popolarissimi tabloid, non solo nei dettagli più intimi, ma anche con un chiaro messaggio: se il primo sostenitore del lockdown non si è fatto scrupoli a infrangerlo, perché la popolazione è costretta a osservarlo? Un gran favore a Boris Johnson, che mercoledì ha dichiarato l’intenzione di allentare il lockdown a partire da lunedì, ma ha rimandato i chiarimenti a un messaggio alla nazione domenica sera. Tecnica rodata di un governo dominato da spin doctors: pre-annunciare un cambio di strategia senza dettagli, per vedere l’effetto che fa, e aggiustare le scelte di conseguenza. Intanto però sui siti governativi lo slogan Stay Home, “State a casa” diventa, quietamente, Stay safe, “State al sicuro”: la popolazione va preparata a uscire da un confinamento che sta costando troppo. Al Tesoro, che ha garantito la cassa integrazione per tre mesi all’80% per cento dello stipendio e si aspettava un milione di richieste, invece ne ha ricevute quasi 7 milioni. Alle prospettive economiche del Regno Unito, con la Banca d’Inghilterra che ieri prevedeva per il paese la recessione peggiore del secolo. Al partito conservatore, lacerato fra chi consiglia prudenza e chi smania per il ritorno alla normalità. Ma per riaprire bisogna che la gente sia disposta a farlo. Ferguson era un ostacolo: il 7 aprile, in una lunga intervista al Financial Times, aveva dichiarato: “Al momento non abbiamo una chiara strategia per uscire dal lockdown, che consenta al servizio sanitario di funzionare, permetta maggiore attività economiche e sociali e ci mantenga sani e salvi nei prossimi, diciamo la verità, 18 mesi”.

Ieri, l’ennesima botta ai conservatori: un rapporto governativo datato 2017 e redatto al termine di una simulazione fatta l’anno prima, svelava già l’impreparazione del sistema. L’esercitazione Exercise Cygnus, aveva impegnato per tre giorni le strutture e il personale della sanità con un’ipotetica epidemia. Chi firmava il rapporto presentava una lista di 26 interventi da realizzare con la massima urgenza; il governo di Theresa May mise il dossier in un cassetto.

“Ansia da virus, ci salverà il calore della meditazione”

Il Buddha diceva che tutto è sofferenza, perché tutto è condizionato dal nostro mondo mentale, dal desiderio e dall’avversione, dall’irrequietezza e dalla vanità. Ma una pandemia ha una sua oggettiva forza terribile che squarcia violentemente il divenire come lo conoscevamo; possiamo sottrarci al suo influsso con l’aiuto delle filosofie orientali, per esempio dello Zen? Dario Doshin Girolami è Abate del Centro Zen L’Arco – Zenmon Ji di Roma. Insegna il Soto giapponese, una delle Scuole del Buddhismo Zen giapponese, che pone particolare enfasi sulla meditazione seduta o zazen (za= seduta, zen= meditazione).

Sensei (Maestro) Dario, tra i principi cardine del Buddhismo ci sono quelli dell’impermanenza della realtà e dell’insostanzialità dell’io. La pandemia però ci riguarda profondamente: occorre distanziarsene?

Al contrario. Questa pandemia ci sta facendo vedere chiaramente quanto la realtà e il nostro corpo siano impermanenti. Come insegna il Buddha, tutto è in costante trasformazione. Tutto nasce e muore. Questa è la Verità. Non si tratta di distanziarsene ma di accettarla profondamente, aprendo il proprio cuore. D’altra parte è proprio grazie all’impermanenza che questo periodo difficile passerà.

È difficile pensare che sia tutto solo una rappresentazione delle nostre paure. È reale. O no?

Certo che è reale, come è reale la nostra paura. Si tratta di una naturale reazione. Tuttavia è possibile imparare, grazie alla meditazione, a non diventare ostaggio della paura, e vedere la situazione per quella che è, senza alimentare l’ansia.

Il Buddhismo e lo Stoicismo si toccano. “Se c’è qualcosa da fare, fatelo, senza bisogno di preoccuparvi; se non c’è niente da fare, preoccuparsi ulteriormente non sarà d’aiuto”, ha scritto il Dalai Lama. Sembra Seneca.

Se siamo bloccati nel traffico, che senso ha arrabbiarsi? Se possiamo imboccare un’altra strada, facciamolo. Ma se non c’è alternativa, l’ossessionarci con pensieri negativi avrà l’unico effetto di farci stare più male. Sicuramente un pensiero simile allo Stoicismo di Seneca, ma a mio parere nell’ideale dell’apatheia (impassibilità, ndr) proposto dallo Stoicismo manca il calore affettuoso della compassione, tanto centrale nel Buddhismo.

Come si medita? Intendo praticamente.

Basta sedersi a terra a gambe incrociate, o su una sedia, e poggiare la mente sul respiro. Per rendere più saldo l’ancoraggio alla sensazione del respiro, si contano i respiri: inspiro-espiro conto “uno”, quando si arriva a cinque si ricomincia da uno, se ci si perde, se la mente divaga, si ricomincia da uno. E si continua così, in uno stato di silenzio e immobilità. All’inizio bastano cinque minuti, per arrivare poi fino a trenta-quaranta minuti.

Quali effetti produce?

L’essenza della meditazione sta nell’essere nel momento presente. Ovunque scappi la mente – con proliferazioni mentali, pensieri ossessivi, ansie e paure – il corpo è sempre qui e ora. La pratica consiste dunque nel riportare la mente nel corpo, attraverso il respiro che, oltre ad avere una qualità calmante, ha la stessa caratteristica del momento presente: dura un attimo e se ne va.

È stata la nostra brama a determinare tutto questo? Il nostro schiavizzante ego che depreda l’esistente?

Il Buddha insegna che la brama egoica è all’origine della sofferenza esistenziale. Non credo che sia stata la brama a generare il Coronavirus – i virus da sempre abitano questo pianeta. Tuttavia lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta e la distruzione degli habitat animali ha contribuito e contribuirà grandemente alla diffusione di questo e altri virus.

Considera questo evento un rivelarsi della realtà per come è secondo il Buddha, cioè sofferenza?

Nella prospettiva Zen la realtà è impermanente e priva di un sé sostanziale. Se ci relazioniamo male a questa realtà, il nostro vissuto sarà di sofferenza. Se invece ci relazioniamo bene, vivremo questa stessa realtà con serenità. La scelta sta a noi. Come vogliamo vivere questo evento?

Tuttavia è traumatica l’immagine dei camion militari che portano via le bare da Bergamo.

Il Buddha insegna che malattia e morte sono parte della vita, sono due aspetti della stessa realtà. Siamo noi che le separiamo e dunque soffriamo. Interpretiamo malattia e morte come un’ingiustizia piuttosto che come un evento naturale. Ma in un fiore che cade non c’è errore. È la via delle cose. Non ho dunque trovato traumatica l’immagine dei camion con le bare, ma ho provato grande compassione.

L’ha colpita l’immagine del Papa solo in piazza San Pietro?

Profondamente. Mi ha fatto pensare al vuoto desolante della nostra società, ma le sue parole sono state un incoraggiamento allo stringerci, al non perderci, all’aiutarci vicendevolmente. Il silenzio assordante della piazza ha rappresentato per me uno straordinario invito ad ascoltarci in profondità e a ritrovare la nostra più vera e autentica natura che, per lo Zen, è una natura luminosa.

Che vuol dire che siamo tutti interdipendenti?

L’interdipendenza è una legge fondamentale della natura. Il mio respiro dipenda dalle piante e dal sole. Senza di essi non potrei vivere. Il pane che mangio viene dal grano (e dal sole, la pioggia) che qualcuno ha coltivato. La nostra esistenza dipende dagli altri. Più capisco ciò, più apro il cuore alla compassione.

“A 80 anni finalmente mi godo mia moglie”. E la moka batte il bar

Nel periodo di reclusione forzata ci avete raccontando le vostre giornate, tra nuove abitudini, prove di resistenza e sforzi di fantasia. Vi ringraziamo: le vostre parole sono la conferma che il Fatto non è solo un giornale, ma una comunità viva. Adesso però ci piacerebbe che condivideste con noi anche questi giorni di parziale rientro alla normalità, tra persone che tornano al lavoro e piccole libertà che ci si può finalmente concedere. Qual è stata la prima cosa che avete fatto dopo il 4 maggio? Siete riusciti a incontrarvi con una persona cara? Vi aspettiamo sempre all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it.

 

A Villa Pamphilj insieme alle mie due figlie

La prima cosa dopo 4 il maggio? Tornare nel verde con loro, le mie figlie a Villa Pamphilj (vedi foto).

Gio

 

Adesso sto con Francesca come mai avevo fatto

La prima cosa che ho fatto dopo il 4 maggio è stata prendere consapevolezza che non tutti i mali vengono per nuocere, neppure il coronavirus. Quarant’anni fa ho incontrato l’altra metà della mela!

Eravamo entrambi separati, lei abitava alle falde dell’Etna, io ai piedi del Vesuvio. Dopo aver fatto il pendolare dell’amore per nove anni, mi sono trasferito a Catania nella casa di Francesca e dei suoi tre figli. Veniamo a oggi. Alla fine di febbraio siamo stati tutti assaliti dalla bufera del coronavirus.

Poiché ho 80 anni, e il “mostro” predilige gli anziani, Francesca ha ritenuto opportuno di restare anche a dormire da me. Per concludere ecco i quattro motivi che mi fanno affermare che, parlo del mio caso, non tutti i mali vengono per nuocere. Primo: grazie a Dio finora sono riuscito a tenere lontano il “mostro”; secondo: ogni mattina alle 7 ho l’onore e la gioia di ricevere nella mia modesta casetta Papa Francesco con la Santa Messa e la sua benedizione; terzo: poiché dal 2018 un regolamento della Siae aveva escluso una trentina di autori anziani e poveri come me dal sussidio che ci versava, prima di Pasqua ho ricevuto la telefonata che mi informava che, a causa della pandemia, veniva ristabilito quel sostegno. Il quarto motivo è “la ciliegina sulla torta”: poiché, come è ben noto, agli inizi di marzo il governo ha decretato che nessuno si dovesse muovere da casa, Francesca non si è potuta più allontanare e sono quasi tre mesi che stiamo insieme giorno e notte, da soli, e siamo felici e contenti. Io lo sono ancora di più perché, nonostante i miei 80 anni, gli acciacchi e le difficoltà quotidiane, ancora, sempre per merito di Francesca, ogni mattina sorrido alla vita e la benedico per il grande dono di tanta meravigliosa favola d’amore!

Raffaele

 

Coordino la smart-school e insegno ai miei bimbi

La quarantena continua se sei donna, mamma e rappresentante dei genitori nella scuola dei tuoi figli.

Continui a coordinare e veicolare molte informazioni e cerchi di aiutare guidando per telefono chi non ha le capacità per usare i mezzi informatici e rischia di naufragare tra le piattaforme scolastiche. Anche se vivo al Sud, ho un solo pc a casa e lo smartphone come router, non mi sono mai sentita né nel deserto né abbandonata, anzi! Ho finalmente insegnato ai miei figli a usare il pc e inviare i compiti in quasi totale autonomia e ne sono orgogliosa.

La prima libertà che mi sono concessa è stato un tanto desiderato buon caffè, per scoprire alla fin fine, che quello della mia moka ormai mi piace di più.

Roberta

 

Che fatica spiegare i divieti ai bambini

Facendo un giro per Roma ho rivisto gente passeggiare e un traffico che non sarà quello dei giorni migliori (o peggiori?) ma che comunque ha ripreso a essere intenso.

Ora, mi pare che la maggior parte delle persone abbia comunque capito che i rischi non sono scomparsi e che bisogna rispettare le regole. Io per prima cerco di farlo, anche se chiunque ha dei figli come me capirà come mi sento quando vedono altri bambini e vorrebbero giocare come nulla fosse. Mestiere difficile quello di tenerli a bada!

Ma soprattutto se poi portiamo i figli dai nonni è necessario ancora uno sforzo e quindi cerchiamo di farglielo capire.

Alessandra

 

La nostra piccola Bianca ha una nuova abitudine

La nostra Bianca al mattino (vedi foto): latte e… Fatto Quotidiano.

Anche da lei i complimenti al vostro lavoro, per un’informazione senza guinzaglio.

Francesco e Roberta

Mail Box

 

“Non sempre amo Luttazzi”. “La satira può non piacere”

Da oltre quattro anni leggo tutte le mattine il Fatto Quotidiano, che apprezzo per l’indipendenza da qualsiasi asservimento padronale. Sono sicuro che anche Daniele Luttazzi, persona intelligente, saprà esprimere il suo estro satirico senza cadere nella volgarità e nel cattivo gusto, poco digeribili di questi tempi.

Gioachino d’Agostini

 

Caro Gioachino, Luttazzi è come Aristofane, Rabelais e tutti i satiri irriverenti (e triviali) della storia. Ma capisco che non piaccia a tutti. Un caro saluto.

M. Trav.

 

Mascherine in Liguria/1: è pura propaganda di Toti

Ho letto l’articolo di martedì in cui stigmatizzate, giustamente, il fatto che il presidente della Liguria Toti ha regalato mascherine ai liguri per farsi pubblicità. Ho letto anche la replica di mercoledì dell’Ufficio stampa della Regione, in cui si sostiene che sulla busta delle mascherine è “apposto solo il logo della protezione civile regionale”: una chiara presa in giro visto che metà del logo è quello della Regione stessa (vi ho mandato una foto). Un’abitudine scandalosa, quella di farsi propaganda sulla pelle della gente: tutti i giorni sulle tv locali, il presidente Toti e l’assessore Viale si pavoneggiano, senza alcun contraddittorio, dei brillanti risultati ottenuti nella lotta al virus in Liguria (in realtà una delle peggiori situazioni in Italia).

Andrea Chiappori

 

Mascherine in Liguria/2: i conti non tornano proprio

Mercoledì, l’ufficio stampa della Regione Liguria asseriva che nelle buste contenenti mascherine è apposto esclusivamente il logo della Protezione civile. Bene, vi ho inviato la foto: a voi constatare che non compare solo quel logo. In più: nei primi tempi veniva consegnata una busta per abitante, poi, venendo meno la scorta, una busta per nucleo familiare. La citazione di 3,5 milioni di mascherine per i cittadini è, inoltre, errata: 2 (mascherine) x 1,5 milioni (di liguri) fa 3 milioni. Se poi consideriamo che a oggi tanti residenti non hanno ricevuto nulla, i conti non tornano: è pura propaganda elettorale.

Roberto Gillo

 

Le opposizioni fanno il gioco dei poteri occulti

Sono un lettore del Fatto dalla sua nascita. Ho letto anche Repubblica sin dalla fondazione nel 1976, ma ho smesso nel 2011, all’epoca delle notizie sulla Trattativa Stato-mafia: a mio parere, ciò rappresentò l’inizio di una mutazione genetica del giornale. Lo penso anche in considerazione dei cambi dei direttori di Repubblica e della Stampa, effettuati dalla nuova proprietà Elkann/Agnelli: temo che la stampa libera, nei prossimi mesi, sarà oggetto di attacchi pretestuosi e viscidi… In questa difficile fase di pandemia, sono continui gli attacchi a Conte, non solo dalle opposizioni, ma pure da una parte della stampa, che – con la scusa di un governissimo a guida Draghi o Colao o Menelao o Achille… – porta avanti le posizioni di un sistema subdolo e incancrenito, di corrotti, concussori, grembiulini, soggetti conniventi con la criminalità.

Salvatore Varriale

 

Alitalia, azienda decotta: il Mef la salverà ancora?

Il viceministro dell’Economia Misiani ha detto “no al salvataggio di aziende decotte con soldi pubblici”. Poiché non c’è azienda più decotta di Alitalia, che è già costata miliardi agli italiani, che sia la volta buona per lasciarla fallire? O, come probabile, il ministro stava scherzando e i cittadini dovranno continuare a pagare per consentire ad Alitalia di volare in perdita?

Pietro Volpi

 

B. è in Francia e gli italiani di serie B restano in Bovisa

Molti giornali riportano che Berlusconi è “riparato” nella sua villa in Costa Azzurra per sfuggire al Coronavirus. Mi chiedo con quali permessi B. sia approdato in Francia, se a tutti gli italiani era vietato di uscire dai propri Comuni e Regioni. Forse ci sono italiani di seria A e italiani di serie B? Perché io devo “svernare” il Covid-19 alla Bovisa e non posso raggiungere il mio bilocale a Luino e lui invece può andare all’estero?

Franco Griffini

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Direttore, desidero rettificare la ricostruzione dell’articolo “Di Matteo-Bonafede: la vera storia del Dap”, pubblicato a firma Antonella Mascali martedì. E sono due volte costretto a farlo dopo che anche l’eccellente Gian Carlo Caselli, sul Fatto di ieri, ipotizza una mia benché indiretta responsabilità nella telefonata di Di Matteo, per avere usato il termine “trattativa”. Vorrei che chiariste definitivamente come NON sono stato io a parlare di contatti fra Di Matteo e Bonafede per la nomina al Dap (ignoravo l’esistenza di quei fatti), ma Giletti e De Magistris in più occasioni. Di più: a loro domanda diretta ho risposto limpidamente di non sapere nulla dell’ipotesi di cui si stava discutendo. Non ho dunque “evocato” alcunché, come erroneamente riportato, e NON esiste alcun collegamento tra le mie affermazioni e la scelta del magistrato di intervenire in diretta. È stato lo stesso dottor Nino Di Matteo a confermarmi personalmente, in un cordiale colloquio telefonico, che nessuna delle parole da me pronunciate lo ha in alcun modo spinto a telefonare alla trasmissione: sono certo potrà confermarlo anche a voi se vorrete chiedergli conferma.

Dino Giarrusso, Europarlamentare M5S