Reddito di cittadinanza. Quando la Fase 2 è ancora lontana se si è in attesa dei soldi

 

Cara redazione, sopravvivo in un paese della Cremasca, non molto lontano da Codogno, ma sono originario di Lovere sul lago d’Iseo, dove tuttora vive la mia famiglia. Vorrei potervi dire che la prima cosa che ho fatto il 4 maggio è stata salire in macchina, percorrere 100 chilometri e portare un grosso bacio a mia madre che non vedo da più di tre mesi, ma non è così. In tutta coscienza, come potrei correre dai miei cari senza conoscere l’effettivo stato della mia salute? Quindi temo che il 4 maggio, per me e per coloro che si trovano nella mia situazione, debba ancora arrivare.

Ho detto “sopravvivo” perché da dicembre non lavoro, ho messo da parte l’orgoglio e ho fatto richiesta per il Reddito di cittadinanza. Ma a oggi (comprendo il momento e accetto i ritardi) nessuna notizia.

Nel frattempo, avendo la fortuna di possedere un pezzo di terra, coltivo verdure e mi dedico alla mia passione, sì! Perché io sono un cantastorie e di questi tempi di storie da cantare ce ne sono parecchie. Vi domando scusa per non essermi ancora abbonato al Fatto, cosa che farò appena avrò la disponibilità economica e mi complimento per il modo in cui fate informazione.

Walter Bombelli

 

Gentile Walter, intanto la ringrazio a nome di tutta la redazione, ricordandole di tenere duro. In merito alla sua denuncia, non risultano complicazioni nella richiesta del Reddito di cittadinanza, dal momento che non è una misura legata all’emergenza coronavirus. Nel “Cura Italia”, che ha previsto diverse indennità per far fronte alla crisi economica (bonus e ammortizzatori sociali), è infatti specificato che gli aiuti sono incompatibili con il Reddito di cittadinanza, la cui domanda (e assegnazione) prosegue nel suo normale iter. Per richiederlo, si deve accedere sul sito www.redditodicittadinanza.gov.it, avvalersi dei Caf o andare presso gli uffici postali. Con una tempistica precisa per la risposta: le informazioni vengono comunicate all’Inps entro 10 giorni lavorativi dalla richiesta e l’istituto, a sua volta, entro i successivi 5 giorni verifica il possesso dei requisiti sulla base delle informazioni disponibili nei propri archivi e in quelli delle amministrazioni collegate. E, in caso di esito positivo, riconosce il beneficio che sarà erogato attraverso la carta di pagamento elettronica emessa da Poste. Per qualsiasi chiarimento può contattare l’Inps. Intanto dobbiamo restare in attesa ancora un paio di giorni per capire come e quanto il nuovo “decreto di maggio” possa cambiare le sorti del Reddito di cittadinanza. Con lo stanziamento del nuovo Reddito di emergenza (assegno tra 400 e 800 euro per circa 2,5 milioni di persone più disagiate), chi con il Reddito di cittadinanza riceve meno, potrebbe chiedere un’integrazione. Ma per ora è solo una possibilità allo studio della maggioranza.

Patrizia De Rubertis

Serena Grandi: “Adesso? Voglio solo fidanzarmi con una donna”

Ironica, naturalmente seducente, volutamente sfacciata. È Serena Grandi.

Come sta?

Non male, ma qui a Rimini non si può andare al mare.

Quindi…

Non ne posso più della monotonia.

Non esce?

Giusto per la spesa, ma ancora troppe limitazioni.

Fa le pulizie.

(Ride) Io? Non sono brava; quando avevo sei anni mia nonna insisteva: “Devi imparare!”.

Risposta?

Urlavo: “Io avrò quattro cameriere!”.

Fa l’uncinetto.

Impossibile, mi cadrebbe tutto dalle mani.

Cucina.

Di tutto. L’altro giorno ho preparato una pasta brisé con le mele, pensavo di regalarla a qualcuno, ma non mi decidevo a chi.

E…

L’ho mangiata tutta.

Occhio alla linea…

Sono sempre una caramella mou.

Avances da spasimanti?

Mica tante, però ho pubblicato su Instagram un paio di foto osé e si sono moltiplicati i follower.

Bene.

No, la mia prossima fidanzata sarà donna e ricca.

Che succede?

Agli uomini mancano le palle.

Dolore.

Non sono proprio all’altezza; (ci ripensa) ho sistemato le piante in terrazzo.

Dove le piacerebbe andare?

A Roma, lì ho le persone care; (cambia discorso) ho delle unghie terribili, non le sistemo da tre mesi.

La ceretta?

Lì tutto tranquillo, e poi Tinto (Brass) pretendeva il pelo naturale, proibiva ogni tipo di depilazione.

Severo.

Aveva ragione.

Progetti in sospeso.

Dovevo girare il prossimo film di Pupi Avati. Bellissimo. Quando potremo?

 

È giunta l’ora di ripensare cos’è la libertà

La pandemia, con la necessità di porre dei limiti alle libertà personali, obbliga tutti, a cominciare dai politici, che dovranno decidere che cosa, come, quanto, ai giuristi, ai filosofi, agli scienziati della politica, a ripensare al significato di libertà e alla realtà della/e libertà nel mondo contemporaneo. Non possiamo accontentarci della pure feconda, ma anche controversa, distinzione effettuata da Isaiah Berlin fra libertà “da” e libertà “di”. Certo, è importante essere liberi da impedimenti e da interferenze che vengano dallo Stato, dai detentori del potere politico, da chiunque abbia risorse tali da influenzarci in maniera notevole e sgradevole. Proprio se e quando riusciamo a sfuggire alle influenze esterne siamo liberi di agire e di fare. Allora, ci troveremo in condizione di perseguire i fini che desideriamo, di appagare le nostre preferenze. Quelle libertà individuali sono essenziali.

Tuttavia, abbiamo imparato da Thomas Hobbes che quando tutti tentano di ottenere quello che desiderano senza osservare nessuna regola finiscono inesorabilmente per scontrarsi producendo la grave situazione del bellum omnium contra omnes. L’ordine, prodromo di esiti autoritari, dovrà essere e verrà imposto dall’alto a meno che si pervenga a una condivisione di regole accettate da tutti o quasi. L’ordine politico, premessa della democrazia e sua positiva conseguenza, implica che tutti rispettino le libertà altrui e che nessuno eserciti la sua libertà a scapito di quella degli altri. Forse, il pensiero politico non si è esercitato a sufficienza sui limiti reciproci della libertà.

La riflessione che ho svolto, finora molto carente in Italia, è indispensabile per passare ai casi pratici, a cominciare dalla libertà di circolazione che, riconosciuta nell’art. 16 della Costituzione italiana, è stata fortemente circoscritta dai decreti del presidente del Consiglio. L’articolo afferma che la circolazione è libera “salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”. Quindi, gli interventi limitati possono (debbono?) essere sanati da una legge successiva. Più concretamente, a suo sostegno e giustificazione, il governo deve argomentare che la libertà dei cittadini di circolare sul territorio nazionale, di uscirne e di rientrarvi trova un limite oggettivo nel diritto alla salute qualora esista una ragionevole preoccupazione che i cittadini circolanti siano portatori di malattie. Allo stesso modo e per ragioni simili, possono essere sospesi il diritto di riunione (art. 17) e il diritto di esercitare “in pubblico il culto” (art. 19). Tutti questi sono diritti che definirei sociali. Trovano presenza, protezione e promozione nell’ambito della società, nella socialità.

Se, come pare opportuno e acquisito, attribuiamo allo Stato il compito di proteggere la vita e di promuovere il benessere dei cittadini, allora ne consegue che il governo deve essere in grado di predisporre e di fare osservare le misure necessarie ai compiti primari. Potremo giustamente discutere il contenuto e i dettagli di queste misure (ad esempio, la definizione dei congiunti e il numero massimo di partecipanti ai funerali) chiedendo che il governo offra motivazioni specifiche e precise. Fra queste misure non può non essere collocato il ricorso al contact tracing (rin-tracciabilità dei movimenti e degli incontri) che richiede una trattazione specifica, ma i cui criteri irrinunciabili sono volontarietà, provvisorietà, temporaneità (ovvero la certezza che i dati raccolti saranno rapidamente distrutti dopo l’uso al quale erano stati destinati).

Primum vivere deinde philosophari, ma filosofeggiare sulle libertà nel mondo interdipendente significa andare ripetutamente, ostinatamente alla ricerca dei più accettabili punti di equilibrio fra le libertà dei cittadini. Niente di meno niente di più niente di diverso. Il diavolo potrà anche annidarsi nei dettagli, ma, forse, dobbiamo temere di più i diavoli che fanno un uso spregiudicato dei dettagli con l’intento di oscurare the big picture, il quadro complessivo: una pandemia che colpisce tutti e tutti mette e mantiene in pericolo.

I punti che deve chiarire il ministro della Giustizia

Già nel dicembre del 2018 avevamo scritto che Bonafede “non ha spiegato perché – dopo aver fatto balenare la sua nomina – non abbia scelto Antonino Di Matteo come capo del Dap. Alcuni boss al 41-bis avevano fatto sapere di non gradire il pm della Trattativa. Bonafede però non li ha irritati”. La risposta a quella domanda arriva due anni dopo, con tempi e modi sbagliati da entrambe le parti. A questo punto il magistrato e il ministro dovrebbero chiarire nella sede giusta: la Commissione Antimafia. Bonafede potrà spiegare cosa accadde tra la sua prima telefonata del 18 giugno 2018, quando propose a Di Matteo il Dap o la Direzione Affari penali (“scelga lei”) e l’incontro del 19 quando cercò di convincerlo a prendere gli Affari penali. A Massimo Giletti ha detto: “A me era sembrato che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo”. Di Matteo non la pensa così. Comunque chiese un nuovo incontro e l’indomani, 20 giugno, comunicò di volere il Dap. Purtroppo già offerto al pm Francesco Basentini. Cos’è successo in quelle 48 ore?

Bonafede poi potrà spiegare la frase (riferita da Di Matteo a Repubblica) detta nell’ultimo incontro del 20 giugno 2018. Il ministro disse davvero “non c’è dissenso o gradimento che tenga”? Bonafede giura che non ci sono state pressioni istituzionali su di lui. Inoltre ricorda che le parole dei mafiosi erano note a entrambi prima della duplice proposta e quindi non hanno influenzato la sua scelta. Tutto ciò, però, non toglie che il trattamento riservato a Di Matteo da Bonafede sia stato offensivo. Non si tratta così un magistrato minacciato da Riina, che rischia la vita per lo Stato. Soprattutto perché il M5S ha lasciato intendere (a Di Matteo e non solo) altri scenari. La storia inizia con Luigi Di Maio che in privato gli promette il ministero dell’Interno anche se in pubblico il nome sarà un altro (Paola Giannetakis) per non mettere Di Matteo in difficoltà.

Nessuno smentisce però Di Maio, che fa il governo con Salvini e Bonafede offre a Di Matteo, che non ha mai chiesto nulla, solo un posto che non c’è (la Direzione Affari penali è occupata da Donatella Donati) e un posto che svanisce quando Di Matteo lo accetta: il Dap.

I boss in cella si erano fatti intercettare mentre urlavano di non volere Di Matteo al Dap, ma Bonafede sottolinea che lo sapeva da giorni quando lo propose al pm. Resta il fatto che la nomina di Basentini il 27 giugno, proprio il giorno dell’uscita della prima pagina del Fatto sul veto dei boss, ha dato l’impressione di un cedimento alla mafia. I boss hanno esultato per quella prova di forza apparente. E hanno brindato ancora il 21 marzo 2020 quando il Dap ha fatto uscire una circolare urgente che rendeva più facile le scarcerazioni per il coronavirus dei boss malati o ultrasettantenni ai Tribunali di Sorveglianza.

I Tribunali hanno deciso da soli le scarcerazioni di 300 mafiosi, senza citare norme e circolari speciali, però talvolta sono stati aiutati dalla lentezza del Dap a fornire la prova che non rischiavano a restare in cella. Bonafede è responsabile politicamente degli errori del Dap. Anche perché chi ha votato il M5S immaginava che al Dap il ministro avrebbe portato Di Matteo, non il meno noto Basentini. Già allora, nel 2018, notavamo che Basentini è meno esperto di 41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo: per esempio è amico di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell’università. Pucci e Basentini si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost, come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede sono questi. Il resto sono chiacchiere.

Di Matteo e Bonafede: pure i giusti sbagliano

Caro direttore, sono amico dell’uno e dell’altro e li stimo entrambi, ma in questo caso non posso che dirlo nel modo più netto: hanno sbagliato entrambi, Alfonso Bonafede e Nino Di Matteo intendo.

Come può essere passato per la testa al ministro Bonafede di provare ad affidare la guida del Dap a uno come Di Matteo? Uno che da pubblico ministero si è ostinato a mettere sotto processo alti ufficiali per la mancata cattura di Bernardo Provenzano o che, addirittura arrivando a ottenerne la condanna in primo grado, ha portato insieme, sul banco degli imputati, mafiosi e ufficiali e politici per quella trattativa fatta sul sangue delle vittime delle stragi e che fra gli obiettivi aveva proprio l’eliminazione del carcere duro per i mafiosi?

Proprio una follia. Avesse pensato a uno come Di Maggio, che con la faccia da duro svuotava il 41-bis di mafiosi e ci organizzava pure tour per qualche giornalista, allora sì. Avrebbe raccolto il consenso e gli applausi di tutti: magistratura, politica, informazione, servizi segreti e, naturalmente, pure della mafia. Ben gli sta, così impara. E per farglielo capire bene, la voce unica del sistema ha fatto passare il falso messaggio che quella proposta Bonafede l’ha ritirata perché intimorito dalle frasi d’amore dedicate a Di Matteo da mafiosi detenuti. Per il futuro, impari: in un ministero sono ammessi i sodali dei prestanomi di Matteo Messina Denaro, le nipoti di Mubarak, perfino i pusher, all’occorrenza. Ma uno come Di Matteo no. E poi avrebbe dovuto tenere conto, in quello stesso momento, della lezione impartitagli dal suo partito, quando impose al Viminale il sottosegretario Gaetti, che al ministero si fece affiancare non certo da un pericolo pubblico come Di Matteo, ma da un ex funzionario del Sisde di Contrada come Giuseppe Di Salvo.

Pure a Di Matteo, nel giugno 2018, deve essere andato di volta il cervello. Come ha potuto pensare che quella proposta del ministro, di nominarlo alla guida del Dap, potesse avere seguito? Ha idea di cosa avrà dovuto subire Alfonso Bonafede dai suoi compagni di partito, dai suoi alleati di governo, dai dirigenti del suo ministero, dalle vette e nel contempo dai sotterranei del potere, quando avrà fatto cenno alla sua folle idea?

Il ministro Bonafede è senz’altro un galantuomo, ma mica ha fatto la Resistenza con il mitra in spalla e, piuttosto che il fazzoletto rosso al collo, mette quello bianco nel taschino! Nino Di Matteo avrebbe dovuto subito rispondere No, urlando. E poi, l’altra sera, chi lo ha portato a parlare pubblicamente di una vicenda che lo riguardava personalmente e nella quale lo stavano tirando in ballo? Ancora non ha capito chi fra i magistrati, e come, può parlare pubblicamente per prendersi il plauso unanime?

Deve parlare di indagini in corso di cui si occupano altri magistrati, come ha fatto Armando Spataro tre anni fa sull’omicidio di Attilio Manca. E infatti chi ha inarcato un sopracciglio contro Spataro? Oppure bisogna mostrare di sapersi rendere proni al sovrano, come avvenne quando linciarono a sangue Luigi De Magistris col benestare del presidente Napolitano o quando lo stesso Re Giorgio entrò a piedi uniti contro i pm del processo sulla Trattativa. Cioè proprio contro Di Matteo. Non l’ha capito quale è il modo per ottenere consenso pure tra le pensose toghe da salotto?

E poi che senso ha mostrare quel disprezzo per le bieche pratiche del potere? È un pazzo. Non ha visto che da lustri una grossa corrente della magistratura è comandata da un magistrato che nella sua vita ha fatto soprattutto politica, al ministero e ora al Parlamento?

Non ha visto che per più di un decennio tutti i capi della magistratura associata hanno contrattato con Luca Palamara nomine e incarichi? Pure quelli che ora fanno finta di non conoscerlo. Beata ingenuità. E dire che al Csm Di Matteo ne sta vedendo!

Ma basta con questa amara ironia.

Ad Alfonso Bonafede e a Nino Di Matteo un errore per ciascuno devo contestarlo. Il ministro non pensi più di fare una proposta coraggiosa e della quale gli rendo merito, prima di avere ottenuto il benestare di tutto il mondo del potere che gravita intorno al suo ministero e al suo governo, perché altrimenti, come sta accadendo, ricadranno su di lui gli effetti delle sotterranee, torbide trame, che lo hanno ingabbiato quando voleva Di Matteo a capo del Dap.

E Nino si astenga dal guardare programmi trash in tv. Anche e soprattutto quando parlano di lui.

Un’ultima cosa, da fratello maggiore (dato che ho almeno l’età per poterlo essere): cari Di Matteo e Bonafede, fate in fretta a ricomporre questo dissidio, che fa male a tutti quelli che vi stimano.

Altrimenti c’è chi saprà approfittarne per fare fuori prima l’uno fingendo di appoggiare l’altro, e poi, una volta portato a termine il compito, per eliminare anche l’altro rimasto in piedi.

Rischio depressione da “Porta a Porta” se ci tornasse Renzi

Limiti. “Renzi: Pensiamo di onorare quella gente di Bergamo e di Brescia che non c’è più e che, se avesse potuto parlare, ci avrebbe detto: ‘Ripartite anche per noi’”. Ecco, la campagna per le riaperture stavolta si è spinta fin lì. Ed è difficile, va detto, che si possa andare oltre (Paola Zanca, FQ) Non sottovalutiamolo: Renzi è uno di quei politici cui nessuna forza umana può impedire di dire una cazzata. Immagino qualcosa tipo “La sconfitta elettorale? Sto soffrendo come hanno sofferto i morti di Bergamo e Brescia”.

Pismo Clap, presidente della Società Italiana di Epidemiologia Televisiva (SIET), è uno dei 9000 esperti nominati da Conte per elaborare le proposte della Fase 2. Matteo Renzi aveva detto “riapriamo le fabbriche prima di Pasqua”. Professor Clap, lei una volta credeva di essere spiato dal suo gatto. Che tipo di normalità ci aspetta? Riaccenderemo la tv e tutto torna come prima, Renzi da Vespa compreso?

La ripresa sarà molto graduale: bisognerà fare propri dei comportamenti preventivi che avevamo sperato potessero essere limitati solo alla fase di emergenza. E Renzi che va in tv a sparare cazzate sarebbe un’emergenza nell’emergenza: Renzi è un ingrediente che intorbida tutte le miscele. Dal punto di vista clinico, la non visibilità di Renzi durante il lockdown ha lasciato la porta aperta a fantasie intrusive, a volte anche paranoiche. Mentre chi ha tratti di ipocondria tende a provare grande angoscia al pensiero di un ritorno di Renzi da Vespa.

La fascia più colpita?

L’impatto di Renzi è molto forte sugli anziani. Sia per lo stress, sia per la vergogna di non aver protetto a sufficienza la propria famiglia quando accettarono – senza scendere in piazza a fare le barricate, come avremmo dovuto fare tutti – l’imposizione renziana del canone Rai nella bolletta della luce, sennò ti staccano l’elettricità. A loro va la massima attenzione, perché sono i più vulnerabili alle conseguenze patologiche di un’esposizione a Renzi. Saranno gli ultimi a poter guardare Porta a Porta, e vanno aiutati a capire che è per il loro bene.

A livello operativo, che accade?

Occorrerà istituire dei numeri verdi. Aprire padiglioni nei dipartimenti di salute mentale dove attivare strategie specifiche. Contattare tutti i telespettatori al telefono, per valutare il loro stato psichico. Incoraggiare chi ha già superato la fascinazione per Renzi, come Eugenio Scalfari, a mettere a disposizione il proprio tempo, rispondendo alle telefonate di chi è in difficoltà. Un modo anche per dare un senso alle proprie giornate. Tutti gli studi ci dicono che un ritorno di Renzi da Vespa sarà caratterizzato dalla diffusione ampia di disturbi psichiatrici come ansia, irritabilità, depressione. E di problemi relazionali, quando un famigliare manifesterà improvvisamente i sintomi di un’ossessione per il Potsie di Rignano, tipo innamorarsi della vicina di casa perché somiglia a Verdini, o mettersi a usare gli stessi tampax della Boschi.

La forza dell’abitudine. “Adesso tutti dicono di riaprire. Noi lo dicevamo due mesi fa!”.

Del resto, che colpa ne ha il virus? La natura lo costringe a fare ciò che non vuole. A voi piacerebbe finire su per il naso di Bertolaso?

I parroci: nuovi virologi

Ho frequentato istituti religiosi dalle elementari alla maturità. Le suorine mi hanno sempre detto che Dio è in ogni luogo.
Le chiese? Sono luoghi di raccolta, dove c’è il Tabernacolo con il Sacramento da adorare. Raccomandavano, prima di tutto, “cerca la voce di Dio dentro di te”. E se non puoi andare in chiesa, non devi scusarti. Dio sa. Non voglio fare una lezione di religione, non sono la persona adatta, anche perché la mia formazione post-religiosa ha fatto di me una laica. Il messaggio è diretto, con molta modestia e profilo virologico, a coloro che hanno pressato politicamente per l’apertura delle chiese.
Le scuole, solitamente frequentate da bambini e giovani (i meno esposti al Covid-19) resteranno chiuse, con grande disagio dei genitori che cominciano a riprendere il lavoro. Le chiese, che sappiamo essere frequentate soprattutto da adulti, molti dei quali anziani (particolarmente colpiti da Covid 19), si apriranno, affidando ai parroci – nuovi virologi, come se ne avessimo sentito bisogno – il compito di decidere quanti fedeli accogliere. Dove sta la logica? Capisco che ai ragazzi si possono fare lezioni online. Ma non potevamo evitare un’ulteriore causa di assembramento, almeno per questo primo periodo di fase 2, soprattutto per chi è fragile? Siamo tutti ansiosi di valutare i dati che avremo fra una decina di giorni (due settimane dalla fine del lockdown, tempo coincidente con l’incubazione del virus) e non dobbiamo assolutamente concedere il minimo spazio al virus. Contrariamente a quanto affermato da una nota conduttrice tv, noi virologi amiamo i nonni: li vorremmo accanto a noi il più a lungo possibile.

Niente precauzioni: Santelli è alla fase 3

In queste settimane abbiamo fatto l’abitudine a governatori sceriffi e a sindaci pronti a scendere in strada coi cingolati per far rispettare le leggi. In Calabria ha fatto la sua parte Jole Santelli, presidente forzista in polemica col governo, già favorevole all’idea di blindare i confini della Regione (anche se lì ha aperto i bar). A quel che si predica dovrebbe seguire però un degno razzolare, altrimenti si finisce all’eterno proverbio. E infatti nei giorni scorsi la Santelli ha preso parte a una conferenza, diffusa ieri su Twitter da Selvaggia Lucarelli, che non è esattamente classificabile come un manifesto delle norme anti-contagio. La scena è questa: insieme alla Santelli siedono tre persone dietro al lungo tavolo sul palco della conferenza. Hanno tutti la mascherina, ma lei sta parlando e quindi se la sfila da davanti alla bocca e se la appoggia sul mento. E vabbè, passi. Ma poi prende il microfono (ce ne è uno solo per tutti, di quelli “a gelato”), inizia il discorso e viene interrotta da continui colpi di tosse. Si dirà: tossirà sul gomito, come da istruzioni mediche? Tossirà di lato? Macché: tre, quattro colpi di tosse sulla mano e sul microfono. Dopo dieci secondi, ecco che il microfono viene passato di mano in mano (e i guanti?) per un altro intervento. La Calabria corre veloce: è già alla Fase 3.

Le brigate contadine di Matteo (col rosario)

Erano mesi che non lo faceva più, tanto che congiunti e affetti stabili ne parlavano con quel tanto di trepidazione che hanno le zie quando il nipotino rinuncia per un po’ a scolarsi il Fernet sotto chiave. Poi però, mercoledì durante la diretta Facebook, Matteo Salvini è tornato sbaciucchiare il rosario, e con tale foga da far temere che finisse per ingoiarlo. Tutti abbiamo pensato a un improvviso mancamento dovuto all’ipotesi sanatoria immigrati, proposta dalla ministra renziana Bellanova (che non è esattamente Anna Kuliscioff) per sopperire all’assenza di manodopera nelle campagne. Quando abbiamo letto il grido di allarme dei presidenti di Confagricoltura e Coldiretti sulla grande quantità di frutta estiva destinata a marcire nei campi, allora abbiamo compreso la sofferenza di quest’uomo tradito dagli affetti più cari: quegli imprenditori agricoli sostegno sonante della Lega soprattutto al Nord. Poiché soffriamo nel vederlo soffrire, vogliamo ricordargli quando, a cavallo tra gli anni 60 e 70 era di moda tra i giovani occidentali, di sinistra e di buona famiglia, programmare le vacanze nella mitica Cuba di Fidel, nella stagione della raccolta della zafra, la canna da zucchero: erano le brigate Che Guevara. Certo, si trattava di “zecche” che da quell’esperienza in genere tornavano con un’idea assai meno seducente della Revolución. Ma se la destra non intende regolarizzare nessuno e minaccia fuoco e fiamme, giustamente schifata dai mantenuti di colore che fanno la bella vita nelle baraccopoli del Sud, perché, insisto, non organizza delle brigate contadine Salvini e Meloni (ma anche sul versante 5stelle delle brigate Crimi, che ha il physique du rôle del bracciante)? Mi sembra di vederlo l’ex capitano del Papeete, con i suoi patrioti di pura razza italica, chino su distese di pomodori San Marzano che intona: “Sciur padrun da li beli braghi bianchi”. Sgranocchiando un rosario.

Crac Popolare Vicenza, trema il patrimonio Zonin

È il dicembre 2015, Giovanni Zonin ha rassegnato da neanche un mese le dimissioni da presidente della Popolare di Vicenza ormai in piena bufera giudiziaria, quando cede alla moglie il 2% delle quote della splendida Tenuta Rocca di Montemassi, nella Maremma toscana: prezzo 334 mila euro. E poi, a gennaio e a maggio del 2016, altri beni donati al figlio Michele e ancora alla moglie: lo storico palazzo degli Zonin nel centro storico di Vicenza e la villa nel suo paese natale, Montebello Vicentino.

Immobili per un prezzo dichiarato rispettivamente di 320 mila e 680 mila euro, secondo accertamenti svolti dalla Guardia di finanza di Vicenza. Certo, solo una goccia nel mare dell’immenso patrimonio personale dell’ex patron della BpVi. Ma con due sentenze pubblicate lo scorso 17 aprile quegli atti di cessione ai famigliari sono stati dichiarati inefficaci dal giudice della seconda sezione civile del Tribunale di Vicenza, Giovanni Genovese.

E ora, proprio sulla base di queste pronunce di primo grado, a tremare potrebbe essere l’intero patrimonio passato dal banchiere alla famiglia mentre infuriava la crisi dell’istituto di credito, beni che adesso rischiano il sequestro nell’ambito delle indagini per bancarotta fraudolenta affidate dalla Procura alla Gdf di Vicenza, guidata dal colonnello Crescenzo Sciaraffa. Sempre tra dicembre 2015 e marzo 2016, Zonin aveva ceduto le quote della ricchissima azienda vitivinicola ai figli. Passaggi che però non sono oggetto delle sentenze civili dello scorso aprile.

Quelle cessioni e donazioni ai famigliari, secondo la Banca Popolare di Vicenza in liquidazione coatta amministrativa che nel 2017 ha intentato la causa civile contro i coniugi Zonin, non sarebbero state “un fatto isolato” ma “un momento di un più ampio disegno finalizzato a sottrarre ai terzi le garanzie patrimoniali”: ai futuri creditori, dunque, che alcuni mesi dopo vedranno andare in fumo risparmi di una vita con il crollo delle azioni da 62,50 a 0,10 euro. Una tesi respinta dai legali di Zonin e della moglie Silvana Zuffellato, secondo cui le cause del dissesto finanziario della BpVi sarebbero da ascrivere all’operato di “un gruppo di dirigenti infedeli” e alla crisi economica del 2008-2009: il patrimonio personale degli Zonin, le polizze assicurative e i sequestri milionari già eseguiti all’epoca dalla magistratura avrebbero costituito garanzie patrimoniali sufficienti. Si trattò, insomma, solo di un “riassetto delle imprese e del patrimonio del cav. Zonin in vista di un passaggio generazionale tutto interno alla sua famiglia”, che si sarebbe sovrapposto alla crisi della Popolare di Vicenza solo per una “sfortunata coincidenza”.

Non andò così per il giudice civile. La cessione dei beni è avvenuta quando Zonin “non solo aveva la piena consapevolezza delle condotte attuate negli anni precedenti – scrive nella sentenza il giudice del Tribunale di Vicenza –, ma esse erano altresì già state evidenziate dagli organi ispettivi e rese di pubblico dominio” dai mass media.

E anche la motivazione sostenuta dagli avvocati del banchiere, ovvero il passaggio generazionale, secondo il dispositivo “appare del tutto fuori luogo con riferimento alla donazione in favore della Zuffellato, persona all’epoca quasi settantenne”. La moglie di Zonin, nel caso della cessione delle quote della Rocca di Montemassi, sarebbe stata “consapevole del pregiudizio per i creditori”.